Giustizia per ricchi di Paolo Biondani L’Espresso, 3 giugno 2018 Più sicurezza, più carcere, più armi contro la criminalità. Più diritti, più tutele, più risarcimenti per le vittime della crisi. In un’Italia sprofondata in una campagna elettorale permanente, le questioni giudiziarie sono al centro della propaganda politica. E i cittadini si vedono tempestare di promesse. Nuove leggi miracolose. Progetti di riforma a costo zero. Soluzioni facili e immediate per problemi complicati. Slogan e comizi fanno leva quasi sempre sulle emozioni scatenate da un singolo caso di violenza spettacolarizzato dai media: l’omicidio impressionante, la rapina nella casa di famiglia, l’attentato terroristico tra la folla. Di giustizia civile, che secondo tutti gli esperti è la vera e cronica emergenza italiana, nell’arena elettorale si parla pochissimo. Ma anche sul fronte della lotta al crimine, raramente si confrontano le promesse, e le paure dei cittadini, con la realtà del nostro sistema giudiziario. Tutti parlano di legalità e sicurezza, ma i dati oggettivi sembrano interessare solo a magistrati e professori, Un esempio? La recidiva: è il termine ricchi tecnico che descrive la ricaduta nel reato. Fotografa chi torna a delinquere dopo aver finito di scontare una precedente condanna. E un problema enorme: ogni mese dalle carceri italiane, secondo l’ultimo studio statistico del ministero della giustizia, escono dai duemila ai tremila ex detenuti. Tranne i casi eccezionali di ergastolo “ostativo”, ogni pena ha una durata massima: quasi tutti, prima o poi, tornano in libertà, anche i condannati per omicidi, violenze sessuali, mafia e altri reati gravissimi. Ma quanti ex detenuti hanno cambiato vita? E quanti invece tornano al crimine? “Più del 70 per cento, purtroppo”, risponde Francesco Cascini, pm antimafia a Roma ed ex numero due del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). “Per avere cifre esatte, servono anni di studi statistici, ma trovare un dato generale, a livello nazionale, è semplice: basta interrogare il sistema informatico del Dap e chiedere, per ogni nuovo detenuto, se è già stato in carcere. L’ho fatto molte volte: le risposte affermative variano dal 70 all’80 per cento. Quindi parliamo di decine di migliaia di persone a rischio di recidiva. Questo significa che il nostro sistema penale non realizza la sua funzione di rieducazione, recupero, reinserimento nella vita civile, che sarebbe imposta dalla Costituzione. Dopo i famosi pacchetti sicurezza, abbiamo avuto punte di 70 mila detenuti, con carceri sovraffollate, invivibili; oggi, dopo le ripetute condanne dell’Italia per violazione dei diritti umani e le conseguenti misure legislative, abbiamo comunque più di 50 mila reclusi. Eppure quasi nessuno si chiede che fine fanno gli ex detenuti. Scontata la pena, cosa fa l’assassino? E il rapinatore di banche? E il pedofilo? Il carcere e i processi costano. Ma la recidiva ha costi sociali molto più alti”. Il magistrato, dopo anni di antimafia in Calabria e Campania, è stato anche capo del Dipartimento della giustizia minorile, che segue logiche rieducative; la reclusione è un’eccezione per i casi più gravi, la regola è un percorso di formazione, scuola, lavoro, recupero personale e familiare. “Per chi ha meno di 18 anni si parte dal presupposto, accettato, che il tempo della pena serve a ricostruire il futuro. Lo Stato e molti enti locali, ma anche la Chiesa e le associazioni offrono risorse: in media gestiamo circa 20 mila minori in esecuzione esterna, cioè fuori dal carcere. In certe zone d’Italia l’assenza di politiche per i giovani crea un paradosso: l’assistenza sociale arriva solo dopo l’arresto”. E nell’umanitaria giustizia minorile qual è il tasso di recidiva? “La metà degli adulti: 30-35 per cento”. Il mito della linea dura è incrinato anche dalle statistiche internazionali verificate dall’Istat. Le nazioni con il più alto numero di detenuti in rapporto alla popolazione, cioè le repubbliche baltiche e gran parte dei paesi dell’est, hanno tassi di omicidio molto superiori alla media europea: il rischio di morire ammazzati è da due a nove volte più alto che nell’Italia di oggi. Quindi più carcere non significa più sicurezza. Anzi, le manette facili sembrano aumentare la propensione alla violenza. I pensatori progressisti, da Beccaria a Turati, non avevano bisogno di statistiche per insegnare che un carcere disumano è una scuola di delinquenza. Chi entra spacciatore ne esce narcotrafficante, il ladro diventa rapinatore, il criminale comune è reclutato dalla mafia. Oggi l’unico grande penitenziario per adulti dove la rieducazione non è una favola è Milano-Bollate: una struttura moderna, inaugurata nel 2000, con più di mille detenuti inseriti in programmi di formazione e lavoro anche esterno. Un mese fa due autorevoli studiosi, Giovanni Mastrobuoni e Daniele Terlizzese, hanno pubblicato la prima ricerca scientifica sui detenuti trasferiti da altre prigioni a Bollate: il risultato più vistoso è che, per ogni anno trascorso in questo carcere più umano, la recidiva crolla del 10 per cento. Questo significa che, in 18 anni di attività, il modello Bollate ha evitato all’Italia migliaia di gravi reati. Meno omicidi, più paure In questi anni molti leader politici hanno parlato di giustizia per attaccare indagini, arresti e sentenze di condanna, se coinvolgono la classe dirigente o personaggi famosi. In realtà proprio nel sistema penale c’è il settore che funziona meglio e ottiene risultati riconosciuti e studiati anche all’estero: la lotta alla criminalità. In Italia i reati più gravi sono in continuo calo. Gli omicidi sono al minimo storico: come dimostrano 150 anni di statistiche pubblicate dal professor Marzio Barbagli, dall’unità d’Italia ad oggi il rischio di morire ammazzati non è mai stato cosi basso. Tra il 1988 e il 1991 si contavano, in media, tre delitti al giorno. Il tasso di omicidi era quattro volte più alto di oggi. Anche le rapine sono in calo. Nell’ultimo decennio si sono quasi dimezzate, soprattutto le più gravi, come gli assalti a banche e uffici postale organizzati da bande armate. Nelle mappe della criminalità diffusa aumentano solo i furti in casa, senza violenza sulle persone (altrimenti diventano rapine), con una crescita continua fino al 2014 e un lieve calo successivo. Non sembra trattarsi di un effetto della crisi e nemmeno degli sbarchi di profughi al sud: i ladri colpiscono soprattutto nelle regioni del nord dove c’è meno disoccupazione, molte seconde case sfitte e abitazioni di famiglia che si svuotano perché tutti vanno a lavorare. Un altro problema che non ha soluzioni semplici è la crescita allarmante delle percentuali di femminicidi e delitti tra familiari e conoscenti. I giudici dei divorzi, a Milano, segnalano un parallelo “aumento impressionante della litigiosità e cattiveria nelle cause tra coniugi, che spesso strumentalizzano i figli”. Stando ai dati, insomma, la sicurezza bisognerebbe imperla prima di tutto dentro le case. Fuori, la criminalità cala: magistrati, poliziotti, carabinieri e finanzieri hanno raggiunto risultati storici. A spiegare il crollo sono soprattutto le indagini antimafia. Nel 1990 nel sud dominato da cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta c’erano tassi di omicidio spaventosi: in Sicilia 8,2 delitti ogni centomila abitanti, in Calabria 15,1. La media nazionale oggi è precipitata a 0,66. Le regioni più a rischio restano (nell’ordine) Campania, Puglia, Sardegna e Calabria, ma