Una sorella scrive ai fratelli condannati per mafia Il Mattino di Padova, 4 giugno 2018 Quella che segue è la lettera aperta che una sorella, insegnante, scrive a due fratelli detenuti per reati della criminalità organizzata. Una lettera coraggiosa, che fa capire cosa può succedere in una famiglia onesta, nella quale qualcuno, che ha scelto di diventare un delinquente, compromette la vita di tutti. Anche perché nella società cosiddetta civile siamo sempre pronti a giudicare in fretta non solo chi commette reati, ma anche i suoi famigliari. La sofferenza di sapere che a fare delle cose orrende erano proprio i miei fratelli di Maria Aparo È sempre difficoltoso ricordare fatti avvenuti molto tempo fa, ma è ancor più difficile e penoso far tornare alla mente eventi talmente dolorosi che hanno segnato per sempre la tua vita. Ricordo come fosse avvenuta solo ieri la morte del mio carissimo fratello Salvatore e, a distanza di quasi ventotto anni, non riesco ancora a parlarne senza che mi salga un nodo alla gola. Ricordo le sue ultime parole: “Ciao, ci vediamo domani”. E invece, poco dopo, qualcuno decise di porre fine alla sua breve vita (ventisei anni). Chiudere gli occhi a mio fratello, ultimo di nove figli, telefonare a casa dall’ospedale per dare la triste notizia ai tuoi genitori. Ricordo mio padre dire con lo sguardo perso nel vuoto: “ha mortu u cacanidu” cioè il più piccolo della famiglia. Non lo dava a vedere, ma anche mio padre ricevette un durissimo colpo. I primi due anni sono stati durissimi per me, c’era il lavoro, i figli, il marito, la famiglia, ma l’unico desiderio era quello di andare a letto la sera e non sentire nessuno per chiudermi nel mio dolore. Tutta l’estate ogni giorno andavo al cimitero a piangere e pregare insieme a mia mamma. Era uno strazio che ti stringeva forte il cuore vedere tua madre ridotta ad una larva umana. L’unica cosa che mi permetteva di andare avanti era la fede in Dio che non mi ha mai abbandonato e mi ha permesso di vedere altri orizzonti. Non ho mai odiato nessuno, sono incapace di nutrire questo sentimento, però, tante domande attraversano ancora la mia mente, domande che vorrei rivolgere ai miei fratelli Antonio e Concetto. Non so come sia potuto succedere tutto questo nella mia famiglia, perché i miei fratelli, prima Concetto, poi Antonio e poi, anche se in misura minore (almeno credo), Salvatore. Non sono mai andata a fondo nella conoscenza dei fatti accaduti, dei delitti commessi, della appartenenza o meno a qualche clan specifico. So soltanto che ogni volta che sentivo o ancora sento “Il clan Aparo” mi viene una rabbia, un calore addosso e tante altre cose che non so nemmeno descrivere. Ringrazio Dio per aver trovato un marito che mi ha compresa, sopportata e supportata sempre, in ogni circostanza, e che, con sacrificio, mi ha accompagnata anche a far visita in carcere ai miei fratelli, insomma, mi ha lasciata libera di fare la sorella. Ho sempre avuto degli amici intelligenti che non mi hanno mai fatto notare di essere sorella di detenuti e mi hanno rispettata per quello che sono. Io sono una credente praticante, sono una docente, ho sempre rispettato sia le leggi sociali che morali, non giudico gli altri e neanche i miei fratelli, però, pensate come mi senta io ogni volta che in classe o con i miei colleghi si affrontano temi riguardanti la mafia o altri argomenti ad essa attinenti. Ho vissuto sempre due sentimenti opposti, da un lato di piena condanna per ciò che avveniva e dall’altro di sofferenza perché a fare delle cose orrende erano proprio i miei fratelli. Non sapevo capacitarmi, cercando di capire il perché di questa ferocia, di questa spregiudicatezza nel compiere il male, visto che nella vita comune erano persone normali, legate alla famiglia, alle mogli, ai figli, agli amici. Erano capaci di fare del bene agli altri e allora perché? perché tutto questo? Spesso li sentivo dire: “La vita è mia e me la gestisco io”. È vero che la vita è vostra, ma chi ci rimane coinvolta è tutta la famiglia. La mamma viveva per voi, è stata come in un lutto perenne, per non parlare poi da quando morì Salvatore, non venne più nemmeno a mangiare a casa mia la domenica. Le mogli sono state private della presenza e dell’aiuto del marito. I figli sono stati quelli che ne hanno fatto maggiormente le spese: non hanno avuto un modello a cui ispirarsi, non hanno goduto della vostra presenza nei momenti importanti della loro vita, non sono stati consolati quando ne avevano bisogno. È vero che i vostri figli hanno avuto attorno il resto della famiglia, ma la presenza di un padre non può essere sostituita. Come avete fatto a non pensare a tutto questo, all’inizio, quando ancora non eravate coinvolti totalmente in questo vortice che ha divorato la vostra e la nostra vita? Non so perché avete agito così, spero che possiate trovare veramente una risposta e possiate trarne giovamento. Io da parte mia mi sono sempre comportata da sorella nei vostri confronti e prego sempre il Signore per la vostra conversione. Penso spesso alle vittime dei vostri misfatti e al dolore che ad esse avete arrecato, alle mamme che avete fatto piangere, compresa la nostra, e domando perdono per voi al Signore. Non riesco ad oggi a guardare scene violente nei film e preferisco addirittura non vederli perché ogni volta vedo voi in quelle scene orrende e mi sento male. I miei figli mi hanno ringraziata per averli tenuti fuori da tutto ciò che è successo e di come li abbiamo protetti, anche non facendo loro capire cose che per la loro età non avrebbero potuto capire. (…) Voi non siete mai stati lasciati soli, avete avuto la possibilità di cambiare vita e non lo avete fatto. Noi, purtroppo, non lo sappiamo il perché e, forse, non lo sapremo mai. In definitiva, però, tutti vi abbiamo voluto bene e ve ne vogliamo ancora oggi. Purtroppo, è da tenere presente che, quando in una famiglia uno dei componenti non si comporta bene, è come quando c’è una persona malata, tutta la famiglia viene coinvolta e ognuno affronta il dolore o la vergogna a modo suo. Sì la vergogna, perché ci si sente anche piccoli, colpevoli, responsabili per i fatti compiuti dagli altri. Tante volte ci si sente a disagio perché tu non sai ciò che pensano gli altri o sei un po’ in ansia se qualche tuo alunno o qualche genitore può pensare male di te. Per quanto riguarda la detenzione, io dico sempre che i reati vanno puniti, però non sono mai stata d’accordo sul come si scontano le pene. Il carcere deve essere rieducativo e non punitivo, non si può togliere la dignità alle persone, non si possono fare soffrire così i familiari perché anche loro sono delle vittime involontarie. Quante umiliazioni subiscono i figli! Quante sofferenze per andare da un carcere ad un altro! Aspettare il prossimo colloquio per avere un bacio, un abbraccio! Se poi c’è il 41 bis, la sofferenza è ancora maggiore. Devi parlare dietro il vetro, i colloqui diventano diluiti… La mamma è morta con il desiderio di vedervi. Come può il carcere essere rieducativo se non hai nessuna prospettiva di fine pena o qualora tu esca la società non è pronta ad accoglierti, non ti dà la possibilità di reinserimento? Io sono stata coinvolta profondamente perché ho dovuto lasciare l’università, andare ad aiutare papà in campagna, portare la ricotta ai bar, gli agnelli al macello e tante altre cose. Ho guidato senza patente in attesa di sostenere gli esami ed ho avuto la fortuna di avere degli amici accanto che mi hanno aiutata. Nonostante tutto non ho mai smesso di volervi bene e non ho mai parlato male di voi ai miei figli. Non riesco ad immaginare come avete trascorso tutti questi anni privati dei più elementari diritti dell’uomo necessari per condurre una vita dignitosa. Non dimenticherò mai quello che successe per il funerale della mamma: Non ci permisero nemmeno di salutare Concetto e addirittura di guardarlo e, quando fecero uscire tutti dalla chiesa prima di farlo accostare alla bara, io mi girai per guardarlo prima di andar via e vidi aprire la bara, chiuderla immediatamente e Concetto venire trascinato via in malo modo. Contrariamente al mio carattere, cominciai ad urlare incurante delle persone presenti. Se è vero che l’imitazione sia il primo elemento su cui si basi l’educazione, non so come il carcere possa essere rieducativo organizzato così com’è. All’interno di un carcere si dovrebbe studiare l’animo umano per permettere a ciascuno di capire il perché dei propri comportamenti e poi, partendo dalla coscienza dei propri limiti e delle proprie capacità, far conoscere dei modelli positivi da imitare. Permettere di lavorare, di studiare, di essere sempre occupati, di trarre profitto dai colloqui con i familiari. Invece, attualmente, spesso si sta a poltrire senza far niente, si mette il bastone fra le ruote a chi vuole studiare, si conoscono altre persone che non sono certo dei modelli da imitare e tante altre cose. Naturalmente io non sono informata a fondo sulla situazione carceraria e so che ci sono anche delle carceri dove si fanno molte cose a favore dei detenuti. Spero che possa cambiare ovunque la situazione carceraria e che ci sia l’abolizione dell’ergastolo. Spero, soprattutto, che le persone si ravvedano e capiscano che la libertà è un valore inestimabile e non c’è niente che possa valerne la sua perdita e che di vita ce n’è una sola e che vale la pena di viverla, possibilmente in armonia, prima di tutto, con se stessi e poi con gli altri. Carceri, salta la riforma: primo atto dei gialloverdi di Valentina Errante Il Messaggero, 4 giugno 2018 Il decreto legge voluto da Orlando affossato dalla nuova maggioranza. M5S e Lega uniti: i benefici previsti non garantiscono la certezza della pena. Che sarebbe stato il primo provvedimento da spazzare via, Matteo Salvini e Alfonso Bonafede non lo avevano assicurato soltanto dai banchi dell’opposizione, ma anche nel lungo periodo di gestazione di questo governo, quando la Riforma dell’ordinamento penitenziario era passata in consiglio dei ministri, penultimo step per l’approvazione definitiva di un provvedimento fortemente voluto dal Guardasigilli uscente, Andrea Orlando. Nell'ufficio legislativo di via Arenula, non ci sono ancora notizie della volontà del governo, ma adesso, che il segretario della Lega è diventato vicepremier e Bonafede ministro della Giustizia, sembra chiaro che le misure, approvate sulla base di una legge delega che scadrà il 3 agosto, non entreranno mai in vigore. A non convincere Lega e Cinque Stelle è proprio il cuore della Riforma, che tra l'altro ci viene chiesta dall'Europa, vista la condizione delle nostre carceri: la possibilità per tutti, tranne per mafiosi e terroristi, di accedere ai benefici e quindi alle pene alternative. “Certezza della pena”, aveva tuonato Salvini e, poco dopo, i Cinque Stelle si erano schierati con la lega sul loro blog, accusando l'esecutivo Gentiloni di un colpo di mano nonostante la bocciatura delle urne. L'Asse - “Vergogna - aveva commentato Salvini - un governo bocciato dagli italiani approva l'ennesimo salva-ladri. Appena al governo, cancelleremo questa follia nel nome della certezza della pena: chi sbaglia paga!”