Più carceri, più costi: il sovraffollamento è sempre lì di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 giugno 2018 Si prevede di costruire due nuovi istituti. Come negli anni 80, nel 2008 e nel 2010: senza risultati. Per il Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura (Cpt) “gli Stati che riescono a contenere il numero dei detenuti sono quelli che hanno dato avvio a politiche che limitano drasticamente il ricorso alla detenzione”. Rispunta l’ennesimo piano carceri che prevede la creazione di due nuovi istituti penitenziari. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha sempre dichiarato di essere nettamente contrario alla riforma penitenziaria, una esigenza riformatrice nata diversi anni dopo che la Corte europea dei diritti dell’uomo, l’8 gennaio 2013, ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti in relazione al fenomeno del sovraffollamento delle carceri. Quindi il governo come affronterà il sovraffollamento penitenziario destinato ad aumentare? Il neo guardasigilli ha già pronta la risposta: costruire nuove carceri. Naufragato nel nulla la riforma dell’ordinamento penitenziario che puntava all’allargamento delle pene alternative, il nuovo governo - così come prevede il contratto stipulato tra M5S e Lega - è pronto a varare un nuovo piano carceri. Uno scenario già visto: si costruisce un nuovo contenitore, nel giro di poco si sovraffolla o si lascia inattivo per mancanza di fondi. È successo negli anni 80, poi ripetuto nel 2008 e poi nel 2010. Di fronte all’emergenza la politica, vecchia e nuova, risponde con la costruzione di nuove carceri che puntualmente non bastano mai. Attualmente nel territorio italiano sono dislocati 190 istituti penitenziari con un sovraffollamento - dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aggiornati al 31 maggio - di circa 8000 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare. Già questo dato fa capire che costruire due nuove carceri non basterebbe: si riempirebbero all’istante e il sovraffollamento rimane. I numeri degli istituti, come vedremo, sono aumentati attraverso vari piani carcere, con il risultato di aumentare i posti per poi essere riempiti nuovamente. Motivo per il quale, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) disse all’Italia che costruire nuove carceri per risolvere il problema del sovraffollamento non è la strada giusta, perché “gli Stati europei che hanno lanciato ampi programmi di costruzione di nuovi istituti hanno infatti scoperto che la loro popolazione detenuta aumentava di concerto con la crescita della capienza penitenziaria”. Viceversa, “gli Stati che riescono a contenere il sovraffollamento sono quelli che hanno dato avvio a politiche che limitano drasticamente il ricorso alla detenzione”. La storia penitenziaria Italiana, dati alla mano, confuta il suggerimento del Cpt. L’analisi del trend di presenze negli Istituti penitenziari non può prescindere da una lettura che tenga conto dei fattori sociali, legislativi economici e giudiziari degli ultimi decenni di storia del nostro Paese, con particolare riferimento al periodo successivo alla promulgazione della Costituzione. Non a caso, dal 1947 al 1970, assistiamo ad una significativa decarcerizzazione della popolazione detenuta, che passa da circa 65.000 a 21.000 unità nell’arco di venti anni. In seguito, dal 1971 al 1990, si registra un aumento di un terzo della popolazione carceraria, che da 21mila passa a circa 30 mila detenuti. E questo aumento combacia con la costruzione di nuove carceri del 1980: in quel contesto nacque lo scandalo delle “carceri d’oro”, quando i costi dei materiali lievitarono moltissimo. Dai vecchi dati del Dap, ad esempio, si registra che nel 1974 c’erano 28.286 detenuti. Eppure, sono numeri ridicoli a fronte di 58.569 detenuti di oggi, nonostante - dati Istat alla mano - i reati sono diminuiti rispetto a quegli anni. In tutto questo, gli istituti penitenziari sono aumentati di diverse unità rispetto agli anni 70. Dal 1990 al 2012 assistiamo a un considerevole aumento del trend fase di alta carcerizzazione - che raddoppia la presenza dei detenuti in carcere, raggiungendo quasi 65 mila detenuti. Numeri altissimi che fecero scattare la condanna dalla Corte europea di Strasburgo per trattamento inumano e degradante. Parliamo della sentenza pilota Torreggiani che ha costretto il nostro Paese a rivedere la pena e trovare percorsi alternativi al carcere. Ma non fu l’unica: ci fu un precedente. Parliamo della sentenza Sulejmanovic del 2009, dove per la prima volta la Corte europea accerta la violazione dell’articolo 3 della convenzione per eccessivo sovraffollamento carcerario. Fallimento piano carceri - A seguito della sentenza Sulejmanovic, il nostro Paese ha iniziato ad interrogarsi sulle azioni da implementare per affrontare il problema del sovraffollamento. Come? Con la costruzione di nuovi Istituti penitenziari. Eppure, nel 2008, era stato già avviato un programma straordinario per la realizzazione di nuove carceri e ci riuscirono pure: dal suo avvio al 2011, il Programma di edilizia penitenziaria ha portato alla realizzazione di 85 nuovi istituti. Ma nonostante ciò, il problema non si è risolto. Dopo la sentenza Sulejmanovic del 2009, Il governo, nel dichiarare lo stato d’emergenza, è intervenuto approvando, con ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri del 19 marzo 2010, n. 3861, il cosiddetto Piano carceri, destinato ad affiancarsi, senza sostituirlo, al programma di edilizia penitenziaria. Il Piano inizialmente prevedeva la programmazione di risorse finanziarie per 675 milioni di euro e prevedeva per il biennio 20112012 la realizzazione di 18 nuove carceri, di cui 10 ‘ flessibili’ (di prima accoglienza e a custodia attenuata, destinate a detenuti con pene lievi) cui se ne dovevano aggiungere altre 8 (anch’esse ‘ flessibili’) in aree strategiche, così da portare la cosiddetta capienza tollerabile delle carceri italiane a circa 80.000 unità, con un incremento complessivo di oltre 21.700 posti. L’attuazione degli interventi di edilizia penitenziaria è stata demandata dal 2010 al 2014 a Commissari ministeriali, in capo ai quali sono state accentrate le competenze attribuite in via ordinaria ai dicasteri della giustizia e delle infrastrutture. Il primo Commissario è stato il Capo del Dap e l’ultimo il Commissario straordinario del governo per le infrastrutture penitenziarie. Quest’ultimo, nominato il 3 dicembre 2012, ha cessato le sue funzioni con 5 mesi di anticipo rispetto alla scadenza originaria prevista per il 31 luglio 2014. Le sue funzioni sono quindi state riattribuite ai ministeri della Giustizia e delle Infrastrutture. Complessivamente il Piano carceri, al di là delle stime iniziali, ha portato a un miglioramento della capienza certificato dalla Corte dei Conti, pari a 4.415 posti tra 2010 e 2014. Un fallimento completo. Costruire nuove carceri non è la soluzione. I numeri lo confermano. Come si evince dall’ultimo rapporto di Antigone, il tasso di sovraffollamento è pari al 115,2%. Troppo spesso il carcere non aiuta la sicurezza dei cittadini. Dei 57.608 detenuti al 31 dicembre scorso, solo 22.253, meno del 37%, non avevano alle spalle precedenti carcerazioni. Oltre 7.000 ne avevano addirittura un numero che spazia dalle 5 alle 9. Le misure alternative garantiscono assai di più l’abbattimento della recidiva e dunque la sicurezza della società. E costano anche assai di meno del carcere. Un costo, quello relativo alla creazione di nuovi istituti, moderni e confortevoli che siano, del tutto inutile e anche dannoso, perché incrementa il ricorso alla carcerizzazione. La riforma dell’ordinamento penitenziario puntava alle pene alternative, avrebbe dato la possibilità ai magistrati di sorveglianza di poter decidere anche nei confronti di quei detenuti finora esclusi dai benefici. A proposito di carcere, il Partito Radicale, nel frattempo, ha depositato in Cassazione otto proposte di legge di iniziativa popolare. Tra le quali c’è la modifica di approvazione dell’amnistia (il quorum di 2/ 3 del Parlamento dal 1992 rende impossibili questi provvedimenti), il superamento dell’ergastolo ostativo e del regime del 41bis. Mascherin (Cnf): “non toccare le misure alternative” tag24.it, 5 giugno 2018 L’Avvocato Andrea Mascherin, presidente del Consiglio Nazionale Forense, è intervenuto ai microfoni di “Legge o Giustizia” su Radio Cusano Campus per parlare delle prospettive in tema di giustizia del nuovo Governo: “È necessario che il governo si soffermi sui progetti su cui già hanno iniziato a lavorare - ha detto Mascherin. Ad esempio l’ordinamento penitenziario, che è stato costruito con una riforma che ha richiesto 3 anni, attraverso l’aiuto di tutti gli esperti del settore. Il 70% dei detenuti ammessi alle misure alternative non sono recidivi - Dai pubblici ministeri, agli avvocati, ai medici. Il 70% dei detenuti ammessi alle misure alternative non sono recidivi. Il 70 % di quelli che fanno solo carcere, invece, tornano a commettere reati perché il carcere è criminoso. Questo vale sia per l’Italia che per l’estero. Recuperare vuol dire per la società avere anche dei soggetti economicamente attivi, e che quindi non pesano sulle casse dello Stato perché non devono essere mantenuti in carcere”. Il nuovo guardasigilli è Alfonso Bonafede, avvocato: “Non mi aspetto un occhio di riguardo da parte di Alfonso Bonafede in quanto avvocato nei confronti dell’avvocatura. Però essendo un uomo di diritto, che ha nell’esercizio della propria professione come funzione la tutela del diritto e dei diritti, mi aspetto che si adoperi per riportare al centro l’idea di una giurisdizione al servizio dei cittadini, senza proclami e proposte inattuabili e senza soluzioni poco credibili. Bonafede è una persona ragionevole e con il ruolo di ministro il senso responsabilità aumenta - Bisogna investire in giustizia, e questo un avvocato lo sa e lo sa anche Bonafede, in quanto avvocato. Bonafede è una persona ragionevole e con il ruolo di ministro il senso responsabilità aumenta. Mi auguro, quindi, che da uomo di legge si comporti come da esperienza maturata. Il Consiglio nazionale forense, che per legge è consulente del ministro della giustizia, è sempre pronto a dare il supporto critico e costruttivo e positivo necessario”. Giustizia, i garantisti devono farsi sentire di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 5 giugno 2018 Le prime mosse del nuovo governo relative alla giustizia riguardano, come per gli altri ministeri, le nomine. Il Capo di gabinetto del ministro, il capo del Dap, il capo dell’ufficio legislativo, il direttore generale degli affari giudiziari hanno un ruolo chiave e, in certa misura, consentono di avere un’idea di quella che sarà la direzione della politica ministeriale. Nel ministero della giustizia questi ruoli sono riservati ai magistrati. Con la conseguenza che lo “scandaloso” rapporto tra magistratura e politica è in questo caso necessario e risponde ad una logica istituzionale. Ciononostante, è ogni volta oggetto di critiche e di polemiche, siccome le scelte sono interpretate come spia di rapporti impropri tra il nuovo ministro e singoli magistrati o singole correnti della magistratura. Se a questo dato di fatto si aggiunge la circostanza che le no- mine sono destinate ad essere fatte durante la campagna elettorale che porta alle elezioni del nuovo Consiglio Superiore della Magistratura, fissate per il 9 e 10 luglio prossimi, si comprende che la polemica sul punto è particolarmente accesa, sia tra le forze politiche e sia all’interno della magistratura. Ma sono polemiche essenzialmente ipocrite. Nella storia della Repubblica, non vi è stato ministro che non si sia circondato di persone che avevano la sua fiducia. Come è normale che sia, atteso che il Ministero di grazia e giustizia svolge una attività politico-amministrativa, e certamente non giudiziaria. Né essere scelti da un ministro può essere additato come un segnale di mancanza di indipendenza del magistrato scelto. Il criterio della fiducia è del tutto diverso da quello della subalternità e del clientelismo: esso consente di scegliere persone degnissime. Né la loro statura può essere messa in discussione per il fatto che sono scelti da un ministro. La polemica sulle nomine segnala, tuttavia, il silenzio su quello che dovrà essere il vero terreno di confronto in ordine alla attività del nuovo governo in materia di giustizia. Il “contratto” dedica al tema della giustizia il paragrafo 12 e copre le pagine da 22 a 26. Ebbene, non vi è nemmeno una parola dedicata alla necessità di non pregiudicare il diritto di difesa, di non compromettere la presunzione di innocenza, di rispettare la