Settemila studenti a scuola di carcere di Alice Ferretti Il Mattino di Padova, 6 giugno 2018 La testimonianza di Benedetta Tobagi all’incontro che ha concluso il percorso di quest’anno. Si è concluso ieri il progetto “Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere” con un incontro al cinema Mpx di via Bonporti, a cui hanno preso parte 500 studenti di scuole medie e superiori della città. L’iniziativa è attiva ormai da 15 anni, ma con il passare del tempo sempre più istituti hanno dato la propria adesione. “Siamo partiti nel 2003 con tre classi e un centinaio di studenti delle superiori, pionieri il Fusinato e lo Scalcerle”, racconta Ornella Favero, responsabile di Ristretti Orizzonti, il giornale redatto dai detenuti in carcere, e ideatrice del progetto con le scuole. “Quest’anno siamo arrivati a coinvolgere 7 mila studenti, di cui 4 mila sono anche entrati in carcere per alcuni incontri”. Il percorso infatti prevede incontri nelle scuole con detenuti in permesso premio o anche ex detenuti e poi un incontro all’interno del carcere. “A parlare con i ragazzi sono proprio i detenuti. Il fulcro del discorso è infatti come si arriva a commettere un reato e dunque a finire in uno stato di reclusione”, continua Ornella Favero. Queste testimonianze sono fondamentali per portare gli studenti a ragionare su quelli che sono comportamenti a rischio. “Spesso facciamo raccontare la loro storia dai detenuti che finiscono in carcere per omicidio durante una rissa, magari in discoteca, o che giravano con un coltellino in tasca pensando che mai l’avrebbero utilizzato per fare del male me che poi, trovandosi in determinate circostanze, hanno usato per compiere un reato”. Quello che colpisce molto i giovani è infatti che le persone che hanno commesso un reato dicono che mai avrebbero immaginato di poterlo compiere. “È un allenamento a pensarci prima”, sottolinea la responsabile di Ristretti Orizzonti, che ieri in occasione dell’incontro conclusivo con gli studenti ha intervistato sul palco la giornalista e scrittrice Benedetta Tobagi, figlia di Walter Tobagi, il giornalista del Corriere della Sera assassinato dai terroristi il 28 maggio 1980 a Milano. “Quando ho incontrato i detenuti del carcere di Padova l’ho fatto con l’idea di fare qualcosa di utile. Quando un tuo familiare viene ucciso è come se qualcosa dentro te muoia per sempre ed è strano ma quello che ti viene da fare è qualcosa di positivo. E così ho pensato che se quell’incontro poteva aiutare qualcuno era giusto che lo facessi”, ha detto agli studenti Benedetta Tobagi. La mattinata era iniziata con la proiezione del film “L’insulto” di Ziad Doueiri e si è conclusa con gli interventi dell’assessore al Sociale Marta Nalin, del direttore e degli operatori della Casa di reclusione, dei magistrati di sorveglianza, di insegnanti, studenti, persone detenute e persone che hanno finito di scontare la pena. “Il carcere entra a scuola”, coinvolti 7mila ragazzi: ieri l’incontro finale di Luisa Morbiato Il Gazzettino, 6 giugno 2018 Giornata conclusiva ieri del progetto “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere” che ha visto coinvolti quest’anno oltre 7000 studenti degli istituti superiori di Padova e provincia e alcune scuole medie. In alcuni istituti, come il liceo Curiel, il progetto è parte integrante dell’offerta formativa. A ospitare la giornata di chiusura il cinema Pio X che ha accolto circa 500 ragazzi, di IV e V superiore in particolare ma anche di III media, e ha visto tra gli ospiti che, dal palco hanno dialogato con i giovani, la giornalista e scrittrice Benedetta Tobagi e l’assessore Marta Nalin che ha consegnato i premi ai ragazzi che hanno prodotto i migliori elaborati nell’ambito del progetto. “Si tratta di un progetto partito 15 anni fa al quale avevano partecipato un centinaio di studenti di tre classi delle scuole superiori Fusinato e Scalcerle, ora abbiamo coinvolto 7.000 ragazzi e di questi più di 4000 sono quelli che si sono recati in carcere per incontrare i detenuti -spiega Ornella Favero di “Ristretti Orizzonti” - gli atri hanno incontrato ex detenuti o detenuti in permesso nelle loro classi. Duranti gli incontri sono i carcerati a parlare, a raccontare ai ragazzi più che la loro vita dietro le sbarre, cosa è accaduto ad un certo punto della loro vita che li ha condotti alla reclusione. E su questo punta di più il progetto perché sentire e capire le motivazioni per le quali sono stati incarcerati permette di ragionare coi giovani stessi evidenziando i comportamenti a rischio”. Molti i motivi che possono portare una persona all’arresto e poi alla condanna che priva della libertà, ad esempio l’omicidio compiuto magari durante una rissa, l’esagerare nel bere o altro nei fine settimane e tante situazioni che portano l’individuo a pensare: a me non succederà mai. “Anche i carcerati raccontano ai ragazzi che anche loro prima che accadesse pensavano a me non capiterà mai - chiude Favero - invece si deve capire che è necessario pensare prima alle conseguenze di certi comportamenti. E questa è parte importante, compresa anche da quei genitori che magari all’inizio vedevano il progetto con diffidenza: far riflettere”. Una sorta di ritorno per l’assessore Nalin, anch’ella in passato si era infatti formata partecipando al progetto con gli scout. Il “buonismo” non abita nelle patrie galere, fa bene Bonafede a voler ascoltare tutti di Stefano Anastasia* huffingtonpost.it, 6 giugno 2018 È un saggio proposito, quello del neo-ministro della giustizia Bonafede di ascoltare tutti, nessuno escluso. Se così farà, potrà avere un quadro del sistema penale e penitenziario italiano molto diverso da quello che ha ispirato il programma del governo in materia. Scoprirà che il “buonismo” non abita nelle patrie galere, che le alternative al carcere -nonostante gli ottimi risultati in termini di reinserimento sociale e di riduzione della recidiva - si sudano faticosissimamente, al punto che più della metà dei condannati detenuti sono sotto i termini per accedervi e che quasi diecimila di loro stanno scontando la loro pena in carcere fino all’ultimo giorno. E così il Ministro potrà scoprire che per tener fede agli obblighi costituzionali in materia di esecuzione delle pene e di privazione della libertà servono il concorso di diverse amministrazioni dello stato, della società civile e degli enti territoriali competenti in materia di sanità, politiche sociali, formazione professionale e inserimento lavorativo. E scoprirà che la gran parte degli istituti andrebbe rifatta da cima a fondo e che servono molte risorse umane e finanziarie. Altro che sprecarne nella progettazione di nuovi istituti che, se va bene, saranno agibili tra vent’anni. Tutto questo centinaia di operatori e studiosi, senza interessi personali e casacche di partito, l’hanno detto e scritto nell’ambito degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, e il più grave errore del nuovo governo sarebbe ora buttare a mare quel patrimonio di esperienze e di elaborazioni continuando una campagna elettorale senza fine contro un avversario immaginario. Dunque, incontri e ascolti, il Ministro, prima di mettere mano all’attuazione del programma di governo: potrebbero venirgli idee nuove. Se crede, poi, dopo aver sentito il Garante Nazionale, i dirigenti dell’amministrazione penitenziaria, la magistratura di sorveglianza e l’avvocatura, i sindacati, il personale penitenziario e i volontari, potrà ascoltare anche direttamente i detenuti, e infine magari anche noi, garanti regionali e locali, che - per atto di generosità istituzionale delle autonomie che ci hanno nominato e per spirito di sacrificio personale - passiamo le nostre giornate a cercare di individuare e compensare le disfunzioni del sistema. Buon lavoro, caro Ministro, e buona fortuna a tutti noi! *Coordinatore dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Garante per le Regioni Lazio e Umbria “Riforma necessaria, il governo la valuti con grande serenità” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 giugno 2018 Appello del presidente del Cnf Andrea Mascherin al neo Ministro della Giustizia. “Il nuovo ordinamento penitenziario ha richiesto 3 anni di lavoro, attraverso l’aiuto di tutti gli esperti del settore il 70% dei detenuti ammessi alle misure alternative non sono recidivi”. “È necessario che il governo si soffermi sui progetti su cui già hanno iniziato a lavorare come ad esempio l’ordinamento penitenziario, che è stato costruito con una riforma che ha richiesto 3 anni, attraverso l’aiuto di tutti gli esperti del settore”, ha detto l’avvocato Andrea Mascherin, presidente del Consiglio Nazionale Forense, intervenendo ai microfoni di “Legge o Giustizia” su Radio Cusano Campus per parlare delle prospettive in tema di giustizia del nuovo governo. “Il 70% dei detenuti ammessi alle misure alternative non sono recidivi - ha detto Mascherin, mentre il 70 % di quelli che fanno solo carcere, invece, tornano a commettere reati perché il carcere è criminogeno. Questo vale sia l’Italia che per l’estero. Recuperare vuol dire per la società avere anche dei soggetti economicamente attivi, e che quindi non pesano sulle casse dello Stato perché non devono essere mantenuti in carcere”. Alla domanda di cosa si aspetta dal nuovo guardasigilli Alfonso Bonafede, il presidente del Cnf ha riposto che non si aspetta un occhio di riguardo dal ministro in quanto avvocato nei confronti dell’avvocatura, però “essendo un uomo di diritto, che ha nell’esercizio della propria professione come funzione la tutela del diritto e dei diritti - sottolinea Mascherin -, mi aspetto che si adoperi per riportare al centro l’idea di una giurisdizione al servizio dei cittadini, senza proclami e proposte inattuabili e senza soluzioni poco credibili”. Continua il presidente del Consiglio Nazionale Forense sempre ai microfoni di Radio Cusano Campus: “Bonafede è una persona ragionevole e con il ruolo di ministro il senso responsabilità aumenta. Bisogna investire in giustizia, e questo un avvocato lo sa e lo sa anche Bonafede”. Mascherin conclude con un augurio: “Mi auguro, quindi, che da uomo di legge si comporti come da esperienza maturata. Il Consiglio nazionale forense, che per legge è consulente del ministro della Giustizia, è sempre pronto a dare il supporto critico e costruttivo e positivo necessario”. I due grossi temi che il neo ministro della Giustizia trova nell’immediato sul suo tavolo è la riforma delle intercettazioni e quella dell’ordinamento penitenziario. Quest’ultima avrebbe dovuto rappresentare il coronamento del processo messo in moto dall’ex guardasigilli Orlando. Invece è rimasta al palo prima delle elezioni perché poco appetibile in campagna elettorale, ma anche dopo visto che il governo scorso ha rinunciato a dare il via libera nonostante gli appelli delle associazioni, del Partito Radicale, del Garante nazionale dei detenuti, dell’avvocatura e i tentativi di sblocco dello stesso Orlando. Il cuore della riforma, un decreto attuativo, è rappresentato principalmente dall’estensione delle misure alternative al carcere, in particolare l’ allargamento dell’affidamento in prova a chi ha una pena residua fino a 4 anni, ovviamente sempre a discrezione del magistrato di sorveglianza. Ma la riforma è esplicitamente osteggiata dal contratto sottoscritto dal M5S e Lega. Ora vedremo cosa decideranno di fare le nuove commissioni giustizia visto che volente o no, si ritroveranno sul tavolo il decreto attuativo. Va detto che a metà aprile, fu il presidente della Camera Roberto Fico, M5S, a chiedere una riflessione per valutare di riprendere l’esame della riforma. Verrà disatteso l’intero impianto del decreto, oppure tenteranno di trovare una via mediana prevedendo correttivi? Nel frattempo un appello arriva sempre dal Consiglio nazionale forense: la riforma è necessaria ed è importante che il governo la valuti con “grande serenità”, dice il presidente Andrea Mascherin. Il carcere sarà sempre più chiuso di Claudio Cerasa Il Foglio, 6 giugno 2018 Il nuovo governo e la riforma penitenziaria che finirà abortita il 3 agosto. E pensare che era stato addirittura il neo presidente della Camera Roberto Fico, a metà aprile, a suggerire alla conferenza dei Capigruppo l’eventualità di inserire il decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario tra le materie della commissione speciale, per stringere i tempi prima dell’insediamento della nuova commissione Giustizia e in attesa della formazione del governo. Ma forse non gli avevano ancora spiegato di quale nuovo stato di polizia (penitenziaria) era stato eletto Terza carica. Un mese dopo, era toccato all’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando ammettere che non ci sarebbe stato nessun decreto per approvare la riforma in via definitiva nell’ultimo Consiglio dei ministri del governo uscente, lo scorso 18 maggio. Ora in Via Arenula è arrivato l’avvocato del popolo Alfonso Bonafede, ancora non ha preso decisioni in proposito, ma come la pensi su quella riforma “nefasta” lo ha già chiarito. E poiché la delega all’esecutivo scade il prossimo 3 agosto, non è difficile immaginare che sarà lasciata scadere, e “pace sepulto”. Tra gli aspetti della riforma, non propriamente rivoluzionaria, cera l’ampliamento del ricorso alle misure alternative alla detenzione con la possibilità di accedervi anche per i detenuti con un residuo di pena fino a quattro anni, ma senza automatismi. Ma ora tra i sostenitori di quella abortita riforma gira addirittura un ragionamento sconsolato: meglio che il decreto decada, e tutto resti per ora com’è, piuttosto che il nuovo governo ci metta mano e lo peggiori. Meglio la vecchia chiave arrugginita delle galere, che sostituirla con una nuova a tripla mandata. Stato di diritto. Giustizia riparativa, pochi fondi per la rieducazione Avvenire, 6 giugno 2018 Costano 137 euro al giorno, ma “appena 95 centesimi vanno per la rieducazione”. Le cifre riferite al costo dei detenuti sono impietose e le ricorda padre Francesco Occhetta, che fa parte del Collegio degli scrittori di Civiltà Cattolica, aprendo ieri l’incontro su “La giustizia riparativa. Realizzazioni e prospettive”, organizzato dall’associazione “Vittorio Bachelet” nella sala che ne porta il nome al Consiglio superiore della magistratura, dopo l’introduzione di Renato Balduzzi, presidente dell’associazione, i saluti di Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm, e