. Per Alfonso Bonafede, la riforma “Mina alla base il principio della certezza della pena ed è un affronto che non può essere accettato”. Da ministro in pectore aveva assicurato: “Nella diciottesima legislatura, il Parlamento dovrà intervenire in materia di giustizia, rassicurando i cittadini sull'importanza della legalità e della certezza della pena. Il governo - aveva aggiunto - è consapevole che i cittadini non vogliono una norma di questo tipo e, proprio per questo, lo ha approvato con una strategia sconcertante per il modo in cui calpesta le prerogative parlamentari”. Secondo il ministro il testo aveva superato il penultimo step (e avrebbe dovuto passare l'esame in commissione Giustizia entro 10 giorni) “nella distrazione generale nella fase di passaggio tra una legislatura e l'altra e fuori da ogni possibile controllo parlamentare”. La proposta Bonafede - Il decreto che non diventerà mai legge, modifica la norma del 1975 e prevedeva per tutti i detenuti, anche quelli condannati all'ergastolo (ma solo dopo che avessero scontato almeno venti anni) la possibilità di accedere ai benefici, ovviamente solo dopo una valutazione da parte del giudice di sorveglianza. Così come si prospettava l'affidamento ai servizi sociali per quanti avessero una condanna a quattro anni (attualmente è prevista fino a tre anni). I tempi per l'approvazione ci sarebbero ancora, anche per apportare modifiche, ma è difficile che il governo, entro il 3 agosto, possa varare il provvedimento con un passaggio in commissione Giustizia che dovrebbe stravolgere il testo e andare in tutt'altra direzione. Per il ministro, infatti, “il sovraffollamento carcerario non può essere risolto elargendo irragionevolmente benefici penitenziari di un numero sempre maggiore di detenuti, ergastolani inclusi. Piuttosto - è la sua linea - è fondamentale attuare con urgenza un piano-carceri serio, che porti alla realizzazione di nuovi istituti penitenziari e al miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti, investendo risorse sul controllo e la qualità delle misure alternative e sulla rieducazione della pena”. Nel contratto di firmato da Salvini e Di Maio è prevista la costruzione di nuove carceri, ma anche una riforma della prescrizione e pene più pesanti per i furti. Quindi, almeno in un primo momento, il sovraffollamento dovrebbe aumentare. La controriforma carceraria del “contratto di governo” tra Lega e M5S di Sergio Scorza contropiano.org, 4 giugno 2018 Il caldo afoso a Firenze si sente già da un pezzo e tuttavia non è niente in confronto a quello che arriverà con l’ingresso definitivo nella stagione estiva. E con il caldo è tornata l’emergenza al carcere di Sollicciano ove le celle si stanno già trasformando, come ogni anno di questi tempi, in veri e propri forni in cui si fa fatica anche a respirare. L’anno scorso in seguito alle denunce dei radicali, la Regione Toscana e la Madonnina del Grappa fornirono gratuitamente un centinaio di ventilatori all’istituto penitenziario, ma si scoprì poi che l’impianto elettrico non reggeva il consumo di energia necessaria a farli funzionare tutti insieme. Fu così che le temperature nelle celle arrivarono a livelli intollerabili. Poco più di un mese fa, in quel carcere, si è verificato l’ennesimo suicidio di un detenuto che si è impiccato nella propria cella. Secondo Massimo Lensi dell’associazione Progetto Firenze “Siamo nella stessa situazione di un anno fa - i passeggi interni per le ore di aria sono ancora in larga parte da ristrutturare e non esistono programmi per alleggerire il problema del caldo, neanche per il personale di turno nei bracci. Per di più, la definitiva sepoltura del nuovo ordinamento penitenziario, atteso da decenni, ha certamente creato un forte senso di abbandono nelle persone detenute, aumentando i rischi di tensioni e atti di autolesionismo, a tutto scapito del difficile lavoro di rieducazione e risocializzazione previsto dalla nostra Carta costituzionale.”. La drammatica condizione del carcere fiorentino di Sollicciano, purtroppo, non è molto diversa da quella della maggior parte delle carceri italiane. Nel 2017 secondo i dati di Ristretti Orizzonti sono decedute nelle carceri italiane 123 persone: 52 sono stati i suicidi (48 secondo i dati dell’Amministrazione Penitenziaria), 7 in più rispetto al 2016. Secondo quanto si legge nell’ultimo rapporto dell’associazione Antigone sulla situazione nelle carceri italiane il tasso di suicidi (morti ogni 10.000 persone) è salito dall’8,3% del 2008 (anno di entrata in vigore della riforma della sanità penitenziaria) al 9,1% del 2017 (46 morti nel 2008 e 52 del 2017). Secondo i dati, 1.135 sono stati i tentativi di suicidio nel 2017 e gli atti di autolesionismo nell’anno appena trascorso sono stati 9.510. A fine 2012, pochi giorni prima della sentenza Torreggiani della Corte Europea per i diritti dell’uomo, che ha imposto provvedimenti strutturali per affrontare il sovraffollamento, i detenuti erano 65.701, le misure adottate avevano portato quel numero fino a un minimo di 52.164 di presenze a fine 2015. Dopo di che c’è stata un’inversione e le carceri hanno ripreso a riempirsi. Dunque, sovraffollamento, spazi ristrettissimi condivisi da più detenuti, temperature impossibili e precarie condizioni igienico-sanitarie(a volte mancano anche le docce). Una drammatica situazione aggravata dal fatto che il 60% dei detenuti soffre di almeno una patologia a fronte di un’assistenza sanitaria in carcere carente ed approssimativa quando non del tutto assente. Le idee del nuovo governo, se applicate, potrebbero rendere questa situazione ancora più insostenibile. Nel capitolo del “Contratto per il governo del cambiamento” di M5S e Lega dall’altisonante titolo “Giustizia rapida ed efficiente “, al paragrafo dedicato all’ “Ordinamento penitenziario”, si leggono cose come “rispondere al problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari con un piano per l’edilizia penitenziaria” a fronte di una contestuale ripenalizzazione dei reati lievi. Vi si parla poi di “efficienza dei sistemi di sorveglianza”; di “ripristino della certezza della pena”; di pene alternative viste come imperdonabili concessioni alle persone detenute; di “revisione sistematica e organica di tutte le misure premiali”(a rischio dunque sarebbe anche la legge Gozzini). Ma la cosa senza dubbio più grave è che si parla anche di “revisione delle linee guida sul cd. “41-bis” così da ottenere un effettivo rigore nel funzionamento del regime del “carcere duro”. Il che vuol dire un ulteriore inasprimento di questa vera e propria forma di tortura già duramente denunciata dal Comitato dell’Onu contro la tortura e che è valsa al nostro paese anche una condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. È un pesante arretramento se si pensa che si vorrebbe addirittura inasprire la barbarie del 41bis abrogando la così detta norma “Consolo” che ora consente a chi si trova nel “regime speciale”, di poter svolgere i colloqui con i familiari in condizioni umane e di abbracciare i figli piccoli. Dunque, dopo la mancata approvazione da parte del governo Gentiloni, si va dritti verso la cancellazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. È un gravissimo colpo di spugna che cancella il lavoro compiuto da magistrati, avvocati ed accademici ai tavoli degli “Stati generali” voluti da Andrea Orlando, il quale - va detto per inciso - non è che ne abbia fatto una bandiera. Secondo il “contratto di governo” di Lega e 5stelle, le aperture del passato vanno superate in modo “da ottenere un effettivo funzionamento del regime del ‘ carcere duro’”. Dunque. addio al potenziamento delle misure alternative ed alla “sorveglianza dinamica” nelle carceri, che sostanzialmente vuol dire tenere tutti chiusi in cella 22 ore su 24. Quelle celle che, spesso, non sono più grandi tre metri quadrati. Nel pacchetto si parla di “abrogazione” degli “svuota carceri” ma si omette di dire che tra gli “sconti” introdotti di recente ci sono anche i rimedi riparatori imposti, di fatto, dalla citata sentenza Torreggiani. In ossequio alla truce ideologia oscurantista e reazionaria che si evince dalle righe appena citate, nel “contratto”, ovviamente, non si fa alcun riferimento ai pesanti maltrattamenti ed alle vere e proprie torture che sono inflitte ai detenuti nelle carceri italiane e che sono valsi/e all’Italia la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Ed ovviamente non si fa nessun riferimento alla vergogna delle “celle zero”, cioè una cella (o più celle) dove i detenuti vengono spogliati e malmenati. Per questo sono state anche fatte delle denunce che a Napoli hanno portato a un processo che, però, di rinvio in rinvio, rischia di andare in prescrizione. Ma tant’è. Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, associazione che dal 1991 si occupa di garanzie nel sistema penale e penitenziario, ha espresso così la sua forte preoccupazione: “ Nel contratto di governo sottoscritto da Lega e Movimento 5 Stelle c’è un capitolo, l’undicesimo, che desta grande preoccupazione in quanti hanno a cuori la difesa dei valori costituzionali. Per questo abbiamo inviato una lettera al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, appellandoci alla sua carica istituzionale di custode dei valori della nostra Costituzione, affinché non si cancellino principi fondamentali che non possono essere nella disponibilità di alcuna forza politica”. Insomma, nel così detto “Contratto per il governo del cambiamento” di M5S e Lega, al capitolo denominato “Giustizia rapida ed efficiente”, le pene vengono interamente schiacciate sul solo uso del carcere, togliendo spazio a ogni misura alternativa alla detenzione e riabilitativa. Le misure estremamente repressive e “carcerogene” che vi sono indicate hanno una chiara impronta forcaiola e giustizialista che ha messo profondamente in allarme le principali associazioni che si occupano dei diritti dei detenuti e più in generale, di diritti umani. Misure che puntano decisamente ad azzerare le già risibili conquiste di civiltà ottenute in questo ambito nel nostro paese e che mirano, altresì, ad inasprire le già inumane condizioni alle quali sono sottoposte le persone detenute. Il pm Di Matteo dirigente alla Giustizia, ecco lo spoils system nei ministeri di Antonella Baccaro Corriere della Sera, 4 giugno 2018 Vito Cozzoli tornerebbe allo Sviluppo, lasciato dopo il caso Guidi. Ci sono molti volti noti tra i burocrati che il nuovo governo giallo-verde si accinge a nominare in base al meccanismo dello spoils system che consente il ricambio dell’alta dirigenza. Tra questi, Alfonso Celotto, Vito Cozzoli, Roberto Garofoli, Vincenzo Fortunato. Tra i debuttanti potrebbe esserci Nino Di Matteo, pm della procura nazionale Antimafia. Sembrano vicini alla nomina due capi di gabinetto “pesanti”: oltre a Vito Cozzoli, che tornerebbe al ministero dello Sviluppo economico che aveva lasciato dopo lo scandalo “Tempa rossa”, seguendo l’allora ministro Federica Guidi, potrebbe rientrare Alfonso Celotto. Quest’ultimo, avvocato e costituzionalista, è stato ex capo di gabinetto e capo del Legislativo dei ministri Bonino, Calderoli, Tremonti, Barca, Trigilia e Guidi. Oltre a essersi distinto come scrittore con lo pseudonimo Ciro Amendola, usato per raccontare le gesta di un burocrate che combatte i difetti della Pubblica amministrazione. Ed è proprio alla Funzione pubblica che arriverebbe come capo di gabinetto, forte di un ottimo rapporto con il M5S, in particolare con il neoministro alle Infrastrutture Danilo Toninelli. Nelle ultime ore si sta lavorando al riempimento di caselle importanti come il segretario generale di palazzo Chigi, attualmente ricoperto dal renziano Paolo Aquilanti. Una poltrona che potrebbe andare a Vincenzo Fortunato o Carlo Deodato. Il primo è stato il potente capo di Gabinetto del ministero dell’Economia ai tempi di Giulio Tremonti. Il secondo, giurista cattolico, è stato capo dell’Ufficio legislativo del governo Letta, sostituito da Renzi con Antonella Manzione, ma ancor prima ha lavorato con l’ex ministro Brunetta. Rientrato in magistratura nel Consiglio di Stato, ha vergato una sentenza contro il riconoscimento delle nozze gay celebrate all’estero. La sua vicinanza al ministro Tria potrebbe portarlo a coprire il ruolo di capo di gabinetto al Mef, strappandolo a Roberto Garofoli, dirigente nei governi D’Alema, Prodi, Monti e Letta, che però in molti non danno per spacciato. Per quest’ultimo incarico correrebbe anche Giuseppe Chinè, capo di gabinetto uscente alla Salute. Edoardo Battisti capo Ufficio legislativo alla Coesione passerebbe al Mise. Alla Giustizia, Alessandro Pepe, segretario della corrente di Davigo Autonomia e Indipendenza, diventerebbe capo di gabinetto. Per Di Matteo sarebbe pronta la poltrona di capo dipartimento dell’Amministrazione della Giustizia. La campagna di Salvini contro gli immigrati, attacco all’Europa e alla Tunisia di Felice Cavallaro Corriere della Sera, 4 giugno 2018 Il ministro accusa le Ong e dice no alla riforma di Dublino sull’asilo. Due nuove stragi nel Mediterraneo. Nella sua prima trasferta sulla “frontiera” siciliana, osannato da tanti fan in crescita e fischiato da qualche contestatore, Matteo Salvini esordisce promettendo di bloccare “il business dei migranti” perché “l’obiettivo è salvare vite non facendoli partire dai loro Paesi”. Durissimi i riferimenti interni alle Ong definite “vice scafisti” e alle cooperative minacciate di tagli. Ma dalla piazza di Catania e dal porto di Pozzallo scattano strali anche sul regolamento di Dublino e contro Tunisi, mentre il neo-inquilino del Viminale ripete di volere “aprire nuovi centri di espulsione facendo accordi con i Paesi da cui provengono i migranti e ridefinendo il ruolo dell’Italia in Europa”. Oltre a questa sorta di “progetto ruspa”, Salvini invoca un secco no “alle modifiche del regolamento di Dublino per le nuove politiche d’asilo perché condannano l’Italia, la Spagna, Cipro e Malta ad essere da soli”. E bacchetta la Tunisia, a rischio di querelle diplomatica: “È un Paese libero e democratico che non sta esportando gentiluomini, ma che spesso e volentieri esporta galeotti”. Di qui l’annuncio di un imminente incontro con “il mio omologo” a Tunisi (che segue con apprensione le prossime mosse del governo italiano) e con il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro. Preoccupato da una questione agghiacciante, Salvini intende approfondire il tema di un possibile traffico di bambini: “Nessuno mi toglie dalla testa che c’è un business sui piccoli che poi muoiono”. Lo ribadisce varcando i cancelli dell’hotspot di Pozzallo con il presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci, entrambi colpiti dalle notizie sull’ennesima strage nel Mediterraneo: 47 migranti affogati in un naufragio vicino alla Tunisia e altri 9 recuperati senza vita lungo le coste turche, compresi sei bimbi. Di qui la replica di Salvini a chi lo accusa sul “piano ruspa”, a cominciare da Roberto Saviano contro il quale ha deciso di presentare querela: “Qualche fessacchiotto pensa che io voglia che qualcuno muoia in mare. Non ha capito nulla. Non smantellerò tutto quello che ha fatto Minniti ma 7 mila espulsioni sono poche. Non c’è casa e lavoro per gli italiani, figuriamoci per mezzo continente africano”. Ovazioni su questo punto a Catania dove Salvini trova un “predellino”, il passamano di un albergo, in bilico sulla folla invitata a votare domenica prossima per il sindaco forzista Salvo Pogliese contro Enzo Bianco: “Il centrodestra non è demolito. Continuerà ad esistere applicando il programma del centrodestra contenuto nel patto di governo con i Cinque Stelle”. Chiamata correità: senza conferma diretta legittima altra dichiarazione a determinate condizioni di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2018 Cassazione -Sezione I penale - Sentenza 23 aprile 2018 n. 18019. Sulla chiamata in correità la Cassazione, sentenza 18019 del 2018, chiarisce alcuni aspetti. La chiamata in correità o in reità de relato, anche se non asseverata dalla fonte diretta, il cui esame risulti impossibile, può avere come unico riscontro, ai fini della prova della responsabilità penale dell'accusato, altra o altre chiamate di analogo tenore, purché siano rispettate quelle condizioni che ne confortino adeguatamente la valenza probatoria e, dunque: che risulti positivamente effettuata la valutazione della credibilità soggettiva di ciascun dichiarante e dell'attendibilità intrinseca di ogni singola dichiarazione, in base ai criteri della specificità, della coerenza, della costanza, della spontaneità; che siano accertati i rapporti personali fra il dichiarante e la fonte diretta, per inferirne dati sintomatici della corrispondenza al vero di quanto dalla seconda confidato al primo; che vi sia la convergenza delle varie chiamate, che devono riscontrarsi reciprocamente in maniera individualizzante, in relazione a circostanze rilevanti del thema probandum; che vi sia l'indipendenza delle chiamate, nel senso che non devono rivelarsi frutto di eventuali intese fraudolente; e che sussista l'autonomia genetica delle chiamate, vale a dire la loro derivazione da fonti di informazione diverse (cfr. Sezioni unite, 29 novembre 2012, Aquilina e altri). Ai fini di una corretta valutazione di una chiamata in correità, costituisce affermazione costante quella secondo cui il giudice deve in primo luogo verificare la credibilità del dichiarante, valutando la sua personalità, le sue condizioni socio-economiche e familiari, il suo passato, i suoi rapporti con i chiamati in correità e le ragioni che lo hanno indotto alla confessione e all'accusa dei coautori e complici; in secondo luogo, deve verificare l'attendibilità delle dichiarazioni rese, valutandone l'intrinseca consistenza e le caratteristiche, avendo riguardo, tra l'altro, alla loro spontaneità e autonomia, alla loro precisione, alla completezza della narrazione dei fatti, alla loro coerenza e costanza; deve, infine, verificare l'esistenza di riscontri esterni, onde trarne la necessaria conferma di attendibilità. Questi ultimi, poi, possono consistere in elementi di qualsivoglia natura anche di carattere logico; ciò, peraltro, a condizione che, oltre a essere individualizzanti, e quindi avere direttamente a oggetto la persona dell'incolpato in relazione allo specifico fatto a questi attribuito, debbono essere esterni alle dichiarazioni accusatorie, allo scopo di evitare che la verifica sia circolare e autoreferente (tra le tante, sezione III, 4 dicembre 2014, M. e altro). Quanto, poi, al tema dei “riscontri estrinseci”, è parimenti specificato che questi, dal punto di vista oggettivo, possono consistere in qualsiasi circostanza, fattore o dato probatorio, non predeterminato nella specie e qualità, e avere, pertanto, qualsiasi natura: i riscontri, dunque, possono consistere in elementi di prova sia rappresentativa che logica, e anche in un'altra chiamata in correità, a condizione che questa sia totalmente autonoma e avulsa rispetto a quella da “corroborare”. È essenziale, inoltre, che tali riscontri siano “indipendenti” dalla chiamata, nel senso che devono provenire da fonti estranee alla chiamata stessa, in modo da evitare il cosiddetto feno­meno della “circolarità” della acquisizione probatoria, e cioè, in definitiva, che sia la stessa chiamata a convalidare sé stessa. I riscontri, infine, nell'ottica del giudizio di condan­na, devono avere valenza “individualizzante”, devono, cioè, riguardare non soltanto il complesso delle dichiarazioni, ma anche la riferibilità dello specifico fatto-reato alla specifica posizione soggettiva dell'imputato; in altri termini, i riscontri non devono semplicemente consistere nell'oggettiva conferma del fatto riferito dal chiamante, ma devono costituire elementi che collegano il fatto stesso alla persona del chiamato, fornendo un preciso contributo dimostrativo dell'attribuzione a quest'ultimo del reato contestato. Per converso, non è invece richiesto che i riscontri abbiano lo spessore di una prova “autosufficiente”, perché, in caso contrario, la chiamata non avrebbe alcun rilievo, in quanto la prova si fonderebbe su tali elementi esterni e non sulla chiamata in correità (efficacemente, sezione II, 3 maggio 2005, Tringali e altri). In questa prospettiva, è pacifico che gli elementi esterni di riscontro ben possono consistere anche in altre chiamate in