La riforma mancata, un segnale di sfiducia di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 8 giugno 2018 L’obiettivo delle norme bocciate non era svuotare le carceri ma dare più sicurezza. Ma il ministro sembra non credere molto nella valutazione dei giudici. Il ministro della Giustizia e dirigente del partito che in teoria più appoggia i magistrati sembra non avere molta fiducia nei magistrati. Almeno a giudicare il sottotesto di due annunci (nella prima intervista a Il Fatto Quotidiano) dell’avvocato civilista neo Guardasigilli, il 5Stelle Alfonso Bonafede: stop alla riforma dell’ordinamento penitenziario, perché il decreto legislativo sulle misure alternative al carcere “mina alla base il principio della certezza della pena” soprattutto nell’”allargamento della platea con l’estensione della sospensione della pena ai condannati fino a 4 anni di carcere”; e potenziamento della legittima difesa con “la cancellazione delle zone d’ombra che costringono molti cittadini che si sono difesi a essere sottoposti a tre gradi di giudizio”. Sul primo punto, il decreto legislativo sulle misure alternative al carcere (alla vigilia delle elezioni lasciato incompiuto a un passo dall’approvazione definitiva dai governi Renzi e Gentiloni per pavidità politica, poi ugualmente punita dal voto che ha premiato movimenti come 5Stelle e Lega sempre contrari al lunghissimo iter parlamentare della legge delega) in realtà non avrebbe affatto comportato un “liberi tutti” automatico: avrebbe invece soltanto ampliato la possibilità, anche per i detenuti con condanne definitive o residui di pena sino a 4 anni (invece dei 3 attuali), di domandare ai giudici di sorveglianza l’ammissione a forme di esecuzione della pena alternative al carcere. Cioè a forme, quali l’affidamento in prova ai servizi sociali, che hanno statisticamente dimostrato di saper restituire alla collettività ex detenuti assai meno recidivi di quelli che scontano la loro pena tutta e solo in carcere: basti pensare a quanto poco sia noto che al 31 ottobre 2017 avevano già altre condanne alle spalle 8.441 detenuti stranieri (il 43% del loro totale), e quasi 3 detenuti italiani su 4, 26.781 reclusi, oltre 6.000 addirittura con più di 5 precedenti carcerazioni. Dunque la ragione delle progettate nuove norme non era svuotare le carceri, bensì riempire di maggior sicurezza i cittadini destinati prima o poi a ritrovarsi per strada a fine pena qualunque detenuto (salvo li si voglia invece tutti all’ergastolo per qualunque reato). E neanche c’era alcun automatismo concessivo: anzi, al contrario, la legge ormai abortita, oltre a pretendere dall’affidato in prova condotte volte a riparare le conseguenze del reato commesso (compresa la possibilità di accettare di prestare lavoro di rilievo sociale o di utilità pubblica), avrebbe abrogato la legge del 2010 che - quella sì al solo fine di decongestionare le carceri - ha consentito pressoché automaticamente di espiare a casa le pene sino a 18 mesi. Ecco dunque che affondare come primo atto di governo in tema di giustizia il decreto sulle misure alternative, a colpi di automatismi preclusivi, equivale a segnalare che “il governo del cambiamento” nutre una sottostante sfiducia nella capacità quotidiana dei magistrati di valutare, distinguere e diversamente trattare le differenti risposte dei detenuti all’esecuzione della pena. E quando il ministro aggiunge comunque di “credere nella funzione rieducativa della pena, che per noi passa innanzitutto attraverso il lavoro in carcere”, viene da pensare che, se così fosse davvero, non butterebbe nel cestino un altro dei decreti già pronti nell’abbandonata riforma penitenziaria: e cioè quello importantissimo proprio sul lavoro, che finalmente sembrava persino aver trovato serie risorse finanziarie. Analoga sfiducia nell’operato quotidiano dei magistrati, singolare proprio perché espressa nei fatti da paladini a parole dei magistrati, emerge nell’annunciato pagamento alla Lega di Salvini della cambiale di una legge-manifesto sulla legittima difesa. Anche qui, infatti, a meno di immaginare una legge che consenta sempre di uccidere a difesa del patrimonio (in palese contrasto con la Costituzione e con l’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti umani), in qualunque episodio occorrerà sempre un accertamento giudiziario (e quindi per forza una formale iscrizione nel registro degli indagati dell’aggredito proprio per garantirgli le facoltà di legge, ad esempio nelle perizie balistiche tante volte decisive per il suo proscioglimento già in indagini preliminari) per verificare se il pericolo fosse attuale e imminente; se la reazione fosse necessaria e proporzionata all’offesa; se vi sia stato un eccesso doloso (vendetta), o un eccesso colposo (si è sparato solo per spaventare un ladro disarmato e invece lo si è ferito), o un eccesso incolpevole (gli si è sparato alle gambe ma lo si è colpito in un punto vitale), o una legittima difesa putativa (per errore si è creduto che il ladro impugnasse una pistola e invece aveva una lampadina). L’idea dunque di risolvere “le zone d’ombra” con nuovi pasticciati automatismi (tipo quello al quale anche il Pd si stava adeguando in scia alla Lega pochi mesi fa) equivale a manifestare sfiducia nel modo con il quale i magistrati verificano caso per caso, dinamica per dinamica, i presupposti nei quali la reazione diventa legittima. Carceri, il ministro Bonafede studia la riforma in veste giallo-verde di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 giugno 2018 Al vaglio del neo Guardasigilli le possibilità di riscrivere l’intera legge o il primo decreto attuativo che scade il 3 agosto. Il presidente della Camera Roberto Fico incontra il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. Due mesi sono davvero pochi per riscrivere il primo decreto attuativo della riforma dell’ordinamento penitenziario sulla base della delega emessa dal Parlamento il 23 giugno 2017. Ma il governo giallo-verde sembra orientato ad evitare di far decadere del tutto il frutto di un lavoro durato anni, attendendo semplicemente la scadenza del decreto legislativo prevista per il 3 agosto prossimo (a meno che non intervenga una proroga dei termini, con un voto parlamentare), e starebbe esaminando la possibilità di rimaneggiare - in senso restrittivo, naturalmente - il testo che il governo Gentiloni non ha avuto il coraggio di approvare quando ormai bastava solo la firma dell’esecutivo. È uno spiraglio per aprire il quale in molti stanno lavorando, nel mondo della giustizia e perfino dentro il Movimento 5 Stelle, ben consapevoli che l’idea di costruire nuove carceri, per esempio, è vecchia di parecchi decenni ed è già naufragata varie volte, perfettamente inutile se si vuole superare il sovraffollamento ed evitare le condanne della Corte europea dei diritti umani. E infatti è un’ipotesi riferita anche dal neo ministro pentastellato Alfonso Bonafede in un’intervista rilasciata ieri, appena preso posto negli uffici di via Arenula, al Fatto quotidiano (e a chi sennò?) nella quale conferma la propria lista delle priorità in materia di giustizia, peraltro già preannunciata ancora prima di essere nominato Guardasigilli e approfondita nel “contratto di governo” con un po’ più di accuratezza di quella usata in altri capitoli del testo sottoscritto da Lega e M5S. Nell’intervista però il ministro Bonafede rimane ancora sul vago quando parla di bloccare l’entrata in vigore del decreto sulle intercettazioni fissata per il 21 luglio (ricevendo il plauso dell’Associazione nazionale magistrati), di una non meglio precisata riforma della prescrizione dei reati o, per quanto riguarda la legittima difesa, di “cancellare” le “zone d’ombra” della legge che “costringono molti cittadini che si sono difesi a essere sottoposti a tre gradi di giudizio” (per esempio limitando la possibilità delle procure di ricorrere in Appello in caso di sentenza di assoluzione in primo grado?). Meno generica invece è la risposta del Guardasigilli relativa al destino del primo decreto attuativo della riforma penitenziaria, quello che elimina gli automatismi affidando maggiore discrezionalità alla magistratura di sorveglianza sulla possibilità di ricorrere alle pene alternative al carcere nel percorso punitivo/rieducativo di ciascun condannato. È l’unico dei quattro decreti attuativi concernenti l’ordinamento penitenziario (gli altri riguardano i minori, il lavoro e la giustizia riparativa) giunto ad un passo dalla conclusione dell’iter, mancava solo l’ultimo via libera che il governo di centrosinistra non ha voluto dare. Il testo del provvedimento, che per il M5S e la Lega - e per Il Fatto, che ci fa il titolo di prima - ha la funzione di uno “svuota-carceri”, secondo il grillino Bonafede va rivisto perché così com’è “mina la certezza della pena”. Allo studio dello staff ministeriale ci sarebbero due opzioni: “riscrivere il decreto attuativo”, sempre che si possa non incorrere nell’eccesso di delega, “oppure se sarà necessario rifare l’intera legge delega”. Il ministro non entra nei particolari dei punti critici: cita soltanto la norma più nota, quella che amplia il parterre dei reati che possono essere puniti con misure alternative al carcere (innalzando a 4 anni anziché 3 il limite di pena prevista). Ma nel mirino delle file più giustizialiste del M5S e della Lega ci sarebbe anche quella parte della riforma che riscrive l’articolo 148 c.p., prevedendo, tra le altre cose, l’estensione della facoltà di sospendere la pena anche ai detenuti con gravi infermità psichiche. Intanto però mercoledì il presidente della Camera, Roberto Fico ha ricevuto a Montecitorio il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, per un primo contatto in vista della prossima presentazione della Relazione annuale al Parlamento. Il confronto, giudicato positivo da entrambi, si sarebbe svolto sui temi del carcere e dei migranti: “Si possono avere anche opinioni diverse - è stato il commento di Palma rilasciato alle agenzie a conclusione dell’incontro - ma se si è d’accordo sui principi, si possono anche trovare le soluzioni insieme”. L’affidamento in prova “esteso”? È la Consulta ad averlo chiesto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 giugno 2018 C’è una parte della riforma rinnegata dal neo ministro Bonafede ma “dettata” dalla Corte. È illegittima la norma che concede la “messa alla prova” a chi ha fino a 4 anni da scontare ma è già recluso e non a chi è “fuori”. Vulnus che il decreto Orlando avrebbe sanato. ora che farà il governo? Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede vuole intervenire sul decreto attuativo della riforma dell’ordinamento penitenziario, in particolar modo sull’allargamento delle misure alternative, perché “minerebbe il principio della certezza della pena”. Lo ha detto in un’intervista apparsa su Il Fatto di ieri. Interpellato sul modo in cui pensa di modificare il provvedimento, il guardasigilli ha puntato l’indice contro “l’estensione della sospensione della pena ai condannati fino a 4 anni di carcere”. Quest’ultimo punto è importante. Di fatto, non essendo ad oggi passata la riforma, esiste tuttora una disparità tra chi è dentro e chi è libero: coloro che potrebbero accedere alla nuova forma di misura alternativa alla detenzione si trovano costretti a fare ingresso in istituto, anche per brevissimi periodi, al solo fine di presentare l’istanza per il beneficio penitenziario. Si determina quindi un inutile sovraffollamento. Come sappiamo, la riforma che avrebbe dovuto correggere questa disparità non è entrata in vigore e la delega da cui era sorretta scadrà ad agosto. Resta quindi un’incognita sull’intervento alternativo che la nuova maggioranza potrebbe adottare, visto che - di fatto - è rimasto tutto com’era. Di certo un intervento legislativo sarà indispensabile, dal momento che la Corte costituzionale è intervenuta proprio sulla disparità della concessione dell’affidamento allargato, frutto del cosiddetto “decreto svuota carceri” convertito in legge nel 2014. Ma andiamo con ordine. Parliamo dell’affidamento in prova ai servizi sociali, istituto giuridico che non rimette in libertà la persona, ma gli garantisce una espiazione della pena diversa dalla carcerazione. Con la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, l’applicazione della pena subì un’evoluzione, passando dalla funzione punitiva a quella rieducativa. L’introduzione del servizio sociale all’interno del sistema penitenziario, al fine di realizzare lo scopo risocializzante della pena, ha trovato applicazione attraverso l’istituto dell’affidamento in prova al servizio sociale per i minori. Gli ottimi risultati raggiunti hanno permesso l’istituzione del sistema della messa alla prova per condannati adulti, con un ampliamento del ricorso alle misure alternative. In quale ambito è maturato l’intervento legislativo del 2014 che aveva allargato l’affidamento in prova al servizio sociale a chi ha un residuo pena da espiare fra i tre e i quattro anni, ma senza intervenire sull’articolo 656 del codice di procedura penale, determinando dunque una disparità che la riforma avrebbe dovuto correggere? L’intervento si inserisce in un percorso di adeguamento del sistema penitenziario italiano ai principi della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Con la ben nota sentenza Torreggiani, la Cedu, muovendo una netta censura al sistema penitenziario italiano, concedeva un anno di tempo per adottare quei provvedimenti che permettessero al Paese di porre fine alle violazioni derivanti dal sovraffollamento carcerario. In particolare, i giudici di Strasburgo osservavano che “quando lo Stato non è in grado di garantire a ciascun detenuto condizioni detentive conformi all’articolo 3 della Convenzione, la Corte lo esorta ad agire in modo da ridurre il numero di persone incarcerate, in particolare attraverso una maggiore applicazione di misure punitive non privative della libertà”. Il “decreto svuota-carceri” aveva, quindi, come obiettivo la facilitazione dell’accesso ai benefici penitenziari. Ma si è creato un dislivello che solo la riforma avrebbe potuto pareggiare. Ci ha pensato la Consulta che con una sentenza ha parificato i soggetti liberi con quelli detenuti prevedendo che l’articolo 656 del codice di procedura penale alzasse la soglia per fare l’istanza di affidamento in prova ai servizi sociali fino a 4 anni. Evitando così un inutile sovraffollamento. Quindi come intende intervenire Bonafede? Ridurre “l’allargamento” dell’affidamento in prova che garantisce l’espiazione della pena con il risultato di abbassare la recidiva, oppure garantirla equamente come ha ordinato la Consulta? La pena, signor ministro, per i detenuti è certissima di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 8 giugno 2018 Più carceri da costruire, più carcere per tutti, più certezza della pena. È stato questo in estrema sintesi il passaggio dedicato al carcere all’interno del discorso in Parlamento del presidente del consiglio, Prof. Giuseppe Conte. Una ricetta generica, nota, costosa, che, se realizzata, produrrà gravi danni umani e sociali. Una ricetta che viene rinforzata dalle dichiarazioni del ministro di Giustizia Alfonso Bonafede il quale ha preannunciato il ridimensionamento del sistema delle misure alternative al carcere. Un grave errore concettuale che consiste nell’identificare la pena con il carcere. La sicurezza si costruisce favorendo il reinserimento sociale e non rinchiudendo i corpi in prigioni da cui un giorno o l’altro usciranno. “Bisogna aver visto”, affermava il grande giurista Pietro Calamandrei nell’invocare nell’immediato secondo dopoguerra una commissione di inchiesta sulle carceri italiane. Insieme a lui c’era l’azionista e radicale Ernesto Rossi. Il carcere va visto, va ascoltata la sofferenza che contiene. Vanno visti i volti e sentite le voci che lo abitano. Per conoscere un carcere bisogna starci ore, giorni. Solo chi lo ha visto sa quanto il carcere sia selettivo, quanto sia di classe. La certezza della pena non ha nulla di scientifico. È uno slogan. Per i tanti, troppi detenuti reclusi nelle prigioni italiane la pena è più che certa, anzi certissima. Solo andando in carcere e parlando con i detenuti si potrà capire che il problema della giustizia penale non è quello della prescrizione (possiamo mai tenere in eterno una persona prigioniera del processo?) o della legittima difesa (norma già più volte modificata proprio dalla Lega) ma della durezza e selettività sociale della risposta repressiva. In carcere si incontrano persone che stanno espiando 20 di pena per un cumulo di piccoli furti. Si incontrano ragazzini stranieri tristi e soli ignari del motivo del loro imprigionamento. Nei loro confronti la pena è certissima, mentre la giustizia è ingiusta. Il 34% dei detenuti in Italia è dentro seppur presunto innocente. Per loro l’esito del processo è incerto ma la pena è di fatto già in corso. Il carcere bisogna averlo visto, proprio come fece Henry Brubaker, nell’omonimo film. Lui era direttore di carcere e si finse detenuto per comprendere le tragiche e violente condizioni di vita nelle prigioni dell’Arkansas. Solo chi visita le carceri sa che in esse operano straordinari professionisti - direttori, poliziotti, educatori, assistenti sociali, medici, psicologi- grazie ai quali la vita penitenziaria è scandita nel pieno rispetto della dignità umana. Alla loro lealtà costituzionale dobbiamo molto. Hanno tenuto in piedi il sistema anche nei momenti bui. Nel contratto M5S - Lega, allo scopo di assecondare qualche organizzazione sindacale autonoma, si è scritto che deve essere eliminata la sorveglianza dinamica, ossia la possibilità per i detenuti di trascorrere parti della giornata fuori dalla cella, ma pur sempre in galera. In questo modo i detenuti saranno trasformati in persone abbrutite, la violenza aumenterà, i reclusi torneranno a essere chiamati camosci e i poliziotti toneranno a fare i gira-chiavi. È questo il grande cambiamento di cui si parla? Infine uno sguardo critico all’evocazione della solita ricetta edilizia. La costruzione di nuove carceri è una proposta non innovativa, ripetuta come un mantra, ma culturalmente, criminologicamente ed economicamente sbagliata. Ci sono pene ben più utili rispetto alla prigione. Ci sono reati che andrebbero depenalizzati. Ma non era il M5S a favore della legalizzazione della cannabis? Un carcere è un’opera pubblica. Costa. Costruire nuove galere significherà imporre nuove tasse ai cittadini. *Presidente di “Antigone” Carceri: Fico, tutelare diritti detenuti Ansa, 8 giugno 2018 “Il modo in cui sono tutelati i diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale è un tratto qualificante di uno Stato democratico, rispetto al quale la riflessione del Parlamento sarà centrale”. Lo afferma il presidente della Camera Roberto Fico riferendosi al suo incontro con Mauro Palma, che è il Garante nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale. “Nel nostro incontro - spiega Fico - ci siamo concentrati in particolare sulle condizioni dei migranti negli hotspot, ma anche su come avvengono concretamente i rimpatri. Fra i temi affrontati anche quello delle misure alternative alla detenzione, del carcere duro e dell’edilizia penitenziaria. Nelle prossime settimane verrà presentato nel dettaglio il rapporto annuale che ci permetterà di approfondire in maniera attenta ulteriori argomenti, nella consapevolezza che si tratta di temi di grande complessità che richiamano l’esigenza di soluzioni attente e ragionate”, conclude. Svegliati Pd, arrivano i giustizialisti di Emanuele Macaluso Il Dubbio, 8 giugno 2018 Il nuovo Governo vuole cancellare quel tanto che il Ministro Orlando ha fatto, con la maggioranza dell’ultima legislatura, soprattutto sulla riforma penitenziaria. Uno dei temi su cui la sinistra deve chiarire se stessa per poter fare una battaglia politica essenziale per la democrazia è quello della giustizia. Dico “chiarire se stessa” perché da anni la sinistra non ha più una politica sulla giustizia che richiami la storia del socialismo democratico. Su questo fronte il Pci certamente contribuì positivamente a scrivere la Costituzione anche negli articoli che attengono alla giustizia. Tuttavia, nel corso della sua vicenda politica, il Pci non ebbe comportamenti sempre coerenti. Togliatti e soprattutto Fausto Gullo, negli anni 1944 1947, anticiparono nel loro agire la linea della Costituzione ma successivamente non c’è stata coerenza, anche se bisogna ricordare le battaglie garantiste di Umberto Terracini, dello stesso Gullo e di tanti altri avvocati e giovani giuristi che espressero nel partito comunista importanti battaglie che vanno ricordate. Proprio il Pci operò con una contraddizione il suo rapporto con l’Urss e il campo comunista dove i temi della giustizia erano flagellati. È vero che Berlinguer nel 1976 ruppe tutti i ponti con l’Urss richiamandosi al Patto atlantico, alla Comunità europea e dichiarando a Mosca (1977) che la democrazia è un valore universale. Ma la generazione che si è autodefinita berlingueriana e che, dopo la fine dell’Urss e del Pci, guidò il Pds, spostò nettamente l’asse politico sul giustizialismo. Non è questa la sede per un esame dettagliato degli atti compiuti dal Pds con Occhetto, D’Alema, Veltroni e altri. Lo scontro di quel gruppo dirigente con quell’area che si definì riformista si svolse essenzialmente su questo terreno e fu durissimo. E con il transito dal Pd ai Ds, e poi a Pd, non si è mai fatta chiarezza su questo nodo. Oggi c’è una maggioranza di governo che predica il populismo giudiziario. Un pesante giustizialismo. Un solo esempio: vogliono cancellare quel tanto che il ministro Orlando ha fatto, con la maggioranza dell’ultima legislatura, soprattutto con la riforma penitenziaria. Su cui si sono battuti soprattutto i radicali ma anche gli avvocati e tanti magistrati. Ebbene, i grillini definiscono la legge come “svuota carceri” e svolgono una campagna su tutti i temi della giustizia con il loro modo d’essere. Se non erro, nei discorsi, anche forti, dell’opposizione Pd a questo governo, non ho sentito nulla sul tema della giustizia. Siccome, come ho detto, io penso che la giustizia sarà uno dei temi centrali della battaglia politica, ho scritto e ripeto che occorre anzitutto un chiarimento nel Pd ma anche in LeU e in tutte le forze che si richiamano al centrosinistra. Mettiamoci l’anima in pace, il Bonafede-pensiero è il Davigo-pensiero di Annalisa Chirico Il Foglio, 8 giugno 2018 Il neoministro della Giustizia, intervistato dal Fatto quotidiano, chiarisce le linee guida del governo: più carcere, pene più alte e processi più lunghi. Il neoministro della Giustizia ha rilasciato un’intervista al Fatto quotidiano per chiarire, urbi et orbi, che il nuovo esecutivo intende fare sul serio. “Cancello subito lo svuota-carceri. E basta bavagli”, tuona il Guardasigilli. E c’è da crederci se si considera che il mitico “contratto di governo” mira, in buona sostanza, a una radicale u-turn rispetto all’azione degli ultimi anni: basta depenalizzazioni, drastica riduzione delle misure alternative