Pena, confine, prevenzione. La detenzione nel 2018 di Federica Brioschi medium.com, 30 giugno 2018 Nell’ultimo ventennio il sistema penale e penitenziario ha rappresentato nel senso comune un argomento di cui discorrere facendo ricorso esclusivamente a semplificazioni dando libero sfogo alle paure, reali o - assai più spesso - presunte. A quest’ultima tornata elettorale i fautori del populismo penale hanno saputo cavalcare queste paure e inserire nei rispettivi programmi quelle che fino a qualche tempo fa sarebbero rimasti slogan in grado di trovare legittimazione soltanto nei bar. È nel difficile momento del controverso Contratto per il Governo del cambiamento (che dal punto di vista penale e penitenziario si limita a ripetere gli stessi slogan populisti che ricorrono da anni) che il Garante Nazionale dei Diritti delle Persone Detenute o Private della Libertà Personale, Mauro Palma, presenta la seconda Relazione al Parlamento sulle sue attività di monitoraggio. In questo suo secondo anno di vita tali attività si sono estese anche ad altre aree di privazione della libertà - come quella relativa ai trattamenti sanitari obbligatori e le strutture residenziali - che sono andate ad aggiungersi a quelle “classiche” di cui si occupa il Garante anche nella funzione di Meccanismo Nazionale di Prevenzione della tortura (NPM), ovvero le camere di sicurezza delle Forza dell’Ordine, il monitoraggio dei voli di rimpatrio e le carceri, luogo di privazione della libertà per eccellenza. In ambito penale problemi rilevati dal Garante sono molteplici e spaziano dal tema dell’aumento delle presenze in carcere, a quello delle vulnerabilità e delle discriminazioni legate all’orientamento sessuale, al genere, alla nazionalità, all’appartenenza a un determinato gruppo etnico, al disagio psicologico. Altre importanti problematiche che vengono evidenziate riguardano i circuiti detentivi e i regimi speciali. Per quanto riguarda i primi, merita una particolare menzione la critica del Garante sulle procedure di classificazione e declassificazione dei detenuti dai circuiti Alta Sicurezza. Inoltre risultano spesso poco chiari i criteri utilizzati relativamente all’assegnazione e fuoriuscita da tali circuiti. Nei casi di diniego delle richieste, per esempio, sono riportati riferimenti a fatti accaduti anche molti anni addietro, senza ulteriori elementi aggiuntivi che giustifichino tale decisione e a volte addirittura contro il parere positivo delle Direzioni degli Istituti. Al regime speciale 41 bis è dedicata un’ampia gamma di considerazioni che è bene riportare poiché purtroppo il Contratto di Governo dedica una frase a dir poco inquietante a tale regime, auspicandone una revisione “così da ottenere un effettivo rigore nel funzionamento del regime del carcere duro”. Come se il 41 bis non fosse sufficientemente duro, rigoroso o deumanizzante. Nella sua analisi il Garante si rifà all’orientamento della Corte Costituzionale, che legittima il regime in funzione del suo scopo, e adotta l’approccio del Cpt e della Corte Edu che prendono in analisi le specifiche restrizioni del regime e le valutano “alla luce della funzionalità complessiva per cui il regime è adottato”. In particolare il Garante riporta che dal suo monitoraggio ha constatato un’applicazione dell’ultima circolare emanata a ottobre in senso restrittivo anche a causa di indicazioni inviate in maniera informale che istruivano le Direzioni delle carceri in tal senso. Fra le problematicità vengono citati il conteggio delle “ore d’aria” e l’esistenza delle cosiddette “aree riservate”, aree opache in cui i detenuti sono sottoposti a un regime ancora più duro e in quasi isolamento. Fra i temi affrontati dal Garante nella sua Relazione si trovano anche l’ostatività, i reparti di medicina protetta nelle strutture ospedaliere, le Rems, le comunità per adulti e minori, la questione ancora aperta delle misure di sicurezza e il doppio binario, e la mancanza di un Ordinamento Penitenziario dedicato esclusivamente ai minori. Nella Relazione sono riportate anche le tematiche più ricorrenti nei reclami che vengono inviati dai detenuti al Garante: la maggior parte concernono la qualità della vita detentiva, seguono il diritto alla salute e la sua tutela e le richieste di trasferimento “per avvicinamento alla famiglia o per motivi di studio e la tutela della salute”. Da un confronto fra quanto riportato dal Garante e i reclami che vengono ricevuti dagli sportelli legali e dal difensore civico di Antigone, le tematiche risultano pressoché le stesse con la sola eccezione delle richieste di aiuto che i volontari di Antigone ricevono per il rinnovo dei documenti di identità, il rilascio dei permessi di soggiorno o per avviare le procedure di richiesta di protezione internazionale. Nel capitolo Sicurezza e Libertà vengono anche affrontati altri due temi sempre attuali (e di cui anche noi abbiamo recentemente parlato): il cosiddetto fenomeno delle “porte girevoli” e la sperimentazione dei Taser da parte delle forze di polizia. Il fenomeno delle “porte girevoli” consiste nell’ingresso in carcere per non più di tre giorni di persone arrestate in flagranza, che devono essere giudicate con rito direttissimo e che sono prive di