correità “convergenti”, sempre che tale consonanza non sia il frutto di condizionamenti, collusioni e reciproche influenze. A tal riguardo, il requisito della “convergenza” non va, però, inteso come piena sovrapponibilità (che sarebbe, d'altro canto, sospetta), bensì come concordanza dei nuclei essenziali delle diverse chiamate in riferimento al fatto da provare (sezione V, 19 settembre 2006, Proc. gen. App. Palermo in proc. Inzerillo). Si valorizza, al riguardo, il carattere “autonomo” della (altra) chiamata in correità utilizzata a mò di riscontro, precisandosi peraltro che l'eventuale sussistenza di “smagliature” e “discrasie”, anche di un certo peso, rilevabili all'interno di dette dichiarazioni, non implica, di per sé, il venir meno della loro affidabilità, quando, sulla base di adeguata motivazione, risulti dimostrata la complessiva convergenza di esse nei nuclei fondamentali (sezione I, 11 maggio 2006, Ganci e altro). Il perfezionamento della notifica tramite servizio postale Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2018 Notificazioni - Notificazione di atti giudiziari tramite servizio postale - Consegna e ricezione dell'atto da parte del destinatario - Perfezionamento della notifica - Dies a quo. La notificazione dell'atto effettuata a mezzo servizio postale deve ritenersi eseguita, e dunque perfezionata, trascorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata contenente l'avviso delle modalità eseguite dall'operatore postale, ovvero dalla data di ritiro del piego, se anteriore. A nulla rileva la data di ritiro del piego effettuata nei sei mesi successivi da parte del destinatario [nel caso di specie, relativo ad impugnazione tardiva, tale data non poteva essere ritenuta il dies a quo dal quale far decorrere il termine per l'impugnazione]. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 29 maggio 2018 n. 24128. Notificazioni - Tramite servizio postale - Ritiro del plico decorsi i dieci giorni previsti per il perfezionarsi della notifica - Conseguenze. La notificazione a mezzo del servizio postale nel caso di mancata consegna o rifiuto di ricezione del plico si perfeziona con il decorso di dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata o con il ritiro del piego da parte del destinatario se esso avvenga entro il prescritto periodo di giacenza. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 29 maggio 2018 n. 24128. Notificazioni - All'imputato - In genere - Notificazioni a mezzo del servizio postale - Termine di dieci giorni - Decorrenza. In caso di notifica a mezzo del servizio postale, la decorrenza del termine di dieci giorni trascorsi i quali la notifica si ha per avvenuta è fissata non con riguardo alla ricezione della raccomandata con la quale il destinatario viene informato delle attività svolte dall'agente postale, bensì con riferimento alla data dell'invio di detta lettera raccomandata. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 13 marzo 2017 n. 11938. Notificazione - Penale - A mezzo posta - L. n. 890/1982, art. 8. L'articolo 8, comma 4, legge 890/1982 prevede, senza eccezioni, che la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al comma 2 ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore, né è contemplato un differimento di detti termini per effetto del ritiro del plico verificatosi successivamente alla scadenza del decimo giorno (come del resto a contrario dimostrato dalla stessa L. n. 890 del 1982, art. 8, al comma 5 riguardante l'ipotesi di ritiro del plico verificatosi mentre lo stesso, durante la decorrenza dei dieci giorni predetti, si trovi presso l'ufficio postale); conseguentemente, il ritiro successivo non potrebbe far venire meno la notifica ormai già perfezionatasi in precedenza per la compiuta giacenza. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 24 luglio 2013 n. 32119. Notificazioni - All'imputato - In genere - Notificazione a mezzo del servizio postale - Termine di dieci giorni - Decorrenza. Alla stregua delle disposizioni contenute nella L. 890/1982, articolo 8, comma 2, la decorrenza dei 10 giorni, trascorsi i quali la notifica si ha per avvenuta, è fissata non con riferimento all'avvenuta ricezione, da parte del destinatario, della lettera raccomandata, con la quale il destinatario medesimo viene informato delle attività svolte dall'agente postale, ma dalla data d'invio di detta lettera raccomandata; e, nel caso in esame, dall'avviso di ricevimento in atti emerge che tale seconda lettera raccomandata è stata ritualmente inviata; dal che può desumersi che, nella specie, sono state osservate tutte le formalità previste dalla legge in materia di notificazione a mezzo posta. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 8 febbraio 2013 n. 6325. Sul rapporto tra carcere e Costituzione... andando oltre le pareti scrostate dai detenuti del carcere di Ivrea Ristretti Orizzonti, 4 giugno 2018 Seguire un corso di editoria digitale, trovandosi, a distanza di anni davanti al computer per studiare la Costituzione Italiana, è emozionante. Soprattutto quando si riesce a dare un valore intrinseco a questo percorso, sottolineando che gli argomenti trattati non si riferiscono a questa o quella struttura penitenziaria, bensì rappresentano un’analisi generale tesa ad incrementare un dibattito costruttivo sulla questione. Qui siamo in carcere, momentaneamente esclusi da buona parte delle norme della Carta Costituzionale. I diritti, così come i doveri sono qualcosa di indefinito. Tutto dipende da qualcosa o qualcuno. Un direttore piuttosto che un altro; questa o quella politica, di apertura o di chiusura, raramente di lungimiranza, e nel rispetto dello stato dei diritti in senso lato. Nel lavoro fin qui svolto, non potevamo di certo ignorare gli articoli 3, 13 e 27 della Costituzione, articoli su cui si fonda il nostro Ordinamento Penitenziario. Se da una parte, oggi, ci troviamo qui, con la possibilità di frequentare un corso di formazione professionale, lo dobbiamo proprio alla nostra Costituzione e agli articoli sopra citati, dall’altra, ci vorrebbero fiumi d’inchiostro per elencare le questioni che ancora oggi, a distanza di settant’anni non funzionano. Infatti, in questa nostra analisi non ci soffermeremo sugli elementi immediati e sui problemi di carattere strutturale quali: sovraffollamento, muri scrostati, docce rotte, celle sporche, ma cercheremo di andare oltre. Prendiamo in esame, ad esempio, il terzo comma dell’articolo 27: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. In due semplici righe è espresso un concetto di valore e spessore culturale indescrivibile. Quello che più colpisce, leggendo questo articolo, è che non troviamo la parola “carcere” dopo quella di “pene”. Tant’è che se si ragiona un momento, non può sfuggire che “il senso di umanità” entra in netto contrasto con l’idea di carcere e tutte le sue conseguenze, che, com’è noto,procurano un dolore sottile, ma nello stesso tempo spietato, non solo alla persona che si trova a scontare la pena, ma a tutta la sua famiglia che senza alcuna colpa ne paga le conseguenze. Questo per dire che i nostri padri costituenti, già all’epoca, avevano lasciato aperta la porta ad un’idea di pena differente da quella del carcere. Non a caso, negli ultimi anni si sta iniziando a ragionare sul concetto di giustizia riparativa, dove la vittima viene posta al primo posto, e a chi ha commesso il reato, viene richiesto di fare dei percorsi particolari fatti soprattutto di condotte riparative, che non hanno niente a che vedere con la vendetta sociale. Da qui un interrogativo sorge spontaneo: le prigioni, quali prodotto di un sistema strettamente connesso alle fasi di sviluppo socio-politiche-economiche proprie del XVIII e XIX secolo, possono essere considerate valide ed attuali oggi, nel XXI secolo? Allo stato attuale, se le cose non cambieranno, la pena scontata in carcere non può che continuare ad essere una barbarie senza alcun significato autentico e funzionale, in termine di prevenzione alla legalità e alla sicurezza sociale. La storia, da duecento anni a questa parte, ci ha insegnato che la prigione è una scuola di delinquenza, di fatto, il carcere incentiva i comportamenti devianti, li stimola, proprio per quell’illegalità che nelle galere è elevata a norma di sistema. Rimanendo in tema, ci preme fare alcune considerazioni che riguardano l’ultimo comma dello stesso articolo 27 della Costituzione: “Non è ammessa la pena di morte”. Nel nostro Paese esiste tuttora una pena che non può che essere interpretata come la pena di morte. Una pena di morte viva, latente, lenta e sottile, fatta di continue agonie e dove per la speranza non vi è spazio. Si tratta dell’ergastolo ostativo. Fine pena mai, 31/12/9999. “Pochi sanno che i tipi di ergastolo sono due: quello normale, che manca di umanità, proporzionalità, legalità, eguaglianza ed educatività, ma ti lascia almeno uno spiraglio; poi c’è quello ostativo, che ti condanna a morte facendoti restare vivo, senza nessuna speranza”. (Carmelo Musumeci) Attualmente, nelle carceri italiane sono numerosi gli ergastolani che non potranno mai più uscire, anche dopo venti, trenta o addirittura quarant’anni di pena scontata. Vi sono persone che si sono laureate, che hanno fatto dei percorsi di revisione critica ineguagliabili e che in qualche modo sono cambiate, non sono più le stesse persone che erano al momento del reato. Eppure, proprio perché il reato commesso rientra in una norma piuttosto che in un’altra, ancora oggi si trovano costrette a passare il resto dei loro giorni rinchiuse all’interno di una cella. I cosiddetti “sepolti vivi”. Necessario, in questo momento storico, dove ogni giorno assistiamo alla privazione dei nostri diritti fondamentali, è la lotta per l’abolizione dell’ergastolo ostativo, pena che da emergenziale e provvisoria, ha impiantato le sue radici sul nostro ordinamento penitenziario, affermandosi sempre di più nel tempo. In questo caso la carta costituzionale è violata in più parti. Prendiamo, pertanto, in esame l’articolo 3: “tutti i cittadini hanno parità sociale e sono eguali davanti alla legge..” Come mai esistono delle pene che pur essendo uguali in termini di norma fanno distinzione tra una persona e l’altra? Forse che in carcere non si è più dei cittadini eguali davanti alla legge? O forse perché una volta entrato in questo “mondo” non ti vengono più riconosciuti i diritti fondamentali, così come gli altri cittadini “liberi”? Non dovrebbe essere così, in quanto, il carcere in realtà è un vero e proprio