dignità degli ultimi degli ultimi, e cioè dei detenuti. Nonostante questo, non si è finora registrata nessuna presa di posizione adeguatamente portata all’attenzione dell’opinione pubblica da parte delle correnti organizzate della magistratura. Che sempre pronte a mettere in discussione le scelte della politica, stavolta tacciono. Anche Magistratura democratica, che nel suo dna originario aveva il garantismo, totalmente perso nell’orgia di Mani Pulite, è restata silente. Sul suo sito si registra solo una garbata richiesta di non far decadere la riforma penitenziaria. Ma non migliore è la situazione all’esterno della magistratura. A parte alcuni singoli, che con ostinazione ammirevole hanno mantenuto ferma la fedeltà al garantismo, la situazione in cui versano le forze politiche è disperante. Il Pd, oggi all’opposizione, è legittimato, come sembra pretendere, a farsi vessillifero della battaglia garantista? Bastano poche considerazioni: era l’azionista di riferimento di un governo che avrebbe potuto definitivamente approvare la riforma penitenziaria e che per un meschino e perdente calcolo elettorale ha evitato ogni assunzione di responsabilità con l’ambigua tecnica del rinvio; la riforma che porta il nome del suo ministro si segnala per l’inasprimento delle pene previste per una serie di reati contro il patrimonio, che peraltro erano già puniti in modo severo; la condotta dei suoi esponenti, quando si è trattato di autorizzare l’arresto di membri del Parlamento si è sempre ispirata ad una acritica acquiescenza alle tesi dei pubblici ministeri, anche quando palesemente infondate. Né maggior credito può vantare Forza Italia, che ha ostacolato l’approvazione della riforma penitenziaria e le cui reazioni pubbliche alle questioni, implicanti il tema del garantismo, sono state spesso ondivaghe e ispirate alla convenienza del momento. Ecco allora che è molto meglio, per tutti, polemizzare sulle nomine del ministro di grazia e giustizia. Ma il nodo di una giustizia rispettosa degli individui verrà presto in evidenza. Ed i garantisti, quelli veri e non quelli farlocchi alla bisogna, devono organizzarsi al più presto. Fortunatamente possono fare affidamento su due istituzioni, che non hanno mai tradito: il partito radicale e l’ordine degli avvocati. Prescrizione e Csm: il doppio test di Antonio Esposito Il Fatto Quotidiano, 5 giugno 2018 Due recenti accadimenti alimentano la speranza che si possa finalmente giungere a una riforma radicale del Csm che consenta al l’organo di autogoverno dei magistrati di riacquistare quella imparzialità e quella autorevolezza oggi in buona parte compromesse. Per la prima volta un gruppo consistente di magistrati - che si riconosce nelle posizioni di Piercamillo Davigo - ha denunziato gli eccessi e gli abusi del Csm in un lungo comunicato. Il comunicato parte dalla constatazione: a) della esistenza di “corsie preferenziali e favoritismi dei magistrati che hanno l’appoggio delle correnti” b) della “presenza tra i nominati a incarichi direttivi e semi-direttivi di molti attivisti di corrente nonché di alcuni provenienti direttamente da incarichi fuori ruolo” c) della circostanza che “per la prima volta nella storia del Csm, i componenti laici sono stati tutti politici di primo livello”. Prosegue il comunicato: “L’assegnazione degli incarichi di dirigenza è stata troppo spesso contrassegnata da una logica di appartenenza che ha accomunato tutti i gruppi tradizionali dando luogo ad eccessi di potere, molte volte rilevati dal giudice amministrativo (anche se inutilmente, perché il Csm di regola non ottempera alle decisioni di annullamento del giudice amministrativo e ripropone con diversa motivazione il precedente nominato). E alla logica di appartenenza, cosa di per sé già insopportabile, in questa consiliatura si è aggiunta anche la chiara sensazione che la politica e i collegamenti con la politica oggi contano, e molto, nelle scelte consiliari”. La conclusione è che “il sistema non può continuare a funzionare così”. Il secondo avvenimento è che, per la prima volta, in un accordo di programma di governo (impropriamente definito “contratto”, cosa ben diversa), si dà atto della esistenza delle “attuali logiche spartitorie e correntizie in seno all’organo di autogoverno della magistratura che si intendono rimuovere attraverso la revisione del sistema di elezione sia per quanto attiene i componenti laici che quelli togati”. Avendo, in campagna elettorale, il M5S adombrato per i togati un sistema di estrazione a sorte e avendo proposto che i componenti laici non debbano essere parlamentari, ci si sarebbe aspettato proposte più specifiche e l’emanazione di una legge che: a) vieti l’elezione, come membri laici, di ministri, sottosegretari, parlamentari, consiglieri regionali, sindaci; b) modifichi il sistema di nomina dei togati tagliando completamente fuori le correnti (estrazione a sorte). L’unico rimedio per “rimuovere le attuali logiche spartitorie e correntizie in seno all’organo di autogoverno della magistratura” è quello della nomina per estrazione a sorte poiché qualsiasi “sistema di elezione” dei togati non è idoneo a impedire l’occupazione del Csm da parte delle correnti. Tutti i “sistemi di elezione” sperimentati, in 60 anni hanno dato risultati sempre peggiori. Sistema che non deve meravigliare perché se un magistrato può giudicare della libertà e dei beni del cittadino, ben sarà in grado, se estratto a sorte, di valutare le “assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni e gli illeciti disciplinari nei riguardi degli altri magistrati” (art. 104 della Carta). In attesa di iniziative legislative in tal senso, un primo banco di prova sarà costituito dalle oramai prossime elezioni dei membri laici del Csm. Sarà allora possibile verificare se i due partiti di maggioranza (M5S e Lega) indicheranno esclusivamente professori universitari di chiara fama ed “effettivi” avvocati e se contrasteranno l’eventuale designazione, da parte dei partiti di minoranza, di politici “travestiti” da docenti e avvocati. L’altro banco di prova sarà costituito dai tempi e dalle modalità della “efficace riforma della prescrizione” ritenuta, nell’accordo di programma, “necessaria”. Si potrà così verificare se tale riforma sarà una priorità del governo e se essa sarà attuata con una normativa che faccia decorrere la prescrizione dalla data del rinvio a giudizio, unico rimedio per impedire che essa venga dichiarata, come spesso accade, già con la sentenza di primo grado. Su Repubblica del 25 maggio si leggeva che “dal leader leghista, il Cavaliere aveva ricevuto rassicurazioni proprio sulla casella della Giustizia (e dello sviluppo economico), in cambio della neutralità”. Saranno, allora, questi primi banchi di prova a dirci se questo “governo del cambiamento”, che ha al suo vertice un “avvocato del popolo”, sarà in grado di riscrivere la storia del “comparto Giustizia” per ottenere - come recita l’accordo di programma - “un processo giusto e tempestivo ed evitare che l’allungamento del processo possa rappresentare il presupposto di una denegata Giustizia”. Basterà aspettare. Intercettazioni: nodo per Bonafede, Anm chiede lo stop di Otto Fiori Il Secolo XIX, 5 giugno 2018 La riforma delle intercettazioni e quella dell’ordinamento penitenziario: sono i due grossi temi che il nuovo ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede trova nell’immediato sul suo tavolo, come eredità dal suo predecessore, Andrea Orlando. Il ministro ha incontrato per la prima volta i dipendenti di via Arenula e a loro ha assicurato che non intende buttare tutto all’aria ma che considera la “continuità” un valore. È il primo, scottante dossier che attende il nuovo inquilino di via Arenula: l’entrata in vigore del nuovo provvedimento, già approvato in via definitiva, è fissata per il 21 luglio. E qui il guardasigilli dovrà decidere se accogliere le sollecitazioni arrivate dall’Anm e dal suo numero uno, Francesco Minisci, il quale è tornato a chiedere ancora una volta di rinviare l’applicazione di una “riforma sbagliata, che danneggia indagini e diritto di difesa”, e di ripensarla. Anche perché’ “non sono nemmeno pronte le strutture”: se si mantenesse la data prevista, la riforma sarebbe “inapplicabile”, avverte li leader dei giudici. Bonafede, quindi, dovrà capire a breve se, e in che misura, accogliere le istanze dei magistrati e tener fede alle sue passate valutazioni, quando sosteneva che il testo sulle intercettazioni “è una follia”. La riforma dell’ordinamento penitenziario doveva rappresentare il coronamento del processo messo in moto dall’ex guardasigilli. Invece è rimasta al palo prima delle elezioni perché poco appetibile in campagna elettorale, e da quelle secche non è più uscita, nonostante gli appelli delle associazioni, dei Radicali, del garante dei detenuti, dei penalisti, e i tentativi di sblocco dello stesso Orlando. Il cuore della riforma, un decreto attuativo, è rappresentato dall’estensione delle misure alternative al carcere: chi ha una pena residua fino a 4 anni, vi può accedere, se il magistrato di sorveglianza dà l’ok. Ora il governo, e al suo interno Bonafede, dovranno decidere cosa fare del testo: se completare o meno l’iter di un provvedimento che il leader della Lega, oggi al Viminale, Matteo Salvini, ha definito senza mezzi termini un decreto “salva-ladri”, oppure trovare una via mediana prevedendo correttivi. Va detto che a metà aprile, quando il provvedimento era praticamente a bagnomaria, fu il presidente della Camera Roberto Fico, M5S, a chiedere una riflessione per valutare di riprendere l’esame della riforma. Nella scorsa legislatura, da deputato e vice presidente della commissione Giustizia, Bonafede ha più volte caldeggiato un nuovo piano carceri e sostenuto l’idea della certezza della pena. Ora su questi temi ci sarà la prova del nove. Un appello arriva intanto dal Consiglio nazionale forense: la riforma è necessaria ed è importante che il governo la valuti con “grande serenità”, dice il presidente Andrea Mascherin. Sfida intercettazioni per Bonafede: il vertice di tre ore con Orlando di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 5 giugno 2018 Il ministro annuncia una visita a Bari per l’emergenza del Palazzo di Giustizia. L’unico magistrato a cui ha telefonato dopo la nomina a Guardasigilli, assicura pubblicamente, è stato il presidente del “sindacato delle toghe”, Francesco Minisci. Alfonso Bonafede gli ha annunciato una visita a Bari, dove c’è “l’emergenza concreta” di un Palazzo di Giustizia trasferito in una tendopoli. Il capo dell’Associazione nazionale magistrati conferma: “Bisogna intervenire immediatamente per tornare a lavorare in una situazione dignitosa. Noi mercoledì (domani, ndr) incontreremo i colleghi in un’assemblea sotto le tende, e se ci sarà anche il ministro sarà il benvenuto. Altrimenti ne parleremo alla prima occasione”. Ma per il presidente dell’Anm di emergenza da affrontare ce n’è pure un’altra, ugualmente urgente: la riforma delle intercettazioni, che senza una moratoria entrerà in vigore a fine luglio. “Mancano le strutture per farla funzionare, e nel merito è una riforma che non porta benefici, solo danni alle indagini”, insiste Minisci. E c’è da ritenere che il quarantaduenne neoministro della Giustizia sia d’accordo, visto che non più tardi di tre mesi fa, alla vigilia delle elezioni, definiva la nuova legge “un’autentica follia, non sono contenti né magistrati né avvocati, segno che si tratta di una riforma scritta con i piedi. Non va bene che il filtro delle conversazioni più o meno rilevanti sia applicato e deciso dalle forze di polizia, è un grave vulnus per gli indagati”. In effetti anche le Camere penali, come i principali procuratori, hanno chiesto di rivedere le nuove norme, e dunque è probabile che la scadenza di fine luglio sia l’occasione per fermare l’applicazione della riforma e avere il tempo di modificarla. Per il resto, il “contratto di governo” in tema di giustizia è scritto, ma il percorso per realizzarlo è tutto da tracciare. Ieri, nel rapido saluto rivolto ai funzionari e dipendenti ministeriali parlando da un piccolo palco approntato nel cortile del palazzo di via Arenula, Bonafede ha spiegato che “in passato ognuno tendeva a buttare all’aria quello che era stato fatto prima, ma con me non sarà così. Darò una direzione al ministero, ma per me la continuità è un valore per il buon funzionamento dell’amministrazione”. Applausi di tutti i presenti. Soprattutto impiegati, giacché a leggere il programma messo insieme da Cinque Stelle e Lega, sul piano dei contenuti di continuità con il governo precedente ce ne può essere ben poca. Anzi, l’obiettivo sembra demolire gran parte