il dato più negativo oggi è 1,42. Meno di un decimo del record di trent’anni fa. La lotta alla mafia ha ridotto anche altri reati, dalle estorsioni ai morti per droga, mentre i sequestri di persona sono quasi scomparsi. Anche gli effetti delle indagini sono diversi. In media vengono arrestati oltre il 90 per cento degli assassini di familiari e il 70-80 per cento dei rapinatori che sparano e uccidono. Negli omicidi di mafia invece il tasso scende al 20 per cento (con punte massime di 30), quindi i killer restano liberi di commettere altri crimini. I maxi-processi alle organizzazioni mafiose, dunque, hanno un effetto moltiplicatore della sicurezza. Nonostante la riduzione oggettiva della criminalità violenta, tra gli italiani cresce da anni la paura, misurata dai sondaggi sulla percezione del rischio. La crescita non è lineare, ma altalenante: i dati dell’Istat fanno ipotizzare che la sensazione di insicurezza aumenti nei periodi di scontro politico, propaganda elettorale e martellamento mediatico. Rovesciando l’esempio, questa ipotesi si rafforza. Nella storia d’Italia, il tasso più allarmante di omicidi (esclusa ovviamente la seconda guerra mondiale) risale agli anni dell’affermazione della dittatura fascista. Oltre a incarcerare gli oppositori e abolire la libertà di pensiero, il regime censurava perfino la cronaca nera, per non smentire la retorica dello Stato forte. Il rischio di morire ammazzati era enormemente più elevato di oggi, ma nessuno poteva farlo percepire al popolo italiano. Il rovescio della medaglia è la prescrizione, che garantisce una sostanziale impunità per tutti i reati dei colletti bianchi: evasioni fiscali, scandali economici, disastri ambientali, morti sul lavoro, illeciti bancari e finanziari, truffe e corruzioni. Prescrizione significa che il reato c’è, l’imputato lo ha commesso, ma sono scaduti i termini massimi di “punibilità del colpevole, che in Italia sono bassissimi. Quindi per i ricchi e potenti le regole del diritto si rovesciano: chi sbaglia non paga. In media, ogni anno, vengono così annientati circa 130 mila processi penali. E ogni sentenza di prescrizione può cancellare decine di reati. Un privilegio italiano che si è aggravato dopo il 2005 con la legge “ex Cirielli” varata dal governo Berlusconi, poi in parte riformata dal centrosinistra con il ministro Orlando. Più di metà delle prescrizioni scattano già alla fine delle indagini: il processo muore prima di iniziare. L’anomalia più assurda (all’estero non esiste) è la prescrizione dichiarata nelle sentenze di tribunale, appello e cassazione: il processo si fa e dura anni, ma non si condanna nessuno. E tra i pochi colpevoli conclamati di reati da ricchi, rischiano il carcere solo i peggiori delinquenti: sotto il limite dei quattro anni di pena, l’ex incensurato resta fuori di galera, o torna subito libero, perché ha diritto di ottenere l’affidamento ai servizi sociali. Tribunali di classe Fra tante polemiche pubbliche sulla giustizia, i cambiamenti più profondi stanno passando sotto silenzio. Tra i 9.543 magistrati italiani, più di metà (5.061) sono donne. Tra i capi degli uffici dominano ancora i maschi, soprattutto ai livelli più alti, ma la quota femminile è in continua crescita. Alessandra Cerreti, pm antimafia a Milano (e prima a Reggio Calabria), evidenzia un altro cambiamento: “L’età media di ingresso nella magistratura, quando feci il concorso, era di 25 anni. Oggi, dopo la laurea, è obbligatoria una lunga formazione: i corsi privati costano, con tutti i problemi e rischi conseguenti, l’età media è salita a 31 anni e continua a crescere. Quindi nelle procure e tribunali non arrivano più i giovani, ma persone sposate, con figli. Questo incide sulla propensione al sacrificio, ad accettare carichi di lavoro straordinari, ma anche sulla composizione sociale della magistratura: quanti genitori di ceto medio-basso possono permettersi di far studiare i figli fino a 30 o 35 anni, in attesa di un concorso difficile, che non da certezze di trovare lavoro?”. Il pericolo di una giustizia classista, con buona pace del principio costituzionale di uguaglianza, è aggravato da altri fattori. Come una privatizzazione strisciante dei processi. Da sempre i ricchi possono pagare i migliori avvocati e consulenti. Ora interi settori legali, come i processi fiscali e le cause minori per valore (ma non per numero), sono affidati a toghe onorarie: giudici privati, non magistrati con garanzie di indipendenza da ogni altro potere. Tempi infiniti, ma al Sud Nella giustizia amministrativa, gli attacchi politici si concentrano sui tribunali regionali di primo grado. Un grande esperto come l’avvocato Stefano Nespor non condivide le critiche: “Il sistema dei Tar funziona molto meglio della giustizia ordinaria quasi in tutta Italia. Le cause vengono sempre decise da un collegio e la durata è ridotta: da uno a cinque mesi per le sospensioni cautelari, circa tre anni per le sentenze definitive. E mediamente i giudici dei Tar sono preparati, perché devono superare un concorso di secondo grado: possono farlo solo magistrati o funzionari di grande esperienza, che conoscono bene le regole della pubblica amministrazione”. Molto amato dai governi è invece il Consiglio di Stato, che decide in secondo e ultimo grado. Una parte di questi giudici supremi sono nominati dal potere politico. E molti diventano ministri, super-burocrati o consulenti dei governi. Ma anche arbitri di cause private con parcelle milionarie pagate dai colossi degli appalti. Con prevedibili rischi di collusioni e corruzioni: le procure di Roma, Messina e Milano indagano da mesi su sentenze vendute e altri inquinamenti giudiziari. Un disastro notorio è la giustizia civile, che è lentissima, zavorrata da quattro milioni di cause arretrate e avrebbe bisogno di una riforma generale, strutturale, mai tentata da nessun governo. L’inefficienza aggrava il divario economico tra regioni: al sud le cause durano il doppio o il triplo che al nord. Messina ha il primato negativo: 1.806 giorni per ottenere una sentenza di primo grado. L’emergenza più incivile è il recupero crediti: vinto il processo, bisogna farsi pagare. Ma per incassare il ricavato della vendita giudiziaria di un immobile ipotecato, il creditore italiano può aspettare più di otto anni. E se il debitore manda la sua società in fallimento, al sud l’attesa supera il decennio. Un paradossale incentivo a ignorare il diritto e applicare la legge del più forte. Il Guardasigilli Bonafede chiama subito a raccolta gli assi del giustizialismo di Lodovica Bulian Il Giornale, 3 giugno 2018 Colloquio tra il ministro e Davigo. E pensa al ruolo di sottosegretario per il pm Di Matteo. Il quarantaduenne avvocato deve ancora iniziare a conoscere la complessa macchina della giustizia che da 48 ore guida in qualità di ministro. Ma Alfonso Bonafede, il grillino in giacca e cravatta, vicinissimo al premier Conte, scelto per realizzare il decalogo del giustizialismo pentastellato, ha due punti fermi. Si chiamano Piercamillo Davigo e Nino Di Matteo. Con il primo, attorno alle cui proposte è stato finemente ricamato il programma a cinque stelle, Bonafede avrebbe già avuto un lungo colloquio telefonico. Secondo quanto riporta il Messaggero, i due si sarebbero sentiti all’indomani della conferma del deputato nella casella di via Arenula. Dove, se l’ex toga di Mani Pulite non potrà approdare con un incarico ufficiale, visti il suo dichiarato disinteresse per la politica e la sua corsa per le imminenti