domicilio. Questa prassi purtroppo grava sulle carceri e “determina sempre un impatto traumatico su chi lo subisce, tanto più forte se si tratta di persone incensurate e magari di giovane età”. Riguardo la sperimentazione dei Taser, il Garante nota come le linee guida sul suo utilizzo ricalchino in più punti le raccomandazioni del Cpt e giudica positivamente la gradualità della sua introduzione; nonostante ciò, elenca i rischi che quest’arma alternativa alla pistola può comportare e si interroga sulla necessità di ampliare l’armamento in dotazione alle Forze dell’Ordine. La pubblicazione della Relazione al Parlamento 2018 da parte del Garante dovrebbe servire da monito a tutti coloro che domandano a gran voce una maggiore durezza del sistema penitenziario senza aver mai varcato la soglia di un carcere né aver mai letto alcuna relazione descrittiva su queste strutture. In questo senso il Garante rappresenta un baluardo dei diritti della persona umana che anche se viene ristretta, non può essere privata della propria dignità. Un principio che dobbiamo rispettare non perché ci viene imposto da qualche organismo internazionale, bensì perché è la nostra stessa Costituzione, il fondamento di ogni legge, a porlo come base della vera giustizia penale. Io ero il popolo, ora ho scoperto che sono solo di Mauro Covacich Corriere della Sera, 30 giugno 2018 Essere altruisti richiede un passaggio mentale complicato che nessuno è più disposto a sostenere, essere egoisti invece viene naturale, è facile e non costa nulla. Per aiutare il prossimo occorre credere in un progetto comune, condividere un ideale. Chi sono gli altri? Come sono diventati così numerosi? Ma forse erano già tanti e io non l’avevo notato. Andavamo a farci la margherita nelle stesse pizzerie, giravamo per gli stessi centri commerciali, guardavamo le stesse partite, cantavamo le stesse canzoni. Come ho potuto non accorgermi che erano diversi? Tutti insieme eravamo la gente. Poi, d’un tratto gli altri sono cresciuti e, riversandosi nell’ampolla opposta della clessidra, mi hanno lasciato indietro, hanno trasformato me nel diverso, il fighetto minoritario, il granellino attaccato al vetro. Così ora la gente sta di là, anche se non si chiama più così, ora si chiama popolo. Come sono riusciti gli altri a diventare il popolo? Sembravamo tutti d’accordo - Guardo dalla finestra i militanti di Casa Pound arrivare alla festa raduno. Sono tantissimi, riempiono il quartiere. Ci sono anche magliette cattive e teste rasate da periferia disagiata, ma la maggioranza parcheggia buone macchine, compatte tedesche e familiari tirate a lucido da cui escono coppie dall’aria tranquilla, alcune con prole al seguito, forse ignare della gragnuola di decibel che sta per abbattersi sui timpani dei loro bambini, forse invece ansiose di trasmettere il verbo. Canteranno e salteranno per tutta la sera su pezzi urlati a squarciagola da gruppi vestiti da Thor e inneggianti il Valhalla, i cui front-man ringrazieranno con una voce fattasi di colpo rassicurante, quasi cortese, alla fine di ogni brano. Tra una canzone e l’altra, ritmato con la metrica ultras, partirà il coro Do-ve-so-no-gli-anti-fascisti! La prima volta ci resterò malissimo: ma come, non eravate anche voi antifascisti? Tu che sei uscito da quella macchina insieme a tua moglie come per andare a un ballo. Tu che, con quegli occhialini, mi ricordi tanto il mio medico. E tu, e tu, e tu. Quand’è che avete scoperto di credere nelle spranghe, nell’olio di ricino, nella formazione a testuggine? Fino a un minuto fa, tranne un’invisibile minoranza di teste calde, sembravamo tutti d’accordo. Anche l’onorevole Fini è venuto di qua. Eravamo talmente tutti dalla stessa parte che neppure ne parlavamo più. Chi ha tradito chi? Ma al secondo coro smetto di farmi domande. Ficco la testa sotto la sabbia, a mio modo - sono o non sono un fighetto minoritario? - ascolto in cuffie i Cantos di Ezra Pound letti da lui medesimo (youtube). L’entusiasmo di pensarla tutti allo stesso modo - Prima erano loro i cospiratori, ora, a quanto pare, si sono presi la gente e il cospiratore sono io - da figlio studiato di operai a privilegiato coi libri in casa - è la constatazione a cui mi rassegno qualche sera più tardi, assistendo non più a un raduno organizzato bensì a una discussione spontanea sul retro di un ristorante. Mi trovo al tavolino di un bar insieme a due amici, non proprio di fronte al crocchio, ma abbastanza vicino da sentire l’accavallarsi concitato delle voci. Sono due giovani cuochi e una cameriera in pausa sigaretta, un loro amico fattorino seduto sullo scooter e un paio di uomini intorno ai cinquanta, sulla soglia dei loro negozietti di souvenir. Non siamo più a Roma, ma a Ventotene, l’isola del manifesto omonimo, ora meta dei privilegiati coi libri in casa, soprattutto in bassa stagione. La discussione del crocchio verte sugli sbarchi: i migranti e la linea dura del nuovo governo. Ma, come scopro presto, la concitazione non è causata dai diversi punti di vista, bensì dall’entusiasmo di pensarla tutti allo stesso modo. Si tolgono la parola l’un l’altro per darsi ragione. Non proverò qui a ripetere le battute del dialogo - non ho intenti parodistici, posso dire che