prima degli interventi di Celestina Tinelli del Consiglio nazionale forense e del presidente aggiunto della Cassazione Domenico Carcano. Ancora padre Occhetta: “Fra le mille persone che ogni giorno entrano ed escono dalle nostre carceri, il 69 per cento cade nella recidiva”. Perciò, con le parole di Claudia Mazzucato, docente alla Cattolica di Milano, è necessaria “la giustizia dell’incontro, riparativa, non riparatoria”. Una giustizia che “ricucia”, che si realizzi “mettendo “scandalosamente” insieme reo, vittima e comunità”. Ed è riparativo solo “l’incontro che nasce volontariamente”. Cita proprio l’assassinio di Vittorio Bachelet e quanto disse suo figlio Giovanni al funerale del padre: “Mai la vendetta, sempre la vita, mai la richiesta della morte di qualcuno”. Una frase - sottolinea Mazzucato - “emblematica di cosa sia la giustizia riparativa”. Una giustizia tanto “alternativa al populismo penale” - aveva spiegato Balduzzi, quanto “modello di creatività giuridica”. Per il quale, tornando a padre Occhetta, bisogna smettere di considerare “le carceri come discariche sociali”, bisogna “dare giustizia alle vittime, non “giustiziare” il colpevole”. La punizione come riscatto di Lucia Annunziata huffingtonpost.it, 6 giugno 2018 C’è molta Russia nel discorso del premier Conte: è l’idea della delazione come pietra angolare dei regimi autoritari. Il senso di una Giustizia vendicativa come compensazione per quello che non si farà economicamente. Molto opportunamente il discorso del nuovo premier Giuseppe Conte, nelle prime battute (pagina 4), scomoda Dostoevskij e Puskin, evocando una definizione del populismo come “attitudine della classe dirigente ad ascoltare i bisogni della gente”. Si tratta di un celebre discorso fatto nel 1880 per l’inaugurazione del monumento a Puskin a Mosca in cui Fyodor Dostoevskij, dice dello scrittore (per altro, un sanguemisto di pelle scura e capelli ricci) “prima o dopo di lui nessun scrittore russo si è mai unito, così intimamente e fraternamente, con il suo popolo”. Opportunamente, dicevo, perché c’è molta Russia in questo discorso di 24 pagine con cui si inaugura la nuova legislatura. E non parlo della ovvia simpatia per la Russia attuale, nazione cui va l’unico vero, affettuoso, riconoscimento della nostra azione di politica estera. Sotto il capitolo Scenari Internazionali, a pagina 9, dopo il paio di righe iniziale in cui si ribadisce “la convinta appartenenza del nostro paese all’Alleanza Atlantica e agli Usa come alleato privilegiato” è proprio nei confronti del paese di Putin che si delinea la priorità della nostra politica estera: “Saremo fautori di una apertura alla Russia, che ha consolidato negli anni il suo ruolo nelle varie crisi geopolitiche. Ci faremo promotori di una revisione del sistema delle sanzioni a partire da quelle che rischiano di mortificare la società civile russa”. C’è molta Russia in questo discorso, dicevo, soprattutto come struttura intellettuale di lettura del potere e del suo cambiamento. Una visione pessimista e trionfante insieme, nella definizione dell’umiltà del cambiamento che arriva come “la fine dei vecchi privilegi e incrostazioni di potere” (pagina 5), nella sua rottura con le prassi dei Satrapi del passato, e l’umiltà del presente potere che nasce: “Abbiamo apportato un cambiamento radicale rispetto a prassi che prevedevano valutazioni scambiate nel chiuso di conciliaboli tra leader politici, per lo più incentrate sulla ripartizione dei ruoli personali, noi inauguriamo una stagione nuova, non nascondendo le difficoltà e le rinunce reciproche nel segno della trasparenza e della chiarezza nei confronti degli elettori” (pagina 3). È una lettura consapevole, quella del premier, della rottura con gli schemi passata (destra e sinistra che siano, dice) per mettere al centro il cittadino, “il riconoscimento dei diritti e delle libertà fondamentali della persona. Le soluzioni per questi torti subiti sono, nel discorso, un lungo elenco di cose a venire: redditi di cittadinanza, pensioni minime, e tutto il repertorio delle promesse. Ma dal momento che le coperture di tutto questo sono incerte, o, forse, non è il caso di parlare di economica in dettaglio in un discorso di investitura, alla fine l’unico strumento effettivo, l’unica azione, l’unico grimaldello che viene offerto alla realizzazione del cambiamento è l’applicazione di un vigoroso uso della giustizia. E qui si c’è molta Russia - nell’idea che una nuova era (o anche questa di ora, se dobbiamo guardare all’attuale Mosca) nasce sotto l’egida della retorica della punizione come trionfo del diritto degli umili. La parte sulla giustizia è in effetti la più articolata delle 24 pagine, definita in una lunga lista di interventi la cui drasticità, tipo il Daspo ai corrotti, la chiusura del business della solidarietà (sic!), gli agenti sotto copertura, sono lo strumento della mano dello Stato (e forse di Dio) non solo per riequilibrare i torti (come giustizia vuole) ma anche per infliggere punizioni finali a chi ha sbagliato. Il cambiamento, si legge a pagina 6, è “una giustizia rapida ed efficiente e dalla parte dei cittadini, con nuovi strumenti come la class action, l’equo indennizzo per le vittime di reati violenti, il potenziamento della legittima difesa. Metteremo fine al business dell’immigrazione, cresciuto a dismisura sotto il mantello di una finta solidarietà, combatteremo la corruzione con metodi innovativi come il “Daspo” ai corrotti e l’introduzione dell’agente sotto copertura”. Continua il premier in merito agli strumenti con cui saranno risarciti i torti ai cittadini: “la semplificazione e la riduzione dei processi, l’abbassamento dei costi di accesso alla giustizia, il rafforzamento delle garanzie di tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini. Inaspriremo le pene per il reato di violenza sessuale. Assicureremo la certezza della pena onde evitare che i cittadini onesti perdano fiducia nella giustizia. Aumenteremo il numero degli istituti penitenziari. Riformeremo anche la prescrizione che deve essere restituita alla sua funzione originaria, non più ridotta a espediente per sottrarsi al processo” (pagina 12). Il reato si espande, sotto questo anelito di giustizia. Ad esempio sul conflitto di interessi: “È un tarlo che mina il nostro sistema economico e sociale fin nelle sue radici, e impedisce che il suo sviluppo avvenga nel rispetto della legalità e secondo le regole della libera competizione. Soggetti che sono istituzionalmente investiti dall’obiettivo di perseguire interessi collettivi e che dovrebbero improntare le loro iniziative a una logica imparziale, in realtà vengono sovente sorpresi a perseguire il proprio tornaconto personale. Rafforzeremo la normativa attuale in modo da estendere le ipotesi di conflitto fino a ricomprendervi qualsiasi utilità, anche indiretta, che l’agente possa ricavare dalla propria posizione o dalla propria iniziativa. Occorre rafforzare inoltre le garanzie e i presidi utili a prevenire l’insorgenza di potenziali conflitti di interessi”. Insomma, mi pare si possa dire che la definizione di interesse personale è talmente ampia e vaga che ognuno di noi ne sarà portatore (e dunque denunciabile) anche senza saperlo. All’elenco manca solo “the Walk of shame”. La punizione pubblica dei peccatori. Persino la flat tax viene inquadrata in una questione di peccato e punizione. “Le grandi società che operano nello spazio transazionale riescono a nascondere le loro ricchezze nei paradisi artificiali (sic), mentre le piccole aziende e i piccoli contribuenti rimangono schiacciati da un’elevata pressione fiscale” (pagina 16). E la stessa flat tax diviene il modo per evitare il reato: “Solo così si potrà pervenire a una drastica riduzione dell’elusione e dell’evasione fiscale”...mentre per i grandi evasori occorre inasprire l’esistente quadro sanzionatorio amministrativo e penale al fine di assicurare il carcere vero per I grandi evasori”, (pagina 16). Di tutto il discorso, questa parte è la più rilevante. Costa niente e sembra fatta apposta per lanciare nelle fauci degli scontenti lo spettacolo delle esemplari punizioni. La parte che più lascia perplessi è una delle proposte buttate lì: la riproposizione di quella che non si può definire altrimenti che “delazione”. Il mezzo più antico, ma anche il più efficace, e il più pericoloso: “Saranno maggiormente tutelati coloro che dal proprio luogo di lavoro, sia esso pubblico o privato, denunceranno comportamenti criminosi compiuti all’interno dei propri uffici”(pagina 12). Come altro chiamarla se non delazione, un atto di disgustosa incitazione alla divisione proprio fra quei cittadini della cui integrità ci si vuole occupare. La delazione è nella storia del Novecento (per non andare troppo lontano) la pietra angolare della costruzione di tutti i regimi autoritari. In Russia, appunto, ma anche in Germania, e in Italia tanto per limitarci agli esempi peggiori. Posso qui fare una citazione visto che il nostro premier non vi si sottrae: in merito al rapporto fra autoritarismo e regimi violenti andrebbero riletti i romanzi dello sfortunato scrittore Tedesco Hans Fallada in cui si racconta spesso come la povera vita dei tedeschi venisse sventrata da odi e invidie private che diventavano nella delazione un modo per sopravvivere ma anche per accettare un sistema di controllo. È troppo scomodare la Russia, la delazione, la punizione, la Giustizia con la maiuscola? È questa citazione un altro dei già ampiamente denunciati bizantinismi in cui si sta rifugiando la sinistra (alla cui sfera culturale appartengo)? Ma si pensi quello che si vuole, rimane importante capire l’ispirazione culturale del nuovo governo, che si vanta di essere appunto così nuovo da non avere precedenti. Conte racconta un paese totalmente spaccato in una maggioranza destituita di diritti, rovinata negli anni da abusi e privilegi dei poteri dei pochi contro i molti. Un paese di ingiustizia e oppressione. Ed è questa una fotografia di chi siamo su cui è difficile essere in disaccordo. Una narrazione che ha chiaramente portato a un consenso di voti e di emozioni forte come poche volte nella storia della Repubblica. Un voto che bisogna assolutamente rispettare. E esigenze cui bisogna assolutamente rispondere. Ma lo strumento di una vigorosa giustizia, contiene il forte rischio di un vigoroso esercizio del controllo e della pena: la punizione come trionfo finale della rettitudine. Che poi spesso nella storia abbiamo visto trasmutarsi in un sistema di controllo e di paura, che in nome dei Molti ha dato il potere supremo di nuovo ai Pochi. La storia non nasce oggi, con Conte o con M5s o con la Lega. Quel che rimane nelle nostre memorie costituisce la differenza, almeno per quel che mi riguarda, con questo nuovo potere che nasce. Differenza non negoziabile. L’orgoglio populista di Liana Milella La Repubblica, 6 giugno 2018 Rivendica di essere populista e ne teorizza pure il concetto. Garantisce il “cambiamento” una decina di volte. Incassa una solida fiducia al Senato. E a sera il premier-populista Giuseppe Conte s’è lasciato alle spalle “l’emozione” della mattina, evaporata grazie a una sessantina di applausi del fronte M5S-Lega. Ora il professore di diritto che continua a definirsi “l’avvocato di tutti gli italiani” punta solo, dopo aver superato oggi lo scoglio della Camera, a “mettersi al lavoro”, partendo subito per il G7 in Canada. Non c’è suspense nel voto del Senato, nei 171 sì ci sono anche quelli dei 4 grillini espulsi. Scontati i 117 no del Pd e dei berlusconiani, e pure i 25 astenuti di Fratelli d’Italia. Ma la “sua” maggioranza lo ha seguito come fosse un politico consumato, nelle 15 pagine del discorso iniziale e nella replica a sera, dopo una giornata trascorsa a prendere appunti, quando la sfida è più difficile perché parla a braccio. Ma supera l’esame, almeno nella sua maggioranza. I vice premier Di Maio e Salvini, il primo soprattutto, assentono spesso. Giulia Bongiorno batte le mani quando Conte chiede pene più severe contro la violenza sessuale. Le frasi a effetto non mancano. Come la difesa del contratto di governo tra grillini e leghisti. A chi lo chiama “inciucio”, risponde: “La trasparenza adesso diventa inciucio?”. E lo definisce all’opposto, rivendicando di averci messo mano, “un fatto di trasparenza e di chiarezza, una rottura delle prassi istituzionali, su cui ragioneranno i costituzionalisti”. Fornisce la sua definizione di populismo: “Se è l’attitudine della classe dirigente ad ascoltare i bisogni della gente, se anti sistema significa mirare a introdurre un nuovo sistema che rimuova vecchi privilegi e incrostazioni di potere”, allora Conte e il suo governo sono populisti. Il contratto diventa il filo rosso del suo programma populista del cambiamento. In cui, come notano i critici, si annunciano riforme, ma non si parla mai di come sostenerle economicamente, quali fondi spostare da una parte all’altra. Tutto sembra diventare possibile, la flat tax, e via al reddito di cittadinanza, ma le cifre sono di là da venire. “Ci sarà tempo e luogo” spiegano i suoi, “queste sono le dichiarazioni programmatiche”. Che in realtà ripropongono con le parole di Conte il contratto di programma tra M5S e Lega. Il premier-professore mette le mani avanti sugli equilibri internazionali, gli Usa “alleato privilegiato”, ma “apertura” alla Russia di Putin che “ha consolidato il suo ruolo internazionale” con l’obiettivo di “rivedere il sistema delle sanzioni”. Netto il no “all’uscita dall’euro che non è mai stata in discussione, non è nel contratto, non è un obiettivo che ci proponiamo di perseguire”. “L’Europa è la nostra casa” dice Conte, ma avverte che in quanto Paese “fondatore” l’Italia chiederà di rinegoziare la politica sull’immigrazione. Quello che chiama “il vento del cambiamento” richiede “il reddito di cittadinanza, un salario minimo orario, una pensione dignitosa”. E nell’ordine, “la fine del business dell’immigrazione, il Daspo per i corrotti e gli agenti sotto copertura, la prescrizione bloccata”. Ovviamente una legge sul conflitto d’interessi. Si guadagna un super applauso e più di un brusio quando lancia lo scontato slogan “fuori la mafia dallo Stato”. Elenca il taglio di vitalizi e pensioni ai parlamentari, lo stop alle pensioni d’oro con tagli agli assegni oltre i 5mila euro. Con tre giorni di ritardo rivolge “un commosso pensiero” Sacko