elezioni del Csm - lo faranno di certo i suoi già noti consigli legislativi. Finora erano rimasti circoscritti all’ambito di dichiarazioni e interviste, ma tra poco potranno diventare legge: agenti provocatori, fine della prescrizione, corposi pacchetti anti corruzione. Per il secondo invece, il pm antimafia da sempre punto di riferimento dell’universo grillino, il ministro starebbe valutando eventuali incarichi di peso, compreso quello di sottosegretario, oltre alle alternative di direttore del Dap, il dipartimento che si occupa delle carceri e del Dag, quello per gli affari giudiziari. D’altronde il magistrato non ha mai fatto mistero di valutare un concreto impegno con i cinque stelle, a partire da quel ruolo di ministro in pecore che gli era stato attribuito anche durante la campagna elettorale. Certo è che ora che sono caduti anche gli ultimi lac ci che lo trattenevano alla magistratura - ha sempre dichiarato di voler prima “portare a termine l’impegno nel processo sulla trattativa Stato-mafia”, e quello di primo grado si è concluso - per il pm potrebbero aprirsi le porte di via Arenula. Del resto i suoi contatti con i cinque stelle non si sono mai interrotti, come dimostra la sua presenza fissa alla convention grillina di Ivrea, ma su un suo eventuale ingresso nelle istituzioni è sempre stato chiaro: “Se dovessi, in futuro, essere chiamato a servire il paese, con l’assunzione di un incarico politico, al termine di quell’esperienza non tornerei in magistratura”. Uno dei primi provvedimenti del nuovo governo dovrebbe dunque essere una legge che ponga fine alle porte girevoli tra politica e giustizia. Ma per completare la sua squadra, dal capo di gabinetto agli alti dirigenti dei dipartimenti, Bonafede sarebbe già a caccia di altri pm in linea con il pensiero grillino. I nomi rischiano però di essere pescati dal medesimo bacino. Circola già quello di Alessandro Pepe, segretario di Autonomia e Indipendenza, la stessa corrente di Davigo. L’ex pm oggi giudice in Cassazione rischia anche di mettere a segno il pigliatutto alle elezioni del Csm. Dove, con l’aggiunta dei membri laici spettanti al Movimento, che passano da uno della scorsa legislatura a tré, arriverebbe una forte presenza filo-pentastellata. Con gli effetti a cascata che può generare un blocco ideologico ben definito ai vertici della giustizia e della magistratura. Ministro, pensi alle vittime della giustizia di Luca Rocca Il Tempo, 3 giugno 2018 Bonafede non vede l’ora di mettere in pratica il forcaiolismo. Si occupi piuttosto delle storture del sistema che inguaiano migliaia di innocenti. Di certo nessuno sarà rimasto sorpreso nello scoprire che il neo ministro della Giustizia targato Movimento 5 Stelle, Alfonso Bonafede, sta muovendo i suoi primi passi a via Arenula nella direzione più volte annunciata, mettendosi in contatto con Piercamillo Davigo, presidente della seconda sezione penale della Corte di Cassazione, simbolo della stagione di Mani Pulite e in corsa per vincere la competizione al Csm a capo della corrente Autonomia e Indipendenza (che ieri ha diramato un imbarazzato comunicato per smentire la faccenda), e tentando di inserire nella sua squadra Nino Di Matteo, da qualche mese alla Direzione nazionale antimafia e pm del processo sulla presunta “trattativa” Stato-mafia. Se il primo quasi certamente non entrerà a far parte direttamente dell’entourage di Bonafede, ma, c’è da scommetterci, non farà mancare i suoi ascoltati suggerimenti, il secondo, a quanto è dato sapere, potrebbe invece approdare al Dag, Dipartimento per gli affari della giustizia, oppure al Dap, organo che si occupa delle carceri italiano, o addirittura accettare la carica di sottosegretario alla Giustizia. Chissà! La direzione, comunque, appare segnata. Mentre, dunque, quel rimasuglio di garantismo rimasto in Italia si accinge a scomparire del tutto, il neo ministro farebbe senz’altro bene, però, a voltare lo sguardo in altre direzioni, perché il “pianeta giustizia” nel nostro Paese è a rischio implosione, con tanto di conseguenze economiche e, naturalmente, non solo. Milioni di procedimenti arretrati, ingiuste detenzioni, risarcimenti monstre, processi lentissimi, carceri sovraffollate. Il numero di procedimenti civili pendenti negli uffici giudiziari al 30 giugno 2017, per capirci, è di 3.863.485 unità, mentre quelli penali toccano la cifra di 3.027.764 unità. Entrambi in leggera riduzione rispetto agli ultimi anni, ma stiamo parlando pur sempre di numeri record. Fra l’altro, le Sezioni penali della Cassazione sono investite ogni anno di 57mila ricorsi e quelle civili di oltre 30mila, per un totale di quasi 90mila procedimenti. Per fare un parallelo che renda bene l’idea, la Corte Suprema americana ha 80 processi l’anno a fronte di 300 milioni di abitanti. Numeri da paura anche per quanto riguarda l’ingiusta detenzione. Come documentato dal sito errorigiudiziari.com, nel 2017 il numero di innocenti finiti in carcere ha toccato quota 1.013, contro i 989 registrati l’anno precedente, mentre l’ammontare dei relativi risarcimenti è stato di oltre 34 milioni di euro. Dal 1992 al 2017, sono stati ben 26.412 le persone che hanno subìto una custodia cautelare in carcere o ai domiciliari prima di essere riconosciute innocenti. E per risarcirli, lo Stato italiano ha versato complessivamente circa 656 milioni di euro. Se a ciò si sommano gli “errori giudiziari” relativi alle persone condannate con sentenza definitiva e successivamente assolte grazie a un processo di revisione, il numero delle vittime sale a 26.550, per un totale di 768.361.091 euro di risarcimenti versati dallo Stato, quindi dai contribuenti, negli ultimi 25 anni. In media, dunque, il sistema giudiziario italiano registra oltre 1000 casi di ingiusta detenzione all’anno, per una spesa superiore ai 29 milioni di euro. Il nostro, poi, è anche il Paese dei processi che non finiscono mai. In media, infatti, in Italia si ottiene una sentenza civile in 991 giorni (in generale, per una sentenza definitiva occorrono 1.600 giorni), cioè il doppio della media spagnola (510 giorni) e più del doppio di quelle tedesca (429 giorni) e francese (395 giorni). Non è tutto. Stando a uno studio di Cer-Eures, “Giustizia civile, imprese e territori”, il malfunzionamento del nostro “pianeta giustizia” ci costa 2,5 punti di Pil, cioè 40 miliardi di euro. La nostra giustizia, poi, come prova uno studio dell’associazione Antigone, non funziona nemmeno per quanto riguarda le carceri: da 52mila detenuti registrati a fine 2015, si è passati, dato al 31 marzo 2018, a 58.223, con un tasso di sovraffollamento del 115,2 per cento. Si chiami Davigo, dunque, e pure Di Matteo, ma le vere emergenze, per il ministro Bonafede, sono tutte qui. Salvini: “Clandestini a casa, via le Ong” di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 3 giugno 2018 Ma dal Viminale: rimpatri di massa e blocco di navi? Impossibili. Il titolare del ministero dell’Interno sdoppia il suo ruolo, tra Palazzo e comizi. Ma la doppia strategia, secondo molti, non potrà durare in un dicastero così complesso. Due ore di confronto con i vertici del Viminale sono bastate a comprendere che la strada per mantenere le promesse della campagna elettorale è una salita molto ripida. E così il Matteo Salvini che si presenta alla parata per la festa della Repubblica nel ruolo di ministro dell’Interno ha toni più concilianti sia verso i Paesi della Ue, annunciando di voler “sentire nelle prossime ore i colleghi europei con