alla detenzione, cancellazione della non punibilità per particolare tenuità del fatto, dietrofront sull’estinzione del reato per condotte riparatorie. In breve, più carcere, pene più alte e processi più lunghi. Il ministro fa sapere inoltre che riscriverà il decreto attuativo della riforma penitenziaria “perché mina la certezza della pena”. Sulle intercettazioni afferma che una “regolamentazione più chiara può essere utile” purché non comprima la libera informazione (così son buoni tutti). Bonafede, che di professione è avvocato civilista, liquida il ricorso alle misure alternative come meri “interventi deflattivi”, evidentemente insufficienti in assenza dei sempre invocati “provvedimenti strutturali”. Eppure, a ben vedere, l’allargamento della platea dei condannati che possono accedere alle misure alternative consente di ridurre sensibilmente i tassi di recidiva. È per questa ragione che, a partire dal governo Monti, l’Italia, sulla scorta di esperienze positive come quella francese e britannica, ne ha ampliato l’ambito di applicazione. Ridurre il ricorso al carcere, extrema ratio, significa aumentare la sicurezza dei cittadini: in Italia sette detenuti su dieci tornano a delinquere se hanno scontato interamente la pena dietro le sbarre. Il numero dei recidivi scende a due se hanno beneficiato dell’affidamento in prova ai servizi sociali, della detenzione domiciliare o della semilibertà. Dunque, per paradosso, le ragioni securitarie, spesso agitate come arma populista per aizzare le folle, suggerirebbero “meno” carcere. A patto che dall’emotività si passi alla razionalità. Va pure notato che, dopo una flessione nel numero dei detenuti seguita alla sentenza Torreggiani con cui nel 2013 la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti, abbiamo assistito negli ultimi tre anni a un costante aumento della popolazione reclusa. Si è passati dai 53.889 detenuti del gennaio 2015 ai 58.087 del gennaio 2018. Sul punto Bonafede appare rassicurante: “La priorità sarà ristrutturare gli istituti attuali che spesso hanno settori chiusi per assenza di manutenzione”. Sarebbe cosa buona e giusta, contribuirebbe a migliorare le condizioni di vita di chi già oggi sconta una condanna dietro le sbarre, spesso in celle fatiscenti incompatibili con il rispetto della dignità umana. Tuttavia, se fosse attuata anche una minima parte del contratto di governo incentrato sull’innalzamento generalizzato delle pene e sull’estensione delle condotte punibili penalmente, in una manciata di settimane i nostri istituti penitenziari sarebbero nuovamente sovraffollati, esattamente come oggi. Sulla prescrizione s’intravvedono invece le prime crepe dell’asse pentaleghista, non a caso Bonafede non si sbilancia: “L’abbiamo messa nel contratto, quindi c’è la volontà comune di lavorarci”, non si sa come. Anche perché il governo Gentiloni non è stato da meno, e i termini per i reati contro la pubblica amministrazione sono stati già estesi a dismisura. La razionalità del sistema sanzionatorio non è un optional. Sull’ingaggio in via Arenula dei magistrati Nino Di Matteo e Piercamillo Davigo, il ministro mantiene il riserbo: “È prematuro parlare di nomi”. Eppure i due togati, che hanno coltivato una “relazione speciale” con gli esponenti del M5s al punto di diventarne la bussola ideologica in materia giudiziaria, sono tra i nomi più gettonati: il magistrato siculo dovrebbe guidare il dipartimento per gli affari della giustizia mentre il secondo approderebbe al ministero solo in caso di fallimento nella corsa al Consiglio superiore della magistratura. Se la toga simbolo di Mani pulite riuscisse a coronare il sogno di un posto da consigliere togato a Palazzo dei Marescialli, la corrente da lui fondata, Autonomia e indipendenza, piazzerebbe in via Arenula soltanto l’attuale segretario Alessandro Pepe in qualità di capo di gabinetto. Una vedetta per sorvegliare dall’alto e indicare la rotta. Un divieto per ogni cosa. I ddl della maggioranza di Carlo Lania Il Manifesto, 8 giugno 2018 Stop ai medicanti e carcere per chi ricorre all’estero alla maternità surrogata. Dal divieto di chiedere l’elemosina in maniera “molesta” a quello di indossare il burqa o il niqab. Passando, e non è certo un particolare da poco, a prevedere il carcere per le coppie che si recano all’estero per ricorrere alla gestazione per altri e alla castrazione chimica per gli stupratori. Per non parlare, infine, della richiesta di istituire una commissione parlamentare che indaghi sulle presunte responsabilità del governo Monti (2012) nella vicenda dei due fucilieri della Marina Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. A leggere solo alcuni degli oltre mille disegni di legge depositati da marzo a oggi alla Camera e al Senato, più che all’avvio di una legislatura sembra di assistere all’inizio di una resa dei conti da parte di chi, dopo aver passato qualche anno all’opposizione, una volta al governo in nome della “sicurezza” vorrebbe intervenire su tutto. Tralasciando la dozzina di disegni di legge che si propongono di allargare la definizione di legittima difesa, ecco una piccola lista dei più significativi. Stop a mendicanti e ambulanti - Essere poveri non può essere una colpa riconoscono i leghisti, che ricordano però come una sentenza della Consulta abbia stabilito come il reato di accattonaggio “sia compatibile con la Carta costituzionale se chi mendica lo fa simulando infermità, arrecando disturbo o in modo invasivo”. Da qui la proposta - primo firmatario Molteni - di introdurre il reato di accattonaggio molesto, un crimine capace di provocare “l’insicurezza dei cittadini e quindi un problema di ordine pubblico”. Per i trasgressori, così come per i venditori ambulanti, è previsto quindi l’arresto da tre a sei mesi e un’ammenda da 3.000 euro, destinati a salire fino a un anno di carcere e a 10.000 euro di multa se il fatto “provoca disagio alle persone o intralcio alla circolazione, sia delle macchine che dei pedoni”. Maternità surrogata - La legge 40 sulla procreazione assistita prevede già una pena da tre mesi a due anni e una sanzione da 600 mila e un milione di euro per chi “realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità” nel territorio nazionale. Il ddl presentato da Fratelli d’Italia punta ad estendere le stesse pene anche a quelle copie italiane che non potendo avere figli “si avvalgono della tecnica della surrogazione di maternità in un Paese estere in cui la stessa è consentita”. Castrazione chimica - Un solo articolo (primo firmatario il leghista Molteni) che prevede l’introduzione del “trattamento farmacologico di blocco androgenico totale per coloro che commettono reati sessuali, in particolare a danno di minori”, considerato una misura “allo stesso tempo deterrente, preventiva e risolutiva”. A disporre il trattamento è il giudice che - “previa valutazione della pericolosità sociale e della personalità del reo”, indica il metodo da utilizzare e la struttura sanitaria pubblica nella quale eseguirlo. Il trattamento è obbligatorio in caso di recidiva e nel caso le vittime siano dei minori. No a burqa e niqab - Anche in questo caso la proposta arriva dal Carroccio e mira a introdurre nell’ordinamento giuridico “un divieto esplicito a indossare in luogo pubblico o aperto al pubblico indumenti atti a celare il volto, non soltanto per motivi di ordine pubblico e sicurezza ma anche, come nel caso di burqa e del niqab, in quanto considerati atteggiamenti inconciliabili con i principi fondamentali della Costituzione, primo fra tutti il rispetto della dignità della donna”. Coprirsi il volto, anche per motivi religiosi, potrebbe quindi comportare da un’ammenda da 1.000 a 2.000 a alla reclusione - nel caso di chi obbliga una donna a indossare i due indumenti - da uno a a due anni e una multa da 10 mila a 30 mila euro. la pena aumenta della metà se il fatto è commesso “a danno di un minore o una persona disabile”. L’agente provocatore divide Cantone e i grillini di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 8 giugno 2018 Conte ritira le critiche al presidente Anac. Toninelli lo vede, ma sbaglia codice. Più che cambiamento, correzione. Non è nel contratto di governo, ma è già il primo dossier dell’esecutivo Conte, certamente il più corposo: aggiornare la versione dei fatti. Quello che il presidente del Consiglio mercoledì ha fatto in aula alla Camera - prima l’allusione ai conflitti di interessi del Pd, poi la marcia indietro “sono stato frainteso” - ieri ha dovuto farlo al telefono con il presidente dell’Autorità anticorruzione Cantone. “Non abbiamo dall’Anac quei risultati che ci attendevamo” ha detto Conte in un passaggio della sua replica, funestata dalla sparizione degli appunti sul tavolo del governo e assai improvvisata - anche il fuori onda circolato ieri in cui Di Maio dice a Conte un secco no va collocato nella disperata caccia agli appunti. Cantone non ha preso bene quel passaggio, già mercoledì ha soffiato alle agenzie tutto il suo stupore con una punta di veleno: “È possibile che non conosca tutto quello che fa l’Anac”. Ieri poi Cantone ha spiegato ai giornalisti di essere “tranquillissimo” anche perché “il mio mandato scade nel 2020”. Allusione a una possibile resistenza nell’incarico al momento di pura fantasia: i 5 Stelle non hanno né interesse né convenienza a mettersi contro il capo dell’Anticorruzione. E infatti il ministro delle infrastrutture Toninelli ieri lo ha ricevuto e ha prontamente emesso un comunicato in cui spiega che c’è sintonia: il problema è il nuovo codice degli appalti (che nel comunicato è erroneamente chiamato “codice dei contratti”) che “va migliorato per far ripartire tante opere pubbliche oggi bloccate”. E subito dopo Cantone ha ricevuto la telefonata di Conte. Che ha evocato un altro misunderstanding: “Le mie parole sono state male interpretate”, ha detto. Una nota di palazzo Chigi informa che il colloquio è stato “cordiale” e che Conte e Cantone “hanno convenuto sulla necessità di rafforzare la lotta alla corruzione operando una semplificazione del quadro normativo vigente”, cioè il codice degli appalti. Cantone ricorda che il codice deve ancora essere attuato pienamente e che l’esperienza potrà suggerire correttivi, senza stravolgimenti. Del resto i 5 Stelle, quando un anno fa il governo Gentiloni ha approvato definitivamente l’ultima versione del codice, non erano tanto preoccupati dal blocco degli appalti, quanto dal fatto che il Pd stesse manovrando per fare fuori Cantone e far fallire l’inchiesta su Consip. Il magistrato più ascoltato dai grillini, Piercamillo Davigo, sostiene da tempo che la corruzione non si batte con i codici “che servono solo a far perdere tempo agli onesti” ma con l’agente provocatore. Strumento che invece Cantone respinge, anche perché bocciato dalla Corte di giustizia europea. È soprattutto su questo il dissidio dei grillini con Cantone - che recentemente li ha definiti “i miei primi datori di lavoro vista la mole di esposti che presentano all’Anac”. Ma proprio ieri uno dei magistrati più impegnati nella lotta alla corruzione, Paolo Ielo, ha detto anche lui di considerare “non utile” l’agente provocatore: “In un paese dove di corruzione ce n’è tanta non bisogna andare a inventarcela, dobbiamo scoprire quella che c’è”. Al contrario il procuratore aggiunto di Roma ha detto di essere favorevole all’utilizzo di agenti infiltrati “molto utili per trovare e raccogliere le prove”. Nel “contratto” si parla solo di valutare la possibilità di usare agenti provocatori, mentre si promette l’introduzione certa degli