Soumalia, il sindacalista dei braccianti ucciso in Calabria. Chiude: “Non siamo e non saremo mai razzisti”. Giustizia: buoni propositi ma ricette da rivedere di Carlo Nordio Il Gazzettino, 6 giugno 2018 A una prima lettura, il programma sulla Giustizia esposto dal Presidente Conte sembra mitigare le istanze estreme che caratterizzavano il cosiddetto contratto di governo. Sulla legittima difesa, si parla solo di generico potenziamento; sulla prescrizione, di una sua restituzione alla funzione originaria; sulla certezza della pena, di un suo contemperamento con lo scopo riabilitativo. Insomma nulla di rivoluzionario: non la licenza di sparare sempre e comunque in casa propria, non il carcere per tutti; non un eterno calvario per chi cada nella rete della legge penale. Accanto a queste apparenti novità, le usuali aspirazioni predicate da tutti i governi precedenti: processi più rapidi, giustizia più snella, risarcimento per le vittime, lotta alla mafia e alla corruzione. Un programma che presenta una continuità di propositi e che, temiamo, produrrà altrettante delusioni, per alcune ragioni che provo a spiegare. Primo. Processi celeri. La lentezza della nostra giustizia, soprattutto di quella penale, è determinata da un fattore molto semplice: la disparità, o meglio l’incompatibilità tra i mezzi disponibili e i fini perseguiti. I mezzi sono quelli noti: pochi magistrati, ancor meno collaboratori, e strutture antiquate. I fini sono quelli di perseguire tutti i reati, con un’azione penale che è obbligatoria. Quindi: o si aumentano i mezzi, ma questo è impossibile perché non ci sono risorse, e comunque l’arruolamento di giudici e ausiliari capaci richiede alcuni anni di formazione. Oppure si diminuiscono i reati con una radicale depenalizzazione: ma il governo pare pensarla in modo opposto, o così almeno si legge nel contratto. O infine si rende discrezionale l’azione penale, ma qui occorrerebbe cambiare la Costituzione. Se il Presidente e il ministro della Giustizia hanno altri suggerimenti, che non siano la solita litania sulla gestione manageriale degli uffici, mi piacerebbe conoscerli. Secondo. La certezza della pena. La pena, per esser davvero certa ed equa, deve essere irrogata in modo corretto e con un processo rapido perché una sanzione inflitta a distanza di anni è sempre ingiusta: e questo ci riporterebbe al problema precedente. In realtà c’è dell’altro. Pena certa non significa sempre e comunque la galera: significa una sanzione applicata in modo concreto. Ad esempio, se oggi un vandalo imbratta un muro, rischia qualche mese di carcere per danneggiamento. Nella pratica, se vien preso, il giudice gli infligge trenta giorni con la condizionale: cioè viene liberato, e buonanotte a tutti. La pena certa significherebbe che il vandalo viene condannato a un mese di lavaggio degli edifici sporchi, lavoro da cominciare il giorno dopo la sentenza. Con l’avviso che se il condannato non ottempera l’obbligo, in galera ci finisce davvero e senza sconti. Anche qui, ci piacerebbe sapere. Terzo. La prescrizione. La sua funzione originaria non è più solo quella del codice mussoliniano di estinguere un reato che lo Stato non ha più interesse a punire, ma anche quella, prevista dalla Costituzione, di garantire all’imputato un processo di durata ragionevole. Il termine di otto anni (o dieci, o dodici) può anche essere troppo breve per estinguere l’interesse a punire un reato grave; ma è già troppo lungo per un disgraziato sotto inchiesta, che magari alla fine venga riconosciuto innocente. Il rimedio è noto. Basterebbe far decorrere i termini non dal momento della commissione del reato, ma da quello in cui il cittadino finisce sulla graticola giudiziaria. Aspettiamo. Ed ora il quesito finale. Nella (sacrosanta) lotta alla corruzione si vuole introdurre la figura dell’agente provocatore: un ruolo ambiguo e sciagurato, che da noi avrebbe conseguenze funeste. La risposta che si dà è che negli Stati Uniti funziona. Rispondo: credo bene! Funziona perché gli Usa hanno un sistema giudiziario non solo diverso, ma opposto al nostro. I giudici sono nominati dai Governatori, o dal Presidente, e comunque non giudicano nulla, perché il verdetto lo emette la giuria popolare, composta da cittadini sorteggiati e ricusabili. Nel senso che l’imputato può - entro un certo numero - farli estromettere, senza nemmeno spiegare il perché. Inoltre l’azione penale è discrezionale e ritrattabile, cioè può esser ritirata dall’accusatore per ragioni sue proprie. Ma l’aspetto più interessante è un altro: che il Pubblico Ministero, cioè il District Attorney o Public Prosecutor, è eletto dal popolo, e ha una responsabilità politica. Se fa un malo uso dell’agente provocatore, non solo viene cacciato via, ma può anche esser chiamato risarcire il danno. Da noi, come si sa, il pm è irresponsabile, e spesso quando sbaglia un’indagine viene promosso. Orbene, un sistema giudiziario si deve assumere nella sua coerente sistematicità, altrimenti si sfascia in mano, come è accaduto da noi con il processo alla Perry Mason, quando si è voluto prendere una Ferrari con il motore della cinquecento, senza benzina per farla correre e senza piloti che la sapessero guidare. È dunque disposto, il Governo, a proporre al Parlamento il sistema americano, e soprattutto a rendere elettivo, il Pubblico Ministero? Il Ministro Salvini probabilmente lo è. Ci piacerebbe sentire gli altri. “Garanzie” e manette, una giustizia double face di Errico Novi Il Dubbio, 6 giugno 2018 Su processi e carcere il discorso del neo premier è pieno di contraddizioni. Sarà difficile sradicare dalla visione del premier Giuseppe Conte e dei due partiti di maggioranza l’idea che la fiducia dei cittadini nella giustizia vada di pari passo con la riduzione nelle garanzie. E che sarà una dialettica impervia lo dimostrano proprio i passaggi dedicati dal capo del governo, nel suo discorso alle Camere, a processi e carcere. Dice testualmente: “Vogliamo ricostruire il rapporto di fiducia con i cittadini: non è venuta meno la domanda di giustizia ma i processi costano e durano troppo a lungo”. Benissimo: e allora perché promette di essere fedele al “contratto” di governo anche sulla prescrizione, quando assicura “la riformeremo” perché l’istituto va “restituito alla sua funzione originaria”? Perché, considerato che il criterio con cui la nuova maggioranza pensa di rivedere la prescrizione è quello di renderla inefficace già con la richiesta di rinvio a giudizio? In che modo può essere strumento di garanzia un processo che si dice di voler rendere “rapido” ma che con quella modifica potrebbe essere eterno? E ancora: Conte sciorina obiettivi quali “la semplificazione e riduzione dei processi, l’abbassamento dei costi di accesso alla giustizia” e appunto “il rafforzamento delle garanzie di tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini”. Tutti pienamente condivisibili. Ma come si coniuga il desiderio di tutelare i cittadini, di preservare il sistema di garanzie a cui sovrintende la Carta costituzionale, se nello stesso tempo si pensa da introdurre strumenti come “il Daspo ai corrotti”, evocato ancora dal premier e velato da un’evidente ombra di incostituzionalità? O ancora, come è possibile tenere insieme una simile idea di giustizia che “riconquisti la fiducia” degli italiani e poi ricorrere a tecniche che proprio la fiducia nella correttezza dello Stato rischiano di minare, come “l’introduzione dell’agente sotto copertura”, che nella corruzione evidentemente è “provocatore (l’infiltrato esiste già) e che pure Conte non si è guardato dall’evocare? Ecco, in questi interrogativi c’è tutto il rebus della giustizia gialloverde. Una tensione che a guardarla pare insostenibile. Da una parte l’idea “popolare”, dall’altra la minaccia allo Stato di diritto. Un’amministrazione della giustizia che dovrebbe essere nello stesso tempo amica e tiranna. Ma appunto, Conte più di chiunque, persino più degli stessi Salvini e Di Maio, ieri è parso assolutamente sicuro di voler restare prigioniero di quell’aporia. Certo che sia possibile essere attenti ai bisogni delle persone proprio attraverso la compressione dei diritti di alcune di loro. Dei migranti, ma anche dei reclusi nelle carceri. Ai quali, anche dalle parole del presidente del Consiglio, non sembrerebbe restare che una flebile speranza di veder salvata almeno parte della riforma penitenziaria. Conte parla di “semplificazione e riduzione dei processi”. Eppure nel “contratto” c’è un passaggio che mette nel mirino diversi provvedimenti varati dall’ex guardasigilli Andrea Orlando e rivolti proprio alla deflazione del carico processuale: a cominciare dalla norma sull’archiviazione per tenuità del fatto e dall’idea di eliminare per alcuni gravi reati l’accesso ai riti alternativi. Novità che non piacerebbero neppure ai magistrati, ai quali pure il neo guardasigilli Alfonso Bonafede guarda con attenzione per i nuovi ruoli chiave di via Arenula. “Ove necessario”, è il passaggio testuale del discorso di Conte sul carcere, “aumenteremo il numero di istituti penitenziari anche al fine di assicurare migliori condizioni alle persone detenute, ferma restando la funzione riabilitativa costituzionalmente prevista per la pena, che impone di individuare adeguati percorsi formativi e lavorativi”. Sono parole che riprendono un inciso inserito in extremis nel “contratto”, con cui si è cercato di bilanciare il chiaro stop alle misure alternative rimaste sospese nel decreto di Orlando con una qualche apertura almeno sul “lavoro” dei detenuti. Ma il riferimento pare a un lavoro all’interno degli istituti e non all’esterno, soluzione meno efficace in termini di recidiva e difficilissima da realizzare innanzitutto sul piano dei costi. Che però su questo aspetto ci sia un filo di esitazione, in Conte e nello stesso Bonafede, pare segnalato dall’autodifesa un po’ nervosa (una delle poche) esibite dal presidente del Consiglio quando ha esclamato: “Ci accusate di giustizialismo? La certezza della pena è giustizialismo?”. E poi dice che sulla stessa prescrizione si devono “dosare gli equilibri”. Ci sono altri cavalli di battaglia: il più importante è nell’idea di ridurre i costi, riportata anche nel “contratto”, a partire dalla riduzione del contributo unificato. E ancora in “strumenti” come “la class action e l’equo indennizzo per le vittime di reati violenti”. Fino al “potenziamento della legittima difesa”. Da una parte proteggere i deboli, dall’altra armare i privati e incoraggiarli a sparare per difendersi. Una strana ispirazione popolare Il Daspo ai corrotti e la difesa a rischio di Massimo Adinolfi Il Mattino, 6 giugno 2018 Prima ancora di occuparsi di specifici temi, il premier Conte ha voluto spiegare, al Senato, perché il governo da lui presieduto sarà il governo del cambiamento. E accanto alle questioni economiche, ai diritti sociali e alla sicurezza, ha posto i temi della giustizia. A ragion veduta: se l’Italia avesse, soprattutto in sede civile, una giustizia efficiente come quella di altri paesi europei, il cambiamento sarebbe tangibile, e ne beneficerebbero cittadini e imprese. Il passaggio riservato verso la fine del discorso al diritto fallimentare - appena riformato, ma con deleghe ancora da attuare - lascia ben sperare. Ma il Presidente del Consiglio non ha posto in premessa i nodi della giustizia civile, bensì quelli della giustizia penale, e più precisamente ha insistito sulla lotta alla corruzione. Che sarà combattuta, ha spiegato, “con metodi innovativi come il Daspo ai corrotti e con l’introduzione dell’agente sotto copertura”. Ora, che su questa materia vi sia un generale e diffuso consenso e che una delle forze politiche di maggioranza, i Cinque Stelle, ne abbia fatto un cavallo di battaglia dal quale non hanno alcuna intenzione di scendere, è fuori discussione. Se il governo non ponesse innanzi a tutto l’opera di pulizia promessa da anni a un elettorato sempre più convinto del marciume della politica nazionale, tradirebbe davvero aspettative assai diffuse. Ma la giustizia penale è materia delicatissima, nel riformare la quale inseguire il plauso dell’opinione pubblica non è affatto garanzia di equilibrio-parola che per fortuna il premier non ha mancato di usare più volte, e che sarebbe importante avesse presente anche quando proverà ad inasprire la legislazione penale corrente. Conte, del resto, è uomo di legge, è avvocato, e come avvocato capisce bene che cosa significhi toccare diritti e garanzie. Per la verità, avvocati, e avvocati del popolo, erano anche fior di giacobini: ma non è da loro che, in tema di giustizia, converrà prendere spunto. Per esempio: il “Daspo” ai corrotti. È presto per capire quale fisionomia avrà in concreto, ma intanto: il Daspo è una misura amministrativa. Passerà pure, per la sua convalida, sulla scrivania di qualche giudice, ma in pratica significa che può piovere sul capo del presunto (soltanto presunto) corrotto senza che questi possa avvalersi di tutte le garanzie difensive, vedendosi in compenso rovinata la reputazione ben prima del processo. Questa idea che la giustizia penale funziona meglio e più speditamente quanto più spoglia i soggetti del vestito dei diritti e lo consegna nudo nelle mani dell’autorità non appartiene più alla nostra tradizione giuridica, e sarebbe bene che non vi entrasse di nuovo. Se si applica il Daspo in certi casi limitati (tipicamente, nei confronti degli ultras) è per non trattare tutti i cittadini come ultras, o peggio gli uffici pubblici come stadi. Son cose diverse, spazi diversi, soggetti diversi e interessi pubblici diversi. Anche sull’agente sotto copertura è lecito nutrire più di una perplessità. Se ne può estendere l’utilizzo, ma senza un quadro molto, ma molto rigoroso di condizioni, vincoli e garanzie, rischia di diventare uno strumento non di giustizia ma di arbitrio. Lo è stato, in passato, dentro regimi politici non democratici: noi però dobbiamo lottare contro la corruzione, non usurare il quadro ordinamentale dei diritti e delle garanzie. Ne vale la pena mettere a repentaglio beni costituzionali per adottare provvedimenti in ragione della loro valenza fortemente simbolica, a prescindere cioè dalla loro efficacia e dalla loro effettiva azionabilità. Il premier ha ben detto che non è populismo ascoltare la gente. Ma lo è far fare le leggi alla gente. In Costituzione c’è scritto che la Costituzione è amministrata in nome