erano tutti a favore di Salvini. Li eccitava molto il nuovo ministro, come lui non sopportavano più i loschi affari delle Ong e l’invasione di tutti questi stranieri (non i turisti, ovviamente). Com’è che siamo diventati così? - Parlavano di pacchia, di pacchia finita, usavano le sue stesse parole. Mo’ basta, dicevano in continuazione, adattando i proclami del ministro alla parlata napoletana. Erano piuttosto informati, mediamente istruiti, uno dei due negozianti si è infervorato sull’opportunità di un regime dittatoriale, ha usato proprio questa espressione, un “regime dittatoriale” per difendere la nostra “sovranità”. Al che tutti hanno annuito, ovvero hanno iniziato a parlarsi uno sull’altro, e il negoziante ha aggiunto che la speranza di una simile svolta gli veniva anche dalla simpatia con cui finalmente ci guardavano gli Stati Uniti e la Russia. Salvini tiene o’ sostegno di Trump e Putin, i cuochi erano entusiasti di una simile certezza. Erano locali, abitanti di un’isola senza venditori ambulanti né africani questuanti, un posto dove tutti vivono discretamente del proprio lavoro. Passavano ogni giorno davanti al carcere di Santo Stefano, davanti alla biblioteca intitolata a Mario Maovaz, davanti al cimitero dov’era seppellito Altiero Spinelli. A scuola avranno ascoltato mille volte la storia del manifesto, degli amici di Spinelli, Eugenio Colorni e Ernesto Rossi, della militante tedesca Ursula Hirschmann, che odiava a tal punto i nazisti da parlare col fratello solo in francese. Ma queste sono le solite bolse reprimende di quelli che spaccano il capello in quattro e poi vanno farsi lo spaghetto allo scoglio in camicia di lino. Eccoli lì, ci vedevano seduti al tavolino del bar, noi tre e altri quattro gatti i cui argomenti sarebbero stati scacciati con un semplice gesto della mano, come si fa con una mosca. I cicisbei, i professorini, i fighetti minoritari. Com’è che siamo diventati così? Eravamo in tanti, ora sono finiti tutti dalla loro parte. Il crocchio parlava a voce alta, non ci provocava, ma voleva comunque che sentissimo. La nostra presenza non agiva più sui freni inibitori di nessuno. Avevano dimenticato le lezioni sull’Europa. E prima ancora avevano dimenticato le dichiarazioni di Salvini sui napoletani. Un tempo magari avevano votato Pd, più di recente 5stelle, mo’ erano sei convinti leghisti di Ventotene. Non è colpa della paura - Si dà la colpa alla paura, ma io non credo che c’entri la paura. In Ungheria, in Turchia, in Austria, forse anche in Francia, e ora anche qui in Italia sono la maggioranza, che motivo hanno di avere paura? Secondo me non c’entra neanche la povertà, non in maniera decisiva, né la cosiddetta arretratezza socio-culturale: sia i ragazzi alla festa di Roma che questi di Ventotene mi sono parsi tutt’altro che arretrati. E allora cosa? Ci ho pensato a lungo, poi è successo che ho vinto un premio. Nella mia città, Trieste. “Come personalità che più si è distinta nell’anno, in una visione transfrontaliera e multirazziale, tipica dell’opera di Fulvio Tomizza” recitava a un certo punto la motivazione. Forte di ciò, e dell’amore per lo scrittore a cui il premio è dedicato, nel discorsetto non ho potuto evitare di ricordare che oggi i profughi istriani come Tomizza, o come mia madre, all’epoca richiedenti asilo pur essendo già in gran parte italiani, sarebbero finiti nei centri di semidetenzione invocati dal sindaco di Trieste e dal neogovernatore del Friuli Venezia Giulia nelle interviste di quei giorni. Al termine della cerimonia una signora con tre cognomi mi ha fatto sapere a mezza bocca che la gente non ne poteva più di tutti questi che ciondolano per strada con telefonini da cinquecento euro. Ecco di nuovo la gente, la gente che ero stato e non ero più. Ora apparteneva a loro. La maggioranza silenziosa era passata di là e non stava più in silenzio. A cena l’assessora ha tenuto a dirmi che suo nonno aveva fatto la marcia su Roma e che lei era fiera di sentirsi fascista e leghista. Al che - sì, lo ammetto - temo che la situazione mi sia un po’ sfuggita di mano, e me ne scuso. Però ho capito una cosa. La gente con cui mangiavo la pizza a Roma o a Ventotene o a Trieste non è diventata più paurosa, né più povera o più ignorante. È solo orgogliosamente egoista. Al tempo dei comunisti e dei democristiani sarebbe stata una vergogna, ora è un diritto. Sono stati proprio gli altri a liberarci dall’altruismo. Essere altruisti richiede un passaggio mentale complicato che nessuno è più disposto a sostenere, essere egoisti invece viene naturale, è facile e non costa nulla. Per aiutare il prossimo occorre credere in un progetto comune, condividere un ideale. Ci era rimasta la nazionale, ma poi abbiamo visto com’è andata. La questione legalità e la forza delle parole di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 30 giugno 2018 Il rifiuto opposto per civili motivi di principio a certi propositi governativi espressi con brutale linguaggio, in particolare dal ministro Salvini, va certo mantenuto. Per poter essere accettati, quegli intendimenti ed il linguaggio che li comunica, sono troppo lontani dalle acquisizioni costituzionali ed europee maturate nel dopoguerra e divenute - così sembrava - irreversibili. Tuttavia la larga approvazione che essi trovano nell’elettorato mostra l’insufficienza delle motivazioni su cui il rifiuto si fonda. Motivazioni che si dimostrano non solo insufficienti, ma addirittura pericolose se rischiano di portare alla delegittimazione e al rifiuto del percorso di civiltà di cui la Costituzione e le Carte dei diritti sono il frutto. Benché siano visibili tratti violenti e disumani nel lancio di certe campagne politiche ed elettorali (quanto ai migranti soprattutto), è difficile credere che violente e disumane siano le masse elettorali che hanno mostrato di approvarle. C’è quindi da chiedersi quale sia il terreno sul quale quei discorsi sono caduti e perché esso si sia dimostrato fertile di voti. Prendiamo il caso dell’attacco di Salvini ai rom, prima con una sparata che prometteva l’espulsione di tutti i rom stranieri (non potendo “purtroppo” espellere quelli italiani) e poi con una correzione. Si tratterebbe ora solo di garantire la legalità nei e attorno ai campi rom. La prima versione colpiva in modo indifferenziato un’intera etnia, estremamente variegata al suo interno, solo grossolanamente identificabile con gli abitanti dei campi irregolari e arbitrariamente accusata in blocco di vivere di traffici illeciti. La seconda faceva invece leva su problemi evidenti di più o meno grave illegalità e di incompatibilità con il vivere senza conflitti nelle nostre città. Rifiutare la prima versione non significa anche negare fondamento alla seconda. Piccoli e meno piccoli episodi, concentrati di certe aree delle città, creano il contesto di insofferenza che fa accettare la denuncia indiscriminata ed apprezzare chi promette di “cambiare la musica”. Vi sono episodi, che sono minori se visti sul piano nazionale, ma che pesano quotidianamente su chi li subisce. Si ricorderà la vicenda dell’autobus della linea che unisce Torino a Borgaro: le angherie di rom del vicino campo sui passeggeri, le richieste del sindaco di aggiungere una linea che non prevedesse fermate in prossimità del campo, le accuse rivoltegli di razzismo. Il problema è rimasto aperto, come dimostrano anche recenti episodi. Come accoglie il discorso di Salvini (nelle due versioni) chi non può prendere tranquillamente l’autobus per andare a scuola o al lavoro? La sicurezza è un diritto, cui corrisponde un dovere primordiale dello Stato. Sia il rischio concreto, sia anche la percezione di insicurezza ne rappresentano il contrario. È vero che i reati in generale calano, ma il dato non smentisce la realtà vissuta in certi luoghi più che in altri. In proposito la mappa degli orientamenti elettorali sul territorio è interessante. Poi certo vi è chi plaude alla ruspa che abbatte la casupola illegale dell’anziana rom, ma non parla del vasto fenomeno delle case abusive ovunque in Italia. Ma questo è un altro discorso. Ho citato la questione rom, perché oggetto delle recenti prese di posizione del ministro dell’Interno, nell’imminenza delle elezioni amministrative. Ma i fenomeni di illegalità sono ben più vasti. È imponente, per esempio, il fenomeno delle occupazioni di case popolari, che vedono dei violenti estromettere i legittimi assegnatari. Le sue dimensioni dimostrano l’impotenza, se non anche la tolleranza, da parte di Comuni, Regioni, questori e prefetti. Fenomeni di racket si inseriscono per gestire le occupazioni, l’inerzia delle amministrazioni pubbliche lascia crescere i numeri, vi sono enti proprietari in grandi città che nemmeno sanno più chi abita i loro appartamenti e chi dovrebbe pagare il modesto canone. Riportare l’ordinaria legalità diviene problema di ordine pubblico. E vi sono privati proprietari di case che non riescono a far eseguire i provvedimenti del giudice che ordina lo sgombero degli occupanti illegali. Come ricevono il messaggio muscolare di “è ora di finirla” i cittadini che non riescono ad avere la casa cui hanno diritto? Non importa se non sarà facile far seguire davvero i fatti alle parole. Intanto si apprezzano le parole. La questione legalità non è astratta: riguarda da un lato i prepotenti e dall’altro le loro vittime. Che sono numerose. I recenti risultati elettorali hanno mille cause. Ma troppo a lungo le amministrazioni locali che ora hanno incontrato l’insuccesso non sono parse abbastanza attente ed efficaci. Così sono state valutate e la voglia o speranza di “cambiamento” ha rotto gli argini. Diminuiscono i reati ma gli italiani chiedono armi per difendersi di Orsola Vetri Famiglia Cristiana, 30 giugno 2018 Le denunce calano del 10% ma aumenta la paura e i cittadini chiedono la sicurezza “fai da te” e di potersi armare più facilmente. Il Censis segnala il rischio di questa tendenza portando come esempio gli Usa dove il numero di morti per armi da fuoco è altissimo rispetto all’Italia. La sicurezza del cittadino, in particolare la sicurezza “fai da te”, è indicata dal ministro dell’Interno Matteo Salvini “una priorità delle persone perbene nelle proprie case”. Il suo vice al Viminale, Nicola Molteni, ne spiega così i termini: “Bisogna dare al cittadino la possibilità di potersi difendere dall’aggressione. Oggi la valutazione della proporzionalità tra difesa e offesa è troppo discrezionale da parte del