agenti sotto copertura. L’unica figura che Conte ha citato nel suo discorso programmatico al senato. Se non lo abbiamo frainteso. A. Fab. Nel processo penale inammissibile l’opposizione via Pec di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 8 giugno 2018 È inammissibile l’apposizione al decreto penale di condanna fatta via Pec. La corte di cassazione, con la sentenza 25986, chiarisce, infatti le parti private, e per loro i propri difensori, possono assumere, rispetto all’utilizzo del sistema telematico, solo la posizione di soggetti destinatari delle comunicazioni, ma mai di soggetti agenti. In assenza di una un’esplicita norma in tal senso non possono, infatti, “fare comunicazioni o depositare gli atti di notifica a mezzo Pec, le cui forme sono tassativamente disciplinate dal Codice di procedura penale. Partendo da questo presupposto i giudici della seconda sezione penale, bollano come inammissibile il l’opposizione del ricorrente affidata ad una posta certificata elettronica. La Suprema corte ricorda che il principio è stato affermato anche in relazione ad altri casi. Si è ritenuto ad esempio che fosse inammissibile l’impugnazione cautelare proposta dal Pm, attraverso l’uso della pec, in quanto le modalità di presentazione e di spedizione disciplinate dal Codice di rito penale, sono applicabili anche alla pubblica accusa “e non ammettono equipollenti, stabilendo soltanto la possibilità di spedizione dell’atto mediante lettera raccomandata o telegramma al fine di garantire l’autenticità dell’uso della Pec. Per il ricorrente all’inammissibilità del ricorso si aggiunge anche la condanna alle spese processuali e il versamento di 2 mila euro alla cassa ammende. Risponde anche di auto-riciclaggio l’imprenditore che non paga i dipendenti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 giugno 2018 Non solo estorsione, come già più volte affermato, ma anche auto-riciclaggio per l’imprenditore che costringe i dipendenti ad accettare buste paga più magre di quelle formalmente concordate e a lavorare per un orario superiore a quanto contrattualmente previsto. Non solo. A rispondere per auto-riciclaggio è anche la società, sulla base del decreto 231 del 2001, alla quale è contestato l’avvenuto impiego nell’attività imprenditoriale del denaro frutto dell’estorsione continuata, in maniera tale da ostacolare concretamente l’identificazione della provenienza delle somme. Lo stabilisce, con una lettura innovativa, la Corte di cassazione con la sentenza 25979/2018 della Seconda sezione penale depositata ieri. La pronuncia conferma così la misura cautelare del sequestro finalizzato alla confisca a carico dei vertici di una srl. La difesa aveva sostenuto, tra l’altro, l’inesistenza delle condizioni per la contestazione dell’auto-riciclaggio, valorizzando la concretezza dell’ostacolo che deve essere realizzato. Ma la Cassazione, ricorda innanzitutto che l’articolo 648ter.1 del Codice penale punisce le attività d’impiego, sostituzione e trasferimento di beni o altre utilità poste in essere dallo stesso autore del delitto presupposto che ostacolano la ricostruzione della matrice illegale. È cioè necessario che la condotta abbia un elevato grado di dissimulazione: per questo vengono ad assumere rilevanza penale “tutte le condotte di sostituzione che avvengano attraverso la reimmissione nel circuito economico-finanziario ovvero imprenditoriale del denaro o dei beni di provenienza illecita finalizzate a conseguire un concreto effetto dissimulatorio che sostanzia il quid pluris che differenzia la condotta di godimento personale, insuscettibile di sanzione, dall’occultamento del profitto illecito penalmente rilevante”. Definita la cornice, la sentenza osserva poi, nel caso concreto, che il rastrellamento di liquidità attraverso l’attività di estorsione ai danni dei lavoratori, concretizzata tra l’altro nel mancato versamento delle quattordicesime, degli anticipi versati solo formalmente, del corrispettivo dei permessi non goduti, era poi servito a pagare provvigioni o altri benefit aziendali in nero a favore dei venditori della società. In questo modo, fondi illeciti venivano reimmessi nel circuito aziendale, con un’azione elusiva dell’identificazione della provenienza illegale della provvista. Non regge allora la tesi della difesa per la quale, ai fini dell’auto-riciclaggio, hanno rilevanza solo quei comportamenti che hanno come conseguenza un cambiamento della formale titolarità del bene. La Cassazione, infatti, ricorda che la condotta di auto-riciclaggio non presuppone un trasferimento fittizio a un terzo dei proventi del reato presupposto, “in quanto l’eventuale coinvolgimento di un soggetto “prestanome” impedisce di ricomprendere tale ulteriore condotta in quelle operazioni idonee a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni indicate nel predetto articolo 648-ter1 e riferibili al solo soggetto agente del reato di auto-riciclaggio”. Non ha retto poi all’esame della Cassazione neppure il riferimento fatto dalla difesa a un precedente della stessa Corte, che aveva escluso l’auto-riciclaggio nel caso del versamento dei proventi di un furto su una carta di credito prepagata intestata allo stesso autore del reato presupposto. Si tratta di una condotta priva di quella capacità dissimulatoria, avverte ora la Cassazione, che invece è richiesta dal Codice penale. È peculato appropriarsi degli onorari per l’attività intramoenia non autorizzata di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 8 giugno 2018 Corte di Cassazione - Sezione II - Sentenza 7 giugno 2018 n. 25976. Il medico ospedaliero che percepisce compensi dai pazienti per visite “intramoenia”, ma senza formale autorizzazione e senza versare un euro alla struttura pubblica, commette peculato. La Corte di cassazione con la sentenza n. 25976 depositata ieri ha riconosciuto la legittimità della condanna a due anni al cardiologo per essersi appropriato di denaro pubblico - cioè la quota che normalmente andrebbe riversata al datore di lavoro. Il medico, sottolineava che i fatti imputatigli erano precedenti la propria comunicazione al datore di lavoro di avvio di un’attività privata all’interno dell’ospedale, per cui i giudici avrebbero travisato il suo comportamento ravvisandoci il furto di denaro pubblico, ma in realtà si trattava “solo” di attività professionale svolta illegittimamente, vista anche la costante assenza di fatturazione. Insomma, travisando i fatti i giudici, anche di legittimità, avrebbero erroneamente ritenuto acclarato il delitto previsto dall’articolo 314 del Codice penale. Ma la Corte di cassazione ha respinto il ricorso straordinario promosso dall’imputato e ha confermato la correttezza della precedente sentenza di Cassazione che aveva annullato la condanna di peculato solo sul punto dell’interdizione dai pubblici uffici. La vicenda processuale - Il cardiologo assunto a tempo pieno e con impegno esclusivo presso l’ospedale se avesse voluto svolgere legalmente l’attività a pagamento all’interno dell’ospedale, avrebbe dovuto richiedere la specifica autorizzazione e lasciare nelle casse del nosocomio il 52% di quanto percepito dai pazienti. Invece, il medico appropriandosi dell’intera somma percepita per l’attività intramoenia senza esservi autorizzato sosteneva che tali circostanze escludessero la natura pubblica del denaro direttamente intascato senza far recare alle casse per il pagamento i propri pazienti privati. Per i giudici di merito e per ben due volte quelli di legittimità hanno confermato la ricostruzione che porta alla conclusiva affermazione del peculato nella circostanza che il medico teneva per sé la parte pubblica del compenso ricevuto anche in forza del “collegamento” con le funzioni pubblicistiche svolte legittimamente dal medico per contratto di lavoro. La violenza di chi non ha parole di Antonio Mattone Il Mattino, 8 giugno 2018 Dopo Arturo, Gaetano, Emanuele, ancora altri minori vittime di aggressioni e accoltellamenti a Napoli e in provincia. L’ultimo pochi giorni fa a Casoria, dove un quattordicenne è stato ferito all’avambraccio con un fendente. Sfregiati nel corpo e nell’anima, questi ragazzini porteranno per tutta la vita i segni della lama che scava nella pelle e lascia solchi dolorosi e indelebili. Le nuove generazioni, sebbene siano le più social, sono abituate poco a parlare, e laddove non arrivano le parole si fanno strada le armi. Tutto comincia come un gioco, un divertimento, una sfida, una ricerca di quella adrenalina che fa sentire apparentemente forti questi giovani sedotti dal virus della sopraffazione. Se fai vedere che hai il coltello metti paura, ti fai rispettare e si crea il vuoto attorno. Tutto gira attorno alla paura, mi dice un altro ragazzo, una lotta tra quella che riesci ad incutere e quella che controlli, di fronte ad altri coetanei che ti sfidano. Ma può succedere anche che ne entrino in possesso ragazzi miti, che non appartengono al mondo della devianza giovanile. Una mamma del Centro Storico mi ha raccontato che si è accorta che il figlio possedeva un temperino per difendersi dalle aggressioni di un gruppo di bulli. “Eppure prende tutti voti buoni a scuola”, e non riesce a darsi pace. Il coltello non sembra essere l’inizio di una carriera criminale, piuttosto il modo più persuasivo per imporsi ed avere un ruolo ed uno spazio nel quartiere. Lo si può comprare a quindici, dieci fino a cinque euro. Lo vendono i cinesi o lo si può trovare in qualche armeria, disposta a fare affari senza farsi scrupoli. Altre volte si passa di mano in mano tra compagni o viene ceduto da persone più grandi. I fatti di cronaca raccontano che è un’ arma che può usare chiunque. A Poggioreale ho incontrato giovani con un curriculum criminale di tutto rispetto, e ragazzi che fino al giorno dell’arresto avevano visto la galera solo passandoci davanti. Come Enzo, piccoli precedenti penali, che durante una lite ha accoltellato e ucciso il parente di un boss e adesso vive in regime di protezione all’interno del carcere. “Tu non ci pensi, è un momento di rabbia e di impeto - confessa amaramente - e adesso anche mia moglie e mio figlio hanno dovuto cambiare casa”. Ciro invece faceva il marittimo e non ha mai voluto ammettere l’omicidio di un coetaneo, massacrato a coltellate nello stomaco. Parla timidamente, è di buona famiglia, mai conosciuto la prigione. Entrambi dovranno scontare una dura condanna, superiore agli anni della loro giovanissima età. Gianni abita alla Sanità e consegna le pizze nel rione. Quando aveva 17 anni fu accoltellato ad una gamba da un coetaneo. “Nacque una discussione, - racconta - ed io che ero di stazza più grande ebbi la meglio”. Ma dopo un’ora l’altro ragazzo tornò armato di un coltello, lo prese alle spalle e lo colpì, sfiorando l’arteria femorale. “Ho ancora una grossa cicatrice e per anni ho avuto dentro un forte rancore”, dice. Lui conosce alcuni dei presunti autori dell’aggressione ad Arturo, “siamo dello stesso quartiere, e vengono da famiglie degradate che nascono dal niente. Genitori che non lavorano, una famiglia numerosa che vive in una piccola abitazione”. Nonostante un’infanzia difficile segnata dalla morte del padre che non ha mai conosciuto e dalla miseria, Gianni non si è fatto attrarre dalle sirene della criminalità. Questi giovani non nascono con i coltelli in mano, subiscono lo sgretolamento della comunità cittadina e assimilano il narcisismo violento della nostra società. Sono pochi quelli che cercano di porre qualche argine concreto, come ha fatto la mamma di Arturo promuovendo una maratona