delle riforme approvate negli ultimi anni (a parte il nuovo diritto fallimentare): dall’ordinamento penitenziario (che con ogni probabilità sarà lasciato morire senza farlo entrare in vigore) alla revisione della geografia giudiziaria con il ripristino dei tribunali aboliti, fino alla depenalizzazione e ai riti alternativi per ridurre le pendenze giudiziarie. Per ciò che non comporta nuove spese, come la riformulazione di alcuni reati (dall’estensione della “legittima difesa domiciliare” all’aumento di pene per la corruzione in atti d’ufficio), la strada potrebbe essere spianata. Ma ancora è presto per definire le tappe. Venerdì sera Bonafede è rimasto fino a mezzanotte, per oltre tre ore, con il predecessore Andrea Orlando che gli ha illustrato la situazione in ogni dettaglio. Compresa l’emergenza Bari, dove sono state individuate due possibili soluzioni (non gradite a tutti, però) in attesa che partano i lavori per la cittadella giudiziaria, con i fondi già stanziati. Il nuovo Guardasigilli ha definito “importantissimo” l’incontro con il vecchio, e ora ha il problema di trovare i collaboratori per un lavoro che non prevede pause; entro oggi, ad esempio, ci sono da firmare sette proroghe di “carcere duro” per altrettanti detenuti camorristi. In attesa dei sottosegretari (circolano i nomi del neosenatore grillino Elio Lannutti e del professor Daniele Piva), c’è da scegliere il capo di gabinetto; ruolo strategico, solitamente affidato a un magistrato. Se fosse vero che Bonafede intende pescare nella corrente davighiana di Autonomia e indipendenza, sarebbe più prudente aspettare le elezioni per il Csm dell’8 luglio. Quel gruppo, infatti, è nato da una scissione di Magistratura indipendente dovuta anche al l’eccessiva contiguità con il potere politico contestata ai dirigenti. Una nomina ministeriale prima del voto potrebbe risultare controproducente, ma “le logiche correntizie non ci appartengono”, assicurano i nuovi inquilini del ministero. Sarà un altro banco di prova. Più difficile ribaltare l’assoluzione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2018 Tribunale di Napoli - Sentenza Rg 813/2018. Appello limitato contro le sentenze di assoluzione. Tanto più alla luce della riforma del processo penale dell’anno scorso. Lo sottolinea la Corte d’appello di Napoli in una delle primissime applicazioni della norma. I giudici, con la sentenza 876 del 2018, avvertono che, dopo l’entrata in vigore della legge 103 del 2017, è stato definitivamente stabilito che, nel caso di appello del Pm contro una sentenza di proscioglimento per motivi che riguardano la prova dichiarativa, il giudice dispone lo svolgimento di un nuovo dibattimento. Decisione che però è possibile solo se il giudice ritiene che un nuovo dibattimento può essere “influente ai fini del ribaltamento della decisione”; in caso contrario, scatta la conferma della pronuncia di primo grado. La sentenza ricostruisce il percorso giuridico che ha condotto alla riforma dell’estate 2017: in questo senso un punto di riferimento obbligato è rappresentato dalla legge 46 del 2006 che introdusse il principio dell’”oltre ogni ragionevole dubbio”, previsione che, anche se non più accompagnata dalla regola dell’inappellabilità delle sentenze di assoluzione (bocciata dalla Corte costituzionale nel 2007), presuppone comunque che in assenza di nuovi elementi, l’eventuale rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello sullo stesso materiale probatorio già acquisito in primo grado e ritenuto non idoneo a fondare una condanna, deve essere sorretta da argomenti robusti, di portata tale da mettere in evidenza carenze e insufficienze dell’assoluzione. Per cancellare un’assoluzione allora non è sufficiente una semplice diversa valutazione del materiale probatorio, ma serve una “forza persuasiva superiore” tale da fare cadere ogni ragionevole dubbio. “La condanna, invero, presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza, ma la mera non certezza della colpevolezza”. A chiarire ancora meglio, c’era poi stata la sentenza delle Sezioni unite penali 27620 del 2016 che fissò i principi di diritto in base ai quali è possibile il ribaltamento dell’assoluzione di primo grado. Nel caso esaminato dalla Corte d’appello, per esempio, l’appello del pubblico ministero, è stato respinto sulla base di una valutazione di sostanziale inutilità, sia per quanto riguarda un nuovo ascolto dei testimoni, visto che l’esame in primo grado è stato ritenuto lungo e approfondito, e a poco servirebbe per la ricostruzione della vicenda, sia per quanto riguarda una nuova visione dei filmati perché da questi, analizzati fotogramma per fotogramma, non era già stato possibile ricostruire l’identità dei sospetti. L’artigiano paga per l’omicidio commesso dall’apprendista di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2018 Corte di cassazione -?Sentenza 4 giugno 2018 n. 14216. Chi insegna un arte od un mestiere - nel caso quello di barbiere - è responsabile del fatto illecito compiuto dall’apprendista, a meno che non provi l’impossibilità di evitarlo. Con questa motivazione la Corte di cassazione, sentenza n. 14216 del 4 giugno 2018, ha accolto la domanda di manleva, nei confronti del titolare della barberia, da parte dei genitori di un ragazzo di 15 anni, della provincia di Napoli, reo di aver ucciso per futili motivi (il presunto furto di sigarette) un altro giovane apprendista del negozio mentre il proprietario era assente. Secondo la coppia dei genitori, condannata dal Tribunale per “culpa in educando”, la responsabilità del barbiere per “culpa in vigilando” doveva ritenersi presunta ex articolo 2048 del codice civile. La Cassazione ha accolto il motivo di ricorso affermando che il giudice di primo grado aveva accertato che al momento dell’omicidio, avvenuto all’interno del negozio di barberia, il titolare non era presente. Dunque, aveva errato la corte di merito a scagionarlo perché “arrivato solo dieci minuti dopo i fatti”. Fra gli obblighi fondamentali dell’imprenditore o artigiano che assume un apprendista vi è infatti quello della “presenza”. In conclusione, afferma la Cassazione, “per liberarsi dalla presunzione di cui all’art. 2048 c.c. il precettore o maestro d’arte deve provare che né lui, né alcun altro precettore “diligente” ai sensi dell’art. 1176, comma secondo, c.c., nella medesima situazione, avrebbe potuto evitare il danno”. Del resto, prosegue, “il precettore medio non avrebbe mai lasciato solo un apprendista minorenne”. Il Tribunale dunque, conclude la decisione, “non ha applicato la presunzione di cui all’art. 2048 c.c. in un caso in cui non solo la prova liberatoria era mancata, ma anzi esso stesso aveva accertato in concreto che il precettore tenne una condotta non conforme al canone della diligenza”. Per cui la decisione è stata cassata ed affermato il principio di diritto secondo cui: “il precettore od il maestro d’arte, per liberarsi dalla presunzione di colpa posta a loro carico dall’articolo 2048, hanno l’onere di provare che né loro, né alcun altro precettore diligente, ai sensi dell’articolo 1176, comma secondo, c.c., avrebbe potuto, nelle medesime circostanze, evitare il danno”. Asilo politico alla vittima di violenza domestica in patria Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2018 Tribunale di Roma - Sezione diritti della persona e immigrazione - Ordinanza 11 maggio 2018. Riconosciuto il diritto di asilo e una donna senegalese che in patria era stata oggetto di violenza domestica. Lo ha deciso il tribunale di Roma con l’ordinanza 11 maggio 2018. La storia - Una cittadina senegalese, originaria di Dakar, aveva lasciato il Senegal per fuggire dall’uomo con cui era stata costretta a sposarsi e dal quale aveva subito ripetute violenze sessuali e psicologiche. La donna, orfana di genitori, aveva tentato di sottrarsi al matrimonio forzato con un uomo molto più grande di lei e che aveva già due mogli, rivolgendosi alla polizia. Ma era stata invitata a rispettare le tradizioni. In seguito al rito, svoltosi in sua assenza e alla sola presenza del marito e dei testimoni, era iniziata una convivenza fatta di soprusi e violenza domestica e durante la quale era stata anche costretta a lasciare il lavoro come contabile. In seguito a un’emorragia causata da un aborto, confidato il suo dramma a un’infermiera, era stata aiutata a fuggire con un passaporto falso. La sua domanda di protezione internazionale, presentata all’arrivo in Italia, era stata però rifiutata dalla Commissione territoriale che non aveva ritenuto il suo racconto coerente e verosimile. La decisione - Il giudice del Tribunale civile di Roma, Cristiana Ciavattone, accogliendo il ricorso presentato dall’avvocato di Orogetto Diritti Mario Angelelli, ha riconosciuto invece alla donna lo status di rifugiata. Con sentenza dell’11 maggio 2018, i magistrato rileva che, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, ai sensi dell’articolo 7 del Dlgs 251/2007 (cosiddetto qualifiche), gli atti di persecuzione possono assumere la forma, tra l’altro, di “atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale” (secondo comma, lettera a), o di “atti specificatamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia” (secondo comma, lettera f). Inoltre la giudice cita gli articoli 3 e 60 della Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011 (resa esecutiva in Italia con la legge 77/2013) sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne, che attestano che anche gli atti di violenza domestica sono riconducibili all’ambito dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale. Secondo le linee dell’Unhcr del 7 maggio 2002 sulla persecuzione basata sul genere, si ha persecuzione anche quando una donna viene limitata nel godimento dei propri diritti a causa del rifiuto di attenersi a disposizioni tradizionali religiose legate al suo genere. Occorre infine tenere presente il dato sul contesto d’origine che registra come la pratica dei matrimoni forzati sia ancora diffusa in Senegal. Pratica a seguito della quale molte giovani donne, anche minori, sono costrette ad abbandonare gli studi e le attività svolte. “Deve pertanto ritenersi- conclude il giudice - che l’odierna ricorrente sia stata vittima di una persecuzione personale e diretta per l’appartenenza a un gruppo sociale (in quanto donna), nella forma di “atti specificatamente diretti contro un genere sessuale” e deve pertanto esserle accordato lo status di rifugiato”. Extracomunitari con figli, espulsione non automatica Italia Oggi, 5 giugno 2018 No ad automatismi per l’espulsione di un extracomunitario dall’Italia a seguito di condanne irrevocabili, se questo ha fi gli minorenni che vivono e sono integrati nel nostro Paese. La Cassazione, con una sentenza depositata ieri (14238 del 2018), ha stabilito che “nel giudizio avente ad oggetto l’autorizzazione all’ingresso o la permanenza in Italia del familiare del minore straniero, la sussistenza di comportamenti del familiare medesimo incompatibili con il suo soggiorno nel territorio nazionale deve essere valutata in concreto e attraverso un esame complessivo della sua condotta al fine di stabilire, all’esito di un attento bilanciamento, se le esigenze statuali inerenti alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale debbano prevalere su quelle derivanti da gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore” a cui la legge “conferisce protezione in via primaria”. La Suprema corte ha così accolto il ricorso di una coppia cinese che, dopo essere stata condannata in via definitiva per reati di contraffazione e ricettazione, si era vista rigettare l’istanza di poter restare in Italia “nell’interesse” dei tre fi gli minorenni, tutti nati e cresciuti nel nostro Paese. La Corte d’appello di Napoli aveva affermato che “il diritto del minore a vivere nella propria famiglia non può prevalere sull’interesse dello Stato alla tutela del territorio e alla sicurezza dei cittadini, nel caso in cui colui che richieda il permesso di soggiorno abbia commesso reati tali da far presumere la sua pericolosità sociale”. Inoltre, secondo la Corte d’appello, è vero che “i minori sono tutti nati in Italia e che sono ben inseriti nel contesto scolastico e amicale”, ma “la previsione che essi potrebbero subire un danno psicologico in conseguenza del l’allontanamento dei genitori - era la tesi dei giudici di secondo grado - non costituisce ragione sufficiente per consentire l’ulteriore permanenza di questi ultimi in Italia”, anche perché i figli sarebbero comunque “privati del sostegno” dei genitori che dovrebbero scontare la pena in carcere. La Cassazione non ha condiviso le osservazioni dei giudici d’appello, affermando che questi