cui collaborare e non litigare”, sia nei confronti di quelli africani da cui partono i migranti “che possiamo aiutare economicamente”. Noi, assicura, “siamo eleganti, sorridenti e democratici”. Ma in serata, quando indossa i panni del segretario della Lega al comizio per sostenere il candidato sindaco di Vicenza in vista delle amministrative del 10 giugno, torna ad avvertire “gli immigrati clandestini perché la pacchia è finita, preparatevi a fare le valige” sia pur aggiungendo che “i regolari e gli onesti non hanno niente da temere”. E poi attacca frontalmente le Ong impegnate nei soccorsi in mare: “Stiamo lavorando e ho le mie idee: quello che è certo è che gli Stati devono tornare a fare gli Stati e nessun vicescafista deve attraccare nei porti italiani”. È la doppia strategia che molti ritengono non potrà durare in un dicastero complesso come il Viminale. Per questo sono in molti ad attendere che cosa dirà la prossima settimana, forse già martedì, ai prefetti che ha convocato per impartire le prime direttive e fare il punto sulle eventuali emergenze. Navi e rimpatri - Nella riunione di venerdì sera con i capi dipartimento del Viminale, a Salvini è stato spiegato chiaramente che sarà impossibile dare seguito agli annunci delle scorse settimane sui rimpatri di massa e il blocco delle navi. Gli alti funzionari hanno elencato le procedure battendo soprattutto su un tasto: “Senza il via libera dei Paesi di origine non possiamo mandare via nessuno”. E così ieri mattina, confermando il viaggio di oggi in Sicilia con tappa a Pozzallo dove è approdata una nave con 158 stranieri, Salvini dichiara: “L’isola è la nostra frontiera. Voglio migliorare gli accordi con i Paesi da cui arrivano migliaia di disperati per il bene nostro e loro”. Una linea che in serata conferma con altri dettagli: “Bisogna andare in Tunisia, da cui parte la maggior parte delle persone, in Marocco, in Egitto, in Libia e concordare il fatto che le partenze devono diminuire. Siamo disposti ad aiutare anche economicamente per fare crescere lì famiglie e aziende senza mettere gente sul primo barcone”. Il divieto di attracco, come gli è stato ribadito due sere fa, non è una strada percorribile e dunque bisognerà vedere quale sia “l’idea” per fermare le Ong, tenendo conto che il codice di comportamento per le organizzazioni che effettuano soccorso in mare è stato approvato anche in sede europea. Guardie e ladri - La riunione con i vertici del Viminale serviva ad avere un quadro di tutti i dossier, e il neo ministro è apparso sorpreso quando gli è stato detto che i dipendenti sono più di 4.000, ma anche che ci sono migliaia di precari tra i vigili del fuoco in attesa di essere assunti. Argomenti che riprende durante il comizio in Veneto: “Le priorità sono tante: c’è il dossier immigrazione, il dossier sicurezza, il dossier lotta alla mafia e beni confiscati ai mafiosi, c’è l’alta età media della polizia e dei vigili del fuoco per cui occorrono assunzioni di personale giovane. Andrò presto a bussare al ministro dell’Economia perché servono assunzioni. Si avvicina l’estate e non voglio che sia un’estate di incendi e disastri come la scorsa estate. Di sicuro non ci annoieremo”. Poi la promessa alla “base”: “Guai a chi metterà ancora le mani addosso agli uomini delle forze dell’ordine, con me basta impunità”. Minniti: “Non possiamo diventare l’Ungheria del Mediterraneo” di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 3 giugno 2018 “Salvini non distrugga il nostro modello anti terrorismo e anti sbarchi”. “La sinistra non ha saputo dare dignità alla rabbia e alla paura, ma ora non ceda alla nostalgia”. Minniti, come si sente da ex ministro? “Liberato da una contraddizione: essere vincolato agli affari correnti, in un ministero dove non esistono affari correnti. Il terrorismo e il controllo dei flussi migratori non sono affari correnti”. Come definirebbe il nuovo governo? “Il governo dell’ignoto. Il contratto, le dinamiche di costruzione della squadra, il profilo politico: tutto dà l’idea di un vuoto davanti a noi. In 48 ore si è passati dalla richiesta di messa in stato d’accusa del presidente della Repubblica alle strette di mano: lo stesso fatto che domenica era un attentato alla Costituzione martedì è diventato un consiglio saggio da seguire. La verità è che siamo a uno spartiacque della vita repubblicana”. La Terza Repubblica? “Ho perso il conto delle Repubbliche. No, siamo in una fase senza precedenti, che il presidente Mattarella ha condotto in modo impeccabile. Era giusto assecondare fin quasi oltre ogni limite la possibilità che nascesse un governo politico. Non perché ne sottovaluti la pericolosità; perché è importante che nel rapporto con il Paese nessuno possa agitare il tema della vittoria elettorale mutilata. Ora il tempo della propaganda è finito. Comincia il tempo della responsabilità”. Di Maio e Salvini sono in grado? “Mi colpisce l’assoluta mancanza di limite alla minaccia, e nello stesso tempo l’assoluta mancanza di limite alla capacità di accettare compromessi. La mancanza di limite nel rapporto con la cosa pubblica. Non è solo disinvoltura individuale, è incapacità di capire che in democrazia le forme e le procedure sono sostanza; mentre vengono viste o come uno strumento, o come un impedimento. Qui c’è la forzatura”. Quale forzatura? “Se Salvini e Di Maio si incontrano, decidono il rilancio dell’alleanza e la composizione della squadra, il premier arriva a incontro finito e serve solo per comunicare al capo dello Stato che c’è il governo, allora qui si delinea un punto delicato: il ruolo del presidente del Consiglio. Se il primo atto è un accordo tra capi partito, non c’è nessun cambiamento; c’è il ritorno ad antiche pratiche da pentapartito. Un pentapartito populista”. Sono i movimenti che hanno vinto le elezioni. “Certo. La democrazia non si discute. Al messaggio di un amico europeo che esprimeva preoccupazione ho risposto: “Right or wrong, my country”; giusto o sbagliato, è il mio Paese. Ma fa parte della democrazia anche la possibilità di contrapporre la propria visione. Se prometti 50 o forse 100 miliardi di spesa, allora rischi di aver costruito un gigante delle aspettative, con i piedi drammaticamente di argilla. Senza considerare lo slittamento progressivo della collocazione internazionale del nostro Paese. E non penso solo all’euro”. Pensa ai rapporti con la Nato e la Russia? “Penso innanzitutto all’idea di società, in contrasto con quella tradizionale che definisce la società italiana. Il pentapartito populista ha un’idea della società chiusa. Chiusa nella dimensione virtuale: il sacro blog. Chiusa nella dimensione fisica: l’idea del confine come separazione dagli altri, anche a livello internazionale. La nostra identità contro quella altrui, il nostro gruppo contro un altro gruppo. Tutto questo può portare allo slittamento di valori e di funzione del nostro Paese. Una separazione non tanto dai riti barocchi di Bruxelles, che non piacciono neanche a me, ma dai valori fondamentali che ci legano all’Europa e ai nostri alleati storici”. Una separazione che ci avvicina a Putin? “L’Italia ha sempre coltivato il dialogo tra Est e Ovest, ma non è mai stata un Paese dell’Est al confine con l’Ovest. Non possiamo diventare un’Ungheria al centro del Mediterraneo”. E la sinistra che fa? Mangia i pop-corn? “La sinistra deve contrastare tutto questo, evitando di cadere in due riflessi condizionati. Fare i vedovi del governo: a ogni dato positivo, rievocare quel che avevamo