contro la violenza e i campi estivi per i giovani a rischio, per il resto solo un grande silenzio. Fino al prossimo accoltellamento quando tutti ricominceranno ad indignarsi. Firenze: carcere di Sollicciano, Radicali in visita con Bernardini e Lensi Redattore Sociale, 8 giugno 2018 La delegazione dei Radicali: “Andremo a verificare se dopo le promesse qualcosa è cambiato. Basterebbe un piccolo segnale”. “La prossima settimana saremo nuovamente in visita ispettiva nel carcere di Sollicciano con una delegazione del Partito Radicale. A distanza di tre mesi dall’ultima visita effettuata, verificheremo se all’interno di quell’istituto penitenziario qualcosa in meglio sia cambiato, oppure no. Basterebbe un piccolo segnale, un’inversione di tendenza per capire se vi sia qualche intenzione di riformare Sollicciano, un carcere in condizioni disumane e degradanti come lo ha definito recentemente anche un giudice del tribunale di Genova”. Queste le parole della delegazione di Rita Bernardini (Presidenza Partito Radicale) e Massimo Lensi (Associazione radicale “Andrea Tamburi”) in merito all’imminente visita nel penitenziario fiorentino. “C’è un’altra ragione per cui riteniamo importante la visita della settimana prossima. Sembra, infatti, che il nuovo Governo abbia intenzione di rendere le carceri sempre più dure, riducendo le misure alternative alla carcerazione e stravolgendo la funzione rieducativa dell’esecuzione di pena specificata nell’articolo 27 della Costituzione. Dopo la mancata approvazione della riforma penitenziaria da parte del governo Gentiloni, ci si avvia quindi nella direzione della sua completa cancellazione e dell’approvazione di un Piano Carceri per la costruzione di nuovi istituti penitenziari”. E infine: “A tutto questo noi ci opponiamo e continuiamo a invitare le istituzioni a tornare al dettato della Costituzione rientrando nella legalità e rendendo il pianeta carcere, e quindi anche Sollicciano, un luogo in cui la pena non calpesti la dignità della persona e dove gli autori di reato trovino percorsi di risocializzazione potenziati e resi visibili a tutti. Il carcere non può e non deve essere il luogo della “tortura democratica” e della vendetta sociale, ma una struttura di servizi all’interno della quale trovare una strada diversa dal reato per tornare a vivere nella società e renderla più sicura. Fino a che questo non si concretizzerà appieno, il carcere continuerà ad essere per noi e per chiunque abbia a cuore la Costituzione un luogo di lotta nonviolenta”. Reggio Calabria: apertura sportello Caf e Patronato nel carcere ildispaccio.it, 8 giugno 2018 “Grazie alla legge 193/2008, i Patronati possono svolgere la loro attività anche nelle carceri per garantire agli ospiti delle case circondariali, l’accesso alla pensione, l’assegno familiare, l’invalidità civile o la disoccupazione o le altre prestazioni prevista dalla normativa italiana”. È con questa direttiva che è stato firmato in data odierna, il Protocollo d’intesa tra FederDipendenti gruppo AziendeItalia e gli Istituti Penitenziari di Reggio Calabria, per consentire ai detenuti e alle loro famiglie di poter fruire di servizi di informazione, assistenza e tutela sociale e previdenziale che la legge affida agli Istituti di Patronato, per l’apertura di uno sportello di Caf e Patronato, con la presenza di operatori facenti parte lo staff di AziendeItalia, presso l’Istituto Penitenziario di Arghillà e la Casa Circondariale Panzera. AziendeItalia Centro Servizi e Progetti Caf e Patronato, si impegna a gestire lo sportello, prestare assistenza a titolo gratuito ai detenuti ed al personale penitenziario, che ne facciano richiesta all’interno degli Istituti, nonché sostenere assistenza alle famiglie dei detenuti, presso la propria sede di Reggio Calabria. L’iniziativa proposta è stata approvata dal Tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria in base all’art. 17 della legge Penitenziaria. “È un’iniziativa molto importante per la città di Reggio Calabria, in quanto viene uniformata a gran parte degli Istituti penitenziari dell’intero paese tra i quali Rebibbia, San Vittore e tante altre Case Circondariali, come Brindisi, Cosenza, Verona, Lecce e altre ancora, poiché contribuisce in maniera concreta, a promuovere e tutelare i diritti dei detenuti”. Ciò quanto dichiarato la Dott.ssa Tiziana Iaria responsabile di FederDipendenti Gruppo AziendeItalia. Tutela e diritti sono le due parole chiave per comprendere il lavoro dei Patronati: il loro compito non è solo quello di compilare le pratiche per facilitare l’Inps, ma quello di far conoscere ai cittadini, soprattutto quelli più deboli come anziani, disabili e detenuti, i loro diritti e aiutarli a indicare la prestazione sociale più adatta alle loro esigenze - Ferrara: teatro-carcere, gli intrighi di Padre e Madre Ubu di Federica Pezzoli estense.com, 8 giugno 2018 Non poteva essere più attuale la scelta di Horacio Czertok e Davide Della Chiara per gli attori-detenuti del laboratorio teatro-carcere della Casa circondariale “Costantino Satta” di Ferrara: nell’ambito del progetto del Coordinamento teatro carcere Emilia Romagna sulle “Patafisiche” del francese Alfred Jarry, martedì 5 giugno al Teatro Comunale Claudio Abbado è andato in scena “Ascesa e caduta degli Ubu” (prodotto da Teatro Nucleo), le imprese più grottesche che epiche e gli intrighi di Padre e Madre Ubu per salire al trono di Polonia. Jarry per Padre e Madre Ubu si è ispirato ai Macbeth di Shakespeare, ma scrivendo all’inizio del Novecento, li ha scarnificati del loro spessore psicologico e trasformati in due maschere, gretti e volgari nel loro intrighi: lei una inesorabile arrivista che fiuta la preda, cioè i soldi, tanto intelligente quanto opportunista, lui un fantoccio nelle mani della consorte, avaro e ingordo, costantemente preceduto dal fetore della sua viltà. Comprimari: un re di Polonia che forse non è all’altezza della corona che porta sul capo, suo figlio esule ed esperto acrobata fra le corti, un Capitano Brodin degno compare di tradimenti e comandante di soldati marionette e… il pubblico, che partecipa suo malgrado alla congiura ordita dalla platea. Come tutti i buoni testi teatrali, l’universo immaginato da Jarry ci permette in realtà di ritrovare caratteri umani universali che attraversano le epoche, rendendoli riconoscibili nel tempo che stiamo vivendo: oggi in giro ci sono parecchi Ubu, incapaci di prendersi le proprie responsabilità, di affrontare le conseguenze delle proprie azioni, da Donald Trump a Kim Jong Un, senza contare gli Ubu italiani. Czertok e Della Chiara hanno scelto la lettura più farsesca del testo e quindi questi caratteri vengono messi alla berlina permettendo quasi di esorcizzarli. Un primo studio, incentrato sull’irresistibile ascesa della malefica coppia, parafrasando Brecht, era già stato realizzato nel settembre scorso in occasione della passata edizione di Internazionale, quando era stato il pubblico a entrare in carcere per assistere alla performance. Stavolta, invece, sono stati gli attori a trovarsi sulle tavole del palcoscenico del teatro comunale per narrare tutta la vicenda fino all’inevitabile epilogo. Un notevole cambio di passo per la “Compagnia dell’Arginone”, come l’ha affettuosamente chiamata Czertok, una doppia sfida con sé stessi: non solo il mettersi alla prova con un testo di più di un’ora che richiede memoria e buone capacità dell’uso del corpo, visto che recupera senza dichiararlo la tradizione italiana della commedia dell’arte, ma farlo su un palcoscenico vero e proprio avendo solo una giornata per adattare e rimontare tutto il lavoro fatto in questi mesi fra le mura della casa circondariale. Intelligenti gli omaggi musicali e le trovate comiche surreali, ma a stupire maggiormente è proprio la capacità di uso degli spazi - non solo il palcoscenico, ma anche la platea e i palchi - e la padronanza dei tempi degli attori in scena, grazie anche all’aiuto di alcuni collaboratori del Teatro Nucleo. Una sfida superata dunque per la Compagnia dell’Arginone, che ha anche costruito le scenografie e che ora può vantare il proprio repertorio: oltre alle vicende degli Ubu, “Me che libero nacqui al carcer danno”, ispirato alla “Gerusalemme Liberata” di Tasso e al “Combattimento di Tancredi e Clorinda” di Monteverdi, e una nuova produzione sul tema “Padri e Figli” da elaborare nel prossimo biennio 2018-20. Sassari: ecco le storie liberate, i detenuti raccontano il carcere dimenticato di Luigi Soriga La Nuova Sardegna, 8 giugno 2018 La toccante esperienza nelle colonie penali dal 1860 a oggi In scena e in musica le vite sepolte negli archivi storici. Il carcere comprime tutto, inscatola i giorni, blinda i sogni, satura l’anima. Sarà per questo che il palcoscenico funziona come un idraulico liquido emozionale: fa sgorgare tante cose sedimentate, ha uno straordinario potere liberatorio. Insomma, i detenuti sono degli attori con qualcosa in più. “Diciamo che recitare la parte dei galeotti ci viene molto naturale. Forse è per questo che siamo bravi”. Daniele Sarto ha 53 anni, niente capelli, molti tatuaggi, occhi azzurri e più o meno da 35 anni rimbalza tra un istituto penitenziario e l’altro. Sul suo casellario giudiziario c’era scritto: fine pena mai. Era uno degli esponenti della malavita del Brenta, specializzato in furti, rapine, riciclaggio d’armi e soprattutto assalti ai portavalori. Il 13 febbraio del 1992 fa parte di un commando armato. L’obiettivo è un furgone blindato, e per fermare la corsa sparano nell’abitacolo. Il conducente, una guardia giurata di 31 anni, resta uccisa nel conflitto a fuoco. Daniele Sarto, per l’omicidio, si becca l’ergastolo. Da due anni è recluso nel istituto di Bancali. “L’ultima cosa che avrei pensato, nella mia vita, è di recitare un giorno in teatro”. Invece i tredici carcerati, nei panni dei carcerati, sono perfettamente a proprio agio. La sceneggiatura li impegna a calarsi nella parte, perché inconsapevolmente quel copione in questi anni l’hanno scritto proprio gli stessi protagonisti. Il titolo è: “Storie liberate”, e il cantautore Piero Marras, che ha iniziato per gioco col suo sottofondo musicale e alla fine ha riempito due cd, in versi la definisce così: “Storie sommerse da una coltre di muffa in espansione, qualcuno mosso da umana compassione, senza pensarci su, le ha liberate”. Le storie liberate non sono altro che i frammenti delle esistenze rinchiuse tra le sbarre e le quattro mura, fissate negli archivi storici delle colonie penali dal 1860 ad oggi. E soprattutto finite per caso nelle mani di tredici detenuti archivisti, che dal 2009 raccolgono, leggono, catalogano, ricostruiscono vite dimenticate. Ci sono lettere d’amore, grida d’innocenza, diari, sfoghi, annotazioni. E poi, la cosa più affascinante, un intreccio tra passato e presente, tra le “storie liberate” e le esperienze attuali degli archivisti. Sul palcoscenico viene apparecchiata proprio questa sovrapposizione di vicende, che gli sceneggiatori Alessandro e Vittorio Gazzale sono riusciti a cucire insieme utilizzando le battute, le impressioni, le reazioni a caldo e i dialoghi spontanei degli archivisti. Così si scopre che le condizioni degli istituti di pena sono cambiate parecchio negli anni. C’è più umanità e attenzione ai diritti degli inquilini. Ma i sentimenti, le nostalgie e le solitudini dei detenuti in fondo resteranno sempre immutate. Una giornata come questa, per dire, con l’auditorium del carcere di Bancali strapieno di persone, con il sindaco Nicola Sanna in prima fila, assessori, giornalisti, diverse