non hanno fatto “corretta applicazione” delle norme in materia: la Corte partenopea dovrà quindi riesaminare la vicenda sulla base del principio di diritto enunciato dai giudici di legittimità. È stalking usare un bene con fini persecutori di Luana Tagliolini Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2018 Corte di cassazione - Sentenza 20473/2018. Possono integrare il reato di stalking i comportamenti persecutori posti in essere nei confronti dei vicini. Lo ha precisato la Corte di cassazione, V sezione penale (sentenza 20473/2018) che si è pronunciata su un provvedimento della Corte d’Appello che aveva assolto l’imputato da reato di atti persecutori per condotte reiterate di minaccia e molestia dei vicini di casa. L’imputato aveva assunto una serie di condotte di disturbo (aveva collegato al telefono della sua abitazione una campana elettrica esterna che attivava ogni mattina un allarme, teneva il motore del camion accesso anche per ore sotto le finestre dei vicini, custodiva asini in un adiacente letamaio a pochi metri dalle abitazioni, lanciava, nei giardini dei vicini, sassi e mozziconi di sigaro, aveva posizionato una latrina mobile sul confine) ma la Corte d’appello aveva giustificato queste condotte con motivazioni strettamente connesse alle esigenze lavorative (anche se nella sua abitazione l’imputato non svolgeva alcuna attività lavorativa) o all’inosservanza di norme civilistiche (e non penali) che regolano il diritto di proprietà. Per la Corte di merito non era ravvisabile la “finalità persecutoria nelle singole azioni denunciate dalle parti civili, bensì esplicazione del diritto di proprietà e del diritto di utilizzo del bene secondo le proprie esigenze e necessità, utilizzo che, comunque, deve sottostare a rigide regole civilistiche per non compromettere e sacrificare le ragioni altrui ma non per questo, in caso di inosservanza di dette regole, rende dolosi gli atti posti in essere né conferisce ad essi connotazione e carattere penale”. Per la Corte di cassazione, invece, l’aver ritenuto “non persecutorie” le finalità dei comportamenti dell’imputato vuol dire che la Corte di Appello ha effettuato una “erronea sovrapposizione concettuale tra la nozione di dolo e quella di mero movente dell’azione, la causa psichica della condotta umana, lo stimolo che ha indotto l’autore ad agire, facendo scattare la volontà”. Quindi, conclude la Cassazione, a prescindere dalla valutazione dell’effettiva esistenza di un movente connesso a esigenze lavorative o all’esercizio del diritto di proprietà, è pacifico che il movente dell’azione - pur potendo contribuire all’accertamento del dolo - non coincide con la coscienza e volontà del fatto, della quale può, invece, rappresentare il presupposto. Proprio quest’ultima indagine non era stata adeguatamente effettuata dalla Corte di merito, perciò la Cassazione ha accolto il ricorso e annullato la sentenza con rinvio. Misure cautelari personali: la retrodatazione dei termini in ipotesi di contestazioni a catena Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2018 Misure cautelari - Personali - Pluralità di ordinanze applicative - Contestazione a catena - Computo dei termini di durata - Articolo 297 c. 3, c.p.p.- Retrodatazione - Questione di diritto. Deve essere rimessa all’intervento regolatore delle Sezioni Unite la seguente questione di diritto: se, in ipotesi di pluralità di ordinanze applicative di misure cautelari per fatti connessi, la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, di cui all’articolo 297 c.p.p., comma 3, debba essere effettuata frazionando la durata globale della custodia cautelare, ed imputandovi solo i periodi relativi a fasi omogenee. • Corte di cassazione, sezione II, ordinanza 3 maggio 2018 n. 19100. Misure cautelari - Istanza di continuazione - Decorso del lasso del tempo - Contestazione a catena - Retrodatazione - Requisiti - Inammissibilità. Nel caso in cui le ordinanze cautelari adottate in procedimenti diversi riguardino fatti tra i quali non sussiste connessione e gli elementi giustificativi della seconda erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della prima, i termini della seconda ordinanza decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima, solo se i due procedimenti sono in corso davanti alla stessa autorità giudiziaria e la loro separazione può essere frutto di una scelta del pubblico ministero. • Corte di cassazione, sezione 4 penale, sentenza 30 marzo 2018 n. 14689. Arresti domiciliari - Decorrenza della misura - Pluralità di ordinanze cautelari - Efficacia della misura applicata con il primo provvedimento - Retrodatazione della seconda - Assimilazione della misura retrodatata a quella primigenia. Con il principio enunciato dall’articolo 297 c.p.p., comma 3, il legislatore ha operato una sorta di fictio iuris, in base alla quale la contestazione a fini cautelari di fatti uguali o connessi e già desumibili e conoscibili ab origine si risolve nell’applicazione di un unico termine di durata, decorrente dall’applicazione della prima misura, come se quest’ultima fosse l’unica misura applicata; con la rilevante conseguenza che le vicende processuali che spiegano i loro effetti sulla prima ordinanza (fra le quali sicuramente devono annoverarsi i passaggi a fasi procedimentali successive e la decorrenza dei termini custodiali relativi a tali fasi) si riverberano indefettibilmente anche sulla seconda. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 10 aprile 2017 n. 18111. Misure cautelari - Personali - Provvedimenti - Termini di durata delle misure: computo - Pluralità di ordinanze - Contestazioni a catena - Retrodatazione della decorrenza dei termini di durata della custodia cautelare - Dibattimento - Possibilità di invocarla - Esclusione. Qualora si assuma l’esistenza di una cosiddetta “contestazione a catena”, la retrodatazione della decorrenza dei termini di durata della misura cautelare successivamente disposta può essere invocata solo nella fase delle indagini preliminari e non già nel corso del dibattimento. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 30 dicembre 2009 n. 50000. Misure cautelari - Personali - Termini di durata delle misure: computo - Pluralità di ordinanze - Retrodatazione - Differenti procedimenti non legati da connessione qualificata. L’esigenza di “riallineare” fattispecie cautelari, che, pur dovendo nascere in un unico contesto temporale (con l’effetto di comportare una contestuale compressione della libertà personale), si siano sviluppate in tempi successivi, diluendo i termini di durata della custodia cautelare - che costituisce ratio della regola della retrodatazione dei termini di custodia cautelare (ovvero la decorrenza del termine di custodia cautelare dal giorno della esecuzione del primo provvedimento) sussiste non solo in presenza di fatti oggetto del medesimo procedimento (che per la loro connessione, sono destinati ad essere trattati congiuntamente), ma anche di fatti, oggetto di procedimenti diversi, che, essendo connessi e noti prima del rinvio a giudizio, avrebbero dovuto essere riuniti nello stesso procedimento, ovvero che di fatti, per i quali non sussiste la connessione qualificata ma che per “scelta” del pubblico ministero non siano stati riuniti nello stesso procedimento. • Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 10 aprile 2007 n. 14535. Sicilia: viaggio nelle carceri siciliane, dove si rischia la pazzia di Miriam Di Peri meridionews.it, 5 giugno 2018 Fino al 25% di detenuti soffre di disturbi psichiatrici. “È dalle carceri che si misura il grado di civiltà di una Nazione”, diceva Voltaire. Guardando ai numeri e ai racconti di associazioni e Garante, l’Isola fatica ad assicurare il diritto alla Salute dietro le sbarre: tempi di attesa lunghissimi per le visite specialistiche, carenze di personale e di strutture alternative come le Rems aggravano solitudine e abbandono. A Palermo e Catania un detenuto su quattro soffre di disturbi psichiatrici. Al Pagliarelli attualmente tre carcerati sono stati dichiarati incapaci di intendere e di volere e non potrebbero nemmeno stare lì. Senza contare la scarsissima continuità nel rapporto tra medico e paziente e i tempi d’attesa lunghissimi per una visita media specialistica. È lo stato della sanità nelle carceri siciliane, che molti vorrebbero relegare a un buco nero di cui dimenticarsi, e che invece è urgente affrontare per uno Stato di diritto, considerato che, prendendo in prestito le parole di Voltaire, “è dalle carceri che si misura il grado di civiltà di una Nazione”. Una condizione grave denunciata più volte e ribadita anche nell’ultimo rapporto del Garante siciliano dei diritti dei detenuti. Torna in mente Fabrizio De Andrè, nel racconto della “sua” ora di libertà, mentre descrive l’aria asfittica che si respira al di là delle sbarre. “Di respirare la stessa aria di un secondino non mi va perciò ho deciso di rinunciare alla mia ora di libertà”. È difficile, stabilire un contatto di fiducia con chi sta dall’altro lato delle sbarre. Lo è stato ancora di più nella fase di transizione di competenze dal ministero della Giustizia alle Regioni (e dunque alle Asp) che la Sicilia, ultima in Italia, ha completato nel 2018. “Com’era inevitabile - ammette il Garante regionale per i diritti dei detenuti, Giovanni Fiandaca, nel rapporto annuale sullo stato delle carceri - questo passaggio di competenze ha in un primo momento sollevato svariati problemi di natura organizzativa e funzionale, per il superamento dei quali sono state necessari diversi momenti di interlocuzione e confronto tra le autorità penitenziarie e l’assessorato regionale alla Salute”. Ma nonostante adesso, come confermato dal responsabile di settore dell’Asp di Palermo, Pippo Noto, “i servizi sanitari erogati nelle carceri siciliane siano entrati a regime”, restano diversi i temi ancora aperti in materia di medicina penitenziaria. A cominciare dai lunghissimi tempi d’attesa per le visite specialistiche, alle quali i detenuti possono accedere attraverso i Cup. Ma mentre il privato cittadino, a fronte dei tempi spesso biblici per le prenotazioni tramite i Centri Unici, può scegliere di rivolgersi alla sanità convenzionata o a quella privata, ai detenuti non resta che aspettare. A volte anche sei o otto mesi per una sola visita medica specialistica. Senza contare che, in assenza di contratti fissi per il personale sanitario e con formule di collaborazione che vengono rinnovate di proroga in proroga (l’ultima in ordine cronologico è inserita nel testo collegato alla Finanziaria in discussione all’Ars), di fatto il rischio è quello di non riuscire a garantire una continuità assistenziale da parte del personale che le Asp destinano alla cura dei detenuti. Evidentemente, poter contare su equipe mediche stabili eviterebbe “una dispersione di conoscenze - scrive ancora Fiancada nel suo rapporto - sullo stato di salute dei reclusi bisognosi di trattamento medico”. Ma il dato in assoluto più allarmante, anche perché in costante crescita, è quello relativo al fabbisogno di assistenza psichiatrica, “essendo via via aumentato - si legge ancora nella relazione del Garante regionale - il numero dei detenuti affetti da disturbi psichiatricamente rilevanti, quale effetto o di patologie pregresse aggravate dallo stato di detenzione o di patologie sopravvenute quale conseguenza dell’entrata in carcere”. Una situazione al limite, che arriva in alcune carceri, come al Pagliarelli di Palermo o a Piazza Lanza a Catania, ad interessare un quarto dell’intera popolazione carceraria. Soltanto nel primo trimestre dello scorso anno, in Sicilia sono infatti avvenuti due suicidi, 21 tentativi di suicidio e 128 atti di autolesionismo da parte di detenuti. “Questo dato - scrive ancora Fiandaca nel suo rapporto - colloca la Sicilia ai primissimi posti nella graduatoria nazionale, e non c’è dubbio che alcune delle più gravi carenze riscontrabili nelle condizioni di vita, in particolare di alcuni istituti di pena, fungono da fattore stressogeno che accresce il rischio suicidario dei soggetti più vulnerabili”. Esiste già un programma redatto dall’assessorato alla Salute per prevenire il rischio di suicidi dietro le sbarre, “ma al di là di questo pur importante documento - aggiunge il Garante, è necessario non soltanto che venga applicato, ma anche e soprattutto che migliorino dal punto di vista qualitativo le condizioni materiali di vita, la qualità delle relazioni umane e la capacità di ascolto psicologico all’interno dei vari istituti di pena. Purtroppo, le evidenziate carenze di educatori e di altro personale carcerario contribuiscono oggi ad aggravare la condizione di solitudine e di abbandono in cui