fatto noi; la trappola della nostalgia. E pensare che il ritorno all’opposizione consenta in modo automatico di recuperare il consenso perduto. Come nel ‘94, quando pensammo che in poco tempo avremmo costruito la sconfitta di Berlusconi”. Che in effetti fu battuto nel 1996. “C’ero. Feci le liste. Tutto fu studiato alla perfezione: la desistenza con Rifondazione, la Lega da sola, Rinnovamento italiano al 4%, i collegi marginali... Così una minoranza nel Paese divenne maggioranza di governo. Ma per la sconfitta politica di Berlusconi abbiamo dovuto attendere 24 anni. E non l’abbiamo sconfitto noi, ma Salvini”. Quanto ha sbagliato Renzi, e cosa dovrebbe fare ora? “Renzi ha commesso errori, e credo ne sia consapevole. Ora è di fronte a un bivio. Un leader può anche cadere, e nel tempo può anche rialzarsi. Un capo corrente è più difficile che cada, ma se cade non si rialza. Sopravvive. Liberiamoci però dall’idea che le colpe siano sempre dell’altro. Avverto sulla mia pelle la responsabilità della sconfitta. La sinistra ha vissuto una rottura sentimentale nel rapporto con il Paese”. Cosa intende? “Abbiamo affrontato la rabbia e la paura con la supponenza e la freddezza delle cifre. Che erano vere: non abbiamo mai avuto tanti occupati; i reati sono al minimo storico da vent’anni. Ma non abbiamo dato dignità a questi sentimenti. Non siamo riusciti a connettere la rabbia con un progetto, né a rimuovere le cause della paura”. Ora il Pd deve spostarsi a sinistra? “Il Pd dev’essere il perno di uno schieramento più ampio, capace di costruire un progetto comune per una società aperta, di trovare un punto di incontro tra quelle che in filosofia si chiamano coppie opposizionali: umanità e sicurezza; riformismo e questione sociale; Europa e interesse nazionale. Per i populisti, gli elementi della coppia si escludono: o prendi uno, o prendi l’altro. Per Salvini, o scegli l’umanità, o scegli la sicurezza. La nostra sfida è stata ed è tenere insieme umanità e sicurezza”. Salvini sarà un buon ministro dell’Interno? “Questo lo giudicheranno gli elettori. Ho visto una sua foto accanto a una ruspa. Già per un leader che ha vinto è un’immagine un po’ forte. Vedere un ministro dell’Interno fotografato accanto a una ruspa non mi pare un segnale rassicurante”. Salvini promette i respingimenti. Sono tecnicamente possibili? “E come si fa? I flussi migratori non si possono cancellare; si possono governare. È quel che abbiamo fatto. Siamo all’undicesimo mese consecutivo di riduzione degli arrivi. Rispetto al primo luglio del 2017 sono arrivati 122 mila migranti in meno”. L’altra promessa di Salvini sono i rimpatri di massa. Sono tecnicamente possibili? “Furono un punto dirimente della campagna elettorale del centrodestra nel 2001. Finì con la più grande sanatoria della storia: circa 600 mila clandestini divennero regolari. Più o meno lo stesso numero delle persone che ora si vorrebbero espellere”. Finirà così anche stavolta? “Non dico questo. Dico che nessuna espulsione è possibile senza una rete di rapporti internazionali. Affinché ci sia un Paese che espelle, ci dev’essere un Paese che riaccoglie. Questa rete di rapporti esiste. Abbiamo costruito un modello affrontando la questione sull’altra sponda del Mediterraneo. Abbiamo fatto 25 mila rimpatri volontari assistiti grazie alla collaborazione con la Libia e con le organizzazioni umanitarie dell’Onu, che prima in Libia non c’erano e ora ci sono. La frontiera più importante è quella meridionale della Libia. È fondamentale il rapporto con i Paesi nordafricani e centrafricani, anche per fermare i foreign fighters dell’Isis che tentano di tornare a casa. Ma se offendi quei Paesi e i loro cittadini, se fai saltare la rete, se pensi di riportare tutto quanto in Italia, rischi l’eterogenesi dei fini: pensi di migliorare una cosa, e la peggiori”. Il Pd doveva trattare con i 5 stelle? Deve farlo in futuro? “Un confronto alla luce del sole non era un’eresia. Non perché bisognasse fare un accordo. Per rendere evidente che, sul terreno della sfida di un progetto ampio per il Paese, una grande formazione democratica come la nostra non si tira indietro. Detto questo, c’è stato un flusso di nostri elettori verso i 5 Stelle; ma i 5 Stelle non sono una costola della sinistra”. Il Pd ha bisogno di un nuovo segretario? Chi? Lei si candiderà? “No. Mi sento un predicatore disarmato, e tale voglio rimanere. Non ho parlamentari, non ho una corrente. Sono soltanto uno che può stimolare una discussione vera, dura. Ho un limite costitutivo: pur essendo una persona dalle fermissime convinzioni, e forse un po’ lo si è notato, sono portato istintivamente a tenere conto del pensiero degli altri. E questo non mi rende adatto allo spirito del tempo”. Ultima cosa. Ogni tanto si diffonde la voce di un allarme attentati. Quant’è alto oggi? “È sostanzialmente stabile, nel livello alto di allerta. La componente militare dell’Isis è stata fisicamente neutralizzata; ma la sua componente terroristica è alla ricerca di rilancio. I pericoli sono due. I foreign fighters che tornano a casa dall’Iraq e dalla Siria. E i lupi solitari. La rete dell’Isis è talmente vasta e profonda che neppure l’Isis la conosce; tutto passa dal web. In questi anni non abbiamo subìto attacchi, e abbiamo avuto il record di presenze di turisti stranieri. Abbiamo garantito la sicurezza della società senza chiuderla. L’idea della sicurezza e del governo dei flussi è un patrimonio dell’Italia. Sarebbe un errore grave disperderlo”. Mafie. Guerra o non guerra si pagava sempre di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 3 giugno 2018 Gaetano sapeva che nella vendetta “Il sangue si cheta solo con altro sangue, fino alla fine. Finché non c’è più sangue e ci si deve accontentare delle lacrime”. Ne aveva visti tanti di morti ammazzati. I cadaveri sfigurati riversi nella polvere aveva scandito la sua vita come quella di molti altri nella Piana di Gioia Tauro. La guerra di mafia aveva segnato Palmi per diversi anni. Certo lui con quelle storie non c’entrava niente. Ma aveva visto morire tanta gente. Cadevano uno dopo l’altro, un funerale dietro l’altro, come un rosario senza chiusa, infinito. Di quel periodo sono restate le immagini appese nella mente, e fotografie in bianco e nero sui giornali. E sussurri: “U ‘mmazzaru”. A Palmi i Gallico e i Condello hanno iniziato a scannarsi nel settembre del 1977 e hanno continuato a farlo per quasi vent’anni. Fin quando di Condello non ce n’erano stati più. Sterminati. Così è cresciuto il potere dei Gallico e di tutti i loro alleati. Le cronache dissero che era iniziata con una lite, una scazzottata tra giovani davanti ad una sala da ballo appena inaugurata dai Condello. Schiaffi e calci tra i fratelli Domenico e Alfonso Gallico e Francesco e Stefano Condello. I primi di famiglia mafiosa, i secondi eredi di un “onorato” commerciante di vino. Tutti comunque rampolli, chi di “uomini di rispetto”. Figli di una cultura che impone di non abbassare la testa, che non ammette la parola fine. Era iniziata così, e che non sarebbe finita presto lo si era capito subito. A Palmi avevano sempre comandato i Parrello guidato dal vecchio capobastone Gaetano Parrello, “U lupu i notti”. I Gallico erano gli emergenti, un gruppo familiare numeroso e violento. Ed è per questo che i vecchi padroni della città avevano pensato di utilizzare “l’incidente” con i Condello per ridimensionare le ambizioni dei giovinastri che si stavano facendo largo a colpi di lupara. Volevano dargli