del popolo. Ma appunto: in nome, non dal popolo. Mantenere una certa distanza fra l’ideale della giustizia, la sua amministrazione egli umori popolari è essenziale per non considerare indagini e processi come antiche ordalie. Penalisti italiani: pessimo discorso di Conte, siamo preoccupati Agenpress, 6 giugno 2018 Il premier Giuseppe Conte “ ha detto che intende rivedere la prescrizione, ma questo allungherà i processi. E con l’aumento delle pene si cerca di ottenere un consenso facile”. Lo ha detto Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione camere penali italiane, che definisce “pessimo” il discorso del premier sulla giustizia. Per questo si dicono “preoccupati”, perché “allungando la prescrizione o sospendendola in primo grado, avremo solo persone sotto scacco, per 20-25 anni sotto il potere di una Procura e questo è totalmente in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo. Se questo è cambiamento, guarda al passato”. “Sulla giustizia un discorso pessimo, siamo preoccupati: il premier si era definito “avvocato del popolo”, ma se le proposte sono l’aumento delle pene, nuove carceri e processi più lunghi, sono ricette vecchie che guardano al passato, non al futuro, e che non servono”. E ancora “prospettando un aumento delle pene per determinati reati, si tenta di ottenere un consenso facile: inasprire le pene non è un deterrente”. Lo stesso vale per il Daspo ai corrotti e l’agente sotto copertura, “una ricetta mutuata dall’ex presidente dell’Anm, Davigo, come altri spunti sulla giustizia inseriti anche nel ‘contratto’” M5S-Lega. Migliucci si dice contrario alle costruzioni di nuove carceri, perché non serve a nulla. I dati dicono che chi viene ammesso a pene alternative non commette nuovi reati, chi sconta la pena solo in carcere, poi torna a delinquere con guasti sia sotto il profilo economico, sia per la sicurezza”. Contrario anche a potenziare la legittima difesa, perché è come se “dallo Stato arrivasse l’induzione a commettere un reato, un punto su cui si era espressa negativamente anche l’Anm”. Cannabis, a Trento una sentenza storica di Fabio Valcanover Il Manifesto, 6 giugno 2018 Il giudice riconosce che “l’attività di coltivazione e detenzione era priva di qualsiasi finalità di spaccio, sicché difetta un elemento costitutivo della fattispecie, con conseguente assoluzione perché il fatto non sussiste”. La sentenza interviene su una vicenda (una delle tante) relativa alla coltivazione di piante di cannabis. Coltivazione domestica, accertata a seguito di una perquisizione avvenuta nell’agosto 2016. Si trattava di una ventina di piante con discreto contenuto di Thc; già pienamente sviluppate. Niente quindi a che vedere con vicende di piante prive del principio attivo perché non ancora giunte a maturazione. X (così lo chiamiamo) dichiara che l’uso della cannabis è per fini terapeutici. Successivamente alla perquisizione entra in vigore la normativa trentina che prevede in determinati casi - rigorosamente accertati e documentati dall’Azienda Sanitaria - l’erogabilità di preparazioni galeniche a base di cannabis con costi a carico del Servizio Sanitario. X si era fatto visitare prima all’Istituto C. Besta di Milano e poi da specialisti trentini ottenendo da subito l’idoneità alla cura mediante preparati galenici a base di cannabis, in ispecie Bedrocan (c.a. 22% di Thc). X ha deciso di affrontare il processo a suo carico e difendersi; all’esito è stato assolto. Il processo accerta, con perizie e testimonianze, l’appropriato utilizzo della cannabis terapeutica ai soli fini di cura e considerando l’inefficacia delle terapie convenzionali. La difesa conclude fornendo al Giudice quattro possibili soluzioni: 1) Il fatto contestato non costituisce reato in quanto esercizio del diritto alla salute, diritto fondamentale riconosciuto in Costituzione. 2) In subordine, pronuncia di assoluzione perché il fatto non costituisce reato in quanto compiuto in stato di necessità determinato dal grave stato di salute dell’imputato. 3) In ulteriore subordine, che venga sollevata questione di legittimità costituzionale della norma che sanziona penalmente ogni forma di coltivazione di sostanza stupefacente a prescindere dalla destinazione del prodotto, essendo il pericolo di diffusione (elencato tra i beni tutelati dall’incriminazione come indicato dalle Sezioni Unite Penali, Kremi 1998) comunque possibile e comune alle condotte di detenzione, trasporto e importazione (non rilevanti se ad uso esclusivamente personale). 4) In alternativa che comunque il Tribunale valuti la opportunità di interpretare la norma assecondando il principio costituzionale di ragionevolezza (c.d. interpretazione costituzionalmente orientata), come auspicato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 443/1994 (auspicio non considerato dalla successiva giurisprudenza), al fine di limitare l’ambito del penalmente vietato alla sola coltivazione finalizzata allo spaccio. Il Giudice recepisce l’ultima tesi difensiva proposta attribuendo alla nozione di “coltivazione” un significato ristretto e conforme ai principi e al dettato costituzionale. Accogliendo gli spunti della Corte Costituzionale il Giudice colloca anche la “coltivazione” all’interno della cintura protettiva del consumo, escludendo rilevanza penale se finalizzata all’uso esclusivamente personale. La sentenza riconosce che “l’attività di coltivazione e detenzione era priva di qualsiasi finalità di spaccio, sicché difetta un elemento costitutivo della fattispecie, con conseguente assoluzione perché il fatto non sussiste”. Questa sentenza sovverte i principi consolidati della giurisprudenza che punisce la coltivazione, a prescindere dalle finalità a cui è destinata (spaccio / uso personale), tracciando una nuova strada per l’interprete sulle orme del principio affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza sopra citata. Non è secondario che ci sia stata richiesta di assoluzione anche della Procura. Ed è anche importante che la Procura Generale non abbia proposto impugnazione avverso questo provvedimento, facendolo diventare irrevocabile. Questa sentenza, spero, possa fare storia. Pedopornografia, colpito l’uso personale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 6 giugno 2018 Stretta sulla pedopornografia. Le Sezioni unite della Cassazione, cambiando orientamento rispetto a un precedente intervento del 2000, hanno stabilito che per la contestazione del reato di produzione di materiale pedopornografico non è più necessaria la diffusione. Una svolta rispetto anche alle più recenti pronunce della stessa Cassazione e che rende più facile l’attività di repressione di una delle fattispecie più odiose, punita in modo assai grave, con il carcere fino 12 anni e una multa che può arrivare sino a 240mila euro. Le Sezioni unite così, con una decisione nota per ora solo nel dispositivo sintetizzato dall’informazione provvisoria resa dopo l’udienza del 31 maggio, hanno ritenuto che sia sanzionabile nella maniera più grave anche la semplice produzione a uso personale. Non è stata così ritenuta convincente la tesi di chi riteneva che, in assenza del requisito della diffusione, la condotta è comunque punibile a titolo di “semplice” detenzione, reato sanzionato in maniera peraltro assai più lieve, con la detenzione fino a 3 anni e la multa non inferiore a 1.549 euro (con possibile aumento fino a due terzi quando il materiale detenuto è considerevole). Per le Sezioni non sono condivisibili gli argomenti della precedente pronuncia che, evidentemente, risultano viziati da un errore di fondo e cioè che lo sfruttamento o l’utilizzazione del minore, anche trascurando lo scopo di lucro, presuppone comunque sempre un utilizzo esterno del materiale. Diverso l’orientamento seguito: anche la produzione per un uso solo privato deve essere ritenuta reato, senza scappatoie interpretative, perché la stessa relazione, anche senza contatto fisico, tra adulto e minore, presa in considerazione dall’articolo 600 ter del Codice penale, è considerata come “degradante e gravemente offensiva della dignità del minore in funzione del suo sviluppo sano e armonioso” (così l’ordinanza di rinvio alle Sezioni unite, la n. 10167 del 2018, che ricorda come, sulla base della riforma dell’anno scorso, quando una sezione semplice della Corte decide di allontanarsi dal principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite, deve rinviare alla stesse la decisione sul punto). La linea seguita sin qui dalla Cassazione, peraltro, non appare convincente, stando all’ordinanza di rinvio, in punto di ragionevolezza visto che conduce all’attrazione nella più lieve fattispecie penale del possesso condotte come la produzione del materiale che invece devono essere ritenute assai più gravi. Ma è una linea che non sembra neppure aderente agli impegni internazionali presi dall’Italia in particolare con la convenzione di New York ratificata nel 1991. Sciopero legali, il rinvio alla Consulta sospende il procedimento principale di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 giugno 2018 Corte di cassazione - Sentenza 5 giugno 2018 n. 25124. È abnorme il provvedimento del Tribunale che, a fronte di una richiesta di rinvio dell’udienza per adesione allo sciopero di categoria degli avvocati, nel rimettere alla Consulta una parte del “Codice di autoregolamentazione delle astensioni”, sospenda soltanto il giudizio in ordine a tale richiesta e non anche il processo principale. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 25124 del 5 giugno 2018, accogliendo il ricorso degli imputati ed annullando, senza rinvio, l’ordinanza del Tribunale di Reggio Emilia. I ricorrenti hanno impugnato il provvedimento del 23 maggio 2017, con cui il Tribunale, sollevata eccezione di legittimità costituzionale dell’articolo 2-bis della legge n. 146 del 13 giugno 1990, nella parte in cui consente che il Codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati stabilisca - all’articolo 4, comma 1, lettera b) - che nei procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare o di detenzione (analogamente a quanto previsto dall’articolo 420-ter, comma 5, Cpp), si proceda malgrado l’astensione del difensore solo ove l’imputato lo consenta, per violazione degli articoli 1, 3, 13, 24, 27, 70, 97 e 111 della Costituzione, ha sospeso il giudizio unicamente in ordine alla richiesta di rinvio dell’udienza (formulata dai difensori con il consenso degli imputati). Secondo i ricorrenti invece la norma “imporrebbe la sospensione del giudizio principale e non solo de giudizio incidentale sull’istanza di rinvio dell’udienza fondata sull’adesione dei difensori all’astensione proclamata dall’organismo unitario dell’avvocatura con il consenso degli imputati detenuti”. Una lettura fatta propria dalla Cassazione secondo cui “la pregiudiziale costituzionale, per espressa previsione normativa (legge 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, secondo comma), determina la sospensione obbligatoria del procedimento che priva il giudice della “potestas decidendi” fino alla definizione della pregiudiziale medesima”. Anche se, precisa la Corte, “nell’ipotesi in cui venga obbligatoriamente sospeso un procedimento in cui sia in corso di applicazione una misura cautelare, il soggetto ad essa sottoposto che ritenga di aver maturato il diritto a riacquistare lo “status libertatis”… può promuovere davanti al giudice per le indagini preliminari, o ad uno dei giudici competenti un’azione di accertamento finalizzata alla declaratoria della sopravvenuta caducazione della misura ed all’ottenimento dell’ordinanza di immediata liberazione”. Inoltre, come chiarito dalla Sezioni Unite, l’adesione del difensore allo sciopero costituisce un diritto costituzionale per cui, salvo il caso di prove non rinviabili, il rigetto dell’istanza di rinvio determina una nullità assoluta per violazione del diritto di difesa. Tutto ciò, conclude la decisione, “induce a ritenere che la pronunciata sospensione del solo giudizio incidentale in ordine al rinvio dell’udienza - con prosecuzione del processo per l’assunzione delle prove, come dimostrato dalla calendarizzazione delle udienze - integri un provvedimento abnorme”. Infatti, allorché si sollevi incidente di costituzionalità, “il giudice è tenuto alla sospensione del “giudizio in corso”, posto che, secondo il dictum delle Sezioni Unite perde la “potestas decidendi” fino alla definizione della pregiudiziale medesima”. Bancarotta, sufficiente lo svuotamento del patrimonio della società Il Sole 24 Ore, 6 giugno 2018 Reati societari - Procedura fallimentare - Bancarotta fraudolenta - Conto corrente di un terzo - Deflusso di denaro - Reato di riciclaggio - Configurabilità. Il delitto di riciclaggio si consuma con la realizzazione dell’effetto dissimulatorio conseguente alle condotte tipiche previste dall’articolo 648-bis c.p., comma 1, non essendo invece necessario che il compendio “ripulito” sia restituito a chi l’aveva movimentato ed essendo sufficienti l’operazione di svuotamento del patrimonio aggredibile dalla curatela e il successivo deflusso del denaro nel conto corrente di un soggetto del tutto estraneo alla compagine societaria. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 17 maggio 2018 n. 21925. Reati contro il patrimonio - Delitti - Riciclaggio - Elemento oggettivo - Descrizione - Fattispecie. Integra di per sé un autonomo atto di riciclaggio, essendo il reato di cui all’articolo 648-bis cod. pen. a forma libera e potenzialmente a consumazione prolungata, attuabile anche con modalità frammentarie e progressive, qualsiasi prelievo o trasferimento di fondi successivo a precedenti versamenti, ed anche il mero trasferimento di denaro di provenienza delittuosa da un conto corrente bancario ad un altro diversamente intestato, ed acceso presso un differente istituto di credito. (Fattispecie in cui è stata ritenuta penalmente rilevante l’operazione di svuotamento della cassa di un gruppo societario ed il successivo trasferimento del denaro ad un soggetto, attraverso assegni circolari e bonifici, con l’incarico di reimpiegare le somme per finanziare altra società). • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 22 ottobre 2014 n. 43881. Reati contro il patrimonio - Delitti - Ricettazione - In genere - Riciclaggio - Fattispecie. Integra il delitto di riciclaggio la condotta di colui che, pur completamente estraneo alla compagine societaria, consenta che sul proprio conto corrente venga fatto defluire il danaro frutto dello svuotamento delle casse di una società ad opera dell’amministratore, e ciò indipendentemente dalla tracciabilità dell’operazione. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 7 luglio 2011 n. 26746. Bari: per il tribunale Csm in pressing su Bonafede di Angela Balenzano Corriere del Mezzogiorno, 6 giugno 2018 Il Csm già oggi chiederà al neo ministro Bonafede di agire con un provvedimento immediato Visita nelle tende di Mascherin (Consiglio Nazionale Forense): “Servono poteri straordinari”. Un decreto urgente e la nomina di un commissario con poteri straordinari. È la richiesta del presidente del consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin, che ieri ha visitato la “tendopoli” della giustizia. “La peggiore delle immaginazioni non può pensare ad un sistema giustizia in queste condizioni” ha detto dopo la visita. Un decreto urgente e la nomina di un commissario con poteri straordinari. Così da bruciare le tappe burocratiche per trovare una soluzione immediata, pur se provvisoria, finalizzata a risolvere l’emergenza giustizia a Bari. È la proposta che l’avvocatura nazionale farà al neo ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che sarà presto a Bari, così come ha annunciato nei giorni scorsi. “In Friuli nel 1976 ho visto le tendopoli dei terremotati che erano molto meglio. Un post terremoto in genere viene organizzato in maniera più dignitosa, questa è una situazione che va al di là di ogni immaginazione. La peggiore delle immaginazioni non può pensare ad un sistema giustizia in queste condizioni”. Sono state le prime impressioni di Andrea Mascherin, presidente del Consiglio nazionale forense, dopo la visita nella “tendopoli della giustizia” allestita nel parcheggio sterrato del Palagiustizia di via Nazariantz dichiarato inagibile. Da più di una settimana magistrati e avvocati continuano ad esercitare la professione in tende soffocanti e innumerevoli disagi. “Il percorso da seguire è una decretazione urgente con nomina di un commissario con poteri straordinari - ha continuato Mascherin - questa è la proposta che l’avvocatura farà al nuovo ministro senza distinzione fra avvocatura delle diverse regioni, nazionale o barese perché siamo tutti avvocati di Bari in questo momento. Il ministro nel proprio programma, insieme ad altre cose non condivisibili, ne ha alcune assolutamente condivisibili, come l’idea di investire in giustizia. Ora ha l’occasione di mettere in pratica parte del suo programma. Il primo tema che proporremo al Ministro - ha aggiunto - sarà la soluzione del problema Bari che non è solo un intervento a favore di Bari, ma una diversa versione della giustizia”. Mascherin ha parlato poi di “mancanza di investimenti che porta a queste degenerazioni e comporterà costi ben superiori a quelli che ci sarebbero stati con interventi tempestivi. Questo serva da lezioni - ha proseguito - ma intanto dobbiamo trovare una soluzione normativamente sostenibile, con sedi transitorie da individuare su Bari così da non uscire dalla città. Ci vorrà l’impegno non solo dell’avvocatura e della magistratura ma anche della politica, a cominciare dai politici locali. Bisogna costruire la cittadella della giustizia e questa situazione - ha concluso - può essere il lancio per la realizzazione rapida di una soluzione definitiva”. Mascherin era accompagnato dal presidente dell’ordine degli avvocati, Giovanni Stefanì ed ha incontrato i vertici degli uffici giudiziari baresi e il presidente dell’Anm di Bari, Giovanni Battista. Oggi il Csm avanzerà formalmente al ministro della giustizia, la richiesta di intervenire con un decreto legge sull’emergenza Palagiustizia. “Se vogliamo far sì che non si realizzino situazione di difficoltà come la prescrizione dei processi - ha spiegato il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini - occorre intervenire con strumenti normativi, procedurali e con risorse, come si fa seguito delle calamità naturali. L’individuazione di una soluzione transitoria è molto complessa - ha aggiunto ancora - ci sono locali da reperire, aule di udienza da realizzare. Tutto ciò richiede un intervento in deroga urgente”. L’associazione nazionale forense ha condiviso la necessità della nomina di un commissario straordinario. “Da quest’elemento di unità tra avvocatura e magistratura - spiega Luigi Pansini, esponente del sindacato degli avvocati - deve partire un’iniziativa comune tesa alla soluzione dell’emergenza”. Intanto il Palagiustizia di via Nazariantz è in fase di sgombero. Il prossimo 11 giugno scadono i termini per la ricerca di mercato con la quale si cerca un immobile che abbia spazi sufficienti per accogliere tutti gli uffici giudiziari penali. In attesa di individuare una sede provvisoria sono già disponibili la sede distaccata del tribunale di Modugno e un immobile di via Brigata Bari. Bari: il cortocircuito dei rinvii acuirà l’emergenza carceri di Alessio Viola Corriere del Mezzogiorno, 6 giugno 2018 All’emergenza Palagiustizia a Bari fa da dirimpettaia, diciamo così, l’emergenza carcere. Due facce di una medaglia. Solo che i detenuti non si possono tenere sotto le tende. Quest’ultima è una situazione che rischia di diventare drammatica. Chi ha modo di entrare nelle carceri per le attività culturali che vi si svolgono respira un’aria preoccupata, se non pesante. E del resto le cronache raccontano di recenti aggressioni, al boss di Bitonto come ad altri detenuti, in un contesto in cui per la polizia penitenziaria è sempre più difficile controllare una situazione ai limiti della rottura. Alcuni numeri. La capienza della casa circondariale di Bari è di 299 posti, i detenuti la settimana scorsa sono arrivati a 445. Gli agenti sono 278, di cui 34 distaccati al provveditorato e 63 al nucleo traduzioni che si occupa anche del reparto detenuti al Policlinico. La vecchia pianta organica prevedeva 340 unità, quella nuova del ministro Orlando è di 276 unità, diceva che erano sufficienti. Oltre la metà degli agenti ha un’età media superiore ai 50 anni. La Casa di Bari è anche centro clinico dell’amministrazione penitenziaria, per cui le esigenze di spostamenti visite all’esterno e trattamenti sanitari obbligatori sono superiori agli altri istituti. Fra i detenuti, 150 necessitano di assistenza particolare per via di problematiche di disagio psichiatrico di varia natura. E “per fortuna” è temporaneamente chiusa la sezione femminile in ristrutturazione, le poliziotte vengono utilizzate in altri compiti nel maschile. Non serve essere esperti di giustizia, basta aver fatto le elementari per fare due calcoli e cogliere la drammaticità della situazione. Come tanti altri penitenziari in Italia, la nostra non è una eccezione ma la regola. Personale demotivato e frustrato che non può svolgere il proprio compito come dovrebbe essere, con turni pesanti, straordinari lunghi e ferie che slittano. E i detenuti ne pagano le conseguenze in termini di scarsità di servizi e di tensione che si accumula nelle celle. Gli operatori esterni fanno quello che possono. Allora torniamo un attimo alle tende di via Nazariantz. Sono assolutamente sicuri centinaia di rinvii di processi, scadenze dei termini, prescrizioni. Il rischio corto circuito è altissimo. E la cosa peggiore è che non ci sono piani per affrontare queste emergenze, A o B che siano. Costruire nuove carceri? Per carità, non vogliamo trasformare il Bel Paese in una grande prigione. Assumere nuovi agenti? Impossibile, l’Europa non vuole che si facciano assunzioni nella pubblica amministrazione. E dunque chi si occupa di questa emergenza non può fare altro che incrociare le dita. In qualche modo si continuerà a contare sulla legislazione premiale, sui ritardi nei permessi, e a sperare che l’estate non sia troppo calda. I detenuti in attesa di giudizio continueranno a scontare una ingiusta condanna al carcere preventivo, per poi magari essere assolti. Quelli con giudizio definitivo a contare sulla incertezza della pena, contando sul prossimo “svuota-carceri” per evitare tragedie. La giustizia esce sconfitta da qualunque battaglia ingaggi. Tutti, detenuti ed operatori di polizia, sono accomunati da una certezza granitica: non cambierà nulla. Belluno: De Carlo (FdI) chiede la chiusura della sezione psichiatrica del carcere di Paola Dall’Anese Corriere delle Alpi, 6 giugno 2018 “Chiudete la sezione dedicata ai detenuti con problemi mentali”. A chiederlo è il deputato di Fratelli d’Italia, Luca De Carlo che domenica ha visitato la casa circondariale di Baldenich per prendere visione direttamente della situazione in cui si trovano i carcerati con problemi psichiatrici, dopo la denuncia dei sindacati di categoria giunta di recente e dopo la polemica con la Usl. Cisl Fns, Cgil Fp, Uspp, Sappe, Osapp e Fsa Cnpp, sigle sindacali rappresentative del carcere di Belluno, nei giorni scorsi hanno precisato la situazione in cui versa la struttura e in particolare quella dei detenuti della sezione speciale aperta nel 2016, dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Alle rimostranze dei sindacati ha fatto seguito una presa di posizione dell’Usl 1 Dolomiti, incaricata di gestire la sezione a Baldenich che ha rinviato al mittente le critiche. Ma nei giorni seguenti i sindacati della polizia penitenziaria hanno sconfessato le parole dell’azienda sanitaria in cui praticamente si garantiva che tutto era sotto controllo, precisando che “non esiste un piano di presa in carico e percorsi terapeutici personalizzati per questi detenuti psichiatrici. Inoltre, nelle ultime tre settimane, è stato registrato l’accesso di uno specialista medico per un totale di 30 minuti rispetto alle 24 ore che avrebbe dovuto garantire”. Inoltre i sindacati hanno sottolineato la “ristrettezza degli spazi a disposizione per questi soggetti incarcerati e la mancanza di spazi idonei per i colloqui con psichiatra e psicologo”. E infine hanno puntato il dito contro tutti gli accorgimenti “disattesi necessari invece per poter accogliere in maniera sicura e adeguata questi detenuti”. E le problematiche avanzate dalle parti sociali sono state riscontrate anche dal deputato De Carlo nella sua visita alla casa circondariale bellunese. “Nei prossimo giorni scriverò all’Usl per capire quali siano i piani di presa in carico per ogni paziente (sono sei attualmente quelli ospitati) e i percorsi terapeutici personalizzati che sono stati realizzati. Mi rivolgerò anche al Provveditorato per chiedere che la sezione Articolazione per la tutela della salute mentale venga chiusa o comunque che si prendano i provvedimenti per adeguare i locali o trasferire le persone in spazi idonei”, afferma il deputato. Il sindaco di Calalzo non nasconde che la “situazione è allarmante. La sezione è assolutamente inadeguata e sono messe a rischio l’incolumità sia dei detenuti, il cui stato mentale regredisce, sia quella del personale di polizia penitenziaria che da 122 agenti sono passati a 91. Una evidente carenza di organico: per questo chiedo al governo di attivarsi per garantire nuove assunzioni”. De Carlo evidenzia poi che negli spazi della sezione per detenuti psichiatrici ha notato che “i termosifoni sono stati divelti, e il bagno distrutto. Docce e sala ricreativa sono inadeguate, in una cella sono presenti fili penzolanti e soltanto due agenti devono tenere sotto controllo la sezione che in questo stato è una vera e propria bomba ad orologeria. Sono stati ben 150 gli eventi critici da quando è stata aperta l’area per la salute mentale, cioè dal marzo 2016. Bisogna intervenire al più presto o chiudendola o prendendo provvedimenti”. Nuoro: Evangelista (M5S) “il carcere aspetta ancora il direttore a tempo pieno” La Nuova Sardegna, 6 giugno 2018 Un viaggio tra le criticità di Badu e Carros per provare a toccare con mano le emergenze da risolvere dell’istituto penitenziario nuorese. Tra tutte una direzione oggi non stabile - la direttrice Patrizia Incollu guida anche il carcere di Bancali a Sassari - ma anche gli ormai cronici problemi di organico della polizia penitenziaria e il ritardo nella nomina di un garante per i detenuti. Prima visita ufficiale in carcere ieri mattina della senatrice nuorese del Movimento 5 Stelle Elvira Lucia Evangelista. La parlamentare eletta lo scorso 4 marzo voleva capire di persona dopo un sopralluogo attento quali fossero i problemi più urgenti della struttura. Accolta dalla direttrice Incollu e dagli agenti della polizia penitenziaria la senatrice pentastellata ha varcato l’ingresso dell’istituto intorno alle 10 per poi uscirne circa due ore dopo. Elvira Evangelista che era già stata in passato in carcere per la sua professione di avvocato ha visitato alcune celle nella sezione di alta sicurezza, posta nella nuova ala inaugurata ai primi di aprile, e proseguito la visita nelle altre sezioni. Ovunque si è trattenuta a parlare con i detenuti ascoltando le loro impressioni. “Sicuramente occorre un direttore in pianta stabile che qui sia presente per tutti i giorni della settimana - spiega la senatrice alla conclusione della visita. La dottoressa Incollu si impegna e svolge sicuramente un ottimo lavoro ma è oggettivamente difficile operare con un sovraccarico di lavoro di queste dimensioni in un carcere con ben 226 detenuti - ha detto Elvira Evangelista -, tuttavia il problema della direzione dovrebbe risolversi entro luglio con nuovi provvedimenti di assegnazione delle funzioni direttive”. Altra criticità che caratterizza il carcere nuorese oramai è la grave carenza di organico tra gli agenti di polizia penitenziaria che al momento sono 205. “Mancano, almeno 50 unità ed, in particolare, è carente il personale graduato, Manca un ufficiale e i sottufficiali necessari per lo svolgimento di funzioni più complesse, mentre, il problema non è stato risolto con l’arrivo di personale femminile”. Durante la sua visita la senatrice Evangelista ha potuto constatare il rispetto dei parametri fissati per assicurare un corretto stato di detenzione in tutte le sezioni che compongono il carcere di Badu e Carros, comprese le sezioni di alta sicurezza. Ulteriore dato negativo per l’Istituto nuorese è la mancanza del Garante dei detenuti. “Sin dallo scorso mese di febbraio, infatti, il professor Gianfranco Oppo ha concluso il suo incarico e con un ritardo del tutto inspiegabile l’amministrazione comunale non ha ancora