magistrato”. Tuttavia dati Censis, resi noti oggi, segnalano il calo dei reati. Le denuncia sono diminuite del 10% in un anno, ma nonostante questo la paura è forte: la criminalità è la principale preoccupazione per un italiano su quattro. Ci sono in giro più pistole e fucili detenuti legalmente, con 1,4 milioni di licenze per porto d’armi, aumentate del 14% in un anno. E la richiesta di “sicurezza fai da te” e di legittima difesa è crescente, con il 39% che vorrebbe requisiti meno stringenti per avere la pistola. Ma il rischio di questa deriva non è da poco. Censis (nel primo Rapporto sulla filiera della sicurezza, in collaborazione con Federsicurezza) parla di “rischi” connessi alla “pistola facile” e segnala la “pericolosa propensione” degli italiani a difendersi con le armi: il 39% è favorevole a modificare la legge, rendendo meno rigidi i criteri per ottenere il porto d’armi per difesa personale (nel 2015 era il 26%). Nel Paese ci sono poco meno di 1,4 milioni di licenze (il 20% in più che nel 2014) e quelle per difesa personale sono una piccola minoranza, circa 18.500. Le altre sono soprattutto per “uso caccia” (740mila) e per “uso sportivo” (585mila), aumentate rispettivamente del 7,2% e del 47,2% negli ultimi due anni. Si tratta di 200mila italiani, osserva l’istituto di ricerca, che “negli ultimi 3 anni hanno scoperto la passione per i poligoni di tiro”: “difficile non mettere in relazione quest’aumento della voglia di sparare anche con la diffusione della paura” e, al tempo stesso, con la “tranquillità” di saper maneggiare un’arma da fuoco. Infatti, la ricerca rileva come il 31,9% delle famiglie italiane percepisce il rischio di criminalità nella zona in cui vive, una percentuale che sale al 50,8% nelle aree metropolitane. La criminalità continua ad essere ritenuta un problema grave, segnalato dal 21,5% degli italiani, dopo la mancanza di lavoro, l’evasione fiscale e le tasse eccessive. Per questo ben il 92,5% ha adottato un accorgimento per difendersi da ladri e rapinatori, che va dalla videosorveglianza (il 19,4%) alla porta blindata (il 66,3%). Considerando anche chi l’arma ce l’ha per lavoro - come le guardie giurate e, naturalmente, mezzo milione di agenti delle Forze dell’Ordine - 1,9 milioni di italiani possiedono fucili e pistole. La normativa stabilisce che chi ha la licenza può tenere fino a 3 armi da sparo, 6 armi da tiro, 8 armi antiche. Quindi, si può ritenere che, considerando i familiari, ci sono 4,5 milioni di italiani che hanno una o più armi in casa, tra questi 700mila minori. Cosa succederebbe se l’Italia fosse come l’America? Il Censis propone un parallelo con gli Usa dove, da una recente ricerca Gallup, risulta che il 42% delle famiglie possiede un’arma, per un totale di 137 milioni di statunitensi che ci convivono. Nel 2016 negli Usa ci sono stati 14.415 omicidi volontari con arma da fuoco: 4,5 ogni 100mila abitanti. Contro 150 avvenuti in Italia: 0,2 ogni 100mila abitanti. Il Censis si chiede quindi se con l’allentamento delle prescrizioni per ottenere un’arma ci si dovrebbe abituare a tassi di omicidi simili a quelli oltreoceano. Quando i magistrati e i giornalisti entrano in politica di Giovanni Valentini Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2018 Per motivi di spazio e d’impaginazione, mancano due righe al titolo. Quando i magistrati e i giornalisti entrano in politica… non possono più tornare indietro, aggiungiamo dunque per completarlo. Vale per entrambe le categorie, sia per chi fa giustizia sia per chi fa informazione. Chi lo ha stabilito? Al momento, nessuno. Ma per i magistrati lo stabilirà - speriamo presto - una nuova legge appena annunciata dal Guardasigilli, Alfonso Bonafede, nel suo primo incontro ufficiale con il Csm. E per i giornalisti, in verità, dovrebbe bastare già la deontologia, cioè il senso della propria autonomia e indipendenza, l’obbligo di salvaguardare l’una e l’altra rispetto a ogni potere costituito. Naturalmente, il problema si pone in modo diverso per i due ordini professionali. Un magistrato che smette la toga per indossare una casacca politica perde automaticamente l’aura dell’imparzialità, requisito fondamentale per esercitare la propria funzione, tanto in sede giudicante quanto in sede requirente. Diventa uomo di parte, si schiera, dichiara un’appartenenza di cui non potrà più disfarsi. Facciamo l’esempio della corruzione. O di qualsiasi altro delitto contro la pubblica amministrazione. Come può un magistrato che ha fatto politica indagare su un ex compagno di partito o peggio ancora giudicarlo serenamente? E soprattutto, quanto può risultare legittima e credibile la sua attività giudiziaria, in un’ipotesi o nell’altra, agli occhi della pubblica opinione? Anche il più onesto e integerrimo magistrato rischierebbe di non apparire imparziale nei confronti della propria “famiglia” politica. Perfino quando si trovasse a inquisire o condannare i suoi ex colleghi sarebbe sospettabile di rancore, risentimento o spirito di vendetta. Di essere, insomma, “partigiano” al contrario. Farà bene, perciò, il ministro Bonafede a portare avanti la sua proposta e il Parlamento ad approvarla. Auspichiamo questa riforma, e non da oggi, nell’interesse dei cittadini e anche