una strigliata, per questo affiancarono i commercianti di vino, sostenendoli e, soprattutto, armandoli. Gaetano Parrello, “U lupu i notti” lo avevano già ammazzato il 25 settembre del 1986. Dopo di lui, altri lutti, altro sangue. Caddero a decine da una parte e dall’altra. Il 2 novembre del 1988 sarà ricordato per la strage dei fratelli Merlino, cadero infatti Valerio, Liberante e Antonio. Pochi mesi dopo Giuseppe e Rosario Sgrò. Quest’ultimo, “U Jancu”, non era uno qualsiasi. Era l’uomo che gestiva per conto dei Gallico tutti gli appalti e i grossi lavori che si svolgevano sul territorio. Colpendo lui si colpiva il braccio imprenditoriale ed economico della cosa. Ad ammazzarlo il 4 maggio dell’89 era stato era stato Luciano Merlino, un quarto fratello, dei tre assassinati il 2 novembre precedente. Si disse che c’era anche la sera della strage dei suoi fratelli. E si disse che quella sera vide “Saro” impugnare le armi. Luciano si era dunque vendicato. Aveva lavato sangue con altro sangue, uccidendo Sgrò a Palmi, in pieno centro e in pieno giorno. Condannato per quell’omicidio a 25 anni di carcere, all’uscita si era stabilito a in provincia di Catanzaro. Una scelta imposta dal divieto di permanere nella provincia di Reggio Calabria dettato dal buon senso e dai magistrati. Non c’è un legame accertato tra quanto avvenuto il 5 settembre 2013 e i fatti dell’89. Luciano Merlino è morto con 12 colpi di Ak 47, e forse qualcuno lo ha raggiunto per saldare il conto aperto 25 anni prima. Gaetano Saffioti conosceva Saro “U Jancu”. Già negli anni 80 quando aveva montato una piccola pala meccanica al trattore per fare lavori di movimento terra, gli aveva chiesto di fare qualche giornata per ripulire i cantieri. Roba di poco conto, portare via i detriti, sistemare il terreno per prepararlo agli scavi di fondazione, robetta. Sarò Sgrò sottolineava che non ce n’era per nessuno, arrogante, prepotente nei modi. Trattava i giovani che si affacciavano sul mercato edile con sufficienza, senza considerazione alcuna. Per loro non c’era da guadagnare, dovevano semplicemente girare alla larga. I cantieri erano tutti nelle sue mani. E anche quando Saffioti si proponeva direttamente ai committenti privati per chiedere di fare qualche lavoro le risposta erano sempre le stesse: “Questo lavoro interessa agli amici”. Saffioti ricorda ancora un committente che gli rispose con tono quasi paterno: “Questo lavoro non potrei fartelo fare, neppure se fossi tu a pagare me. Se un bravo ragazzo e conoscevo tuo padre, per questo ti do un consiglio: Se ti piace questo mestiere prova al Nord, qui non avrai futuro. Qui, questo lavoro è cosa loro”. La morte di Saro, per la verità aveva riacceso qualche illusione in tanti. I giovani che si arrangiavano con piccoli mezzi speravano che qualcosa sarebbe cambiato. Che la pressione si sarebbe alleggerito. Non era così, al primo lavoro sui cantieri si presentarono per riscuotere. Pagò Gaetano. Diede due milioni e mezzo a Ninuzzo Gallico, un moccioso mandato dal clan che si presentò da lui coperto dalla spocchia della famiglia: “Comu simu chi sordi?”. Neanche la guerra di mafia li aveva fermati. Belluno: detenuti malati psichici, gli agenti “sconfessano” i chiarimenti dell’Usl di Alessia Trentin Il Gazzettino, 3 giugno 2018 Non va affatto tutto bene nella sezione Articolazione per la Tutela della Salute Mentale del carcere di Badenich. I sindacati tornano a denunciare lo stato dei detenuti e, ora, affondano il colpo. Circa tre settimane fa, in occasione della Festa della polizia, le sigle avevano boicottato la cerimonia come forma di protesta per le condizioni in cui sono costretti a lavorare gli agenti penitenziari. A quella prima denuncia era seguita una risposta da parte della direzione dell’Usl 1 Dolomiti, in cui si assicurava come tutto fosse a posto e come la vita scorresse regolare tra le celle e i corridoi della sezione. Oggi i sindacati tornano sulla questione e tolgono ogni freno. L’assistenza sanitaria non è affatto regolare come sostiene l’Usl, dicono, e la condizione degli psichiatrici nella casa circondariale cittadina non sembra affatto sotto controllo. Gli esempi portati sono più d’uno. Le prime avvisaglie risalgono al 2016, messe nero su bianco nel rapporto del garante nazionale dei diritti delle persone detenute, in seguito ad un sopralluogo a Baldenich. “Tra le varie anomalie strutturali denunciate in quell’occasione - spiegano Cisl Fns, Cgil Fp, Uspp, Sappe, Osapp e Fsa Cnpp - il rapporto metteva in evidenza come oltre alla terapia farmacologica non ci fosse nessun accenno alla necessità che la Usl elaborasse per ogni paziente un piano di presa in carico e percorsi terapeutici personalizzati. Allo stato attuale nulla è cambiato”. Insomma, il quadro fornito alle sigle dalla polizia penitenziaria è molto diverso da quello tratteggiato dall’azienda sanitaria. Pare addirittura che non sempre i detenuti assumano la terapia e che siano gli agenti a doversene occupare. “Nemmeno l’affermazione sugli accessi garantiti corrisponde al vero - proseguono i sindacati, sempre più con il dito puntato verso l’azienda sanitaria -. Il registro delle ultime tre settimane rivela una fortissima discrepanza rispetto a quanto affermato; uno specialista, per esempio, ha effettuato 30 minuti complessivi di accesso a fronte delle 24 ore che avrebbe dovuto garantire”. L’organizzazione e la gestione non funzionano, ma nemmeno gli spazi di detenzione sono a norma, d’altra parte. L’Usl stessa, prima dell’apertura della sezione, aveva segnalato alla Regione degli accorgimenti ma poi tutte le intenzioni sono state disattese. “Si parlava della rimozione della porta che separa la camera dal bagno, con smussamento degli angoli - spiegano, della rimozione di tutti gli oggetti contundenti, dell’adattamento di una camera a camera di decompressione per gli acuti, con pareti protette da materiale isolante, vetri antisfondamento e un letto di gomma; anche di una infermeria all’interno della sezione, di una sala per l’attività ricreative e relazionali e della presenza di un operatore durante le ore diurne per il monitoraggio del comportamento e delle condizioni psichiche. Tutti accorgimenti disattesi”. Augusta (Sr): al carcere di Brucoli presentato il libro scritto da studenti e detenuti diario1984.it, 3 giugno 2018 Liberare le parole. Permettere ai detenuti di un carcere di comunicare le loro emozioni, il loro disagio, il loro dolore attraverso le parole, abbattere i muri fragili di un carcere con l’unica arma che rende veramente liberi, la scrittura, dando voce e libertà a chi non ce l’ha. E’ questo il senso del libro “Fine PenNa mai”, Gemma Edizioni, scritto dagli studenti dell’Istituto Superiore “Luigi Einaudi” (indirizzo liceo scientifico) di Siracusa con i detenuti della casa circondariale di Brucoli, Augusta. Un libro che racconta le storie dei detenuti a lunga permanenza del carcere augustano, viaggi dell’anima raccolti dagli studenti, che come “agenti di parola”, hanno dato frasi e forma ai pensieri dei detenuti e li hanno interpretati con la sensibilità e l’entusiasmo dei ragazzi. Il libro è stato, in questi giorni, presentato al carcere di Brucoli e nella sede dell’Istituto Einaudi. “E’ noto che gli incontri dei detenuti con i loro familiari sono caratterizzati da lunghi silenzi”, dichiara Teresella Celesti, dirigente scolastica dell’IIS “Luigi Einaudi”, “dalla loro incapacità ad esprimersi, perché le grate di un carcere ingabbiano anche le parole. I ragazzi hanno