quartiere della città che lo ospita. Non è una realtà a sé stante. Il carcere non è un mondo a parte rispetto alla società esterna, non esiste un carcere grigio rispetto al mondo colorato che lo circonda, un carcere disumano rispetto alla società integrata e plasmata sui bi sogni dell’uomo. Le galere sono lo specchio delle società esterne, regolate da codici e leggi che sono il riflesso proporzionale all’evoluzione culturale della società stessa. La stragrande maggioranza delle persone, non riesce a cogliere questo aspetto, in quanto nella mentalità dell’opinione pubblica il carcere è considerato una discarica, “perché li dentro trovi di tutto!” Poi come tutte le discariche, basta alzare i muri sempre di più alti, cosi la gente di fuori non può ficcarci il naso! Citeremo di seguito il quarto comma dell’articolo 13, lasciando a voi tutti la possibilità di riflettere su queste parole: “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” Vorremmo concludere questa nostra riflessione collettiva evidenziando di fatto, come, nonostante le disposizione legislative e le varie riforme susseguitesi nel tempo, la prigione non può che essere definita come un’istituzione secolarizzata, cristallizzata, un istituto invalicabile il cui impianto normativo è stato solo leggermente scalfito, ma mai completamente rivisitato. Concluderemo questo nostro lavoro riportando di seguito una citazione estratta dal libro, di Salvatore Ricciardi “Cos’è il carcere”, letto e analizzato durante il corso. “Il carcere non si può riformare. Mai. Si può solo disprezzare, odiare, insultare, per incepparne la sua opera di distruzione umana.”. Salvatore Ricciardi Il presente testo è frutto del lavoro svolto con i detenuti della casa circondariale di Ivrea, che hanno avuto la possibilità di frequentare il corso di editoria digitale. Lavoro nato dalla voglia, o meglio dalla necessità da parte di alcuni di loro, di far uscire fuori da quelle mura le loro testimonianze ed i loro pensieri. Annamaria Sergio Frosinone: morti sospette in carcere, la procura indaga. Attese le risposte delle perizie ciociariaoggi.it, 4 giugno 2018 A giorni il deposito delle analisi del medico legale. La perizia servirà a chiarire se la vittima sia deceduta per strangolamento o soffocamento. Saranno le perizie dei dottori Daniela Lucidi (per la Procura) e Giuseppe Manciocchi (per la difesa) a far luce su una morte sospetta avvenuta nel carcere di Frosinone tre anni fa. Vittima un uomo di 60 anni, mentre a essere indagato per omicidio volontario è Daniele Cestra, 43 anni di Sabaudia, che in carcere ma ora in un'altra località sta scontando la condanna definitiva per aver ucciso a San Felice Circeo un'anziana di 81 anni. Era il 2013. Le operazioni peritali sul decesso sospetto avvenuto dietro alle sbarre del carcere -un'integrazione rispetto a quelle già eseguite- vanno avanti ormai da oltre due mesi. Novanta i giorni di tempo concessi dal pubblico ministero Vittorio Misiti, titolare dell'inchiesta. Le operazioni sono particolarmente complesse. Il medico legale sta infatti esaminando in particolar modo il collo del defunto, trovato impiccato in cella. La perizia servirà a chiarire se si sia trattato di strangolamento o di soffocamento. Resta da chiarire, insomma, se il 60enne sia stato ucciso e poi impiccato e quindi se sia stato un omicidio volontario, per il quale è indagato Cestra, assistito dagli avvocati Angelo Palmieri e Sinuhe Luccone o se si sia trattato invece di un suicidio. Daniele Cestra è indagato anche per un'altra morte poco chiara avvenuta sempre nel carcere di Frosinone, quella risalente invece al 2016. La pena che sta scontando è invece relativa all'omicidio avvenuto nel 2013 a Borgo Montenero. Vittima un'anziana, 81 anni, alla quale furono sottratti 50 euro, una vecchia pistola e una fisarmonica. Cestra dopo il fermo, difeso da un avvocato d'ufficio, ha confessato il delitto davanti al pm. Dopo una condanna a 30 anni in primo grado, assistito dagli avvocati di fiducia Angelo Palmieri e Sinuhe Luccone, è stato condannato a 18 anni in Appello. Sentenza poi confermata in Cassazione e dunque condanna definitiva. Napoli: “sos sanità” a Poggioreale, servono più visite di Giuseppe Letizia Cronache di Napoli, 4 giugno 2018 Molti detenuti chiedono accertamenti in strutture specializzate: tempi troppo lunghi. Sos dai detenuti nel carcere di Poggioreale. Gennaro Pinto ha 59 anni e abita al rione Sanità. Da marzo è recluso nel padiglione Milano. “Ho girato diversi istituti penitenziari dal 2004 - scrive in una lettera - nei 2011 ho avuto un infarto. Poi nel 2015 la semilibertà nel carcere di Secondigliano e l'affidamento ai servizi sociali. Fino a quando sono stato arrestato di nuovo a marzo di quest'anno. Sono arrivato a Poggioreale, qui devo attendere settimane per una visita medica. E ho molta paura. Sono stato sottoposto a ecocardiogramma. Ma serve la visita di un cardiologo. Non so nemmeno se al pronto soccorso c'è un defibrillatore. Io non chiedo di uscire dal carcere, ma di essere curato, per andare via da qui sano”. I detenuti parlano di un vero e proprio allarme per i ritardi nelle visite mediche, le attese per avere i medicinali. E molti chiedono dì essere curati in strutture specializzate all'esterno dell'istituto. I tempi sono lunghi. Le lettere arrivano direttamente dalle celle di nuovo affollale. E ora scendono in campo anche i familiari dei reclusi, spalleggiali dalle associazioni. Poche settimane fa un corteo ha sfilato davanti al carcere in via nuova Poggioreale con bandiere e striscioni: al grido “tuteliamo la salute dei nostri familiari”. Un centinaio di persone armale di megafono hanno presidiato l'ingresso dell'istituto per olire due ore. Ad aprire il corteo un furgone bianco con due grandi altoparlanti. Nessun blocco stradale, nessun incidente. Una manifestazione pacifica, con la quale i genitori dei detenuti hanno fallo sentire la loro voce. Chiedono più visite esterne, mancano i medicinali. Ora basta, serve un intervento urgente delle istituzioni. I reclusi aspettano mesi anche per un semplice controllo, o un ricovero in ospedale. I tempi spesso sono lunghi e la salute non aspetta. Negli ultimi mesi sono arrivate centinaia dì lettere alle associazioni e al Garante per la Campania, Ora i detenuti nel carcere di Poggioreale sono preoccupali. Hanno scritto decine dì lettere ai familiari: emerge uno “spaccato” sulla vita negli istituti di pena. Qui servono più farmaci e in fretta. Aosta: carcere di Brissogne, un pericolo per la salute dei valdostani di Marco Camilli aostaoggi.it, 4 giugno 2018 È notizia di qualche giorno fa che nella casa circondariale di Brissogne è stata rilevata recentemente una “alta concentrazione” di legionella. Il batterio è molto contagioso e si trasmette attraverso l'acqua, il vapore acqueo, i condizionatori d'aria. È facile pensare che il problema sia circoscritto esclusivamente all'ambiente carcerario, ma non è così. Basti pensare ai visitatori: coniugi, genitori e figli che vanno a colloquio con i parenti detenuti e frequentano le aree messe a disposizione in cui sono presenti anche fontane che i bambini toccano per giocare. Ci sono poi gli agenti di polizia penitenziaria e gli addetti dell'amministrazione che utilizzano l'acqua calda sanitaria della struttura carceraria durante il turno di lavoro e poi tornano a casa, dalle famiglie. Le domande, inevitabili, sono: questo batterio ha contagiato detenuti ospiti di Brissogne? Ha contagiato guardie penitenziarie o membri della amministrazione penitenziaria? Ha contagiato i familiari dei detenuti, i figli minori? Per ora non si hanno informazioni a riguardo, ma questo è un fatto di estrema gravità che deve far riflettere su come il carcere di Brissogne non sia alieno al territorio bensì parte integrante di un tessuto che, per le sue interazioni, riguarda l'intera Valle d'Aosta. È bene ricordare che, per quanto riguarda l'assistenza sanitaria nel penitenziario, il protocollo di intesa tra la Regione e l'amministrazione carceraria non è completamente operativo. Al momento la Regione fornisce all'istituto i farmaci che dovrebbero essere somministrati ai detenuti, mentre per la presenza di medici ci si affida cooperative esterne. Questo tipo di organizzazione ha effetti negativi su tutto il sistema carcerario, compreso il rispetto delle norme minime igienico-sanitarie. L'auspicio è che il nuovo governo valdostano e soprattutto il nuovo assessore alla sanità possano a prendere in mano la questione, potenzialmente pericolosa per la salute dell'intera popolazione valdostana, e riportino ad un livello accettabile la gestione della sanità penitenziaria nel carcere di Brissogne. Vibo Valentia: migrante ucciso a colpi di lupara, “difendeva i braccianti sfruttati” di Carlo Macrì Corriere della Sera, 4 giugno 2018 Il migrante maliano stava prendendo da un campo delle lamiere per costruire la baracca dei suoi compagni. In Italia con regolare permesso di soggiorno, era attivista dell’Unione sindacale di base: difendeva i diritti dei braccianti agricoli sfruttati. Rubare in un territorio ad alta densità mafiosa è un rischio che si può pagare con la vita. Sarebbe morto per questo Sacko Soumali, 29 anni, originario del Mali, ucciso da una fucilata alla testa. Almeno stando a quanto riferiscono gli inquirenti. Altri due connazionali che erano con lui sono rimasti illesi. Secondo il racconto di uno dei sopravvissuti, Drane Maoiheri, 39 anni, a sparare sarebbe stato un uomo che dopo essere sceso da una Panda bianca, ha preso la mira da oltre 70 metri, ed ha esploso in rapida successione due fucilate con una “lupara”. Il racconto del superstite è da ieri al vaglio dei carabinieri della compagnia di Tropea che seguono le indagini. Il capannone - I tre migranti si trovavano dentro un capannone intenti a recuperare lamiere e rame da utilizzare nella tendopoli di San Ferdinando, dove viveva Sacko Soumali, e per eventualmente piazzarli al mercato nero. Il capannone da dove hanno prelevato il materiale ferroso era chiuso da dieci anni per disposizione della magistratura che ne aveva ordinato il sequestro perché all’interno sarebbero stati stoccati rifiuti pericolosi e tossici. Sacko e i due suoi amici, tutti con regolare permesso di soggiorno, sabato sera sono arrivati da San Ferdinando, che dista dieci chilometri, uno in bici e gli altri due a piedi. Quindi si sono incamminati su stradina sterrata fino al capannone industriale. Ma qualcuno forse si è accorto della loro presenza, nonostante fossero le nove di sera. Il