provveduto alla nuova nomina, mentre si attende l’espletamento del concorso per la funzione di Garante regionale, anch’essa assente sebbene istituita dalla regione Sardegna con una legge del 2011”. Trento: “Non solo ombre”, i detenuti-artisti diventano persone di Gabriella Brugnara Corriere del Trentino, 6 giugno 2018 Apre oggi la mostra con le opere dei detenuti di Trento. Un gruppo diverso da quello della precedente iniziativa, composto da ragazzi tutti stranieri e da due rom. Età sotto i trent’anni, Niger, Tunisia, Marocco la provenienza. All’inizio sono in dodici a partecipare, alla fine però ne rimangono solo otto perché nel frattempo per alcuni di loro intervengono degli spostamenti, delle nuove assegnazioni. Un progetto che ha preso il via già lo scorso anno, “che abbiamo riproposto perché quando cominci devi continuare fino a che lo permetteranno”, osserva con convinzione la direttrice del Museo diocesano tridentino Domenica Primerano, approfondendo i contenuti di “Non solo ombre. Persone”. L’esposizione, di cui è curatrice, sarà inaugurata oggi nella sede di piazza Duomo, alle 17 (visitabile fino al 2 luglio). Una mostra che, proseguendo nella direzione aperta nel 2016 da “Fratelli e sorelle. Racconti dal carcere”, affronta una riflessione sulla realtà carceraria con l’approccio messo in luce con efficacia dal titolo: al centro si pone l’umano nella sua complessità, tra differenze e aspetti in comune, tra fragilità e determinazione. A guidare l’indagine è la convinzione che nessuno è condannato per sempre, che da ciascuno è necessario riuscire a tirar fuori il buono e su questo lavorare verso un miglioramento. L’esposizione, in collaborazione con la casa circondariale di Spini di Gardolo, raccoglie gli elaborati realizzati dai detenuti del carcere nell’ambito del progetto Identità a confronto, promosso dal Museo diocesano, e articolato in 17 incontri da febbraio a maggio. Al progetto, insieme a Primerano, hanno contribuito l’educatrice museale Valentina Perini, la fotografa Valentina Degiampietro e le docenti Martina Baldo e Riccarda Turrina. Delle fasi iniziali del progetto ne parla la stessa Primerano. “Abbiamo avuto un inizio difficile, i ragazzi dello scorso anno si erano mostrati da subito più disponibili al dialogo. Piano piano si è però aperto un varco, e si sono poste le premesse per lo sviluppo di un rapporto umano intenso. Siamo partiti con un progetto, ma poi abbiamo calibrato il nostro lavoro in base alla realtà con cui ci confrontavamo. In questa seconda tappa, la possibilità di inserire anche la fotografia ha rappresentato un valore aggiunto, si dovevano però rispettare alcune regole, quali non riprendere gli ambienti, lavorare sulle persone ma senza rivelarne l’identità”. Come dichiara però anche il titolo, “Non solo ombre. Persone”, è stato un approfondimento attorno all’identità. “Ha rappresentato il cuore del percorso - ammette la curatrice. Uno dei ragazzi ha sottolineato come all’esterno loro vengano percepiti come ombre, mentre sono persone, come tutte caratterizzate da pensieri e sentimenti, e da questa osservazione scaturisce il titolo. Noi che siamo fuori dalle mura tendiamo a considerarli numeri, al massimo persone che hanno sbagliato e per questo ci sembra giusto lasciarli in prigione. Abbiamo così lavorato sul concetto di ombra sia a livello di riflessione, sia grafico e fotografico”. Un concetto che sarà anche il filo conduttore della mostra. “Disegni e fotografie porteranno in primo piano il fatto che i detenuti hanno una loro personalità. Ci ha lasciato senza parole la riflessione di Mohamed, sette anni di carcere: “C’è troppo chiasso nel mondo, non riesco a sentire i miei pensieri”, ci ha detto. Una frase che abbiamo inserito nella mostra. Non aveva mai disegnato, e ha fatto degli uccellini molto aggraziati. È toccante scoprire che da ciascuno emergono dei piccoli talenti. Ad esempio, non hanno mai varcato la soglia di un luogo culturale, ed è arricchente far vedere loro delle immagini di dipinti e parlarne insieme. Abbiamo scelto anche alcune poesie che contengono la parola “ombra” e abbiamo chiesto loro di ritagliare le parole che più li colpivano. Ne sono nate delle piccole frasi, a volte sorprendenti”. Dal lavoro svolto insieme al Museo i detenuti hanno cominciato ad aprirsi, a parlare dei loro luoghi d’origine, come spiega la direttrice. “Il rapporto umano che si è stabilito ha dato dei risultati straordinari. Sono persone che tendono a chiudersi, ma abbiamo trovato in loro una generosità che ci ha stupito. La durezza iniziale che ci aveva lasciato perplessi si è trasformata in capacita di condivisione, e questo è stato il punto di forza del lavoro. Quando abbiamo proposto di raffigurare qualcosa del loro paese, c’è chi ha fatto una cascata, chi il deserto, mentre un altro ha raffigurato una corriera: “È l’autobus che mi porterà verso il mio Paese quando uscirò di qui” ha aggiunto”. E il messaggio con il quale si conclude la mostra è altrettanto ottimistico: “Una foto che li ritrae di spalle, accompagnata da una promessa di un futuro ben augurante: “Che cosa vorreste vedere davanti a voi?”. Avezzano (Aq): i detenuti protagonisti nel foto-progetto “Luci e Ombre” Ansa, 6 giugno 2018 Un progetto fotografico per raccontare l’essere umano, i rischi e gli inganni della sua libertà, i momenti più o meno bui in cerca di una luce che possa rischiararlo dalle sue ombre. Ombre che spesso offuscano la mente, tolgono la cognizione affettiva e creano incertezze. “Luci e Ombre” è il tema del progetto che gli allievi del corso di Reportage dell’Associazione Inforidea Idee In Movimento hanno sviluppato in collaborazione con il Ministero di Giustizia e il carcere di Avezzano. Gli insegnanti di fotografia sono stati Francesco Scipioni per il Carcere Avezzano e Cristiana Reali per allievi Inforidea. “L’idea - spiega Cristina Mura, responsabile dell’iniziativa - oltre ad avere avuto come uno degli obiettivi l’insegnamento della professione di fotografo ai reclusi del carcere, ha anche come finalità la realizzazione di un reportage fotografico narrativo prodotto non solo dagli stessi reclusi, ma anche da un nostro gruppo di allievi della scuola di fotografia, che hanno voluto mettersi in gioco nel proporre tematiche diverse su questo argomento. In una società dove tutto sembra basarsi ormai sulle certezze e sul successo, sembra non esserci più posto per gli incerti e per gli sconfitti. È così che spesso diventano gli emarginati della società, esuli nelle stesse loro strade, costretti a percorrere vie contorte e impervie che spesso li portano a uscire da quei binari che la società impone”. I lavori esterni, realizzati dagli allievi amatoriali della scuola di fotografia di Inforidea, hanno affrontato temi di primo piano come la tragedia di Rigopiano, l’immigrazione, l’Ilva di Taranto, il mondo giovanile e il mondo delle sette sataniche, la Costituzione della Repubblica italiana in riferimento alla dignità della persona, soprattutto per la condizione della donna e della guerra e, non ultimo, tragedie come quella degli internati delle Fraschette di Alatri. Più complesso, per certi versi, è stato interpretare il lavoro dei carcerati di Avezzano che attraverso le loro foto e gli scritti hanno preferito toccare corde più intime mettendosi in gioco loro stessi in prima persona. I promotori del progetto hanno infine selezionato gli scatti migliori, per la realizzazione di due mostre: la prima ad Avezzano, che sarà inaugurata sabato 9 giugno alle 16,30 presso la Sala Montessori in via G. Fontana 6, e la seconda a Roma martedì 3 luglio alle 16,30 presso il palazzo della Cassazione in Piazza Cavour. La visione delle mostre sarà accompagnata da due tavole rotonde. Ad Avezzano saranno relatori la dott.ssa Anna Angeletti Direttrice del Carcere di Avezzano, il Sindaco del Comune di Avezzano il dott. Gabriele De Angelis, l’assessore alle Politiche Sociali avv. Leonardo Cascere, la dott.ssa Maria Teresa Letta Presidentessa della Cri del Comitato di Avezzano, il dott. Michele Sidoti funzionario del carcere di Avezzano, il Commissario Capo il dott. Cristiano Laureti, il Sostituto Commissario il Dott. Giovanni Luccitti, il prof. Arnaldo Mariani del Liceo Scientifico Vitruvio di Avezzano come moderatore. Alla tavola rotonda di Roma parteciperanno esponenti del mondo della magistratura e del giornalismo come il magistrato dott. Anastasia Garante dei diritti dei detenuti per il Lazio, il dott. Giulio Bacosi presidente dell’associazione Democrazia nelle Regole, la dott.ssa Anna Angeletti direttrice del carcere di Avezzano, il dott. Angelo Maria Polimeno Bottai giornalista del TG1. Durante l’inaugurazione delle mostre sarà presentato anche il libro fotografico edito dalla Herald Editore - Info Carcere a cura del Dott. Roberto Boiardi. Migranti. Salta l’intesa Ue sulla riforma delle regole di Dublino La Repubblica, 6 giugno 2018 A Lussemburgo vertice dei ministri degli Interni e Giustizia dell’Unione per discutere la proposta bulgara di modifica delle modalità di richiesta di asilo. Critiche da Germania e Svezia. Salvini: “Una vittoria per noi”. Belgio: “Riprendere i respingimenti”. Contrario il commissario Avramopoulos: “L’Ue non li farà mai”. Salta l’intesa sulla riforma delle regole di Dublino per rivedere l’accordo che disciplina il diritto d’asilo per i migranti che arrivano in Europa. L’Italia e altri dieci paesi si sono opposti oggi al compromesso sulla riforma di Dublino proposto dalla presidenza bulgara alla riunione dei ministri dell’Interno dei 28 a Lussemburgo. Oltre all’Italia, anche se per ragioni diverse, avrebbero espresso obiezioni al testo Spagna, Germania, Austria, Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica ceca. Anche la Germania, dunque, si è arresa davanti al blocco dei paesi di Visegrad e dell’Europa del Sud, Italia compresa. Solo stamattina il segretario di Stato tedesco Stephan Mayer al suo ingresso al consiglio Affari interni di Lussemburgo aveva detto che Berlino era “aperta ad una discussione costruttiva. Ma com’è attualmente non la accettiamo”. Gli aveva subito fatto eco il ministro alla migrazione svedese Helene Fritzon: “L’Europa ha bisogno di un’intesa sulla riforma di Dublino, ma con le elezioni delle destre in Europa oggi è un problema raggiungere un compromesso. C’è un clima politico più duro. Non si tratta solo dell’Italia, ma anche della Slovenia”. All’uscita dal consiglio, è il segretario di Stato belga responsabile delle Migrazioni, Theo Francken a fare la sintesi dei lavori: “La riforma del regolamento di Dublino è morta”. Per Francken, la conclusione della discussione “molto dura” è chiara: vista l’opposizione frontale dell’Italia, “un rifiuto più categorico che mai prima”, quello della Germania di lavorare sul testo e l’opposizione dell’Austria, si va verso “un ribaltamento totale dell’approccio”. Dal nuovo governo italiano - ha detto Francken - “Mi aspetto una stretta sulla migrazione. Penso che sia positivo se l’Italia inizia rifiutare i migranti sulle proprie coste, e non li lascia più entrare in Sicilia”. Francken ha auspicato anche che si trovi un modo per poter tornare a fare i respingimenti: “Dal 2012 non possiamo più farli, e finché è così, la situazione continuerà ad essere caotica. Dobbiamo rimandarli indietro. Quindi dobbiamo cercare di aggirare l’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani. La giurisdizione dovrà seguire questa linea, perché altrimenti non ci sarà più la Corte europea. Penso che alcuni non capiscano esattamente cosa sta accadendo in Europa. La gente deve lasciare le proprie torri d’avorio e guardare la realtà”. Plaude il neo ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini, secondo cui quello che è successo al vertice dei ministri a Lussemburgo “è una vittoria per noi. Avevamo una posizione contraria ed altri Paesi ci sono venuti dietro, abbiamo spaccato il fronte. Significa che non è vero che non si può incidere sulle politiche europee”. Già da tempo aveva annunciato che la posizione dell’Italia sarebbe stata dire “no alle nuove politiche di asilo perché lasciano soli i Paesi del Mediterraneo, Italia Spagna, Cipro e Malta”. In serata è intervenuto, in maniera piuttosto netta rispondendo a Francken, anche il commissario europeo Dimitris Avramopoulos: “L’Ue non seguirà mai il modello australiano per la politica migratoria, non facciamo i respingimenti, perché la nostra politica è guidata dal principio del rispetto dei diritti umani e della Convenzione di Ginevra. Non saremo la fortezza Europa”. L’Austria intanto annuncia, attraverso il ministro dell’Interno austriaco Herbert Kickl, che se non ci sarà un’intesa sulla riforma di Dublino al vertice dei leader dell’Unione Europea di giugno, durante il periodo di presidenza austriaca che inizia a settembre “presenteremo una piccola rivoluzione copernicana” sulle politiche d’asilo. Il regolamento di Dublino venne firmato nella capitale irlandese il 15 giugno 1990 da Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna e Regno Unito che cominciarono a metterlo in atto nel settembre 1997. Si sono poi aggiunti Austria, Svezia e Finlandia. Attualmente è in vigore il regolamento Dublino III del 2014, che definisce quale Stato deve farsi carico della richiesta di asilo di una persona giunta in territorio europeo. Secondo le regole attualmente in vigore, il Paese Ue su cui il migrante mette piede per la prima volta deve espletare le procedure di richiesta di asilo. L’Italia, la Grecia e la Spagna sono i punti di accesso principali per i migranti che vogliano entrare in Europa. Negli ultimi tre anni, gli accordi bilaterali con Turchia e Libia - principali paesi di transito - hanno contribuito a rallentare i flussi, aprendo però nuove problematiche di violazioni dei diritti umani per le condizioni di vita nei campi di accoglienza provvisori su questi territori “di passaggio”. Ma la necessità di una riforma del processo di richiesta d’asilo è diventata pressante da parte di molti Paesi membri. Il fronte dell’Est - Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia - hanno rifiutato o opposto forti resistenze al tentativo della Commissione Ue di imporre quote di accoglienza nel 2015 in modo da alleviare la pressione su Italia e Grecia. L’estate di quell’anno ha visto un picco di naufragi e di morti tra i migranti che tentavano di attraversare il Mediterraneo, in corrispondenza con l’acuirsi