non pochi detenuti drammaticamente versano”. Ad erogare il servizio di osservazione psichiatrica sono gli istituti penitenziari Pagliarelli a Palermo e quello di Barcellona Pozzo di Gotto, dove vengono monitorati i detenuti che presentano rilevanti anomalie di comportamento. “Ma è verosimile che, rispetto a non pochi di questi soggetti, sarebbe in teoria opportuna una collocazione in sedi extracarcerarie, Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza (Rems), per consentire un trattamento terapeutico più adeguato”. Ad entrare nel dettaglio dei disagi legati alle Rems è il presidente dell’associazione Antigone Sicilia, Pino Apprendi, che conferma che le residenze per detenuti in Sicilia sono soltanto due (a Naro e Caltagirone), per un totale di 40 posti, a fronte di una richiesta decisamente maggiore. “Nel solo carcere di Pagliarelli - ammette Apprendi - ci sono tre casi accertati e certificati di persone che paradossalmente stanno in carcere da fuorilegge, proprio perché dichiarati incapaci di intendere e di volere e, dunque, destinati dal giudice a espiare la pena in una Rems”. Apprendi su questo tema ha chiesto un incontro urgente col presidente della Regione, “ma non ho ancora avuto notizie di una convocazione a palazzo d’Orleans”. Quello della salute mentale dei detenuti, insieme ai lunghissimi tempi d’attesa per le visite specialistiche e alla carenza di mediatori culturali per i detenuti stranieri, sono i tre grandi filoni tematici che accomunano la sanità penitenziaria dell’Isola. Ma a questi si aggiungono piccoli e grandi disagi che singolarmente si vivono nelle varie strutture di detenzione. È così che ad Augusta, ad esempio, il Garante regionale segnala “l’eccessivo avvicendamento del personale medico che impedisce continuità nel rapporto con il detenuto”; mentre a Siracusa si è rivelato carente il “il rifornimento di farmaci, con i detenuti costretti a comprare le medicine con i loro soldi”. Situazione analoga a quella che avviene nel carcere di Piazza Lanza, a Catania, dove l’approvvigionamento farmacologico è risultato spesso insufficiente. “Stando alle informazioni fornite dalla direttrice - ha ammesso ancora Fiandaca, riportando l’esito dell’ispezione a Piazza Lanza -, soffrirebbe di disturbi psicologicamente e/o psichiatricamente rilevanti circa il 25 per cento della popolazione carceraria”. Umbria: tutela dei diritti e reinserimento; patto tra Regione, Università e Garante umbriajournal.com, 5 giugno 2018 Sottoscritto il protocollo d’intesa: “Abbattimento della recidiva dell’80 percento grazie ai progetti lavorativi”. Realizzare quanto dice chiaramente la Costituzione e in particolare l’articolo 27, quello in cui fra le altre cose è detto che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Lunedì la presidente della Regione Catiuscia Marini, il direttore del Dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Perugia Giovanni Marini e il garante regionale dei detenuti Stefano Anastasia hanno firmato il protocollo operativo “per la garanzia della fruibilità dei diritti e delle opportunità delle persone detenute”. In particolare il testo punta alla “fruibilità dei diritti delle persone sottoposte a esecuzione penale”, con l’obiettivo di “favorire l’esercizio dei diritti della popolazione detenuta”, anche attraverso “attività di sostegno e di intermediazione inerente l’iter tecnico-amministrativo, nonché giuridico, finalizzata all’accesso delle persone in vinculis ai propri diritti ed al potenziamento di tutela degli stessi”. Il protocollo - Oggetto e finalità dell’intesa, oltre a “misure e interventi migliorativi” e acquisizione di conoscenze sulla legislazione penale e sulle condizioni dei carcerati, sono quelli di “favorire l’effettività dei diritti e delle opportunità riservate alle persone in stato di detenzione implementando i collegamenti tra i detenuti stessi e gli ambiti istituzionali preposti al trattamento penitenziario e al successivo reinserimento nella vita sociale; favorire la formazione di “operatori per i diritti” dei detenuti selezionati tra i neolaureati, nonché incentivare le esperienze giuridiche “sul campo”. Il responsabile scientifico del progetto e il coordinatore sarà, su indicazione dell’Università, proprio Anastasia, con l’Ateneo impegnato in azioni di vario tipo nei confronti dei quattro istituti carcerari umbri (Perugia, Terni, Orvieto e Spoleto), compresi i colloqui informativi con i carcerati. Alla Regione, infine, toccherà finanziare il tutto. Evitare la recidiva - Favorire il recupero e il reinserimento del detenuto è, come spiega la letteratura in materia, una delle strategie migliori per evitare il fenomeno della recidiva; un modo, dunque, di garantire la sicurezza mentre troppo spesso ci si concentra solo sulla parte afflittiva della pena, che da sola può essere invece criminogena. “È interesse pubblico e sociale - ha osservato sul punto la presidente - far sì che per i detenuti siano salvaguardati alcuni diritti fondamentali in carcere, quali il diritto alla salute e alla formazione e istruzione, ma anche far sì che si riduca il rischio che tornino a delinquere, costruendo politiche che ne consentano il recupero come sancito dalla Carta costituzionale. È quanto sta facendo l’Umbria, con l’importante risultato che vede un abbattimento dell’80 per cento della recidiva fra i detenuti coinvolti nei progetti lavorativi sostenuti con risorse del Fondo sociale europeo”. I commenti - “Grazie a questo protocollo - ha sottolineato invece Anastasia - l’Ufficio del garante potrà essere presente con maggior frequenza negli istituti di pena e dunque dare risposte alle richieste di informazioni e di tutela dei diritti in maniera più celere ed efficace. Un vantaggio significativo per le persone detenute”. Da parte dell’Università poi è stato sottolineato che “il nostro sforzo non è solo infatti quello di formare figure professionali all’altezza dei propri compiti, ma anche di essere presenti nella società umbra, offrendo le nostre competenze e conoscenze. L’impegno ad affrontare problematiche sociali rilevanti è la cifra del nostro impegno, come abbiamo fatto con le ‘cliniche legali’ riguardo non solo ai detenuti, ma la salute, l’ambiente, il territorio”. Detenuti rispettati delinquono 80per cento in meno una volta fuori - “È interesse pubblico e sociale far sì che per i detenuti siano salvaguardati alcuni diritti fondamentali in carcere, quali il diritto alla salute e alla formazione e istruzione, ma anche far sì che si riduca il rischio che tornino a delinquere, costruendo politiche che ne consentano il recupero come sancito dalla Carta costituzionale. È quanto sta facendo l’Umbria, con l’importante risultato che vede un abbattimento dell’80 per cento della recidiva fra i detenuti coinvolti nei progetti lavorativi sostenuti con risorse del Fondo sociale europeo”. Lo ha sottolineato la presidente della Regione Umbria, Catiuscia Marini, in occasione della firma del protocollo operativo fra la Regione Umbria e il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Perugia per la garanzia della fruibilità dei diritti e delle opportunità delle persone detenute. “Rinnoviamo la collaborazione con il Dipartimento di Giurisprudenza - ha detto la presidente Marini, ringraziando il professor Marini e il professor Anastasia, quest’ultimo per la “doppia collaborazione” - con questo protocollo molto importante per l’acquisizione di competenze e conoscenze sui diritti dei detenuti e che prevede, fra l’altro, la formazione di giovani ‘operatori per i diritti’ dei detenuti selezionati tra i neolaureati. Una collaborazione scientifica preziosa anche per la programmazione delle politiche sociali regionali, per dare prospettive di reinserimento sociale e lavorativo alle persone detenute”. “Diamo a un impegno che il Dipartimento di Giurisprudenza ha assunto con l’Umbria nel suo complesso - ha detto il direttore del Dipartimento, Giovanni Marini, esprimendo soddisfazione per l’accordo - Il nostro sforzo non è solo infatti quello di formare figure professionali all’altezza dei propri compiti, ma anche di essere presenti nella società umbra, offrendo le nostre competenze e conoscenze. L’impegno ad affrontare problematiche sociali rilevanti è la cifra del nostro impegno, come abbiamo fatto con le ‘cliniche legali’ riguardo non solo ai detenuti, ma la salute, l’ambiente, il territorio”. “Il nostro sforzo - ha proseguito il professor Marini - è rivolto in particolare ai soggetti deboli e a quelli resi deboli dalla condizione di detenzione, per dare concretezza ai loro diritti, cercando le soluzioni possibili e migliori per la società in cui vivono”. “Grazie a questo protocollo - ha sottolineato il Garante regionale dei detenuti Stefano Anastasia - l’Ufficio del Garante potrà essere presente con maggior frequenza negli istituti di pena e dunque dare risposte alle richieste di informazioni e di tutela dei diritti in maniera più celere ed efficace. Un vantaggio significativo per le persone detenute”. Il Protocollo sottoscritto tra la Regione Umbria e il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Perugia, nell’esplicitare la comune volontà di collaborazione istituzionale, è finalizzato “ad una fruttuosa sinergia per la realizzazione delle prescrizioni costituzionali, specificatamente in tema di: “Fruibilità dei diritti delle persone sottoposte ad esecuzione penale”, con l’obiettivo di favorire l’esercizio dei diritti della popolazione detenuta”. La Regione e il Dipartimento di Giurisprudenza intendono “continuare a potenziare le opportunità di favorire l’effettività dei diritti e delle opportunità riservate alle persone in stato di detenzione attraverso attività di sostegno ed attività di intermediazione inerente l’iter tecnico-amministrativo, nonché giuridico, finalizzata all’accesso delle persone in vinculis ai propri diritti ed al potenziamento di tutela degli stessi”. Frosinone: 60enne muore in carcere a due mesi dalla condanna all’ergastolo di clemente pistilli h24notizie.com, 5 giugno 2018 A distanza di due mesi dalla condanna definitiva all’ergastolo per l’omicidio dell’enologo romano Ulrico Cappia, il 60enne Giuseppe Ruggieri, di Itri, è deceduto nel carcere di Frosinone. Il dramma la notte scorsa. A stroncare il pontino sarebbe stato un infarto. Nessun dubbio da parte della direzione del carcere sulle cause naturali del decesso, tanto che non sarebbe stato disposto alcun accertamento medico-legale. La Cassazione aveva confermato la condanna all’ergastolo per il 60enne, ritenuto l’autore del delitto del 4 settembre 2013. Cappia venne ucciso con un colpo alla nuca mentre usciva dall’azienda “Monti Cecubi”, in località Porcignano, a Itri, e l’auto, con all’interno il cadavere, venne data alle fiamme. Secondo i giudici, Ruggieri, che aveva avuto una discussione con Cappia e che da quest’ultimo era stato fatto licenziare dalla ditta del notaio formiano Marciano Schettino, aveva un risentimento tale nei confronti della vittima da sfociare in omicidio. Un quadro ricostruito dai carabinieri, che arrestarono il 60enne. Accuse che hanno portato la Corte d’Assise del Tribunale di Latina a condannare il 60enne all’ergastolo. Una sentenza confermata dalla Corte d’Assise d’Appello di Roma e infine dalla Cassazione. Caserta: operatori elettricisti formati nel carcere di Aversa di Fabrizio Ferrante linkabile.it, 5 giugno 2018 Il Garante dei detenuti Ciambriello: “Lavoro legato a concetto di rieducazione”. Il carcere di Aversa si conferma struttura in grado di essere annoverata fra quelle a cui ispirarsi quando si ha in mente un carcere modello, come emerso anche da una recente visita ispettiva di Radicali Italiani. Il penitenziario, un tempo Opg, ha ospitato nella giornata di lunedì 4 giugno l’evento conclusivo di un progetto che ha coinvolto nove detenuti. Una goccia nel mare, se si considera che ad Aversa ci sono oltre 200 ristretti, che però conferma il trend positivo innescato dalla direttrice, Carlotta Giaquinto, da tempo impegnata nella creazione di centri formativi e produttivi in un carcere che può contare su ampi spazi. Alla presenza dell’assessore al Lavoro della Regione Campania, Sonia Palmieri, del sindaco di Aversa Domenico de Crostofaro, della responsabile del Cpi di Teano, dottoressa Maria Cristina Tari, della direttrice del carcere e del garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, sono stati consegnati gli attestati. A riceverli, nove ristretti a cui si riconosce competenza di “Operatore dell’assemblaggio di apparecchiature elettromeccaniche ed elettriche”. Il corso è stato svolto dal consorzio Tekform, ente accreditato alla Regione e già attivo da oltre dieci anni nelle carceri. Il programma, della