della magistratura, della sua autorevolezza e della sua rispettabilità. La toga non è compatibile con una tessera o un distintivo di partito. Analogo, seppure con tutte le differenze del caso, è il ragionamento per i giornalisti. Quando il direttore di una testata, l’editorialista o l’inviato, il conduttore o la conduttrice di un talk-show entra in politica, di fatto rinuncia alla propria imparzialità; abdica al proprio ruolo e alla propria funzione; sceglie di schierarsi. E se poi torna scrivere o a condurre un programma televisivo, rimane uomo o donna di parte per tutta la vita, anche se dovesse rinnegare in futuro quell’appartenenza. Parliamo, ovviamente, di giornalisti a tempo pieno, professionisti integrati in una redazione o in una rete. Non degli opinionisti e dei commentatori esterni che, in quanto tali, continuano ad avere - come tutti gli altri cittadini - il diritto costituzionale di esprimere liberamente le proprie idee, attraverso qualsiasi mezzo di comunicazione, pur restando ex politici a tutti gli effetti, senza via di ritorno. La giustizia e l’informazione sono “poteri” troppo forti per essere confusi con quello legislativo, esecutivo o amministrativo, a livello nazionale o locale. E rispondono a compiti e responsabilità troppo delicati per sovrapporsi alla politica. Chi decide di indossare una “maglia”, non può più fare l’arbitro. Sorteggiare i magistrati per estirpare il malcostume di Guido Salvini* Il Dubbio, 30 giugno 2018 Non voglio infierire sui due magistrati che si sarebbero recati a Roma, guidati e spesati da un curatore fallimentare, per caldeggiare presso un consigliere del Csm la nomina di uno dei due a Presidente del Tribunale di Cremona. Infatti l’episodio deve ancora essere verificato. Ma se fosse andata così sarebbero particolarmente sfortunati perché quella che emerge è solo la punta di un iceberg. Quelli per gli incarichi direttivi non sono concorsi ma, per usare un eufemismo, terreno di contrattazione. Il voto in Commissione, che sia quello di un consigliere togato o di un laico scelto dal Parlamento cambia poco, in larga parte non dipende dal curriculum del candidato o dalla sua audizione al Consiglio ma matura fuori dalla Commissione. I candidati più forti parlano con l’amico al Csm della loro corrente o gli fanno parlare da qualche potente, sempre della loro corrente, che fa politica associativa nella loro sede e che fa da tramite con il Csm. A bassa voce questo lo ammettono tutti e spesso è uno scontro senza esclusione di colpi perché, almeno sino ad ora, i due schieramenti, moderati e progressisti, sono stati praticamente sempre alla pari a Palazzo dei Marescialli. Questo spiega, nella faccenda di Cremona, l’invito a cena di un consigliere laico del campo opposto il cui voto poteva essere decisivo. Una violazione molto grave da parte del Consigliere, che potrebbe comportarne anche le dimissioni, perché se ci sono dubbi su chi scegliere si può chiedere l’audizione dei candidati dinanzi al Consiglio, certo non uscire a cena con uno di loro. Ci sarebbe una via molto semplice per rendere le nomine agli incarichi direttivi più trasparenti e stroncare in radice clientelismi e raccomandazioni Basterebbe limitare l’intervento del Csm all’individuazione di una rosa abbastanza ampia di idonei tra i concorrenti 3, 5 o 6 candidati per ciascun posto escludendo i concorrenti chiaramente inadatti. In tutti i concorsi infatti c’è un numero di magistrati, che, più o meno alla pari, hanno le capacità e le caratteristiche per ricoprire il posto cui concorrono e che sarebbero facilmente individuabili in una prima selezione. In questa rosa, in una seconda fase, basterebbe estrarre a sorte il vincitore. Ecco così divenute inutili di colpo le consultazioni di corridoio e le cordate. Traffici e raccomandazioni per soddisfare ambizioni personali non avrebbero infatti più alcun senso se la parte finale della scelta avvenisse in base all’alea. Nello stesso tempo sarebbe garantito che all’incarico direttivo arrivasse un magistrato meritevole di ricoprirlo e sarebbe anche accelerata la estenuante copertura dei posti oggi spesso bloccata dalle trattative e dai patti a scacchiera (io voto il tuo qui, tu voti il mio là) tra le varie correnti. Del resto la scelta per sorteggio tra gli idonei è un meccanismo decisionale conosciuto nella storia, dall’antica Grecia in poi - si eleggevano così ad esempio i Dogi di Venezia - per stroncare i gruppi di potere che danneggiano la credibilità e l’indipendenza di un’istituzione e per ampliare le possibilità di partecipazione dei singoli e dei non allineati. D’altronde non sono sorteggiati già oggi i giudici che compongono il Tribunale dei Ministri e i giudici popolari che possono condannare un imputato all’ergastolo? Nessuno se ne scandalizza. È un metodo che è in grado di resistere a qualsiasi obiezione di principio ma sono certo che non passerà mai. Le correnti, poche centinaia di magistrati che costituiscono l’apparato di comando, non accetteranno mai che tramite un meccanismo di nomina non controllabile venga meno il loro potere su tutta la magistratura. Quindi continuerà come è sempre stato, magari qualche volta con qualche incidente di percorso come quello di Cremona, da