autorità, la direttrice Patrizia Incollu, e nelle sedie accanto centinaia di detenuti, e tutti che applaudono divertiti e commossi: ecco una giornata come questa forse sino a dieci anni fa era impensabile. Lo spettacolo è bello, e la bravura degli attori va oltre le aspettative: forse perché c’è molta genuinità nei dialoghi, e la regia è stata molto abile a non lavorarla, a preservando l’immediatezza. Il Comune concederà il teatro Civico, e verranno coinvolte le scuole. “Per noi questo lavoro è molto importante - dicono gli attori-detenuti - è l’occasione per restituire qualcosa alla società: un piccolo contributo, un’inezia, rispetto a quel tanto che in passato abbiamo tolto”. Milano: Fondazione Maimeri, arte a San Vittore per aprire il carcere alla città affaritaliani.it, 8 giugno 2018 Fondazione Maimeri all’opera per rendere il carcere milanese di San Vittore anche un luogo di confronto culturale con corsi di formazione, mostre d’arte, eventi culturali, concerti, eventi sportivi, incontri tra detenuti e cittadini. Il progetto è illustrato dal comunicato della fondazione stessa: “Il carcere San Vittore, di grande pregio architettonico, situato nel centro di Milano rappresenta un riferimento non solo topografico nell’immaginario di tutti i cittadini. È il carcere, della città, un luogo della memoria, di storia, di presente. Un luogo di cui tanti chiedono la chiusura ma che esiste al centro della città, che difficilmente sarà dismesso e che esercita su tutti, una incredibile forza attrattiva. Un luogo pieno di fascino, in grado di trasmettere messaggi per il semplice fatto di esserci, al centro della città, con i suoi limiti e le sue incredibili potenzialità. Un luogo, simbolo della legalità, che ospita prevalentemente persone inattesa di giudizio e che sta rielaborando un progetto di medio-lungo periodo che gli restituisca la centralità, anche nel contesto penitenziario cittadino, restituendo lo alla città, ai milanesi che da sempre lo ospitano che non sempre lo conoscono per quello che realmente è. Un luogo ove oggi si incontrano tutte le culture del mondo, un modello di integrazione possibile che va favorita, accompagnata, supportata, pubblicizzata; che si intende riaprire alla città perché tutti possano comprenderne il significato ed il ruolo, come “risorsa”, in grado non solo di integrarsi con il contesto metropolitano, ma di supportarlo”, promuoverlo, stimolare. Un luogo che con l’aiuto dell’arte, della cultura, del lavoro, della scuola e della formazione, delle intelligenze milanesi, delle istituzioni ed delle forze sociali della città, possa costruire una cultura del bello, del rispetto, di eccellenza ed aiutare le persone che quel contesto vivono ad un approccio diverso a se stesso, all’altro, alle regole, alle istituzioni; ed al tempo stesso ad avvicinare la gente al carcere, valorizzare l’importanza e la complessità dei percorsi di recupero, il lavoro difficile degli operatori, l’importanza del ruolo del contesto cittadino, le necessità di una integrazione che parta proprio dal luogo più difficile della città. Un luogo ove la gente possa entrare come in un qualunque quartiere o giardino della città per fare cose che potrebbe fare in qualunque quartiere o giardino della città ma che ha il valore aggiunto del luogo, delle mura, delle sbarre, dei cancelli, dei vincoli, delle conseguenze degli errori e di scelte sbagliate. Un luogo che, tutti insieme si possa migliorare, nella struttura, nella percezione dei singoli e della città, ove le persone abbiano occasioni concrete di cambiamento, di educazione, di cambiamento, di scelta, di valorizzazione. Protagonisti! Insieme alle istituzioni, con il grande contributo della Fondazione Maimeri che ha sposato con entusiasmo il progetto, coinvolgendo personalità della società civile stiamo creando un gruppo di lavoro che favorisca la realizzazione del progetto ed organizzando eventi in grado di creare una permeabilità tra il carcere e la città, rendere fruibili alla vita dinanzi alcune specifiche aree della struttura, in modo serio, sobrio, sicuro, attento alle vittime ed alla restituzione sociale, in linea con il ruolo istituzionale che la caratterizza e che la gente e le istituzioni si aspettano e le chiedono. Corsi di formazione, mostre d’arte, eventi culturali, concerti, eventi sportivi, incontri tra detenuti e cittadini cui i primi possano raccontare la propria esperienza, il significato del carcere, confrontarsi e mettersi alla prova, accompagnati dagli aperitivi realizzati di detenuti della “Libera scuola di cucina San Vittore - Aei” insignita dal Presidente della Repubblica per il suo grande valore formativo, culturale e l’alta qualità dei suoi prodotti”. Queste le iniziative in programma: - educazione alla arte attraverso la realizzazione di opere d’arte all’interno del carcere create da importanti artisti con il supporto dei detenuti - realizzazione di opere d’arte di grande formato che trasformeranno illato interno delle mura in una sporta di galleria a cielo aperto - creazione di una galleria di arte contemporanea aperta ai cittadini. - organizzazione di conferenze, seminari ed eventi per sensibilizzare e promuovere il progetto. “Tutti questi interventi e queste iniziative - prosegue la nota - vedranno il coinvolgimento operoso dei detenuti che, oltre a svolgere una attività, effettueranno un percorso di avvicinamento a contenuti di valore umano e sociale. Hanno già dato adesione numerosi artisti, musicisti e personalità del mondo della cultura e dello spettacolo. Tra questi: Max Papeschi, Domenico Pellegrino, Ali Houssoun, Stefano Pizzi, Simone Fugazzotto, Marco Lodola, Alessandro Gedda, Maurizio Temporin, Alfredo Rapetti Mogol, Omar Hassan, Tom Porta, Save The Wall, Massimiliano Allioto, Marco Nereo Rotelli, Mario Arlati, Rudy Van Der Velte, Vonjako, Beat Kuert. Grazie Segre, la storia non va dimenticata di Regina Egle Liotta Catambrone* La Repubblica, 8 giugno 2018 “Ho conosciuto la condizione di clandestina e di richiedente asilo; ho conosciuto il carcere; ho conosciuto il lavoro operaio, essendo stata manodopera schiava minorile in una fabbrica satellite del campo di sterminio”. Esordisce così, durante il suo primo discorso da senatrice, Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz di cui porta ancora sul braccio il tatuaggio col numero identificativo con cui i nuovi arrivati iniziavano un percorso spersonalizzante che li avrebbe privati pian piano della loro stessa umanità. Coerentemente con la sua esperienza personale, la senatrice Segre non è nuova a appelli di questo tipo per risvegliare le coscienze sopite dei suoi concittadini davanti ai concreti rischi di pericolose degenerazioni di matrice razzista e xenofoba. Lo sgombero di Torino. Proprio nel giorno della votazione della fiducia al nuovo governo e del suo primo discorso ufficiale, a Torino veniva sgomberato un campo Rom installatosi 13 anni fa e evacuato in poche ore. Le autorità hanno addotto questioni di sicurezza per gli abitanti del campo e della zona circostante come motivazioni per questa decisione e approntato un piano di accoglienza di una settimana. Forse anche per questo nel suo discorso, un pensiero speciale viene dedicato proprio a Sinti e Rom “che inizialmente suscitarono la nostra invidia di prigioniere, perché nelle loro baracche le famiglie erano lasciate unite; ma presto all’invidia seguì l’orrore, perché una notte furono portati tutti al gas e il giorno dopo in quelle baracche vuote regnava un silenzio spettrale”. Fa male sentir parlare di “pacchia”. Ma l’ondata di odio e razzismo si allarga a macchia d’olio coinvolgendo le minoranze più vulnerabili, in particolare migranti e rifugiati la cui condizione viene derisa apertamente al solo scopo di minimizzare la loro vulnerabilità, di ignorare le terribili condizioni di vita in cui versano e di fomentare l’astio dei cittadini. Duole apprendere che la situazione dei migranti e dei rifugiati venga descritta come “una pacchia”, soprattutto in un momento in cui si susseguono notizie tragiche fra naufragi lungo la rotta del Mediterraneo e dell’Egeo, disperati tentativi di fuga dalle carceri libiche che terminano in tragedia e l’omicidio a sangue freddo di Soumayla Sacko, sindacalista maliano in Calabria. Tutto questo a fronte di dati allarmanti sulla situazione del paese sia in termini di crescente intolleranza, sia relativamente al limbo cui sono costretti i migranti dopo l’arrivo. In Italia le maggiori ostilità. Rispetto al primo punto, una ricerca recente da parte del Pew Research Centre ha cercato di analizzare le tendenze nei confronti di musulmani ed ebrei in Europa occidentale e in Italia è emersa la maggiore ostilità nei loro confronti. Alla domanda “Accetteresti un ebreo o un musulmano in famiglia”, rispettivamente il 25% e il 43% degli intervistati hanno risposto di no, registrando così la percentuale più altra fra gli altri Paesi Membri. Ma questa ricerca, di fatto, mette semplicemente in luce tendenze facilmente rintracciabili nella quotidianità italiana e europea. L’ascesa del populismo in Europa. Seppur con vari livelli di intensità, tutta l’Europa sta registrando una ascesa di populismo, xenofobia, razzismo e chiusura al prossimo. Sono elementi comuni praticamente a tutti i paesi che, incapaci di onorare e rispettare i valori fondanti di solidarietà e tutela dei diritti umani, si trincerano dietro egoismi nazionali e trascinano alla deriva gli alti ideali che hanno portato alla creazione dell’Unione Europea a partire dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale. Proprio in questi giorni si sono susseguite notizie preoccupanti in arrivo da Francia, Austria e Ungheria. In Francia, a pochi giorni dall’eroico gesto di Mamoudou Gassama che ha salvato un bambino che stava per cadere dal balcone e che gli è valso la concessione della cittadinanza francese, tre attivisti stranieri si sono presentati in tribunale con l’accusa di aver aiutato alcuni migranti ad attraversare la frontiera. I tre giovani avevano preso parte a un corteo di circa 100 persone intenzionate a scortare una ventina di migranti per evitare i respingimenti da parte degli attivisti di Génération Identitaire. Quel cadavere trovato a Bardonecchia. Negli stessi giorni, veniva diffusa la macabra notizia del ritrovamento del cadavere di un migrante nella località di Bardonecchia dopo lo scioglimento della neve. In Austria invece il Primo Ministro Kurz, che a breve avrà la presidenza a rotazione del Consiglio Europeo, ha annunciato che la migrazione sarà la priorità della sua agenda. Quello di Kurz è l’unico in Europa ad avere nella coalizione di governo una componente dichiaratamente di estrema destra e anti-immigrazione (il Freedom party) e ha recentemente dichiarato che occorre dare a Frontex un mandato per agire direttamente in Nord Africa. Occorrerebbero 10 mila guardie di frontiera. Per farlo bisognerebbe assumere prima possibile altre 10mila guardie di frontiera, fermare i flussi migratori già in Africa e idealmente rispedire le persone nei proprio paesi di origine o transito. Queste posizioni godono dell’appoggio del premier ungherese Orban che ha appena fatto approvare una legge che criminalizza chiunque tenti di aiutare i migranti e ha sollevato dure critiche da parte dell’UNHCR. Purtroppo, proprio queste posizioni vengono appoggiate anche dal nuovo governo italiano che si è unito al fronte europeo contrario alla riforma di Dublino. Gli stermini cominciano gradualmente. Sulla base di uno scenario così drammatico, le parole della senatrice Segre non