durata di 200 ore, rientrava nel programma Garanzia Giovani Campania e ha riguardato montaggio e cablaggio delle componenti elettriche ed elettroniche di macchine e impianti per meccanismi di automazione. Un progetto che è stato commentato con favore dal garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, secondo il quale: “Il tema del lavoro e della formazione in carcere, come quello delle attività educative, è strettamente legato al concetto costituzionale del carcere come luogo di rieducazione e reinserimento sociale”. Palermo: i quattro detenuti-fantasma del carcere Pagliarelli di Gabriele Ruggieri meridionews.it, 5 giugno 2018 Dimenticati dietro le sbarre nonostante le sentenze. Si tratta di persone affette da problemi psichiatrici la cui condanna è stata commutata nel ricovero in una struttura specializzata per l’assistenza sanitaria e la rieducazione: una Rems. Peccato che le uniche due presenti sul territorio siciliano siano sature e il primo posto letto si liberi solo nel 2019, prolungando il soggiorno in prigione dei quattro. “Giuseppe B. percorre ansioso i corridoi del carcere Pagliarelli di Palermo con in mano i fogli riguardanti la sua vicenda ove è scritto nero su bianco che non dovrebbe stare in galera ma ricoverato in una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems)”. Inizia con queste parole la lista di impressioni redatta da Rita Bernardini, membro coordinatore del partito Radicale, dopo l’ispezione portata a termine insieme a Donatella Corleo e Gianmarco Ciccarelli. Una Rems, acronimo di Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, è una struttura sanitaria d’accoglienza che consente di scontare la propria pena a quelle persone che, pur essendosi macchiate di un qualche reato, risultano affette da disturbi mentali, fornendo loro tutta l’assistenza e le cure di cui hanno bisogno. Nel caso di Giuseppe B. si tratta della misura imposta dal tribunale di Palermo con sentenza risalente allo scorso 12 dicembre, quando era stato assolto perché incapace di intendere e di volere. È invece il 29 di gennaio di quest’anno la disposizione che ordina che la condanna venga commutata con urgenza in un ricovero in una Rems. In Sicilia, tuttavia, le uniche Rems funzionanti sono soltanto due: a Caltagirone e a Naso, in provincia di Messina, ma sono entrambe piene. “il Dap non riesce a trovare un posto libero” e lo sfortunato protagonista della vicenda dovrà aspettare fino al 2019 quando si libererà un letto. In attesa di tale data, tuttavia, aspetta da dietro le sbarre della casa circondariale, dove tecnicamente non dovrebbe stare. “Come lui, nell’isola ci sono altre decine di persone letteralmente sequestrate mentre in tutta Italia sono più di duecento” continua Bernardini, che al Pagliarelli ha individuato altri tre casi simili. “La direttrice Francesca Vazzana, che il 23 maggio scorso ha accompagnato la delegazione del Partito Radicale - si legge ancora tra le parole scritte dall’esponente politico - appare provata: al Pagliarelli non solo ci sono altri tre casi come quello di Giuseppe che lei prontamente ha segnalato a chi ha il compito istituzionale di intervenire, ma ci sono anche oltre duecento casi psichiatrici gravi”. Insomma, quattro invisibili che restano in cella nonostante lì proprio non ci volessero e non ci dovrebbero stare. Cosenza: essere padri in carcere e fuori, scambio di sofferenze attraverso la scrittura di Lory Biondi Redattore Sociale, 5 giugno 2018 A Cosenza il laboratorio di scrittura autobiografica “In nome del padre verso sud” ha fatto emergere i comuni sentimenti della paternità tra genitori carcerati ed altri volontari. Un’occasione promossa dall’associazione Liberamente, con il sostegno del Csv. Sergio lavora al Consiglio nazionale delle ricerche, ha 57 anni e tre figli, ed è volontario dell’associazione San Giovanni Bosco. Ha partecipato al laboratorio di scrittura autobiografica per papà detenuti e papà volontari dal titolo “In nome del padre verso Sud” che si è svolto alcuni giorni fa nella casa circondariale di Cosenza. “È stata una esperienza emozionante: prima di iniziare avevo uno schema in mente che è stato totalmente ribaltato, - racconta. - Sono rimasto stupito dalla disponibilità dei detenuti nel mettersi in gioco e mi sono sciolto anch’io. È stato un lavoro umano, più che tecnico. Ha fatto emergere l’umanità di tutti”. Il seminario è stato promosso dall’associazione LiberaMente, da anni attiva nel carcere della città, con il sostegno del Centro di servizio per il volontariato di Cosenza, in collaborazione con le associazioni Verso Itaca di Piacenza e Ubi Minor di Milano, ed è stato realizzato grazie alla disponibilità del direttore del carcere, Filiberto Benevento. A condurre i lavori Carla Chiappini e Laura Gaggini formate alla Libera università dell’autobiografia di Anghiari. Il progetto, sostenuto dalla Fondazione Cattolica di Verona, è arrivato a Cosenza dopo un viaggio iniziato nel 2015 nel carcere di Verona e proseguito a Milano San Vittore, Parma, Modena, Milano Opera e Catanzaro. “I papà hanno scritto insieme delle storie e raccontato emozioni, - spiega Carla Chiappini. - Molte sofferenze, non solo tra i papà reclusi, ma anche tanti bei ricordi, affetto, calore. Bambini felici e bambini soli si sono materializzati intorno al lungo tavolo mentre il sole splendeva oltre le sbarre della finestra”. I partecipanti sono stati chiamati a ritrovare memorie e a condividerle, e a scambiarsi esperienze. Per Giacomo, pensionato di 65 anni e padre di due figli, è emersa forte nei papà detenuti la mancanza della famiglia, dei figli. “Ho notato una grande disponibilità nel raccontarsi con sincerità da parte loro. Tante storie sembravano simili, derivanti da contesti e situazioni familiari difficili”. Giacomo, che già svolge attività di volontariato in diverse associazioni, ha intenzione di ripetere l’esperienza. Francesco, 69 anni, è padre di 2 figli ed è anche nonno. “La tre giorni è stata un’ottima occasione per far uscire fuori delle cose che erano nascoste in noi e in loro. Ci sono stati momenti in cui ci siamo commossi tutti”. Alla chiusura erano presenti, oltre al direttore del carcere, anche il magistrato di sorveglianza Paola Lucente e il comandante della polizia penitenziaria Pietro Davide Romano che hanno ascoltato la lettura di alcuni scritti dei papà detenuti e non. Il laboratorio, al quale hanno partecipato il presidente di LiberaMente, Francesco Cosentini, le volontarie Giusi, Teresa, Caterina e Annamaria e l’educatrice Tiziana, si è svolto nella biblioteca del carcere di Cosenza che l’associazione ha allestito lo scorso anno nell’ambito del progetto Liberi di leggere, finanziato dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali tramite il bando Direttiva 266/91. Nella stessa biblioteca è stato anche realizzato un corso di scrittura creativa con la giornalista e scrittrice, Rosalba Baldino che ha portato alla pubblicazione del libro “Controluce” con 40 racconti di detenuti. Grazie ai progetti di lettura e scrittura portati avanti dall’associazione nel carcere di Cosenza, sono aumentate le iscrizioni dei detenuti a scuola e università. Il progetto “In nome del padre verso Sud” sarà ripetuto il 29 e 30 giugno nella casa circondariale di Paola, centro del tirreno cosentino. Bologna: alla Dozza si protesta contro la poca informazione e il cibo scadente zic.it, 5 giugno 2018 Per il Garante dei detenuti continuano a mancare risorse per il lavoro. Dai reclami emerge l’impossibilità di accesso ai canali d’informazione, la difficoltà a comunicare con gli educatori e la cattiva qualità della refezione. Dall’ultima visita effettuata nei giorni scorsi dal Garante per i diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna alle sezioni femminile, penale e ai locali che ospitano gli ammessi al regime di semilibertà della Dozza emerge, come già accaduto nelle visite precedenti, che “l’offerta di attività lavorative non risulta adeguata alla domanda proveniente dalla popolazione ristretta, essendo limitate le risorse a disposizione della locale gestione penitenziaria”. Sono 71 le detenute nella sezione femminile, in cui in linea generale viene applicata la separazione tra imputate e condannate in via definitiva. Rileva il garante che “i bagni in ogni camera di pernottamento sono dotati di docce, l’orario quotidiano delle celle verrà esteso fino alle 20 anche nel braccio che ospita le imputate (come riportato dagli operatori penitenziari), sono particolarmente adeguati gli ambienti al secondo piano in cui sono collocati spazi per le attività in comune, comprese le aule studio”. Nella sezione femminile si segnala inoltre la presenza di una bambina, al seguito della madre. L’area dedicata alla salute mentale che attualmente accoglie tre donne con patologie psichiatriche è gestita dal servizio sanitario: “I numeri esigui, però, e la collocazione fisica di questi ambienti detentivi, collocati al piano terra, comportano un significativo stato di isolamento per queste donne detenute. Nei mesi scorsi le persone detenute della sezione penale hanno firmato reclami collettivi - riferisce il garante - in cui segnalavano la scadente qualità di alcuni prodotti, in particolare la carne, venduti in istituto dalla ditta appaltatrice del servizio, e la richiesta di un ampliamento dei canali televisivi che si possono vedere”. Attualmente sono abilitati solo 15 canali, rimanendo esclusi i canali in chiaro con programmazione di eventi sportivi, i canali con programmazione culturale e i canali con programmazione di informazione giornalistica regionale. Infine, “nel corso delle interlocuzioni avute durante il sopralluogo, alcune persone detenute hanno segnalato la scarsa frequenza dei contatti con il proprio educatore di riferimento”. Arezzo: raccolta dei rifiuti differenziata cella a cella, kit e istruzioni ai detenuti La Nazione, 5 giugno 2018 Il carcere aretino è uno dei primi a introdurre il riciclaggio anche nella vita detentiva: accordo tra Comune, Sei Toscana e direzione della casa circondariale. Porta a porta? Sì ma ora parte anche la raccolta differenziata “cella a cella”, e proprio nel carcere di Arezzo. Firmato il protocollo d’intesa dal sindaco Alessandro Ghinelli, il presidente di Sei Toscana Roberto Paolini e il direttore della casa circondariale Paolo Basco. Le buone pratiche ambientali entrano in carcere. È quanto sancito con il protocollo d’intesa firmato oggi ad Arezzo dal sindaco Alessandro Ghinelli, dal presidente di Sei Toscana Roberto Paolini e dal direttore della casa circondariale di Arezzo Paolo Basco. A partire dalle prossime settimane, gli ospiti della struttura aretina saranno impegnati nella raccolta differenziata dei rifiuti “cella a cella”. Un servizio specifico che coniugherà il sociale con il rispetto per l’ambiente. La firma del protocollo d’intesa, oltre a ridurre la produzione dei rifiuti urbani e aumentare la capacità di conferimento di quelli riciclabili, mira a educare gli ospiti e il personale dell’istituto a una corretta gestione dei propri rifiuti, nell’ottica del perseguimento dei modelli di sviluppo sostenibile. “Il risultato che ne verrà fuori fornirà un valore positivo per l’intera percentuale di raccolta differenziata del comune di Arezzo. È un’iniziativa pregevole - afferma il sindaco di Arezzo, Alessandro Ghinelli - che si inserisce in un contesto particolare e di certo contribuisce anche al reinserimento sociale dei detenuti”. Nei prossimi giorni Sei Toscana consegnerà all’istituto la dotazione tecnica di attrezzature e beni di consumo da prevedere per ogni cella e reparto, in un secondo momento i detenuti e il personale in servizio presso la casa circondariale seguiranno alcune lezioni tecniche effettuate dai tecnici del gestore così da poter iniziare il nuovo servizio di raccolta con una coscienza più piena delle nuove modalità di conferimento dei rifiuti. Il protocollo d’intesa firmato questa mattina fa seguito ai due progetti già attivati dal gestore nelle case circondariali di Massa Marittima, in provincia di Grosseto e di San Gimignano, in provincia di Siena. “Sei Toscana collabora sempre volentieri con le amministrazioni comunali - dichiara il presidente di Sei Toscana, Roberto Paolini - non solo quando si tratta di introdurre servizi specifici che riescano a incrementare le quantità di rifiuti raccolti in maniera differenziata, ma anche, come in questo caso, quando vengono promossi progetti che hanno in sé un’importante valenza sociale. Desidero ringraziare l’amministrazione comunale e la direzione della casa circondariale per questa opportunità che, attraverso un servizio, ci consente di portare all’interno di questa struttura le tematiche