dimenticare in fretta. *Magistrato Liguria: rapporto di Antigone “nelle carceri mancano educatori e mediatori culturali” di Emanuela Mortari bizjournal.it, 30 giugno 2018 Con il 52% di stranieri tra i detenuti sarebbe fondamentale la mediazione culturale. Pur essendoci possibilità di lavoro anche per aziende private, ci sono ancora posti vacanti. Sovraffollati, con problemi di spazio pro-capite, con un personale ridotto all’osso. Sono alcuni dei problemi delle carceri liguri secondo il quattordicesimo rapporto sulle condizioni di detenzione a cura dell’osservatorio Antigone. Un rapporto che viene presentato oggi alle 17.30 nella società ligure di storia patria di Palazzo Ducale a Genova e che serve anche a smontare alcune convinzioni acquisite sulla base del “sentito dire”. A partire dal 2003, per esempio, alla più che triplicazione degli stranieri residenti in Italia è seguita, in termini percentuali, una quasi riduzione di tre volte del loro tasso di detenzione. Chiunque sia straniero in una nazione lontana - si legge nel rapporto - ha più difficoltà a integrarsi per oggettive condizioni di vita, per lo sradicamento dai propri affetti, per la mancanza di lavoro, per l’assenza di opportunità formative, educative o sociali, per il gap linguistico. Come si evince dai dati, man mano che passa il tempo dal suo insediamento in Italia, una comunità esprime un minor numero di detenuti al proprio interno. Ciò accade in quanto quella comunità diventa parte integrante dell’economia e della società italiana. Tuttavia, come vedremo tra poco, la presenza di una notevole quantità di detenuti stranieri e di religioni diverse non è esente da problemi, anzi. C’è un’altra questione, dimostrata delle statistiche: meno il carcere rieduca, più alto il rischio di recidiva. Per questo un serio piano carceri dovrebbe essere ai primi posti dell’agenda politica, anche di chi predica sicurezza e pericoli dietro a ogni angolo, invece le condizioni dei detenuti non sembrano interessare a nessuno, anzi solo alla polizia penitenziaria che è costretta quotidianamente ad affrontare situazioni molto pericolose anche per la stessa incolumità degli agenti. La soluzione secondo Antigone non è in nuove carceri, piuttosto nella riconsiderazione di alcuni reati: “Abbiamo persone che entrano per un piccolo reato e poi si abituano talmente a questa vita che quando escono sono peggiori di prima. Il carcere dovrebbe essere un luogo rieducativo per chi ne ha davvero bisogno”, dice Alberto Rizzerio, presidente dell’Associazione Antigone Liguria. Sovraffollamento e assenza di mediatori culturali. Il sovraffollamento è un problema: “La situazione ligure vede tutti gli istituti, tranne Chiavari, sovraffollati, la gestione diventa problematica, anche per la convivenza di diverse etnie”, spiega Rizzerio. Se la media italiana è del 34% di stranieri presenti nelle carceri, nel Nord Italia si supera il 50%, in Liguria si è a quota 52,4%: il mediatore culturale diventa determinante, invece mancano. “Con i musulmani - aggiunge Rizzerio - si verificano problematiche ulteriori, non ci sono spazi per esercitare culto, spesso è assente il cibo Halal, cioè lecito”. Altrettanto grave è l’assenza degli educatori, figure fondamentali che dovrebbero gestire appunto la rieducazione dei detenuti: “A Chiavari per esempio ce n’è uno prestato da Pontedecimo”, denuncia Rizzerio. Si tratta di un problema strutturale, probabilmente mancano i soldi per pagarli e i concorsi per le assunzioni ormai sono un miraggio. A farne le spese non sono solo i detenuti, ma anche la società intera. ll carcere di Marassi ospita un alto numero di persone tossicodipendenti e con patologie psichiatriche. A Marassi i soggetti in esecuzione pena sono circa la metà del totale e il restante sono detenuti in attesa di giudizio. Gli stranieri risultano, inoltre, essere mediamente oltre il 50% e le differenze etniche e di provenienza dei detenuti, spesso comportano un aumento delle problematiche di gestione del sovraffollamento carcerario con rischio di conflittualità tra gli stessi detenuti. Per esempio i detenuti provenienti dalla libertà restano nelle camere di prima accoglienza per un periodo di osservazione (talvolta mesi) eccessivamente lungo, in stanze inadeguate, solamente perché è impossibile il trasferimento in altre sezioni dove potrebbero crearsi “conflitti etnici”. Antigone registra, inoltre, la grave assenza di un mediatore culturale e linguistico che comporta notevoli difficoltà di comprensione da parte dei detenuti stranieri, specie se provenienti dalla libertà. La popolazione detentiva con età inferiore ai 25 anni non è destinata a spazi detentivi riservati, ma convive con il resto della popolazione. Migliore la situazione riscontrata alla Spezia, anche se l’affollamento è notevole (146% della capienza) e l’ultima visita di Antigone risale a un po’ di anni fa, al 2013. Sul sito del ministero della Giustizia i dati aggiornati. Savona è stato chiuso, ma al momento non è chiaro quando dovrebbe essere costruito un nuovo carcere in val Bormida. Secondo Antigone la recente trasformazione in casa di reclusione del carcere di Sanremo sembra aver giovato al clima generale della struttura detentiva che, tuttavia, continua