sono solo di enorme conforto per chiunque creda nell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, ma sono anche un monito concreto a impegnarci attivamente per evitare che gli orrori del passato si ripetano. Come ha ribadito lei stessa, lo sterminio non comincia da un giorno all’altro, ma gradualmente. Si comincia con lo sminuire il bersaglio di una campagna d’odio che priva le persone della loro umanità. Prima erano gli ebrei, ora sono i richiedenti asilo, i migranti, i rifugiati e chiunque giunga in Europa in fuga da guerre, persecuzioni e povertà estrema. Lentamente ci si abitua ai soprusi, si smette di provare empatia nei confronti di chi andrebbe salvaguardato e ci si accanisce contro qualcuno in virtù della religione o del colore della pelle. Le parole della senatrice Segre. Mi unisco quindi all’appello della senatrice Segre affinché si contribuisca tutti a mantenere vigile la coscienza, a sensibilizzare sul tema della migrazione troppo spesso spersonalizzata e ridotta a numeri, a conservare l’empatia nei confronti di chi sta cercando un futuro migliore per sé e per i propri figli. Ma soprattutto mi unisco alla richiesta di evitare leggi discriminatorie nei confronti di determinati gruppi e di rispettare il diritto codificato che tutela dignità e diritti umani. *Direttrice e Cofondatrice di Moas Qualcuno spieghi a Salvini che i Cie sono già “chiusi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 giugno 2018 I Centri per il rimpatrio sono controllati dalla polizia che impedisce l’uscita. “Basta immigrati a spasso, servono centri chiusi”, ha detto il ministro dell’Interno Matteo Salvini ai cronisti in Transatlantico, sottolineando che “la gente non vuole avere dei luoghi dove uno esce alle 8 della mattina, rientra alle 10 la sera e durante il giorno non si sa cosa fa e fa casino. Vanno realizzati centri per i rimpatri, ha aggiunto il ministro dell’Interno, “che permettano di espellere chi va espulso” e su questo “tutti gli amministratori della Lega non chiedono altro”. Ma attualmente, nei centri di identificazione ed espulsione, gli immigrati considerati irregolari posso quindi uscire? La risposta è ovviamente negativa. Sono da considerare, infatti, come delle prigioni. Non a caso sono strutture destinate alla detenzione amministrativa dei migranti senza permesso di soggiorno in attesa di essere identificati ed espulsi. All’inizio i Cie si chiamavano Centri di permanenza temporanea e assistenza (Cpta) e consentivano la detenzione amministrativa per un periodo massimo di 30 giorni di chi non aveva i documenti in regola. In seguito il periodo di detenzione è stato esteso a 18 mesi, quindi poi ridotto di nuovo a 90 giorni. L’ex ministro degli interni Marco Minniti, in seguito, li ha ribattezzati Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), ma la sostanza non è cambiata. In questi luoghi continuano infatti a essere trattenute sulla base di una decisione amministrativa persone con situazioni giuridiche molto differenti: soggetti provenienti dal circuito penale, persone in posizione di irregolarità amministrativa rispetto al permesso di soggiorno, perfino alcuni richiedenti asilo che costituiscono un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica o che rifiutino reiteratamente di sottoporsi a identificazione. Il tutto in un regime di promiscuità e precarie condizioni di vivibilità che avevano preoccupano molto il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma nel suo primo rapporto tutto dedicato alla questione dei migranti. I centri sono già chiusi a chiave, con grate alle finestre, filo spinato e pattugliati dalla Questura che impedisce ogni uscita. Se un trattenuto deve andare in udienza, viene perfino accompagnato con la scorta della questura. Nei 19 anni dalla creazione dei Cie (oggi Cpr), le critiche da parte dei difensori dei diritti umani e di organizzazioni indipendenti hanno mostrato che la detenzione amministrativa dei cittadini stranieri irregolari è inefficace da tutti i punti di vista, tranne uno: quello della comunicazione politica per ricevere consensi. L’annuncio da parte di Salvini ne è la prova. I centri sono quindi già delle prigioni e i migranti non possono uscire. Altro obiettivo, questa volta reale, da parte del ministro degli Interni è riportare a 18 mesi il tempo di permanenza nei Centri. Nel 2014, grazie ad un emendamento presentato dagli ex senatori del Pd Luigi Manconi e Sergio Lo Giudice, il parlamento aveva approvato in via definitiva la norma contenuta nella Legge Europea 2013 bis relativa al periodo massimo di trattenimento dei cittadini stranieri all’interno dei Cie Passando così da 18 mesi a 90 giorni. Una conquista considerata di civiltà, perché la riduzione ha riportato i centri a quella che dovrebbe essere la sola funzione: luogo di transito in vista dell’identificazione e dell’eventuale rimpatrio, evitando lunghe detenzioni immotivate di chi non ha commesso reati ma si trova solo in uno stato di irregolarità amministrativa. Il nuovo governo M5S- Lega sembra metterla in discussione. Minniti boccia il ritorno dei Cie: “abnormi carceri senza dignità” di Diego D’Amelio Il Piccolo, 8 giugno 2018 L’ex ministro Pd contro la linea Fedriga-Salvini: “Irrealizzabile rinchiudere in centri semi-detentivi tutti i richiedenti asilo. Le frasi su Tunisia e fine della “pacchia”? Segnali di una deriva preoccupante”. “Una proposta non realizzabile”. L’ex ministro dell’Interno, Marco Minniti, respinge l’idea leghista di costringere a un regime semi-detentivo i migranti che attendono in Italia l’esito della propria domanda di protezione. Il deputato del Partito democratico mantiene toni istituzionali e respinge le polemiche, ma parla chiaro quando dice che l’idea avanzata dal suo successore Matteo Salvini e fatta propria in Friuli Venezia Giulia dal governatore Massimiliano Fedriga “collide frontalmente con tutte le risoluzioni delle Nazioni unite”. Il nuovo ministro parla di “pacchia” finita per i migranti… Chi fugge da guerre o condizioni di mancato sviluppo economico non vive una pacchia. Viene da una traversata drammatica del deserto e del mare, affrontata in stato di semi schiavitù. Il problema non è demonizzare ma governare un fenomeno epocale: è l’unica cosa che possa fare una democrazia che abbia rispetto dei suoi valori fondativi. Salvini ha detto che lei ha fatto un lavoro “discreto”. Cosa potrà fare di diverso il nuovo governo? L’Italia ha dimostrato di saper governare il problema quando sembrava non ci fosse limite alla cosiddetta emergenza. A oggi abbiamo 120mila arrivi in meno rispetto all’anno precedente. Il ministro punta intanto sul ritorno ai Cie. Non sono previsti dalla legge attuale, che parla di Centri di permanenza per i rimpatri. Uno per regione, con capienza entro i 150 posti: centri che non servono a rinchiudere chiunque arrivi nel nostro Paese ma chi manifesta pericolosità per la nostra sicurezza. Questi centri non possono diventare enormi carceri. I Cie li abbiamo avuti già: strutture abnormi che producevano il non rispetto dei diritti di chi vi era ospitato e un equilibrio non corretto con le comunità dove sorgevano. Che ne pensa dell’idea di Fedriga di una semidetenzione per i richiedenti? Non facciamo confusione, appunto. Una cosa sono i centri di accoglienza che stanno nel rispetto delle direttive Onu e che noi abbiamo comunque lavorato per superare con l’accoglienza diffusa. Altro sono i Cpr, dove si rinchiude chi non ha avuto il riconoscimento del diritto d’asilo e costituisce nel contempo un pericolo per la sicurezza. Per ospitare questi Cpr abbiamo al momento dieci siti pronti in Italia. Ha trovato disponibilità da parte delle Regioni di centrodestra? I presidenti Zaia e Toti hanno sempre detto di no per quanto riguarda Veneto e Liguria. In Lombardia invece si sta procedendo. Cie invece di Cpr, clandestini invece di richiedenti: che ne pensa della confusione leghista nell’uso dei termini? Mi auguro sia frutto di un primo approccio. Ma spero non si voglia riportare il tema immigrazione in Italia dopo che noi lo avevamo spostato dall’altra parte del Mediterraneo: il problema è in Africa. In che senso? In Libia si è costruito un modello di governo dei flussi, con drastica riduzione delle partenze, guardia costiera all’opera, controllo delle frontiere meridionali, 25mila rimpatri volontari assistiti verso i paesi africani di provenienza e presenza dell’Onu per verificare la vita nei campi. Quanto le sono dispiaciute allora le frasi di Salvini sulla Tunisia? Sono preoccupato. Il rapporto va recuperato subito. La Tunisia è un paese chiave per il governo dei flussi e la lotta al terrorismo, con cui abbiamo costruito solidi accordi sui rimpatri. È l’unica democrazia nata dalle primavere arabe, l’unica ad aver resistito allo Stato islamico ed è un punto chiave per evitare che migliaia di combattenti di ritorno da Iraq e Siria si riversino in Europa. Non possiamo destabilizzare i Paesi del Mediterraneo che collaborano con noi: serve prudenza, perché il rischio jihadista rimane alto. Come si rafforzano le relazioni con i Paesi di partenza? Nessun paese al mondo ha mai rimpatriato seicentomila persone e non possiamo tornare alla sanatoria fatta dal centrodestra dopo il 2001. Serve una politica dei rimpatri, grazie a una politica dei visti che neghi l’ingresso in Ue per i cittadini dei paesi che non accettino i rimpatri. Altrimenti siamo alle chiacchiere. L’Europa non parla però con una voce sola, come dimostra lo stop alla riforma di Dublino. La riforma era peggiore del regime attuale. Dublino è una camicia di forza per l’Italia perché stabilisce che non può esserci un principio di solidarietà più ampio. Ma chiariamo che la riforma non piaceva a noi perché sarebbe stata ancor più restrittiva, mentre non piaceva ai paesi di Visegrad perché troppo poco dura. Salvini sbaglia allora a guardare all’alleanza con gli Stati centroeuropei? L’Italia vorrebbe stringere una solidarietà con paesi che rifiutano di collaborare al ricollocamento dei migranti. Tutto ciò è in contraddizione con i nostri interessi. Visegrad, la vittoria della destra anti immigrati in Austria e Slovenia, l’uccisione di Soumayla Sacko. Dove sta andando lo spirito del tempo? I democratici e la sinistra devono affrontare due grandi sentimenti: rabbia e paura. Non può esserci supponenza. Questa è la sfida per il consenso in tutte le democrazie per i prossimi vent’anni: la sfida fra democratici e populisti. I primi devono stare accanto ai ceti popolari che sono quelli che hanno più paura, mentre i populisti fanno finta di ascoltarli ma vogliono solo tenerli incatenati alle loro paure. Droghe. Cresce il consumo della cocaina in Europa Redattore Sociale, 8 giugno 2018 L’allarme dell’Osservatorio di Lisbona. Il traffico di polvere bianca torna a crescere. Aumentano i sequestri (nel 2016 sono state intercettate circa 71 tonnellate), le tracce nelle acque reflue delle grandi città e cresce il numero di persone in trattamento. Il direttore, Alexis Goosdeel: “Affrontare implicazioni sanitarie” Produzione e disponibilità di droghe in aumento in tutta Europa, ma a preoccupare è soprattutto la cocaina che nel 2016 fa segnare il picco di purezza della sostanza in strada dell’ultimo decennio, nonostante il prezzo sia rimasto stabile. A lanciare l’allarme è l’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (Emcdda) che oggi ha presentato la Relazione 2018 a Bruxelles. “Oggi in Europa assistiamo a un aumento della produzione e della disponibilità di droghe - ha affermato Dimitris Avramopoulos, commissario europeo