solamente permesso di avviare una comunicazione naturale, di far in modo che si riappropriassero dei termini giusti per sublimare il loro dolore”. Soddisfatto Antonio Gelardi, direttore della casa circondariale di Brucoli, che ha permesso che questa attività laboratoriale potesse essere realizzata: “Si è svolto tutto in una atmosfera di scambio e di dialogo, di intensificazione del rapporto che la casa circondariale ha instaurato da tempo con le scuole”. Il progetto è stato svolto in regime di alternanza scuola lavoro ed è stato coordinato da Maria Grazia Guagenti, referente dell’Istituto. “La scrittura del libro ha cambiato i ragazzi. Gli incontri in carcere con i detenuti, l’ascolto delle loro storie e le emozioni nel sentirle hanno trasformato gli studenti in persone più consapevoli”. Assunta Tirri, docente referente al carcere di Brucoli, ha raccontato come i detenuti, titubanti inizialmente, abbiano provveduto a preparare le bozze dei loro racconti trascinati dall’entusiasmo e dalla vitalità degli studenti dell’Einaudi: “Si sono confrontati due mondi diversi e c’è stato uno scambio alla pari”. Alla presentazione del libro è intervenuta anche Gemma Gemmiti, responsabile della casa editrice Gemma Edizioni che ha permesso la pubblicazione del libro. “Le parole mettono le ali e permettono di andare oltre gli errori e gli sbagli che si possono fare. Parlare di sè non è semplice ma è sicuramente positivo trasferire il buio che si ha dentro su un foglio di carta”. Il progetto ha già avuto una diffusione a livello nazionale e continuerà anche il prossimo anno. Più droni militari, più affari. E l’Italia va al raddoppio della spesa di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 3 giugno 2018 Guerre e frontiere. 1,4 miliardi è il costo del programma di produzione e acquisto dei velivoli senza pilota (fino al 2023) proposto in campagna elettorale dai ministeri Difesa e Economia. Ora il Parlamento deve decidere. Piccoli, veloci e senza pilota, i primi droni progettati per missioni di lunga durata e medie altitudini costruiti da Leonardo-Finmeccanica insieme a Piaggio Aerospace potranno solcare i cieli disperatamente azzurri di questa estate italiana, in particolare i cieli siculi attorno all’aeroporto civile-militare di Trapani Birgi, scalo di compagnie low-cost. Questi droni orgogliosamente patriottici, in linea con il refrain dell’estate, - l’unica partecipazione estera è Thales al 33% dentro Telespazio, responsabile della trasmissione a terra dei dati raccolti per via satellitare tramite il centro spaziale del Fucino - sono lunghi e larghi circa 15 metri e possono avere un duplice utilizzo, dual-use, sia civile sia miliare, ad esempio di spionaggio o di ricognizione dei mari e delle coste per intercettare barconi di contrabbandieri o - a seconda del comando - dei gommoni di migranti, per salvarli o dirottarli, sempre a seconda degli ordini. Si tratta di prototipi di modelli P1hh a pilotaggio remoto, droni classe Male (medium altitude long endurance) che il ministero della Difesa ha acquistato per un importo da 766 milioni di euro in numero di 20 esemplari, ma per ora solo poche unità sarebbero state prodotte negli stabilimenti della provincia di Savona, per una commessa che l’Italia pagherà fino al 2032. Si sa che hanno appena finito il loro primo “rodaggio”, a fine maggio: ne dà notizia il sito Analisi Difesa omettendo i costi, che invece sono riportati dall’ultimo rapporto Milex, di qualche giorno fa, dell’Osservatorio sulle spese militari. Il rapporto dell’Osservatorio che fa parte della Rete Disarmo si concentra per altro sui più temibili P2hh, droni sempre di fabbricazione Piaggio Aerospace e Leonardo, ancora più sofisticati e armabili scelti dal ministero della Difesa per sostituire di Predator e Reaper - cioè “predatori” e “mietitori” -statunitensi e proposti al Parlamento per una nuova commessa in piena campagna elettorale come sfoggio muscolare del governo Gentiloni alle prese con la tematica della “sicurezza”, tanto cara anche all’ex ministro Minniti, e seguendo la sensibilità alle commesse belliche della collega Pinotti. Con questi altri droni il costo dell’intero programma, su cui ora il Parlamento della XVII legislatura è chiamato ora a dare il suo Sì o No, raddoppierebbe, attestandosi su una spesa di almeno 1.434 milioni di euro fino al 2023. Per altro nella relazione al Parlamento dei ministeri della Difesa e dell’Economia si dice apertamente che il piano di acquisto, e quindi di spesa pubblica, è funzionale quasi solo a vendere questi droni all’estero (alla Turchia? al Niger?). Si legge poi che “non risultano quantificabili” i posti di lavoro, italianissimi, che genererebbero. Nicaragua. I giorni pericolosi della paura di Gianni Beretta Il Manifesto, 3 giugno 2018 Oltre 300mila persone hanno partecipato alla Marcia delle Madri, sfilando con chi ha perso un figlio per mano della brutale repressione scatenata contro le proteste che infiammano il paese dallo scorso 18 aprile (un centinaio le vittime). Il presidente Ortega non si arrende, ma potrebbe essere alle ultime cartucce. Il 30 maggio in Nicaragua si celebra la Giornata delle Madri, una ricorrenza tanto importante che prevede persino il giorno libero dal lavoro. L’Alleanza civica che guida la rivolta (formata da società civile, impresa privata e studenti) ha organizzato una grande marcia per celebrare le madri d’aprile, quelle che hanno perso i figli nelle proteste, quelle che hanno dovuto riconoscere i corpi torturati dei ragazzi, quelle che li stanno ancora cercando. Intanto Rosario Murillo (moglie di Ortega e vicepresidente), autoproclamandosi madre di tutti i nicaraguensi, invita a una celebrazione in piazza. Nei giorni precedenti vari fuoristrada bianchi, senza targa e con gente incappucciata a bordo, girano per la città e sparano su piccoli gruppi di contestatori. Non aspettano la notte per colpire i luoghi sensibili. Non si sa chi siano ma vanno a rifugiarsi al Carmen, il quartiere dove risiede la coppia presidenziale. Proseguono attacchi violenti e repressioni nelle università e il giorno dei due cortei i numeri parlano da soli: sono in 38.000 a celebrare il governo, mentre 320.000 persone partecipano alla mobilitazione più grande mai vista in Centroamerica. Un paio d’ore dopo l’inizio della Marcia delle Madri d’aprile, la polizia e le forze paramilitari attaccano la folla. Tra gli scontri a Managua e in altre città il bilancio è di 16 morti e più di 200 feriti. È una nuova strage. I rappresentanti del Movimento contadino arrivati a Managua nella mattinata si rifugiano nella Cattedrale; oltre 5.000 persone vengono protette dentro i cancelli dell’ Università Centroamericana (Uca). Nella notte scontri in varie zone del paese, altri feriti, saccheggi. Secondo il governo è la destra vandalica responsabile di tutto ma la macchina della menzogna non funziona più. Il dialogo fallito - Il Tavolo del dialogo che avrebbe dovuto portare ad un accordo tra governo e Alleanza civica è fallito: nessuna mediazione possibile tra le parti in causa dopo quattro giorni di discussioni. Gli studenti lo avevano detto che era assurdo dialogare con un assassino e avevano ragione: era stata stabilita un’agenda i cui punti principali erano la giustizia per i fatti d’aprile, la democratizzazione del Paese, riforma del sistema elettorale ed elezioni anticipate. Il 16 maggio alla prima sessione dei lavori Ortega e Murillo sono presenti: incassano duri colpi e non sanno rispondere. Nei giorni successivi