del conflitto in Siria e di altre crisi in Africa. Venne allora approvato un piano d’emergenza con cui i Paesi membri della Ue concordarono la ricollocazione di 160mila siriani e altri rifugiati provenienti da Italia e Grecia verso altri paesi dell’Unione entro due anni. Finora solo 34.690 persone sono state riallocate, mentre la maggior parte ha tentato di raggiungere la Germania o altri paesi del nord Europa per vie traverse. La proposta della Bulgaria mirava ad alleviare il peso dagli Stati in prima linea come l’Italia e “tagliare i movimenti secondari” dei richiedenti asilo che arrivano in un Paese Ue e cercano di raggiungerne un altro. Per i Paesi dell’Est europeo la priorità è proprio bloccare questi “movimenti secondari”, ma nella proposta di Sofia ci sarebbe anche un passaggio in cui si chiede la riallocazione obbligatoria dei richiedenti asilo, ma solo come ultima risorsa. Migranti. Il ministro Salvini tra false emergenze e razzismo crescente di Filippo Miraglia Il Manifesto, 6 giugno 2018 L’Italia in realtà ha accolto meno migranti di quanti le spetterebbero se si calcolasse in base alla complessiva popolazione europea: e il nuovo responsabile degli Interni non fa altro che soffiare sul fuoco. Le esternazioni di Salvini sono coerenti col personaggio costruito in questi anni, questo bisogna riconoscerlo. Solo che adesso è ministro dell’Interno. E questo fa una differenza. Dice di essere contro la riforma del regolamento di Dublino, proposta oggi nella riunione dei ministri dell’Interno dell’Ue, che nella sua attuale formulazione penalizza i paesi di primo approdo dei richiedenti asilo, come l’Italia, e quindi andrebbe modificato. Ma c’è già il documento approvato di recente dal Parlamento europeo, che responsabilizza tutti i Paesi e introduce l’idea che chi arriva in Italia o in Grecia arriva in Europa ed è l’Ue a doversene farse carico con un proprio piano d’accoglienza. Una proposta che la Lega non ha votato e che - questo Salvini omette di dirlo o non lo sa - non favorirebbe l’Italia perché in una divisione equa dei richiedenti asilo, sulla base di criteri oggettivi, l’Italia, sul lungo periodo, dovrebbe accoglierne più di quanti ne ha finora accolti. Negli ultimi 10 anni infatti (2008-2017), l’Ue ha accolto circa 5 milioni di richiedenti asilo, pari all’1% della popolazione. Poiché l’Italia ha una popolazione pari al 12% di quella dell’Ue, in una divisione basata solo sulla quantità di popolazione, a noi ne sarebbero toccati 600 mila, più di quelli che abbiamo accolto. Se poi parliamo di chi ha ottenuto un permesso di soggiorno regolare, i dati dicono che l’Italia fa meno di tanti altri. Nel solo 2017 la Germania ha riconosciuto un numero di rifugiati dieci volte più alto rispetto all’Italia (325 mila contro 35 mila). Anche la Francia ne ha riconosciuto un numero più alto del nostro, e Austria e Svezia, paesi molto più piccoli del nostro, un numero vicino a quello dell’Italia. Il ruolo della vittima, inaugurato da Renzi e sviluppato con grande impegno dall’ex ministro Minniti, poco si adatta alla realtà e ai numeri che con testardaggine raccontano una storia diversa dalla propaganda elettorale leghista e non solo. Salvini ripete le stesse cose dette con altre parole dal suo predecessore. Nel campo delle politiche anti immigrati Minniti però non è secondo a nessuno: accordi con le milizie e con la guardia costiera libica per bloccare i flussi o riconsegnare ai loro torturatori chi riesce a scappare. Infatti, nonostante la polemica perpetua con il Pd, Salvini ha tributato un elogio all’ex ministro, sostenendo che andrà avanti nella stessa direzione, con maggiore efficacia. In particolare Salvini sostiene di voler aumentare i rimpatri e diminuire le risorse per l’accoglienza. L’accordo con le bande libiche ha già ridotto drasticamente i flussi, ma non si tratta di un dato di cui vantarsi, viste le conseguenze sulla vita di decine di migliaia di persone. Per aumentare i rimpatri, il neo ministro ricorre agli insulti nei confronti dei tunisini: poiché dalla Tunisia non ci sarebbe alcuna ragione per fuggire (lo dicevano anche quando c’era Ben Ali), i tunisini vanno rimpatriati (cosa che peraltro già avviene da mesi, spesso con rimpatri collettivi illegittimi), anche perché, sostiene Salvini, a noi mandano i galeotti. Un modo per facilitare le relazioni diplomatiche e ottenere collaborazione, come si è già visto! La riduzione della spesa per l’accoglienza è un’ipotesi totalmente astratta e propagandistica. Se diminuisce il numero delle persone, diminuirà la spesa. Ma a numeri invariati la spesa non può diminuire perché gli obblighi previsti dalla legge, per fortuna, non consentono ulteriori risparmi. Si può risparmiare rendendo i centri invivibili. L’esperienza ci insegna che le politiche di criminalizzazione dei richiedenti asilo e dell’accoglienza hanno portato a un aumento della spesa pubblica e dei tempi dell’accoglienza. L’ossessione per il controllo orienta verso i grandi centri (e il capitolato del ministero dell’Interno sui centri d’accoglienza Cas esistenti va esplicitamente in questa direzione) che sono più costosi, hanno un impatto negativo sui territori e allungano i tempi dell’accoglienza. Tra propaganda razzista e falsità l’avvio è degno senz’altro del personaggio. Noi siamo preoccupati, perché se già si respira un clima di rancore diffuso, che spesso si traduce in violenza, come è successo in Calabria (vedremo cosa accerteranno gli inquirenti, ma è fuor di dubbio che in nell’omicidio si Soumalya Sacko ci sia una componente importante di razzismo). E il fatto che un esponente del governo tanto acclamato soffi sul fuoco dell’odio popolare non fa che confermare queste preoccupazioni. Oltre a denunciare quel che di falso e strumentale c’è nelle parole del ministro Salvini, occorrerà mettere in campo un’opposizione sociale all’altezza della sfida. Presto, molto presto. Migranti. “Hotel” per profughi, altro che pacchia di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 6 giugno 2018 Secondo il dizionario la pacchia è una condizione di vita “facile e spensierata”, eppure Matteo Salvini ha usato questa parola per spiegare il suo programma di governo nei confronti degli immigrati senza permesso di soggiorno. “Pacchia: Condizione di vita, o di lavoro, facile e spensierata, particolarmente conveniente, senza fatiche o problemi, senza preoccupazioni materiali; anche l’avere da mangiare e bere in abbondanza: da quando ha sposato quella ricca ereditiera, per lui è cominciata la pacchia”. Così il dizionario Treccani definisce la parola usata da Matteo Salvini per spiegare il suo programma di governo nei confronti degli immigrati senza permesso di soggiorno: “È finita la pacchia”. Un esempio? Prendiamo uno degli “hotel quattro stelle” citati in uno degli slogan che hanno tirato la volata ai teorici del cattivismo: “Le pareti sono ammuffite, i muri sgretolati, le cucine abbandonate e arrugginite, gli angoli pieni di ragnatele e sporcizia, gli scaffali fungono da magazzini. Nella struttura ci sono soltanto due bagni per 36 persone, una carenza compensata con due bagni chimici posizionati sotto il sole e bollenti per tutto il giorno. Le docce ci sono, ma sono in una stanza il cui pavimento è in cemento e sono attaccate l’una all’altra senza pareti divisorie. Nei giorni scorsi ci sarebbe stata anche la mancanza di acqua corrente, dicono i migranti. “Abbiamo usato l’acqua del pozzo, ma a volte non arrivava neppure quella e abbiamo utilizzato l’acqua potabile delle bottiglie”. L’”hotel”, come riportava il reportage era nella frazione di Meleto, comune di Castelfiorentino, in provincia di Firenze: “Un casolare diroccato in aperta campagna, lontano cinque chilometri da Castelfiorentino e lontano da qualsiasi centro abitato. Fatiscenti le condizioni in cui versa l’edificio, una casa colonica di proprietà di un marchese della zona e preso in gestione dal consorzio Mc Multicons, che usualmente si occupa di giardinaggio, logistica, pulizie, disinfestazione, vigilanza e smaltimento rifiuti”. Rileggiamo: “derattizzazione”, “pulizie”, “smaltimento rifiuti”. L’articolo, corredato da una foto che diceva tutto sul degrado rovinoso della catapecchia “ingentilita” dai due cessi portatili rossi, riprendeva la denuncia di un’inchiesta di Redattore Sociale. Titolo: “I profughi trattati come animali nel casolare diroccato”. Il quotidiano che lo pubblicava, il 23 luglio di tre anni fa, era il Giornale, diretto da Alessandro Sallusti. Un caso estremo? Certo, ma non troppo... Basti leggere Profugopoli di un altro giornalista, Mario Giordano. Non proprio un sinistrorso... Anche nel suo libro c’è una volta la parola “pacchia”. Ma non per sparare sugli immigrati: per denunciare chi li sfrutta. Migranti. La piana degli schiavi: parliamo di diritto o usiamo il manganello? di Alessandro Robecchi Il Fatto Quotidiano, 6 giugno 2018 La morte per fucilata alla testa di Soumaila Sacko, lavoratore maliano immerso nella cayenna dei ghetti per schiavi della Piana di Gioia Tauro, rischia di scomparire dalle cronache in fretta. Ricordo un bellissimo film di Andrea Segre, “Il sangue verde, trasmesso anche dalla Rai (i benemeriti di Doc3) che raccontava di Rosarno, la Piana, le arance, la rabbia, la schiavitù, le condizioni disumane, l’ostilità della popolazione attorno. È un film del 2010, otto anni fa, che si riferisce a fatti orribili di quei tempi: schiavi neri sparati da padroni bianchi, il nostro Alabama, qui e ora. Si direbbe, a leggere le cronache del “caso Soumaila”, che in questi otto anni niente sia cambiato: la ‘ndrangheta spadroneggia, le condizioni degli schiavi sono terribili, lo sfruttamento è inimmaginabile. Per ora, purtroppo, la morte di Soumaila Sacko entra nel tritacarne delle schermaglie da social. Si nota che il ministro del Lavoro non ha detto una parola (male), che lo sceriffo Salvini quasi nemmeno (ah, sì, ha detto che “l’immigrazione incontrollata...” eccetera, eccetera, la solita solfa). Dall’altro lato si ribatte con i “Ah, ve ne accorgete adesso!”, e “Voi cos’avete fatto?”. Insomma, stallo. Eppure che si parli di Rosarno, di schiavi, di arance raccolte a 50 centesimi la cassa fa rimbombare la questione che tutti si pongono in queste settimane: che razza di governo abbiamo? La risposta è nota: aspettiamo i fatti! Ecco, i fatti di Rosarno potrebbero dare un’indicazione sui famosi fatti che aspettiamo tutti, con - che combinazione - i due leader politici del governo che coincidono con i due ministeri interessati: Lavoro e Interno. Ripristinare la legalità, oggi, significherebbe (oltre a catturare e processare l’assassino di Soumaila Sacko, ovvio), andare a verificare le cause di un così evidente sfruttamento. Mandare un centinaio di ispettori del lavoro, esperti dell’Inps, avvocati, meglio ancora se con la cravatta nera e la faccia di Gene Hackman in “Mississippi Burning”. Rivoltare insomma come un guanto un sistema economico che prevede la schiavitù. Il che significa alla fine liberare gli schiavi, cioè dargli una paga base accettabile, un posto dignitoso dove vivere, metterli in regola. Un ministro del Lavoro che dica “Oh, cazzo, qui c’è la schiavitù, ma siamo matti?” non sarebbe malissimo, sempre se non si limitasse a dirlo. Anche dal lato del muscoloso ministro dell’Interno teorico della ruspa, ci sarebbe un bel lavoro da fare. La ‘ndrangheta che sfrutta gli schiavi è anche quella che truffa l’Inps. Il meccanismo è: manodopera immigrata a basso costo, minima redistribuzione clientelare del reddito alla popolazione residente, affari d’oro. Il ministro dell’Interno ha una buonissima occasione per dire “È finita la pacchia” agli agrari della Piana, a un sistema economico-politico che rende possibile profitti illegali e controllo del territorio. La narrazione degli “immigrati negli alberghi a 5 stelle” che fanno “la bella vita” su cui Salvini ha costruito le sue fortune, ne uscirebbe ammaccata assai se si smascherasse il sistema di potere (italiano) che crea le baraccopoli degli schiavi (immigrati). Non so perché, ma temo che invece si farà un po’ di “pulizia” (traduco: ulteriore repressione dei poveracci) e tutto andrà avanti come prima. Aspettiamo i fatti, dunque, vediamo se nella terribile piaga di Rosarno la coperta verrà tirata più verso il welfare e il ripristino dei diritti umani e civili, o più verso il manganello, nel peggiorare ulteriormente la vita delle vittime. O se addirittura la coperta non sarà tirata per niente. In questo caso sarà un governo di piena continuità: proclami, riforme e fette di salame sugli occhi, salvo poi cascare dal pero quando se ne occupala cronaca nera. L’Ungheria di Orbán, l’alleato sbagliato di Franco Venturini Corriere della Sera, 6 giugno 2018 La “tentazione Visegrad” esiste davvero e non corrisponde agli interessi italiani. C’è modo e modo di annunciare i programmi del nuovo governo. Ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha raccolto molti consensi, anche il nostro, quando ha detto in Senato che “l’Europa è la casa di noi tutti” e l’Italia vuole renderla più forte e più equa. Ma il giorno prima uno dei suoi azionisti di maggioranza, il leghista Matteo Salvini, aveva annunciato al termine di una telefonata con Budapest di essere pronto a “lavorare con Viktor Orbán per cambiare le regole di questa Unione Europea”. Non è esattamente la stessa cosa, voler migliorare la “casa” Europa o allearsi con quel gruppo di Visegrad che da tempo respinge i valori di solidarietà sostenuti da Bruxelles. Proprio sui migranti, oltretutto. È troppo presto per criticare l’operato del governo. Il voto di ieri contro una modifica degli accordi di Dublino contraria agli interessi italiani sarebbe stato tale anche prima delle elezioni. Ma la “tentazione Visegrad” esiste davvero, e non corrisponde ai tanto decantati interessi nazionali italiani. Cominciamo dal principio, cioè da quei migranti il cui contenimento rappresenta l’indiscussa priorità del ministro dell’Interno Salvini. Cosa mai può avere in comune l’Italia con il preannunciato compagno di strada Viktor Orbán? L’Ungheria non è circondata dal mare, lì non arrivano barconi. L’Ungheria non ha davanti l’Africa, con le sue massicce correnti migratorie. Quando si è sentita minacciata dai rifugiati siriani e afghani che tentavano di raggiungerla attraverso i Balcani, l’Ungheria di Orbán ha creato un “muro” al confine con la Serbia. Cosa che si può eventualmente fare soltanto alle frontiere terrestri. Quando Bruxelles ha proposto di aiutare Italia e Grecia dividendo i rifugiati per quote nei Paesi europei, l’Ungheria ha detto un sonoro “no” portando su questa posizione tutto il gruppo di Visegrad. Davanti alle proteste della Ue (e in particolare dell’Italia, visto che la via balcanica era stata chiusa), le autorità ungheresi hanno avanzato motivazioni anche religiose e razziali. Dobbiamo aggiungere che in Ungheria come in Polonia è ancora forte l’antisemitismo, e che la bestia nera di Orbán è il finanziere Soros, troppo ricco e forse troppo ebreo? Viene da chiedersi quale sia la vera priorità di Salvini, se voglia giustamente che l’Italia venga aiutata dall’Europa sulla questione migranti, oppure se intenda prima di tutto colpire l’Europa. Nel primo caso farebbe bene a parlare con Merkel, con Macron, con il governo austriaco a partecipazione “populista”, insomma con coloro che hanno interesse a collaborare per affrontare un problema comune. Se invece vuole colpire l’Europa senza interessarsi più di tanto alla questione migranti, la scelta di Orbán e dei “quasi-scissionisti” di Visegrad è quella giusta. Come avrebbe consigliato Steve Bannon, se non lo ha fatto davvero. Quasi scissionisti, perché i Paesi di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) guardano sì a Washington e alla Nato ben più che a Bruxelles. Rappresentano sì per l’Europa un problema ben più grave del divorzio negoziato della Gran Bretagna. Ma restano in Europa perché a trattenerli c’è una montagna di soldi che nel 2004 è stata tolta ad altri Paesi, Italia in primis, per favorire la “coesione” dei nuovi soci poveri. Il minimo sarebbe stato mostrarsi a loro volta solidali con l’Italia sul tema dei migranti, ma la risposta, come abbiamo ricordato, è stata picche. La memoria degli italiani sembra essere talmente corta che quasi non vale la pena di ricordare, oltre ai nostri interessi, anche la nostra storia. Siamo, come ha ricordato ieri Conte, tra i fondatori dell’Europa. Siamo fino a prova contraria un Paese democratico, diverso dagli autoritarismi di Budapest e di Varsavia finiti sotto procedura disciplinare a Bruxelles. E il nostro risorgente nazionalismo, o sovranismo, sconta sì gli errori e le debolezze europee, ma non ha le giustificazioni storiche che possono essere individuate nella parte orientale dell’Europa. La Comunità europea nacque dopo la guerra per placare i nazionalismi tedesco e francese e scongiurare nuovi conflitti. Chi rimase intrappolato nell’impero sovietico, invece, dovette aspettare la fine del 1989 per dare sfogo al nazionalismo che Mosca aveva represso. Forse vanno capiti, in questo. Ma imitarli, o mettere in cantiere una alleanza paradossale e inutile, per l’Italia può essere soltanto un danno. Tunisia. Altro che svuota-carceri: liberati in 412 su 53mila detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 giugno 2018 “‘La Tunisia è un paese libero e democratico, ma spesso e volentieri esporta galeotti”. Così ha detto il ministro dell’Interno Matteo Salvini, a Pozzallo, interpellato sui casi di intemperanza registrati nei centri di accoglienza. Ma è vero? Tutto in realtà è scaturito da un vecchio articolo di Libero quando scrisse che le nostre coste sono meta di sbarchi di tunisini, “quasi sempre si tratta di ex galeotti, appena rimessi in libertà dal governo tunisino e lasciati nelle condizioni di imbarcarsi in direzione Italia”. Poi senza specificare la fonte, scrive che “il loro arrivo coincide infatti con la liberazione di detenuti, perlopiù per reati di furto o spaccio, graziati dal presidente della Repubblica di Tunisia in occasione di due ricorrenze: la fine del Ramadan a giugno (allora in 196 sono stati scarcerati) e il 60mo anniversario della Repubblica a luglio, come conferma anche l’Ambasciata italiana a Tunisi (in quella circostanza 1.583 detenuti sono stati rimessi in circolo) “. In un altro articolo, questa volta del Secolo d’Italia, riporta la denuncia dell’europarlamentare leghista Angelo Ciocca il quale disse che “di 1.600 detenuti, usciti di galera grazie al doppio indulto deciso da Tunisi, almeno la metà, circa 800, sono già arrivati in Italia”. Ma come stanno le cose? Basta andare direttamente alla fonte, ovvero alla pagina Facebook ufficiale del presidente tunisino Beji Caid Essebsi. Parliamo proprio del 2017 e in occasione del sessantesimo anniversario della nascita della repubblica tunisina, il Presidente ha scritto di aver concesso una grazia a 1.583 detenuti. Per lo più politici. Solo 412 verranno rilasciati, il resto dei detenuti hanno visto una riduzione della pena da scontare. Altro che svuota carceri per portare gli ex galeotti da noi: il sistema carcerario tunisino alla fine del 2016 contava 23.553 detenuti, se a questi si aggiungono gli ultimi arrestati per presunto terrorismo durante l’anno 2016 (vivono in strutture apposite), arriviamo a 53.000 reclusi. Quindi 412 sono lo 0,77% di tutta la popolazione detenuta. Di questi 412, tra l’altro, non sappiamo se poi hanno preferito raggiungere il nostro Paese. Ma se anche fosse, ma è una lontana ipotesi, si tratterebbe di un numero trascurabile visto che l’anno 2017 si è concluso con 119.989 sbarchi di immigrati, contro i 181.436 dell’anno 2016. Nel periodo compreso tra i 1 gennaio e il 23 aprile del 2018 si è registrato un calo degli sbarchi del 78,8 per cento rispetto allo stesso periodo del 2017, e del 69, 5 rispetto allo stesso periodo del 2016. Prendendo in esame tutto l’anno del 2017 fino ad aprile di quest’anno, scopriamo che i tunisini risultano al settimo posto tra le nazionalità di provenienza degli immigrati. In testa c’è la Nigeria con 18.484 arrivi, mentre 9.878 sono giunti dalla Guinea, 9.718 dalla Costa d’Avorio e così via. Ritornando alla Tunisia, perché i detenuti amnistiati sono per lo più politici? La transizione democratica tarda ancora a compiersi. L’ultimo rapporto di Amnesty denuncia che le autorità hanno rinnovato ancora una volta lo stato d’emergenza, utilizzandolo come pretesto per giustificare l’imposizione di arbitrarie restrizioni alla libertà di movimento. Si sono verificati nuovi casi di tortura e altri maltrattamenti ai danni di detenuti. Persone Lgbti sono state arrestate e processate per rapporti omosessuali consenzienti. In diverse regioni del paese sono aumentati i procedimenti giudiziari contro manifestanti pacifici. Basti pensare che il 10 maggio dell’anno scorso, il presidente Essebsi ha annunciato lo schieramento dell’esercito allo scopo di proteggere alcune installazioni petrolifere dai danneggiamenti causati dalle proteste della società civile e dei lavoratori. Nei giorni successivi, le forze di polizia avevano fatto uso eccessivo della forza. Un giovane dimostrante è rimasto ucciso dopo essere stato investito da un veicolo della guardia nazionale. Nella sola Gafsa, i tribunali hanno processato centinaia di persone per accuse come “interruzione della libertà di lavorare”, a seguito delle proteste sociali legate alla disoccupazione. L’amnistia, concessa nelle ricorrenze, serve per amnistiare soprattutto i “reati politici”. Cina. La repubblica popolare delle sparizioni forzate di Gabriele Battaglia Internazionale, 6 giugno 2018 In cinese si chiama “zhiding jusuo jianshi juzhu”: sorveglianza residenziale in un luogo designato (Rsdl). La formula può ricordare gli arresti domiciliari, ma così non è. Inserita nel codice di procedura penale cinese nel 2012, serve a giustificare le detenzioni extragiudiziali. Non che prima non esistessero, però la gente spariva “illegalmente”. Ora invece è la legge che lo prevede. Con la “sorveglianza residenziale”, chiunque sia ritenuto un pericolo per la sicurezza nazionale può scomparire fino a sei mesi in centri di prigionia che operano al di fuori del sistema giudiziario e in regime di isolamento. Un gruppo di attivisti che fa capo alla ong per i diritti umani Safeguard defenders ha pubblicato nel 2017 un libro che per la prima volta raccoglie undici testimonianze di persone che sono passate attraverso questo sistema di “sparizioni forzate”. S’intitola The peoplès republic of the disappeared. Stories from inside Chinàs system for enforced disappearences. Il giro di vite - Il libro è dedicato a Wang Quanzhang, un avvocato weiquan - cioè “per i diritti umani” - di cui non si hanno più notizie dal 3 agosto 2015, quando scomparve nell’ambito del “709”, un giro di vite che prende il nome dal giorno in cui cominciò, il 9 luglio di quell’anno. Si calcola che da allora circa 250 avvocati e attivisti per i diritti umani siano stati detenuti o interrogati. Un weiquan è anche Teng Biao. Arrestato due volte negli anni precedenti all’Rsdl (nel 2008 e nel 2011) è autore dell’introduzione del libro. Ora vive negli Stati Uniti, da dove ha accettato di essere intervistato. “L’Rsdl è una sparizione forzata”, spiega, “quindi è in conflitto con la costituzione cinese e viola le convenzioni internazionali sui diritti umani. Il nome è fuorviante, perché nasconde il fatto che è peggiore di una detenzione regolare, impone a chi ci finisce una forma estrema di isolamento e ha reso la tortura un fenomeno dilagante”. È ingenuo pensare che un paese, qualsiasi paese, non sospenda lo stato di diritto quando si sente minacciato. In Italia accadde con le leggi speciali alla fine degli anni settanta, più di recente tornano alla mente le extraordinary renditions statunitensi, a Guantánamo e ad Abu Ghraib. Ciò che colpisce della situazione cinese è l’estensione del concetto di “sicurezza nazionale” anche alla normale attività di avvocati che, nel nome della costituzione e delle stesse leggi cinesi, difendono dissidenti, sette religiose come il Falungong, minoranze etniche come gli uiguri. È come se tutte le figure di mediazione siano state eliminate, c’è una nuova ortodossia di partito che prescrive “o con me, o contro di me”. Tra le testimonianze raccolte nel libro, c’è quella di Peter Dahlin, attivista svedese della ong China action, un’organizzazione fondata a Pechino da alcuni avvocati cinesi alla fine del 2008, che forniva consulenza e supporto legale agli avvocati per i diritti umani. Il caso di Dahlin è famoso perché ha fatto capire che, in barba al diritto internazionale, anche uno straniero può finire in regime di Rsdl. Arrestato il 4 gennaio 2016, l’attivista svedese fu rilasciato 20 giorni dopo e quindi espulso dalla Cina, dopo una confessione trasmessa dalla televisione nazionale. Lui in seguito ha ritrattato e spiegato che tali confessioni sono recite in cui il “reo” legge letteralmente un documento predefinito. Con l’attivista svedese fu arrestata anche la sua compagna cinese, Pan Jinling. Ecco come Dahlin racconta quel giorno: Non fu una sorpresa. Era già accaduto che degli attivisti fossero arrestati, interrogati, ma questa volta ero venuto a sapere che il mio nome era stato esplicitamente menzionato durante l’interrogatorio di altre persone, cosa mai successa prima. Era abbastanza chiaro che stesse succedendo qualcosa e avevo già pianificato la partenza, poi anticipai addirittura il volo. Ma non feci in tempo. Quando la sicurezza fece irruzione in casa mia, mancavano solo due ore prima che andassi all’aeroporto. Mi comunicarono subito che sia io sia la mia ragazza eravamo in arresto in base all’articolo 107 del codice penale: avere utilizzato finanziamenti stranieri per attività contrarie alla sicurezza nazionale. Sul tema della sicurezza, l’articolo più famoso e più spesso usato contro avvocati, giornalisti e difensori dei diritti è il 105: incitazione alla sovversione dei poteri dello stato. Sta in una sezione che fino al 1997 si chiamava ‘crimini controrivoluzionari’, ma sebbene ora si parli di ‘sicurezza nazionalè, l’articolo è utilizzato più o meno allo stesso modo. In cosa consiste invece la tortura di cui parla Teng Biao? “Io sono stato trattato con i guanti di velluto in confronto a quello che passano i cinesi “, dice Dahlin. Certo, sono stato privato del sonno e ho subìto interrogazioni infinite, di solito notturne, con lo sbirro buono e quello cattivo, ma non sono mai stato torturato fisicamente proprio perché straniero. Negli altri casi si va invece al di là del semplice isolamento: percosse, posizioni di stress, assunzione forzata di farmaci e ore passate incatenati. Tutte le testimonianze rivelano che la tortura mentale e fisica è sistematica. Un mio collega era sorpreso di quanto fossero esperti, lo picchiavano in modo da non lasciare segni. Era dolorosissimo, ma non si vedevano tracce sul corpo. Altri hanno raccontato l’uso della “sedia penzolante”, dove sei costretto a sederti su uno sgabello alto, con le gambe che non possono toccare il suolo. Ti fanno andare avanti così fino a 20 ore al giorno e il gonfiore delle gambe provoca un dolore immenso. Se provi a muoverti, ti picchiano e ti prendono a calci. Eppure, The peoplès republic of the disappeared offre anche momenti ironici. Uno degli avvocati arrestati, Liu Shihui, durante un interrogatorio si sente per esempio accusare di avere venduto dei titoli borsistici in suo possesso per finanziare una presunta rivoluzione. La sua risposta ai funzionari della sicurezza è molto decisa e, probabilmente, anche molto cinese: “Non sono così stupido da finanziare una rivoluzione con i miei soldi!”. Senza pretendere di dare alla Cina lezioni di superiorità liberaldemocratica, si tratta di comprendere come l’Rsdl si inserisca nel contesto della Cina odierna, nel sesto anno dell’era di Xi Jinping. In un passaggio del libro, un funzionario della pubblica sicurezza dice a uno dei detenuti: “Tutte le leggi in Cina mirano a preservare il potere del Partito comunista”. Secondo Michael Caster, editor del libro ed ex attivista di China action “lo stato di diritto cinese non tiene conto degli standard internazionali secondo cui la legge deve essere accessibile, prevedibile, equa e responsabile. La Cina dice di basarsi sullo stato di diritto, ma in realtà è rule by law, governo attraverso la legge o autoritarismo giuridico. L’intero sistema legale è concepito per punire le voci indipendenti e proteggere il partito, che ora è sinonimo di Xi Jinping”. Teng Biao la fa ancora più semplice: “Generalmente, in Cina, quando una legge è a favore del governo, è attuata in modo efficace e addirittura estesa oltre i propri limiti. Quando è a favore dei cittadini, c’è sempre qualcosa che va storto nella sua applicazione”.