responsabile per le migrazioni, gli affari interni e la cittadinanza. Inoltre, il mercato delle sostanze illecite è altamente dinamico e adattabile, caratteristiche che lo rendono ancora più pericoloso. Se vogliamo essere all’avanguardia, i nostri sforzi devono essere mirati allo sviluppo sia della resilienza che della reattività, non da ultimo a causa della crescente importanza del mercato online e dello sviluppo di nuovi tipi di droghe. Con l’entrata in vigore delle nuove norme sulle nuove sostanze psicoattive entro la fine dell’anno, l’Europa disporrà di strumenti supplementari e più forti per affrontare tali sfide in modo più efficace e proteggere meglio i cittadini europei contro la pericolosità delle droghe” Crescono i sequestri. Secondo l’Osservatorio, nel vecchio continente la disponibilità di droghe resta elevata, ma in alcuni settori sembra essere anche in aumento. “I dati più recenti mostrano che in Europa (UE-28, Turchia e Norvegia), nel 2016, è stato segnalato oltre 1 milione di sequestri di sostanze illecite - si legge nel rapporto. Oltre 92 milioni di adulti nell’Ue (15-64 anni) hanno provato una droga illecita nel corso della loro vita. Inoltre, si stima che, nel 2016, 1,3 milioni di persone siano state sottoposte a trattamento in seguito al consumo di sostanze illecite”. Tra le sostanze stupefacenti, è la cocaina la droga che torna a far parlare di sé con qualche preoccupazione in più. Secondo l’Osservatorio, infatti, la cocaina rappresenta ancora oggi lo stimolante illecito più consumato in Europa. “Circa 2,3 milioni di giovani adulti (15-34 anni) ne hanno fatto uso nell’ultimo anno - spiega l’Osservatorio -. In un contesto caratterizzato da segnali di aumento della coltivazione e della produzione di cocaina in America latina, l’analisi odierna conferma che il mercato europeo della cocaina prospera, con indicatori che segnalano una maggiore disponibilità della sostanza in diversi paesi”. Anche il numero di sequestri di cocaina è aumentato: nel 2016 ne sono stati segnalati nell’Ue circa 98 mila, ovvero 8mila in più rispetto al 2015, per un totale di 70,9 tonnellate di polvere bianca. L’analisi delle acque reflue conferma aumento dei consumi. Anche i dati evidenziati da recenti studi condotti in alcune città europee sui residui di droga nelle acque reflue urbane confermano i trend in crescita per l’uso di cocaina. Tra il 2015 e il 2017, infatti, si è verificato un aumento dei residui di cocaina in 26 delle 31 città sotto osservazione. “Le tracce più elevate sono state registrate in città del Belgio, dei Paesi Bassi, della Spagna e del Regno Unito, mentre nelle città dell’Europa orientale esaminate nello studio sono stati segnalati livelli bassi”. Il rapporto dell’Osservatorio di Lisbona, inoltre, evidenzia anche un aumento del numero dei primi accessi al trattamento specialistico correlati alla cocaina. “Nel 2016, 30,3 mila utenti si sono sottoposti per la prima volta a un trattamento a seguito di problemi legati a questa droga - si legge nel rapporto -, oltre un quinto in più rispetto al 2014. In totale, nel 2016 oltre 67mila utenti hanno iniziato un trattamento specialistico per problemi correlati alla cocaina. Particolarmente preoccupanti sono gli 8.300 utenti che, in base alle stime, nel 2016 si sono sottoposti a trattamento per il consumo di crack come droga primaria”. La cocaina, inoltre, è anche la seconda droga più frequentemente segnalata nelle emergenze ospedaliere correlate all’uso di droga, secondo i dati raccolti da una rete di 19 ospedali sentinella nel 2016. Cambiano le rotte: i trafficanti puntano a Nord. I dati raccolti e analizzati dallo staff dell’Osservatorio di Lisbona mostrano anche un’evoluzione importante per quanto riguarda le rotte della cocaina e le sue porte d’ingresso in Europa. Secondo il rapporto, infatti, nel 2016 la penisola Iberica non è più il principale varco utilizzato dai trafficanti per introdurre cocaina nel mercato europeo, sebbene resti ancora importante. Oggi sono i porti del Nord Europa a rappresentare il punto d’ingresso principale. Secondo il rapporto, infatti, nel 2016 il Belgio ha sequestrato 30 tonnellate di cocaina, ovvero il 43 per cento della quantità totale stimata annua di cocaina sequestrata nell’Unione europea. “I risultati della nostra nuova relazione indicano che l’Europa sia interessata dalle conseguenze dell’aumento della produzione di cocaina in America Latina - spiega Alexis Goosdeel, direttore dell’Osservatorio di Lisbona. I primi segnali di allarme provenienti dall’analisi delle acque reflue sulla crescente disponibilità di cocaina sono ora avvalorati da altri dati che suggeriscono un incremento dell’offerta, tra cui l’aumento della purezza e del numero e della quantità di sequestri di cocaina. Dobbiamo affrontare le implicazioni sanitarie legate al consumo di cocaina, poiché cominciamo ad assistere ad alcuni sviluppi preoccupanti in questo settore, tra cui un maggior numero di persone che si sottopongono per la prima volta a trattamento a causa di problemi legati alla cocaina. Questi cambiamenti sottolineano la crescente importanza di efficaci interventi di prevenzione, trattamento e riduzione dei danni per i consumatori di cocaina”. Turchia. Dal carcere di Silivri l’urlo di Ahmet Altan contro l’ingiustizia di Chiara Cruciati Il Manifesto, 8 giugno 2018 Un libro piccolo e prezioso del giornalista e scrittore Ahmet Altan. “Ecco la mia risposta al pubblico ministero. Della sua galera non mi importa niente. Continuerò a dire la verità. Ho detto la verità tutta la vita. Non ho intenzione di smettere adesso. Non sono il genere d’uomo che si lascia spaventare. Non sono il genere d’uomo che agisce per vigliaccheria e sperpera i tanti decenni che ha già vissuto per amore dei pochi anni che gli rimangono”. Il j’accuse di Ahmet Altan risuona tra le pagine di un libro dopo aver rimbombato dentro l’aula della 26/ma corte penale di Istanbul: Tre manifesti per la libertà, edito da e/o (pp. 190, euro 5, traduzione di Silvia Castoldi). Sempre per e/o è appena uscito il romanzo Come la ferita di una spada, mentre ieri sera Ahmet Altan è stato al centro del festival “Letterature”, con un reading di Fabrizio Gifuni. Tre manifesti per la libertà è l’urlo potente di un giornalista che ha fatto per tutta la vita il suo lavoro: i tre discorsi scritti nel carcere di Silivri tra giugno 2017 e febbraio 2018 e letti di fronte al procuratore che lo ha indagato e al giudice che lo ha condannato all’ergastolo aggravato. Il “fine pena mai” pronunciato a metà febbraio contro Ahmet e suo fratello, lo scrittore Mehmet Altan, la nota editorialista Nazli Ilicak e i giornalisti Fevzi Yazici, Sukru Tugrul Ozsengul e Yakup Simsek, è un ergastolo contro la libertà di espressione, una condanna sviscerata dai lunghi discorsi che Altan ha riversato sulla corte. Una contro-accusa che mette sul tavolo degli imputati i “palazzi di giustizia mattatoi del diritto” e che ha una duplice natura: la propria difesa contro un atto arbitrario, trasudante tirannia, e un’ode alla giustizia, ancora viva nonostante i colpi inferti dalla Turchia del presidente Erdogan. Con un’ironia dirompente che lascia nudo il procuratore (e il suo “mandante”), i testi sono una presa in giro dell’ottusa superficialità della bugia, della sciatteria che nell’aula di tribunale si maschera da realtà fattuale (ma senza fatti). Se non fossero le parole di un uomo condannato all’ergastolo, parrebbe di sfogliare le pagine di un romanzo distopico, un affresco kafkiano, dove la paranoia del potere si abbatte su uomini liberi con la stupidità di una legge assurda e piegata agli interessi di parte. Altan entra dentro il significato delle parole, le analizza alla luce del sistema dello Stato di diritto calpestato, inchioda sulla carta la cristallina dimostrazione dell’invenzione di crimini mai commessi, assurdamente imputati a soggetti che nulla hanno a che vedere con il reato in oggetto: il tentato golpe del luglio 2016. Il giornalista decostruisce le presunte prove, una ad una, fino ad arrivare all’apice del sistema, la natura stessa della giustizia in uno Stato moderno: il potere giudiziario, anima dello Stato e sua primaria fonte di vita nella visione dell’autore, è moribondo. E i suoi aguzzini sono lì, ai vertici del paese, responsabili di aver abbattuto la colonna portante del sistema giudiziario, la natura del giudice come garante dell’onestà e come incarnazione della fede del popolo in quell’onestà. Nell’opera di distruzione delle evanescenti prove presentate dalla procura, risibili, senza consistenza, palesemente prive di collegamento tra gli imputati e il presunto crimine, Altan giudica i giudicanti. In una rappresentazione quasi mitologica del concetto di legge, il giornalista condannato all’ergastolo si sporca le mani: della perfezione e la bellezza del concetto di giustizia, nella Turchia di oggi non restano che infezione, malattia, fetore. La giustizia si trasla nella punizione dell’”altro”, dell’oppositore, del critico. Di un uomo libero che con la sua sola esistenza svela la natura dell’autoritarismo: il potere della paura e dell’umiliazione del giusto. Studenti messicani scomparsi nel 2014: nasce la Commissione per la verità e la giustizia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 8 giugno 2018 Ci sono voluti quasi quattro anni di proteste dei familiari delle vittime e una dura accusa delle Nazioni Unite prima che un tribunale federale messicano stigmatizzasse l’operato della procura (accusata di essere priva d’indipendenza e di aver condotto indagini inadeguate) sulla sparizione forzata dei 43 studenti dell’istituto magistrale di Ayotzinapa, avvenuta la notte del 26 settembre 2014. Il tribunale federale del XIX distretto ha criticato la procura per aver torturato alcuni sospetti allo scopo di ottenere confessioni auto-incriminanti e di aver seguito sin dall’inizio un unico filone investigativo: un rapimento ad opera di bande criminali locali, conclusosi col rogo degli studenti in una discarica, escludendo indagini nei confronti della polizia federale, dell’esercito e della marina militare. Per questo, il tribunale federale ha considerato opportuno creare una Commissione d’inchiesta speciale per la verità e la giustizia, uno strumento previsto per garantire indagini adeguate su crimini di diritto internazionale quando si sospetta che detti crimini possano essere commessi da agenti dello stato o quando i tradizionali organi investigativi si dimostrano incapaci di svolgere adeguatamente il loro dovere. La Commissione d’inchiesta per la verità e la giustizia sarà composta da rappresentanti delle vittime, dell’ufficio della procura federale e della Commissione nazionale per i diritti umani (Cndh). Potranno anche aderirvi organizzazioni messicane e internazionali per i diritti umani. Il tribunale federale ha chiarito che dovranno essere i rappresentanti delle vittime e il Cndh a decidere sui filoni d’indagine da seguire e sui test da effettuare. Infine, la loro presenza sarà necessaria per convalidare ogni azione investigativa. Oltre alla creazione della Commissione d’inchiesta per la verità e la giustizia, il tribunale federale ha disposto ulteriori misure per garantire i diritti dei sospetti e delle vittime tra cui indagini rapide e imparziali sulle denunce e la tortura, il riesame delle confessioni, della legalità degli arresti e dell’ingiustificato ritardo con cui le persone arrestate sono state portate di fronte a un magistrato e la valutazione se sia stato pienamente rispettato il diritto a un’effettiva difesa.