ambientali, nella convinzione che siano elementi importanti e valori cui rifarsi e trasmettere a tutti i cittadini”. La raccolta differenziata sarà effettuata anche negli spazi interdetti ai detenuti, nell’area delle celle invece alcuni reclusi avranno delle mansioni specifiche in base ad una calendarizzazione specifica. A gennaio e luglio di ogni anno poi, secondo quanto stabilito dal protocollo d’intesa, sarà convocata una riunione tra le parti per verificare l’attuazione e i risultati del progetto e per valutare eventuali azioni migliorative. “Si tratta di un ottimo risultato - dice il direttore della casa circondariale di Arezzo, Paolo Basco - e per questo il mio più sentito ringraziamento va al presidente di Sei Toscana, al sindaco e all’assessore all’ambiente del Comune per l’impegno fattivo profuso fin dal momento della progettazione d’intesa. È un progetto di grande spessore che potrà contribuire anche al miglioramento della vita all’interno dell’istituto”. Reggio Emilia: carcere e teatro, i detenuti portano in scena Dostoevskij di Ambra Notari Redattore Sociale, 5 giugno 2018 Frutto del laboratorio avviato dal Teatro del Pratello di Bologna a marzo, “Intorno ai Karamazov. Primo studio” debutta alla Pulce di Reggio Emilia il 15 giugno. I registi: “È un affresco corale in cui padri e figli si fronteggiano e si fuggono”. I detenuti hanno scritto alcune parti del copione. Abdellah, Alfonso, Andrea, Daniele, Davide, Driton, Fabrizio, Fatmir, Giacomo, Giovanni, Giuseppe, Mirko, Reda, Salvatore e Alessio sono gli attori detenuti degli Istituti penitenziari di Reggio Emilia che venerdì 15 giugno (ingresso ore 18.30) porteranno in scena, presso il carcere di via Settembrini, “Intorno ai Karamazov. Primo studio”, spettacolo teatrale con la regia di Paolo Billi ed Elvio Pereira de Assunçao. Gli effetti sonori sono curati dalla banda Rulli Frulli. Lo studio, a partire dall’opera di Dostoevskij “I fratelli Karamazov”, affronta il tema del rapporto padri-figli. “Lo spettacolo - spiegano i registi - non è una riduzione teatrale delle vicende del romanzo che narra i rapporti conflittuali e tragici tra i fratelli e il padre, ma un affresco corale in cui tanti padri e tanti figli si fronteggiano, si rincorrono, si fuggono e dove prendono corpo i fantasmi dei Karamazov, padre e figli, un concentrato di sensualità, cupidigia e follia”. Nella prima fase di lavoro, caratterizzata da un breve e intenso laboratorio di scrittura, i detenuti partecipanti hanno scritto alcune parti del copione dello spettacolo, sviluppando suggestioni e immagini tratte da film e dalla lettura diretta del romanzo. “Intorno ai Karamazov”, infatti, nasce dal laboratorio di teatro e scrittura creativa che a marzo il Teatro del Pratello di Bologna ha avviato con i detenuti di media sicurezza degli Istituti Penitenziari di Reggio Emilia, sostenuto dal Comune di Reggio e inserito nel progetto Stanze di Teatro Carcere 2018 del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, promosso dalla Regione Emilia Romagna che, per il 2018-2020 si è dato come tematica su cui lavorare “padri e figli”. L’evento è riservato a un pubblico autorizzato. Per dare la propria adesione è necessario inviare entro domani martedì 5 giugno 2018 i propri dati (data e luogo di nascita, residenza, estremi del documento con il quale si accederà all’istituto la sera dello spettacolo) scrivendo una mail a areaeducativa.ip.reggioemilia@giustizia.it o lucia.gianferrari@comune.re.it. Avellino: i ragazzi del Cimarosa in concerto per i detenuti del carcere di Bellizzi Gazzetta di Avellino, 5 giugno 2018 Il Conservatorio “Cimarosa” di Avellino va in trasferta per regalare un concerto ai detenuti della Casa circondariale “Antimo Graziano” di Bellizzi Irpino. Oggi, martedì 5 giugno alle ore 10, i giovani orchestrali della “Cimarosa Young Sinfonietta” saranno protagonisti all’istituto penitenziario di Bellizzi dove proporranno un concerto sinfonico inserito in un evento fortemente voluto dal presidente del Conservatorio Luca Cipriano e dal direttore Carmelo Columbro. Il laboratorio di formazione orchestrale della “Cimarosa Young Sinfonietta”, rivolto ai ragazzi dai 12 ai 18 anni, è coordinato dal maestro Massimo Testa, docente presso il Conservatorio di Avellino, direttore d’Orchestra e personalità di spicco nel panorama culturale cittadino, impegnato in prima linea in progetti di formazione dei giovani musicisti per l’avviamento alla professione. La Young Sinfonietta sarà composta da circa 60 musicisti che incontreranno ospiti e personale della Casa circondariale, creando le premesse per un’occasione imperdibile di reciproco scambio, sia per offrire ai detenuti un momento di cultura e svago di qualità, che per consentire ai giovani orchestrali di vivere un’esperienza di grande suggestione e crescita. Con il maestro Testa ci saranno anche i tutor come il maestro Antonio Napolitano, responsabile dei fiati e il maestro Veaceslav Ceaicovschi Quadrini, responsabile degli Archi nonché direttore d’orchestra del concerto. In programma musiche di J. Williams, E. Morricone, D. Shostakovic, H. Zimmer, J. Horner, con un’ampia selezione delle più celebri colonne sonore da film e il gran finale col Bolero di Ravel. Migranti. L’Italia trova alleati nei Paesi dell’Est: “stop alla riforma di Dublino” di Marco Bresolin La Stampa, 5 giugno 2018 Nella bozza restano molti obblighi per gli Stati di primo approdo. L’Ue spaccata. E Salvini: sarà linea dura. Da un lato del tavolo ci saranno la Germania, la Francia e i governi del Nord Europa. Dall’altro l’Italia e i Paesi del Sud a fianco del quartetto di Visegrad. Un’inedita alleanza mossa da un obiettivo comune: fare a pezzi la proposta di riforma di Dublino preparata dalla presidenza di turno bulgara, documento oggi in discussione al Consiglio Affari Interni di Lussemburgo. Matteo Salvini non ci sarà, ma da Roma è partito l’ordine di tenere la linea dura: va respinto senza se e senza ma. In assenza di un accordo tra i 28, la palla passerà nelle mani di Donald Tusk, che chiederà ai leader di trovare una via d’uscita al Consiglio europeo di fine mese. Quello dell’esordio del premier Giuseppe Conte. Motivazioni opposte - L’Italia e i Visegrad in questo momento vogliono la stessa cosa (respingere la proposta sul tavolo), ma con motivazioni diametralmente opposte. Secondo Roma nella bozza di compromesso c’è troppa responsabilità a carico dei Paesi di primo ingresso e troppo poca solidarietà (posizione condivisa da Spagna, Grecia, Cipro e Malta). Per Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia (a cui si è aggiunta l’Austria) è l’esatto contrario. Poco importa: in questa fase è necessario mantenere solida questa “strana alleanza” per far saltare il tavolo. Da domani riemergeranno gli interessi contrapposti. Francia e Germania difendono invece il lavoro fatto dai bulgari, considerato un buon compromesso. Del resto, fa notare una fonte diplomatica, “se il testo trova l’opposizione sia dei mediterranei sia dei Visegrad, significa che è equilibrato”. Parigi e Berlino hanno un obiettivo: chiudere la riforma del diritto d’asilo entro fine giugno, senza ulteriori rinvii. Per questo oggi chiederanno ai ministri di salvare la proposta bulgara e portarla al Consiglio europeo come base di discussione. Ma il sostegno dei governi alla bozza di Dublino IV è sempre più debole. Per i mediterranei sono eccessivi gli otto anni di “responsabilità stabile” sui migranti da parte dei Paesi di primi ingresso e ci sono troppi oneri sul fronte dei controlli. Tutto ciò senza che ci sia un’adeguata compensazione sul lato della solidarietà: la redistribuzione obbligatoria scatterebbe solo in casi veramente eccezionali e comunque dopo un via libera dei governi. Secondo Francia e Germania, però, le discussioni si trascinano da troppo tempo. E la finestra di giugno è vista un po’ come l’ultima spiaggia. “Senza un accordo al prossimo Consiglio europeo - riassume un diplomatico - non riusciremo a completare la riforma entro questa legislatura”. L’Austria, che guiderà il semestre Ue da luglio, ha già detto che vuole prima concentrarsi sulla dimensione esterna del fenomeno immigrazione. Servirà molto tempo per trovare un nuovo accordo, quindi. E poi il Consiglio dovrà anche sedersi al tavolo negoziale con il Parlamento europeo, che ha già approvato una proposta in cui sono previste le quote obbligatorie. Pensare di chiudere entro le prossime Europee (maggio 2019) sembra dunque impossibile. Il sistema attuale - Senza un’intesa, resterebbe in vigore l’attuale sistema di regole Dublino III. Senza quote e senza i rigidi vincoli sui controlli. “Ma a quel punto - dice un diplomatico di un grande Paese - rimarrebbero anche i controlli alle frontiere interne di Schengen, necessari per evitare i movimenti secondari di migranti da un Paese all’altro”. Migranti. La riforma di Dublino prima prova per Salvini di Carlo Lania Il Manifesto, 5 giugno 2018 È a Bruxelles che potrebbe prendere corpo la prima sconfitta del governo giallo-verde. Oggi i ministri degli Interni dell’Unione europea si riuniscono a Lussemburgo (assente Matteo Salvini a Roma per il voto di fiducia del Senato) per discutere della riforma del regolamento di Dublino. Le posizioni maturate nei mesi scorsi tra i 28, sono però molto lontane da quelle del ministro leghista e c’è da scommettere che i colleghi europei non si faranno impressionare più di tanto dai proclami decisionisti con cui Salvini ha celebrato il suo ingresso al Viminale. Per un volta tanto verrebbe da dire purtroppo. Sì perché per quanto riguarda le norme che regolano la gestione dei richiedenti asilo Lega e M5S chiedono di poterli ripartire equamente tra gli Stati membri attraverso un ricollocamento obbligatorio e automatico. In sostanza la fine del principio che attribuisce la responsabilità dei profughi al Paese di primo arrivo. Le stesse cose che Italia, Grecia, Spagna, Malta e Cipro, cioè i Paesi maggiormente penalizzati dalla crisi dei migranti, chiedono da tempo scontrandosi sempre con l’opposizione degli altri Stati. Primi fra tutti Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, il gruppo di Visegrad (ultimamente rafforzato dalla presenza dell’Austria e, da domenica scorsa, anche della Slovenia) guidato dal premier magiaro Viktor Orbán del quale Salvini condivide molte delle politiche repressive nei confronti dei migranti, ma che in questa occasione si ritrova come avversario. Nulla fa pensare che oggi le cose possano andare diversamente solo perché al Viminale adesso siede un leghista. Sul tavolo europeo c’è la proposta di modifica di Dublino presentata a marzo dalla presidenza di turno bulgara e molto distante dalle richieste italiane. Annunciata dal premier Boiko Borissov come una mediazione capace di mettere d’accordo tutti, in realtà non ha fatto altro che consolidare posizioni già esistenti. La bozza prevede tre livelli di crisi che rappresentano altrettanti livelli di gravità di un’eventuale emergenza sbarchi. Il primo, e quindi in teoria il meno grave, prevede che quando uno Stato si trova ad accogliere fino al 100% di migranti in più rispetto a una quota precedentemente stabilita, scattino una serie di misure che possono andare dal supporto finanziario a un maggiore presenza di Frontex. Solo una volta arrivati al terzo livello scatterebbero i ricollocamenti tra gli Stati membri, preceduti però da un voto unanime del Consiglio europeo. Condizione quest’ultima praticamente impossibile visto anche il precedente fallimento dei ricollocamenti. “Voteremo no a questo documento perché penalizzerebbe ancora l’Italia e gli altri Paesi del Mediterraneo. O l’Europa ci dà una mano a mettere in sicurezza il nostro Paese, oppure dovremo scegliere altre vie”, ha annunciato ieri Salvini provocando la reazione della portavoce della Commissione Ue che ha lo invitato a parlare in sede di consiglio Affari interni. Anziché votare contro, Salvini potrebbe trattare con i colleghi europei. L’Europarlamento ha già approvato una riforma di Dublino che va incontro alle richieste dell’Italia e anche se a suo tempo la Lega si astenne, adesso potrebbe lavorare perché venga adottata anche dal Consiglio. Inviti in questo senso sono arrivati a Salvini dall’europarlamentare di Possibile/S&D Elly Schlein e dal deputato di +Europa e segretario di Radicali italiani Riccardo Magi. Sarebbe l’unica occasione per l’Italia per sperare ancora di ottenere una buona riforma. Al momento infatti la bozza bulgara può contare su un buon numero di sostenitori, con 17 Stati a favore contro i cinque no di Italia, Malta, Spagna, Cipro e Grecia che giudicano troppo grandi le responsabilità assegnate ai Paesi di primo sbarco, e i 4 no di Visegrad più