movente - Il killer - secondo la ricostruzione dei carabinieri - avrebbe deciso di punire i tre migranti e, dopo essersi armato, è ritornato sul posto aprendo il fuoco. “Siamo convinti che questa sia una ricostruzione molto attendibile e non parlerei di ipotesi xenofoba o razzista” - dice il maggiore dei carabinieri di Tropea Dario Solito. Anche se c’è chi avanza altre ipotesi. Don Pino De Masi, referente di Libera nella Piana di Gioia Tauro insiste sul movente razziale, così come i rappresentanti della Flai e Cgil calabrese che parlano di: “inesistente integrazione e mancata accoglienza degli immigrati nell’area di San Ferdinando”. Di parere opposto Giuseppe Idà, sindaco di Rosarno, comune attaccato a San Ferdinando, che parla di “gesto isolato e che non si può consentire che si parli ancora una volta di Rosarno come una città xenofoba, quando sin dai primi anni Novanta è stata tra le prime comunità d’Italia ad accogliere e aiutare”. I carabinieri stanno seguendo una pista precisa per individuare chi ha sparato. Il luogo dove è avvenuto l’omicidio è controllato dalla famiglia Mancuso di Limbadi, una delle ‘ndrine più temute in Calabria. Sindacalista - L’immigrato ucciso era attivista dell’Unione sindacale di base. Difendeva i migranti che nella Piana di Gioia Tauro mettono a disposizione le loro braccia per raccogliere agrumi e ortaggi per pochi euro. L’80% lavora in nero, per dieci ore al giorno. Oggi questi immigrati-braccianti non si recheranno nei luoghi di lavoro e sfileranno per le vie di San Ferdinando per manifestare la rabbia per l’uccisione di un loro connazionale. L’omicidio di Sacko Soumali riporta indietro nel tempo la situazione della tendopoli di San Ferdinando e ripropone i temi dell’integrazione dei migranti che, nel 2010, portò alla rivolta di Rosarno. Centinai di extracomunitari scesero in piazza per chiedere diritti e una condizione di vita sociale adeguata. Oggi 500 di loro vivono nella nuova tendopoli messa in piedi dalla Regione Calabria e dal ministero dell’Interno, ma tantissimi sono quelli che vivono ancora nelle baracche tra i rifiuti, senza luce e acqua potabile. Isili (Nu): residenti e detenuti pedalano assieme per le campagne di Sonia Gioia L'Unione Sarda, 4 giugno 2018 Hanno corso insieme fianco a fianco detenuti e liberi cittadini nella corsa organizzata dalla Polisportiva isilese in occasione della Xv giornata dello sport Isili-Escolca. Un percorso suggestivo proprio all'interno del carcere nella località chiamata Gutturu de Is Trunconis, scelto dall'associazione isilese quali sigillo di una collaborazione tra la società e la colonia penale. Dieci i detenuti che hanno partecipato, italiani e stranieri, giovani fisicamente preparati che hanno accettato di buon grado di mettersi in gioco. Hanno corso assieme a tutti gli altri partecipanti, adulti e bambini, e al termine della gara condiviso il momento di convivialità con un pranzo a base di prodotti della colonia. La manifestazione era comunque blindata proprio per garantire la sicurezza dei partecipanti che venivano da fuori ma anche degli stessi detenuti. Primo passo dunque per attuare tutta una serie di iniziative che possano sfruttare gli impianti sportivi presenti nel carcere, come il campo da calcio, sia per battere la strada dell'integrazione cara alla stessa amministrazione penitenziale. È questo lo spirito che negli anni sta accompagnando la politica del carcere, creare dei rapporti continui con gli enti e le associazioni sportive del territorio. Bologna: due nuovi spettacoli del Teatro del Pratello debuttano nelle carceri bologna2000.it, 4 giugno 2018 Nell’ambito del progetto 2018 del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, due nuovi spettacoli del Teatro del Pratello debuttano nelle carceri di Bologna e di Reggio Emilia: il 6 giugno alle ore 14.00 Bologna - Casa Circondariale, via del Gomito, 2 Mere Ubu Varieté; il 15 giugno, ore 19 Reggio Emilia - Istituti Penitenziari, via L. Settembrini 9 Intorno ai Karamazov. Primo studio. Mere Ubu Variete, con la regia di Paolo Billi e con le coreografie di Elvio Pereira De Assunçao, vede in scena dodici detenute di diverse nazionalità, che danno vita a uno spettacolo di Varietà, in cui cantano e ballano, a volte strappandosi le maschere di donne aggressive e seducenti, secondo le stereotipie maschili, per svelarsi forti, dolenti e ferite. Uno spettacolo contro il voyerismo del pubblico “da teatro-carcere”, ancor più accentuato proprio perché le protagoniste sono donne. Un Varietà cattivo e scorretto, contro i luoghi comuni. Un gruppo di donne, con sguardo vero e delicato, si mette in gioco come solo le donne sanno fare, quando vogliono. Mere Ubu, dopo tutte le nefandezze compiute con il marito Ubu Roi, è in carcere ed insieme alle sue compagna mette in scena uno strano spettacolo di Varietà, in cui gli echi dell’opera di Jarry e anche di Lady Macbett si fondono in un gioco ironico e crudele che si conclude con una Parade finale “Siamo tutti figli di… Mere Ubu!”. Lo spettacolo è accompagnato dalle musiche originali, composte dagli allievi della Scuola di Musica Applicata del Conservatorio di Bologna, diretta dal M° Aurelio Zarelli, eseguite dal vivo da un complesso di cinque allievi del Conservatorio spaziando da polke, a mambo, a can can, a melodie napoletane con mandolino, a rap, a galop, a un bolero reinventato. Lo spettacolo si inserisce nel progetto Le Patafisiche, che vede nel triennio 2016-2018 sei registi impegnati in sette carceri della regione e presso i Servizi di Giustizia Minorile, tutti su un medesimo tema, ovvero l’opera di Alfred Jarry e le correnti artistiche metafasiche da essa derivate. Le attività teatrali presso la Casa Circondariale di Bologna sono sostenute dal Comune di Bologna e dal Coordinamento Teatro Carcere, attraverso il contributo della regione Emilia Romagna nell’ambito dei finanziamenti della Legge 13. Intorno ai Karamazov. Primo studio è la prima tappa di una ricerca con la drammaturgia di Paolo Billi, con testi composti dagli attori detenuti nel laboratorio di scrittura; la regia è di Paolo Billi e Elvio Pereira de Assunçao, assistenti alla regia Susanna Accornero e Viviana Venga, effetti sonori a cura di Rulli Frulli; con la partecipazione di Abdellah, Alfonso, Andrea, Daniele, Davide, Driton, Fabrizio, Fatmir, Giacomo, Giovanni, Giuseppe, Mirko, Reda, Salvatore Alessio, attori detenuti degli Istituti Penitenziari di Reggio Emilia Il Teatro del Pratello nel marzo 2018 ha avviato un nuovo laboratorio teatrale con i detenuti degli Istituti Penitenziari di Reggio Emilia, sostenuto dal Comune di Reggio Emilia e dal Coordinamento Teatro Carcere, attraverso il contributo della regione Emilia Romagna nell’ambito dei finanziamenti della L.13. L’attività si inserisce infatti nel più ampio progetto “Stanze di Teatro Carcere 2018” del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, che per il triennio 2018-2020 ha scelto come tema comune “Padri e figli”. Il primo studio, che viene presentato al pubblico, all’interno degli istituti Penitenziari di Reggio Emilia non è una riduzione teatrale delle vicende del romanzo di Dostoevskij che narra i rapporti conflittuali e tragici tra il padre e i fratelli Karamazov, ma è un affresco corale in cui tanti padri e tanti figli si fronteggiano, si rincorrono, si fuggono; qui prendono corpo i fantasmi i Karamazov, padre e figli, tutti dalla testa ai piedi, un concentrato di sensualità, cupidigia e follia… Nella prima fase di lavoro, caratterizzata da un breve e intenso laboratorio di scrittura, i detenuti partecipanti hanno scritto alcune parti del copione dello spettacolo, sviluppando suggestioni e immagini tratte da film e dalla lettura di alcune pagine dell’opera. Vallo della Lucania (Sa): teatro in carcere con “Fratelli di sangue” di Enrico Bernard di Carmen Lucia infocilento.it, 4 giugno 2018 Il primo giugno, alle ore 10:30 nella Casa circondariale di Vallo della Lucania è andato in scena un reading-spettacolo di “Fratelli di sangue”, opera di Enrico Bernard, scrittore, regista, drammaturgo e critico teatrale. Il testo teatrale è mutuato da un omonimo saggio di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, che Bernard propone in un remake per il teatro. Sulla scena si sono alternati gruppi di detenuti che hanno recitato pezzi di un copione molto impegnativo. Molto suggestiva la scena della “pungiuta”, un rito della ‘ndrangheta che Bernard ricostruisce con estremo vigore espressivo, così come l’interrogatorio tra gli imputati e il magistrato (che ricorda Gratteri). Di grande impatto emotivo tutte le sequenze, scandite da monologhi intensissimi, molto apprezzati dal pubblico intervenuto. La regia era a cura del dott. Mirko Ferra, impegnato in laboratori di formazione nel carcere di Vallo della Lucania, da otto anni. Il teatro del giovane regista, formatosi al Dams di Bologna, privilegia la drammaturgia contemporanea e i suoi laboratori hanno un doppio obiettivo, orientato innanzitutto alla socializzazione attraverso le arti performative, con la finalità di creare un ponte tra il dentro e il fuori, tra le emozioni, le angosce e le espressività vocali, o corporee. Con i laboratori teatrali il regista intende valorizzare i detenuti, proponendo loro la lettura di testi di un teatro di qualità, privilegiando la riflessione, ma soprattutto il valore umano che il teatro restituisce ai detenuti. “I laboratori - sottolinea il regista Mirko Ferra - vengono condotti con spirito di collaborazione e creatività. Gli autori scelti non a caso rispondono a questi bisogni, da Alda Merini a Prevert e De Curtis. Si tratta di un teatro che a tratti si fa introspettivo e permette di vivere i bisogni incompresi dei detenuti e per ri-flesso del mondo fuori. Tra gli altri autori che prediligo per i miei laboratori: Stefano Benni - Astaroth- e Alan Aycbourn (con l’opera “Due chiacchiere al Parco”, sulle incomprensioni e le ossessioni dell’uomo moderno). La messa in scena di “Fratelli di Sangue” è stata fortemente voluta e seguita nelle sue fasi progettuali dall’educatrice: Dott.ssa Mariamaura Calembo, in collaborazione con il Cipia (Centro Provinciale Istruzione Adulti) di Salerno. Tra le figure responsabili del progetto di altissimo valore formativo ed etico: la Dirigente Scolastica Prof.ssa Ornella Pellegrino; la tutor di formazione, Prof.ssa Myriam Andreozzi; la Direttrice, Dott.ssa Mariarosaria Casaburo e il Comandante, della Polizia Penitenziaria, Commissario Guido Pergallini. Tutti hanno seguito e curato le fasi