però la discussione si arena attorno all’unico aspetto che preoccupa il governo, ossia le barricate alzate dal Movimento contadino in punti strategici del paese (difficile per le imprese legate ad Ortega smerciare illegalmente legname prezioso sottratto dalle riserve tropicali con le strade bloccate). Nessun esponente del governo parla dei morti, di giustizia, men che meno della possibilità di dimissioni del Presidente. Continuano a mistificare la realtà con giochi di parole semplici e grande povertà retorica. Dopo l’immensa marcia del 30 maggio e il violento massacro, la Commissione di mediazione guidata dalla Conferenza Episcopale dichiara che non ci sarà più dialogo fino a quando il governo non cesserà il fuoco. L’Alleanza civica per la democrazia e giustizia guidata dagli studenti fa le stesse richieste e invita la popolazione a continuare la resistenza pacifica. Ci prova ancora il governo a ribaltare le carte dopo 45 giorni di protesta ma oramai non gli crede più nessuno. O forse sì: i corrotti, gli assoldati, e qualche dinosauro della sinistra internazionale che riesce ancora a vedere socialismo in un governo che non può definirsi altro che dittatura istituzionalizzata. La grande bugia - Dal 18 aprile, inizio dell’ondata di proteste, qualcosa è cambiato: il viso insanguinato del primo studente ferito nella facoltà di Agraria ha svegliato cicatrici dolenti e ferite non sanate. Gli studenti non si toccano e Ortega ha fatto il passo sbagliato. Il Fronte sandinista guidato monoliticamente dal Comandante e da Rosario Murillo ha creato una dittatura silenziosa. Un governo con impostazione autoritaria non poteva dare risposte differenti alla crisi di aprile: e all’aumento delle proteste corrisponde un proporzionale aumento della violenza, espressione di un potere patologico che era già installato nella società. È il meccanismo di prevenzione e difesa tipico dei regimi che ha fatto emergere il carattere oppressivo della relazione tra dittatore e dittatoriati (secondo la definizione di Mejri e Hagi rispetto alla Rivoluzione dei Gelsomini). Il Nicaragua, dalla colonizzazione in poi, ha assunto modelli di governo autoritari e autorevoli basati sulla costruzione di grandi paradigmi e relazioni affettive di dipendenza: religione e famiglia. Alla figura di Dio e del padre/madre non ci si può opporre e Ortega l’aveva capito benissimo: prima il patto con la Chiesa sancito sul corpo delle donne (in Nicaragua l’aborto terapeutico è diventato illegale per una sua legge) e poi l’autocelebrazione, sua e della moglie, come genitori di una nazione intera. Ma non si aspettavano figlie e figli ribelli, né una Chiesa che improvvisamente si ricorda la propria missione. Questa volta il governo e i suoi consiglieri hanno fatto gravi errori di valutazione: non avevano captato la stanchezza della gente, non avevano valutato le avanguardie provenienti dal Movimento contadino e dalle femministe, non avevano pensato all’immediatezza della diffusione in rete della barbarie perpetrata a partire da quel 19 aprile. Non avevano pensato che anche i soci più fedeli possono cambiare idea. Parenti e amici del 14enne Orlando Cordoba, ucciso dalla polizia il 30 maggio, si recano al suo funerale (Afp) L’immagine internazionale del Nicaragua era quella di un paese stabile, sicuro, in forte crescita, ma di fatto la società stava vivendo una dittatura blanda, obbligata ad accettare passivamente di vivere in uno ristretto spazio residuale senza diritto d’opinione. La società nicaraguense si è ribellata a una tradizione di potere storicizzata e non solo contingente. Ortega, già dal suo primo mandato, è stato abile a usare le parole, mantenendo intatta la forma e cambiandone il contenuto: gli slogan che proclamano amore e riconciliazione, la patria cristiana, socialista e solidale hanno fatto leva sulla necessità di pace, l’esigenza di stabilità economica e la forza dei simboli. Ma stanno cadendo tutti, uno dopo l’altro. Studenti e manifestanti iniziano ad usare contro il governo le loro stesse parole, le loro canzoni: non si posizionano politicamente ma rivendicano i simboli del sandinismo, le idee di Carlos Fonseca (fondatore del Fronte Sandinista), gli ideali rivoluzionari e parlano di tradimento da parte di Ortega. In Nicaragua non c’è una mancanza di leader capaci di sostituire il Comandante: è il paradigma della leadership ad essere stato distrutto da questo governo e gli universitari l’hanno capito. Non si può ancora dire se sarà una nuova colour revolution, se le teorie di resistenza pacifica di Gene Sharp guideranno anche questa ribellione, ma resta chiaro per tutti che i giovani della rivolta etica sono i protagonisti e le guide morali del processo nicaraguense. Quale futuro? - Al momento è difficile valutare le prospettive: la gente non vuole una nuova guerra ma Ortega e il suo seguito devono andare via. La coppia presidenziale è colpevole della più grande repressione che abbia vissuto il paese in tempi di pace, compresa quella del tiranno Somoza che il Fronte aveva abbattuto: oltre 100 i morti fino a oggi, intorno al migliaio i feriti e i detenuti, ancora molti i desaparecidos. Non sono serviti gli interventi della Commissione Interamericana dei diritti umani, né la dura denuncia di Amnesty, né le richieste dell’Onu a fermare la violenza. Sono in molti a sostenere che Ortega stia sparando le sue ultime cartucce prima della resa. Restano le incertezze sulla capacità della popolazione di resistere a una situazione che ogni giorno si fa più complessa e tesa: l’ipotesi di uno sciopero nazionale divide il movimento e il fantasma dei logoranti anni 80, la guerra, la fame, i lutti, è ancora presente. Gli universitari hanno fatto scoppiare la rivolta, ora devono dimostrare di saperla gestire. Venezuela. 39 ordini di scarcerazione per detenuti politici, 16 con misure restrittive Nova, 3 giugno 2018 Sono 39 gli ordini di scarcerazione emessi dalle autorità venezuelane per persone detenute per motivi politici, arrestate tra il 2014 e il 2018. Il presidente del Tribunale supremo di giustizia (Tsj), Maikel Moreno, ha annunciato il rilascio, precisando che alcune delle persone scarcerate continueranno a essere soggette a misure restrittive della libertà,come il divieto di lasciare il paese, l’obbligo di comparizione davanti al giudice ogni 30 giorni e il divieto di rilasciare dichiarazioni ai media e sui social network. Tra le persone beneficiate dal provvedimento c’è Daniel Ceballos Morales, l’ex sindaco di San Cristobal, capoluogo dello Stato di Tachira, in carcere dal 2014 per presunti reati di ribellione e associazione a delinquere. Malawi. Prosegue il progetto di Sant’Egidio per portare l’acqua potabile nelle carceri santegidio.org, 3 giugno 2018 Da alcuni mesi la Comunità di Sant’Egidio - grazie ad una colletta a cui hanno partecipato tutte le Comunità del mondo - sta realizzando cisterne di acqua potabile nelle carceri africane. In Malawi, con la consegna dei serbatoi d’acqua alla prigione di Chichiri a Blantyre, sono stati raggiunti quasi tutti gli istituti di pena del Paese. Si tratta dell’affermazione di un diritto umano fondamentale per i detenuti, il diritto alla salute, che impedisce che la detenzione, anche breve, si trasformi - come purtroppo ancora accade - in una condanna a morte per malattie e infezioni causate dall’uso di acque impure. Come è caratteristica degli interventi umanitari di Sant’Egidio, si tratta di un progetto totalmente autofinanziato ed erogato gratuitamente.