l’Austria che invece lamentano una dose troppa alta di solidarietà. Ma per evitare ulteriori divisioni in seno all’Ue il Consiglio europeo di fine giugno potrebbe anche decidere di non decidere e di rimandare tutto. Dal primo luglio la presidenza di turno passerà all’Austria, altro Paese che ha tutto l’interesse a lasciare le cose come stanno. Se ci riuscirà, sarà anche grazie alle prossime scelte del nuovo governo giallo-verde. Migranti. È scontro con la Tunisia: “stupiti dalle frasi di Salvini” di Simona Musco Il Dubbio, 5 giugno 2018 Nemmeno una settimana da ministro dell’interno che per Matteo Salvini arriva il primo incidente diplomatico. Succede domenica all’hotspot di Pozzallo, dove dice: “la Tunisia spesso esporta galeotti”. Parole che hanno fatto saltare sulla sedia il ministro degli Esteri tunisino Khemaies Jhinaoui, che ha convocato l’ambasciatore italiano Lorenzo Fanara per manifestare “profondo stupore”. Oggi al Senato domani alla Camera si voterà la fiducia al nuovo governo, che oltre al tema immigrazione deve affrontare una nuova rogna: la Flat tax, che slitta e si spacchetta. Il primo anno, dice il leghista Bagnai, verrà applicata solo per le aziende, dal 2020 anche per le famiglie. Ma il Pd ribatte: “Per le imprese esiste già”. Siri, sempre della Lega, corregge il tiro e anticipa al 2019 la Flat tax per le famiglie. Ma la polemica non si ferma e gli occhi sono puntati sul passaggio dalle promesse della campagna elettorale ai fatti. “Mi sembra che la Tunisia è un paese libero e democratico dove non ci sono guerre, epidemie e pestilenze, che non sta esportando dei gentiluomini ma spesso e volentieri dei galeotti”. Nemmeno una settimana da ministro dell’interno che per Matteo Salvini arriva il primo incidente diplomatico. Succede domenica all’hotspot di Pozzallo, in Sicilia, affrontando il suo argomento preferito: l’immigrazione. Un business costoso, troppo, ha ribadito, in ogni suo singolo ingranaggio: dagli sbarchi alle pratiche per il riconoscimento dello status di rifugiato, che durano tantissimo, diventando un ulteriore canale economico, secondo Salvini. In Sicilia, dalla Tunisia, arriverebbero “non rifugiati di guerra ma spesso delinquenti ed ex carcerati - ha ribadito in un Tweet -. Ridurre gli sbarchi e aumentare i rimpatri, con centri di espulsione in ogni regione, accordi più forti con i Paesi d’origine e ricontrattazione in Europa del ruolo dell’Italia. È ora di farci sentire”. Parole che hanno fatto saltare sulla sedia il ministro degli Esteri tunisino Khemaies Jhinaoui, che ha convocato l’ambasciatore italiano Lorenzo Fanara per manifestare “profondo stupore”. Le parole di Salvini, secondo Jhinaoui, “non riflettono il livello di cooperazione tra i due paesi nella lotta all’immigrazione clandestina” e “denotano una mancanza di conoscenza dei vari meccanismi di coordinamento stabiliti tra i servizi tunisini e italiani responsabili della lotta contro la migrazione irregolare”. Salvini ha provato a correggere il tiro, inviando con l’ambasciatore un messaggio di pace. Le sue dichiarazioni, fa sapere, “sono state riportate fuori dal contesto”, confermando poi di essere pronto “a sostenere la cooperazione” con Tunisi. Il rapporto di “fraternità e collaborazione”, che tiene in ballo il destino di 40mila migranti circa, sembra essere dunque recuperato alla meno peggio. Rimane il fronte con l’Europa, sul quale il ministro dell’Interno si presenta agguerrito. Non ci sarà oggi al vertice dei ministri dell’Interno europei sull’immigrazione a Lussemburgo, in quanto impegnato con il voto di fiducia al Senato. Ma “invieremo una nostra delegazione per dire no - spiega -. Il documento in discussione invece di aiutare penalizzerebbe ulteriormente l’Italia e i paesi del Mediterraneo facendo gli interessi dei paesi del Nord Europa. Occorre un intervento economico e giuridico, perché l’Italia non può essere trasformata in un campo profughi”. La discussione riguarda il trattato di Dublino e le modifiche chieste da Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, che insistono per una responsabilità di otto anni per i Paesi di primo ingresso, contro i massimo due chiesti da Italia, Grecia, Spagna, Cipro e Malta. Proposta sulla quale Salvini non è disposto a scendere a compromessi. Un atteggiamento, il suo, che sembra l’unica risposta alle urla di protesta che arrivano dalla Calabria. “Un ministro ha dichiarato in questi giorni che è finita la pacchia. Noi non siamo mai stati in quella condizione di bella vita come lo è stato il suo partito politico. La pacchia è finita per lui, non per noi. Perché per noi non esiste”, grida con megafono in mano Aboubakar Soumahoro, dirigente del sindacato autonomo Usb. Anche lui vive con i migranti ghettizzati nelle baracche della tendopoli di San Ferdinando, che ieri hanno disertato il lavoro nei campi per protestare contro l’omicidio di Soumaila Sacko, il 29enne maliano ucciso a fucilate a San Calogero, nel vibonese. Sacko si trovava nell’ex fornace assieme ad altre due persone, Madiheri Drame, 30 anni, e Madoufoune Fofana, 27 anni, a raccattare lamiere che dovevano servire come riparo di fortuna nell’inferno della tendopoli, ma che sono costate la vita al giovane sindacalista, che si spendeva per assicurare ai suoi compagni di sventura condizioni di lavoro migliori. La pista più accreditata, al momento, porta alla criminalità organizzata: i tre migranti avrebbero “sconfinato” in una zona che forse i clan ritengono roba loro, come tutto il resto. Sacko è diventato ieri il simbolo della rabbia che dal 2010 era rimasta come brace sotto la cenere e che ha lasciato in eredità soltanto un altro ghetto, una tendopoli che giorno dopo giorno fa nascere nel suo ventre nuove baracche e nuova emarginazione. E nel periodo della raccolta degli agrumi, spiega al Dubbio Aurelio Monte, sindacalista Usb, quell’inferno può contenere fino a 3mila anime, alle quali non è concesso nemmeno un angolo di purgatorio. “Lavorano nei campi senza contratto, per 20- 25 euro al giorno, dalle 7 alle 19 - spiega. Non hanno da bere, da mangiare e nelle baracche vivono senza servizi igienici. Più che una tendopoli è una discarica”. Monte, assieme ad una delegazione del sindacato, ha incontrato il sindaco di San Ferdinando, Andrea Tripodi. “Non sono d’accordo con la filosofia e il programma politico di Salvini e del centrodestra, lo considero ripugnante e senza misericordia. Ma chiedo che il fenomeno sia governato - ha affermato. Servono risposte europee”. E risposte vogliono anche i migranti, che urlano solo per farsi sentire. “La loro politica ha saccheggiato le tasche dell’Italia - ha aggiunto Soumahoro. Non era la nostra politica la legge Bossi- Fini, la legge schiavista che crea illegalità e deriva razzista. Non l’abbiamo portata noi dall’Africa, l’hanno approvata loro in Parlamento”. Una protesta anche contro il contratto tra Lega e M5s “che ha una deriva di discriminazione e non escludiamo quella razziale”. Ma il pensiero va principalmente a Salvini: “Ha detto che i figli dei migranti sono i suoi figli. È una dichiarazione ipocrita, una manipolazione”. Migranti. Lo schiavismo all’italiana su cui lucra mezzo mondo di Mariangela Mianiti Il Manifesto, 5 giugno 2018 Per cercare di capire quali motivi portino un italiano a uccidere a sangue freddo un lavoratore africano bisogna guardare a chi era Sacko Soumayla, che cosa faceva, dove e per chi. Se scendi da un’auto e, senza dire una parola, da settanta metri di distanza spari a tre uomini e ne colpisci uno alla testa, vuol dire che non volevi spaventare, ma uccidere. Siccome la vittima, Sacko Soumayla, 29 anni, veniva dal Mali, in tempi di salviniana muscolarità anti immigrati si è dato subito a questo omicidio uno sfondo razzista. Leggendo la biografia della vittima, viene il dubbio che le ragioni dell’assalto non siano dovute solo al colore della pelle o a ciò che Soumayla stava facendo, e cioè portare via qualche lamiera per costruire una baracca da una ex fornace chiusa da dieci anni e sotto sequestro perché vi erano state sversate 135mila tonnellate di rifiuti tossici. Siamo nella piana di Gioia Tauro, in Calabria, terra fertile di agrumi, kiwi, ulivi. Sacko Soumayla aveva un regolare permesso di soggiorno, lavorava come bracciante per 4,50 euro l’ora, era un sindacalista iscritto all’USB e lottava contro lo sfruttamento della mano d’opera immigrata. Circa un mese fa, il 3 maggio, la testata online osservatoriodiritti.it ha pubblicato un’inchiesta intitolata Migranti: nella Piana di Gioia Tauro vivono i “dannati della terra” basata su un rapporto di Medu (Medici per i diritti umani). Lì c’è tutto quello che serve per capire che un lavoratore immigrato che si ribella può dare molto fastidio. Dà fastidio a chi, in questo caso italiani, vuole pagare il meno possibile la mano d’opera per lucrare di più. Dà fastidio a chi conviene mantenere i lavoratori in condizioni di precarietà, come l’attesa di un permesso di soggiorno, che rende più facile il gioco al ribasso e, infatti, 7 braccianti su 10 sono sfruttati e non hanno un contratto. Se il contratto arriva, non è mai veritiero perché, per esempio, figura che hai lavorato 30 giorni invece dei reali 3 mesi, 2 giorni anziché i 16 effettivi. Non contenti di pagare poco e in nero, di ricorrere al reclutamento secondo l’odioso sistema del caporalato, questi pseudo imprenditori hanno tutto l’interesse a tenere i lavoratori in condizioni di vita miserevoli, come braccia da usare e buttare. Quando, come dicono gli operatori di Medu, “Oltre tremila persone vivono fra cumuli di immondizia, bagni maleodoranti, dormono su materassi a terra o vecchie reti, circondati dall’odore nauseabondo di plastica e rifiuti bruciati per scaldarsi”, il loro primo pensiero è non soccombere. Chi si ribella a tutto ciò dà fastidio. Otto anni fa, a Rosarno i braccianti protestarono contro queste forme di schiavismo, ma nulla è cambiato, come se lo Stato guardasse da un’altra parte. L’uccisione di Soumayla ha sicuramente uno sfondo razzista, ma emerge da un substrato di avidità, egoismo, disprezzo per la vita e stupidità, sì, stupidità perché lavoratori trattati e pagati in modo civile portano sviluppo e ricchezza alla zona in cui vivono. Evidentemente nella piana di Gioia Tauro gli interessi sono altri. Come ha detto Antonello Mangano, curatore del sito d’inchiesta terrelibere.org, “Rosarno è uno dei luoghi centrali dell’economia globale. La mano d’opera arriva dall’Africa occidentale, i contributi alle coltivazioni da Bruxelles e, infine, le arance sono esportate in mezzo mondo: Romania, Russia, Repubblica Ceca, Germania, Polonia, Emirati Arabi, Stati Uniti. Braccia migranti, multinazionali del succo, grandi commercianti e supermercati sono gli attori del gioco”. Quindi, per favore, non chiamatelo solo razzismo. L’Arabia Saudita rilascia le prime patenti alle donne (ma restano in carcere le attiviste) di Marta Serafini Corriere della Sera, 5 giugno 2018 Arrivano le prime patenti per le saudite. Lo ha fatto sapere l’agenzia Spa, citando un annuncio ufficiale, tre settimane dopo l’entrata in vigore del decreto regale che prevedeva l’autorizzazione alle donne a guidare. Sinora alle saudite era impedito di mettersi al volante e contro questo divieto negli anni si sono susseguite proteste che hanno portato all’incarcerazione di molte attiviste. “La direzione generale della circolazione ha cominciato oggi a sostituire patenti di guida internazionali riconosciuti nel regno con permessi sauditi, prima della data di autorizzazione di guidare per le donne il 24 giugno”, si legge nell’annuncio. Non si placano però le polemiche per l’arresto con l’accusa di una cospirazione volta a minare la sicurezza del regno di oltre 17 persone, tra cui alcune attiviste che proprio per la fine del driving ban in Arabia Saudita si sono battute. In un comunicato stampa, l’Ufficio del procuratore capo di Riad ha riferito che dei 17 arrestati, cinque donne e tre uomini stati rilasciati in via provvisoria fino al completamento delle indagini. I restanti cinque uomini e quattro donne rimangono invece in stato di arresto, sulla base di prove a loro carico e delle confessioni rilasciate, riferisce il comunicato rilanciato dal quotidiano saudita “Arab News”. Nei giorni scorsi ha fatto discutere anche la copertina di Vogue Arabia che raffigura una principessa della casa reale saudita al volante, scelta come testimonial della fine del driving ban annunciato l’anno scorso. Le riforme promosse dal principe Mohammed Bin Salman che includono anche maggiori diritti per le donne sono giudicate da molti analisti provvedimenti di facciata, che non vanno a intaccare la segregazione femminile ancora in vigore nel Paese.