progettuali, coordinando la ricerca-azione di un laboratorio teatrale sperimentale e di grande valore etico. Il reading-spettacolo di “Fratelli di sangue” pone la necessità di un’educazione anti-mafiosa come unica fonte di una libertà vera, lontana dalla paura. In scena intanto la recitazione dei detenuti assume una forza espressiva unica, dilatata dagli accenti spuri del dialetto, dai gesti grevi, assoluti. Impressionante è il silenzio carico di tensione del pubblico e l’applauso liberatorio alla fine dello spettacolo. Ester e le altre nonne maltrattate, una rete per salvarle dai parenti aguzzini di Tiziana Pisati Corriere della Sera, 4 giugno 2018 Insulti, botte: la violenza colpisce anche le donne anziane, che però non denunciano. L’allarme di Cgil-Cisl e Uil. Il piano di una rete coordinata dalle aziende sanitarie. Ester (nome di fantasia) ha 78 anni, è vedova da trenta. E non sa guidare. “Ah, se avessi imparato quand’ero giovane!”, s’è detta tante volte. Un rammarico che ha scavato un tunnel. Prima piccoli problemi, quando è stato chiuso lo sportello postale del suo paese sull’Appennino e quando è sparito anche il negozio di alimentari. Poi disperazione, angoscia, paura. Perché quel figlio da cui dipendeva sempre più le faceva male con sfuriate, offese, umiliazioni e, da ultimo, anche con le mani. Uno spintone, lei malferma che cade a terra. Ester in casa affranta che teme di chiedergli anche commissioni basilari come il ritiro della pensione e l’acquisto delle medicine. Lui, 56 anni, senza lavoro, tutto il giorno al bar a giocare alle macchinette: “Perde sempre. Per questo è così nervoso, se la prende anche con me, ma mi vuole bene”. Non solo lo copre ma lo giustifica ogni volta. Fino a quando, per le ferite, con il medico viene fuori la verità. Siamo a Piacenza. Questa storia è nella “zona grigia” difficilmente intercettabile dai Servizi sociali, una zona che racchiude donne anziane che subiscono soprusi e maltrattamenti in famiglia: “Ne abbiamo conosciute tante, ma ce ne sono molte di più. Il problema è che sono restie a parlarne e ancor prima ad ammetterlo a se stesse, peggio delle donne in età giovanile. Il fenomeno è sottovalutato e noi vogliamo farlo venire a galla, andare in loro aiuto con un piano di interventi”. Clelia Raboni (Spi Cgil piacentino) spiega le ragioni che hanno portato il Coordinamento provinciale femminile Cgil - Cisl e Uil a proporre la creazione di una rete di ascolto sul territorio mirata proprio sul problema specifico delle anziane maltrattate. Una sorta di mappatura fatta di tante “sentinelle” sul territorio, come possono essere il medico di famiglia, l’infermiera chiamata a casa per un’iniezione, l’assistente sociale o il volontario di qualsivoglia associazione locale. Le attiviste del Coordinamento femminile dei sindacati hanno già portato alla luce diversi casi nel corso dei contatti di routine nell’ambito del supporto alle famiglie. Sono il segnale di un quadro drammatico, i cui numeri sono tra gli scopi della rete: “Parliamo di donne dai 70 in su. Si vergognano della loro fragilità, non vogliono ammetterla, colpa anche di una certa forma d’amore, che le porta ad accettare tutto, anche rapporti patologici che le stritolano. Subiscono le conseguenze di convivenze difficili, fatte di incomprensioni, ansie, conflitti. Donne anche di 80-90 anni insultate e picchiate da mariti; madri che devono assistere persone con patologie psichiatriche, subiscono le angherie di figli o nipoti a loro volta schiavi di problemi di tossicodipendenza o alcolismo: non sanno come gestirli, non riescono a difendersi”. Il grido d’allarme è stata raccolto dall’Ausl (azienda unità sanitaria locale) che nell’ambito del Piano regionale di contrasto alla violenza di genere, sta approntando un piano preventivo partendo con un percorso formativo a cascata fra operatori sociosanitari, Centri Antiviolenza e volontariato. Spiega Costanza Ceda, direttore delle attività socio sanitarie della Ausl piacentina: “Vogliamo andare oltre l’emergenza che già seguiamo nei luoghi preposti ad intercettare e seguire i casi di violenza sulle donne. L’obiettivo è estendere la capacità di presa in carico dei Servizi, sia sanitari che sociali, non solo nel momento dell’emergenza, ma anticipando e lavorando in prevenzione”. Migranti. Mediterraneo, oltre 50 morti in due naufragi di Patrizia De Rubertis Il Fatto Quotidiano, 4 giugno 2018 Torna l’inferno nel Mediterraneo. Il bel tempo e il mare calmo hanno riaperto la rotta degli scafisti con due tragedie in cui 9 migranti, tra cui sei bimbi, sono morti dopo che il motoscafo sul quale viaggiavano è affondato nel golfo di Antalya. Sono, invece, 46 le vittime del naufragio di un barcone ripescate al largo delle coste tunisine. Ma, appena due settimane fa, nell’Egeo almeno 7 migranti afghani, tra cui 3 bambini, hanno perso la vita mentre cercavano di raggiungere l’isola greca di Lesbo dalle costa turca di Ayvacik. Dall’inizio dell’anno, secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), su 28.368 migranti e rifugiati giunti in Europa via mare, sono 636 i morti nel Mediterraneo. Dati sì in netto calo rispetto agli anni precedenti (60.518 nel 2017 e 193.333 nel 2016) ma che, tuttavia, dimostrano che da Mare Nostrum a Triton, da Triton all’attuale Themis (l’operazione Frontex di assistenza all’Italia nelle attività di controllo nel Mediterraneo che ha preso il via a febbraio) si è verificato un cambio di rotte percorse dai migranti. I flussi dalla Libia sono diminuiti e la partenza dei barconi si è spostata su altre traiettorie: dal Marocco alla Spagna, dalla Turchia verso Grecia e Italia e dalla Tunisia, Algeria ed Egitto sempre verso l’Italia. Piccole imbarcazioni sbarcano direttamente sulle spiagge siciliane, da Messina ad Augusta, da Pozzallo a Catania. A riprova di come siano parzialmente cambiati i flussi, si è modificata anche la tavola delle nazionalità. I numeri del ministero dell’Interno, aggiornati al primo giugno, dicono che, a fronte di una diminuzione dell’85% degli arrivi dalla Libia, la Tunisia è balzata in vetta alla classifica dei Paesi d’origine dei migranti sbarcati in Italia nei primi mesi del 2018: 2.789 (quasi tutti concentrati a Lampedusa) secondo il cruscotto giornaliero del Viminale, davanti a eritrei (2.227) e nigeriani (958). Ci sono anche 478 pakistani che volano fino a Istanbul per imbarcarsi verso la Grecia. “Insomma, se l’obiettivo era fermare il flusso dei migranti dalla Libia, il Minniti Compact (il sistema attuato dall’ex ministro dell’Interno a partire dall’estate 2017) ha funzionato benissimo. Peccato che il problema sia stato solo nascosto. La Libia è una polveriera. Migliaia di persone allo stremo sono detenute nelle carceri e le milizie continuano a gestire i traffici degli esseri umani”, spiega Nicola Stella coordinatore di Sos Mediterranee. Intanto la scorsa settimana, il premier francese Macron ha convocato una conferenza internazionale sulla Libia a Parigi per assumere il ruolo di arbitro in uno dei conflitti più complessi della storia recente, quello cominciato con la caduta di Muammar Gheddafi nel 2011. Libia. Nei lager per i migranti torture, stupri, pestaggi ed elettroshock di Giovanni Tizian L'Espresso, 4 giugno 2018 I trafficanti li chiamano “mezra”. Magazzini, in arabo. Spesso sono vere e proprie prigioni fuori da ogni regola, carceri private, gestite dai boss del traffico di esseri umani. Che in queste strutture sparse per la Libia non custodiscono merce qualunque, ma donne, bambini, uomini. Seviziati con la corrente elettrica, picchiati con tubi di gomma, senza cibo per giorni, le ragazze stuprate. Tra questi c’è anche chi è stato caricato di forza su gommoni e barche. Persino minorenni, che non avevano alcuna intenzione di lasciare l’Africa. Sono loro stessi a raccontarlo, una volta arrivati in Italia, alle commissioni territoriali incaricate di valutare le richieste di asilo. La realtà, violenta. Nel frattempo la politica si avvita in sterili discussioni sull’indagine della procura di Catania e sul presunto rapporto tra Ong e trafficanti. Parole al vento che non offrono soluzioni per fermare l’orrore libico. Eppure i nodi da sciogliere sono molti. Per esempio, diversi mesi fa i pm di Catania hanno inviato in Egitto una richiesta per catturare due trafficanti di primissimo piano, ma Il Cairo tace. E mentre dalla sponda europea del Mediterraneo gli xenofobi d’Europa ingaggiano ingegneri per progettare muri, l’agenzia Frontex getta un’ombra sul lavoro delle Ong e i partiti agitano lo spauracchio dell’invasione, dalla sponda sud del canale di Sicilia le persone che scappano da guerre, dittature, povertà e miseria - chi ha diritto all’asilo e chi no - continuano a subire qualunque tipo di sevizia. Soprusi inumani compiuti quotidianamente dai boss e dai loro sgherri che gestiscono un business miliardario, stimato dall’Europol in 4-6 miliardi di euro. Per ora le informazioni più preziose vengono da una gola profonda, la prima del milieu dei trafficanti. Si chiama Nuredin Atta Wehabrebi. Eritreo di origine, per oltre un decennio ha fatto il lavoro sporco in Libia. La dedizione criminale gli è valsa a soli 32 anni una carriera brillante nel clan dei trafficanti, diventando pedina di rilievo dell’organizzazione. Arrestato dai pm di Palermo, ha deciso di vuotare il sacco. Ora è un pentito convinto, tanto da finire nel sistema di protezione come fosse uno dei tanti padrini nostrani. Con le sue dichiarazioni ha permesso al pm palermitano Geri Ferrara, coordinato dall’aggiunto Maurizio Scalia, di portare a termine ben due indagini con oltre 50 persone arrestate. “Arrivati in Libia i trafficanti fanno stazionare le persone in delle case di campagna che spesso i proprietari affittano ai trafficanti”. I dettagli forniti da Atta il pentito saranno molto utili agli inquirenti, anche perché il collaboratore fa i nomi dei capi dell’organizzazione di cui faceva parte. “I migranti vengono raccolti in magazzini per il futuro viaggio in mare”, spiega. Grazie alle informazioni fornite, i magistrati hanno mappato le aree di raccolta: “Sono a conoscenza che i migranti che giungono in Libia per partire verso l’Europa vengono concentrati in quattro magazzini, chiamati in arabo “mezra”, due si trovano nella località di Zuwara e li gestisce un certo Muktar, mentre tre si trovano in località Tajura e li gestisce un certo Hagi Naser Moham”. Zuwara è la nota località di imbarco utilizzata dalle bande di trafficanti, si trova a ovest di Tripoli. Tajura è 30 chilometri a est della capitale libica. Atta sa dove si trovano, li ha visti con i propri occhi, li ha attraversati con le proprie gambe. Ha sentito le urla disperate dei reclusi. Per questo ai pm ha indicato sulle mappe i luoghi dove le persone sono condannate a subire una punizione umiliante, tenuti chiusi in gabbie di cemento e ferro, con temperature che in estate superano i 40 gradi. Li chiamano mezra ma altro non sono che gironi infernali, lager del terzo millennio. Ingranaggi fondamentali nella filiera del business. Sangue e quattrini - Atta non è mai stato un semplice scafista. Ma sa come funziona il sistema in ogni passaggio della filiera. “Uno scafista marocchino, tunisino o egiziano riceve tra i 20 ed i 30 mila euro per un viaggio e se riesce a riportare indietro la barca viene pagato il doppio. Se lo scafista è qualcuno dei paesi sub sahariani non riceve alcun pagamento ma può viaggiare gratis”. Ultimamente i clan preferiscono proprio quest’ultima soluzione. Obbligano, cioè, ragazzini gambiani, nigeriani, maliani, a guidare il natante fatiscente. Per chi rifiuta c’è il bastone o il calcio del fucile. Una pena che non si esaurisce una volta raggiunta l’Italia. Dopo lo sbarco, infatti, vengono arrestati con l’accusa di essere scafisti di professione. E invece sono solo adolescenti vittime di un sistema senza scrupoli. Atta elenca i padrini che tengono in mano le redini del traffico. “Sono i quattro trafficanti che gestiscono la maggior parte dei flussi. Ci sono anche gruppi minori che operano dall’Egitto e dalla Tunisia ma non sono comparabili con gli altri per numeri di viaggi e guadagni. Ognuno di questi quattro ha un gruppo fidato di uomini che opera per conto loro, tra i sei e i dieci. Si avvalgono, inoltre, di numerosi collaboratori, pagati molto meno. I gruppi non sono in conflitto tra loro, anzi collaborano”. Le quattro bande, dice il pentito, sono tutte operative a Tripoli e dintorni. Tranne una che copre una zona in più, Bengasi. Il suo capo si chiama Abdurazak. “Il trafficante più importante”, lo definisce Atta. Poi c’è Ermias, un nome che ci conduce nel cuore dell’Europa democratica. In Germania, dove vive “la moglie, nella zona di Francoforte”. Qui è probabile, sostiene il pentito, che si trovino “tutti i soldi che guadagna Ermias, ma non so dove li tiene la moglie”. La donna, tra le altre cose, ha prima provato, senza riuscirci, a chiedere asilo politico in Svezia. I quattrini del traffico, ipotizzano gli investigatori, potrebbero essere finiti anche a Dubai. Tra grattacieli futuristici e banche affidabili, le bande libiche hanno propri emissari. Il racconto di Atta apre uno squarcio profondo nel muro di omertà che protegge i confini del malaffare. “Conosco Salha Maskout, di cui qualche giorno fa la stampa ha dato notizia della uccisione in Libia. Al tempo di Gheddafi faceva parte della polizia militare. Maskout trasportava i migranti da Koufra per portarli a Tripoli, li consegnava a me e agli altri trafficanti. Non aveva barconi di proprietà, ma soltanto dei furgoni minivan che utilizzava per i trasferimenti dalla frontiera libica. Ogni migrante gli pagava circa 600 dollari”. Tra i fidati collaboratori del poliziotto anche un dipendente dell’ufficio immigrazione, “che contattavamo per il rilascio dei migranti che venivano arrestati dalla polizia libica in modo che, in seguito, potevamo organizzarne il loro viaggio per l’Italia”. Atta ha fatto e visto cose terribili. C’è un passaggio raccapricciante nel resoconto che consegna agli inquirenti. “Talvolta i migranti che non possono pagare vengono consegnati a degli egiziani che li uccidono per prelevarne gli organi e rivenderli in Egitto per una somma di circa 15 mila dollari. In particolare, questi egiziani vengono attrezzati per espiantare l’organo e trasportarlo in borse termiche. Nel 2013, nella strada Sahara-Sinai che porta verso Tel Aviv, furono rinvenuti oltre 400 cadaveri di persone a cui furono espiantati gli organi e c’è anche un video su Youtube”. Il pentito custodisce molti segreti. Dice di sapere persino il nome di chi forniva fino al 2007 i gommoni Zodiac, utilizzati per i trasferimenti sulle barche più grandi. “Venivano venduti ai trafficanti dal console francese a Susa, in Tunisia”. Il Ghetto di Alì - I migranti sbarcati a Lampedusa lo ricordano come il Ghetto di Alì il torturatore. È un “mezra” perso nel deserto attorno a Sabah, importante città centro-meridionale della Libia. Questa volte, però, il pentito Atta non c’entra. Questa è un’altra storia, parallela. Tutto ha inizio quando all’interno del centro di accoglienza di Lampedusa un gruppo di migranti riconosce tale Fanti, un ghanese sbarcato insieme a loro in Sicilia il 5 marzo scorso. Fanti è, sostengono i migranti, uno dei torturatori del ghetto di Alì, dove hanno trascorso un incubo durato mesi. Così lo accerchiano, tentano di aggredirlo. La vendetta non si realizzerà solo per l’intervento delle forze dell’ordine. Gli aggressori, però, verranno interrogati dalla polizia, che vuole capire il motivo del livore. A quel punto decidono di dire tutta la verità. I loro verbali assomigliano alla trama di un film horror ambientato all’interno di un campo di concentramento. La prigione-magazzino “era recintata con dei muri alti in pietra, si accedeva attraverso una grande porta. Eravamo vigilati a vista da guardie, in abiti civili e armati di fucili e pistole. Rimasi detenuto circa otto mesi, fui sottoposto numerosissime volte a torture e sevizie da parte del gruppo che fa capo ad Alì il Libico. Fanti era membro di questa organizzazione di trafficanti”. Che tipo di sevizie?, chiedono i poliziotti della squadra Mobile di Agrigento. Uno dei testimoni risponde, alzandosi la maglietta: “Porto ancora addosso le cicatrici delle ustioni inflitte”. Poi conduce chi lo ascolta in un tunnel macabro e criminale: “Fanti per due mesi mi ha continuamente frustato con un cavo elettrico, procurandomi delle profonde lacerazioni. Fu invece un altro a buttarmi su una gamba la pentola contenente acqua bollente. Ho, inoltre, visto Fanti picchiare violentemente con dei bastoni altri migranti reclusi in quel lager”. Un secondo testimone aggiunge: “Spesso collegava degli elettrodi alla mia lingua per farmi scaricarmi addosso la corrente elettrica. Mi faceva stare anche 5 giorni senza mangiare e bere. E ho visto violentare delle donne”. Gli è rimasto impresso nella memoria un aguzzino, che quelli della banda di Alì chiamavano Rambo: “Ha ucciso 2 migranti, a bastonate”. Infine, riaffiora un altro ricordo di quei mesi, “altri cinque migranti sono morti di stenti, privazioni e violenze”. Il viaggio obbligato - K. si è ritrovato su un barcone senza volerlo. Costretto ad attraversare di notte il Mediterraneo, rivela ai funzionari della commissione che esamina le richieste di asilo politico. Arrivato in Libia, dopo essere scappato dal Mali (qui l’avevano accusato di essere un sovversivo, catturato e abbandonato nel deserto a morire), viene incarcerato in una delle tante prigioni “private”. Da lì è riuscito a scappare, “siamo andati a Tripoli, ma abbiamo capito subito che, come in Algeria, i neri non li vogliono, abbiamo lavorato come schiavi, senza essere pagati”. Poi, una sera, qualcuno li preleva, li carica su un mini van e li porta su una spiaggia dove verranno imbarcati contro la loro volontà. Direzione Europa, Italia. K. Non è l’unico. L’Espresso ha letto numerosi verbali in cui ragazzi giovanissimi ammettono di essere partiti contro la loro volontà. Come questo dell’8 aprile scorso: “Quanto ha pagato il viaggio per l’Italia?”, chiede uno dei componenti della commissione. “Non ho pagato, mi hanno fatto imbarcare per forza”, è la risposta di D. Anche Oy è stato obbligato a salire su una “grande nave”. Lui è fuggito da un villaggio della Nigeria perché omosessuale. “Ci hanno scoperti e rischiavo di diventare carne per un sacrificio umano”. Una punizione esemplare. Giunto in Libia, rinchiuso in una “mezra”, piangeva perché non sapeva come soddisfare le richieste di denaro dei libici come contropartita per la libertà. “Un giorno un arabo mi prese, mi portò in spiaggia e mi indicò una barca. Così sono arrivato in Italia”. E come tanti ha fatto domanda di asilo. La maggior parte delle domande, però, vengono respinte. Così è necessario fare ricorso. I tempi sono biblici. Un esempio: il 20 marzo scorso un giudice di Catania - distretto giudiziario dove ricade il centro di accoglienza di Mineo - ha rinviato al giugno 2018 l’udienza di un ricorso presentato nel 2015. In media passano oltre 600 giorni per la decisione della commissione territoriale, a cui si aggiungono i mille giorni per la definizione del ricorso. Dopo l’inferno libico, in fondo, che sarà mai il purgatorio della burocrazia italiana. Iran. Se 50 persone giurano che è colpevole, un imputato viene messo a morte di Riccardo Noury Corriere della Sera, 4 giugno 2018 Taherer, i media locali ne riportano solo il nome, una donna iraniana di 34 anni, è stata arrestata il 22 marzo 2015 con l’accusa di aver ucciso il marito nel corso di una lite. Secondo quanto riferito dall’organizzazione Iran Human Rights, la donna ha dichiarato che è stato il marito a uccidersi con una coltellata al petto, un’ipotesi che però l’autopsia ha escluso, attribuendo il colpo mortale a un’altra persona che era a stretto contatto con l’uomo. Tahereh è stata condannata a morte su richiesta della madre della vittima, ma la Corte suprema ha respinto il verdetto. A questo punto, il giudice ricorrerà all’istituto giuridico islamico del “qassameh”, il modo più incerto di provare un crimine: se un certo numero di persona lo giura, l’imputato è automaticamente colpevole. Così, al parente più prossimo della vittima sarà chiesto di portare in tribunale 50 parenti maschi, nessuno dei quali ovviamente testimone del delitto, affinché giurino sulla colpevolezza di Taherer. Nel caso in cui i 50 parenti maschi non si trovino, l’imputata potrà giurare 50 volte di seguito la sua innocenza ed essere assolta. Il ricorso al “qassameh” è deciso dal giudice di un processo quando ritiene probabile che un imputato sia colpevole di omicidio o lesioni fisiche ma non ci sono abbastanza prove o tempo sufficiente per cercarle. Occorrono, come nel caso di Taherer, imputata di omicidio volontario, 50 persone pronte a giurare la colpevolezza, 25 nel caso di omicidio colposo. L’ultima esecuzione tramite ricorso al “Qassameh” ha avuto luogo il 30 ottobre 2017 nella prigione di Rajai Shahr, nei confronti di un uomo chiamato Mojtaba Ghiasvand.