a presentare delle rilevanti criticità. Nonostante si siano avviate nuove attività, l’offerta formativa e trattamentale rimane decisamente scarsa, in relazione al numero di detenuti presenti in struttura. Registrata, come a Marassi, l’assenza di una figura professionale di mediazione linguistica e culturale. Alto il numero di eventi di autolesionismo (151 nell’ultimo anno) e di tentativi di suicidio (18 nell’ultimo anno, di cui 2 non dimostrati). In grave crisi sembra invece essere il carcere di Imperia, essendo in sostanza l’unica casa circondariale (ospitante quindi detenuti in attesa di giudizio e con pene inferiori a 3 anni) del Ponente ligure dopo la chiusura di Savona (salvo una sezione nell’istituto penitenziario di Sanremo). Antigone registra una grave carenza di personale di polizia e un sovraffollamento carcerario dovuto al cospicuo turn over di persone in attesa di giudizio (stimate intorno alle 900/1000 all’anno, numero paragonabile a quello registrato per il più grande carcere della Liguria, a Genova Marassi). La carenza di personale è, peraltro, intimamente collegata al fenomeno del sovraffollamento, in quanto di regola i pochi agenti penitenziari in servizio sono utilizzati principalmente per le operazioni periodiche di sfollamento verso altri istituti penitenziari e per i trasferimenti in tribunale, a danno della gestione trattamentale dei detenuti le cui attività possono essere sospese in mancanza di personale di controllo. Il fenomeno del sovraffollamento si è inoltre acuito a seguito delle problematiche migratorie dipendenti alla vicinanza con il confine di Stato (Ventimiglia). Datata anche la visita al carcere di Pontedecimo, unica casa circondariale femminile, che ospita però anche detenuti maschi. Il circuito maschile è interamente dedicato alle categorie protette (sex offender, agenti, collaboratori di giustizia). Riforma mancata. Il 2017 - si legge nel rapporto - avrebbe dovuto essere l’anno della “svolta” per il sistema penitenziario italiano. Avrebbe dovuto chiudersi un ciclo, idealmente iniziato nel 2013 con la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Era atteso un nuovo ordinamento penitenziario, che, dopo quarant’anni avrebbe dovuto modificare e “ammodernare” l’impianto originario del 1975, sulla base del cospicuo lavoro degli Stati generali dell’Esecuzione penale. Il carcere, così com’è oggi, rende l’Italia più insicura, agevolando la recidiva e deludendo l’obiettivo costituzionale della “rieducazione”. La riforma ha avuto tempi (troppo) lunghi, la versione definitiva del testo legislativo è finita in pasto agli appetiti (e agli infondati attacchi) elettorali, troppo a ridosso della fine della legislatura. Alto il numero di detenuti in terapia psichiatrica: il 68,2% a Sanremo, il 64,5% a Imperia, il 42,1% a Marassi. Dipende, secondo Antigone, dalla presenza insufficiente di personale addetto. Dopo il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), in Liguria esiste una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) a Genova Pra (21 posti). Solo il 16,6% dei detenuti in Liguria è coinvolto in attività culturali. Personale insufficiente. Su 1.445 detenuti in Liguria presenti a fine febbraio, il rapporto con gli agenti è di 1,4, uno dei più bassi in Italia. Solo per fare un paragone con l’Europa: in Francia questo rapporto è di 2,5 agenti per ogni detenuto, in Spagna di 3,3 a 1 e in Germania di 4,2 a 1. La media degli Stati del Consiglio d’Europa è di 3,5 a 1. Sono invece 61,66 i detenuti per ogni educatore, una mancanza già segnalata da Rizzerio, la cifra mostra il pesante taglio di questa figura che invece dovrebbe essere fondamentale per il recupero e il reinserimento delle persone. Il lavoro. A livello nazionale la maggior parte dei lavoratori è alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, poche le imprese private che utilizzano i carcerati come manodopera. In Liguria viene segnalato un lavoro alle dipendenze esterne: riparazione di cicli. Tuttavia su 72 posti disponibili per datori di lavoro diversi, ben 23 sono ancora vacanti. “Dobbiamo capire perché succede questo - dice Rizzerio - spesso ci sono problemi di accordi con le imprese a seconda della politica del direttore, oppure molto dipende anche dall’orientamento del ministero stesso”. Sono 47 tra Piemonte e Liguria, le cooperative finanziate con la legge Smuraglia (193/2000) per incentivare l’ingresso nel sistema del lavoro e della formazione penitenziaria di privati e di cooperative, prevedendo l’erogazione annuale di contributi e sgravi fiscali per coloro che offrono posti di lavoro ai detenuti o organizzino corsi di formazione professionale. In totale hanno ricevuto circa 502 mila euro, pari a 92 euro a detenuto (terzo valore italiano). Bari: per la giustizia una crisi a cascata, il carcere sull’orlo del collasso di Alessio Viola Corriere del Mezzogiorno, 30 giugno 2018 Poco importa che i magistrati ricevuti ieri dal ministro Alfonso Bonafede abbiano ricevuto rassicurazioni sulla possibilità di avere un edificio unico. L’emergenza giustizia a Bari non è solo quella edilizia, i palazzi che mancano o potrebbero crollare. Richiama a strascico altre emergenze, ormai cronicizzate, che innescano un rapporto dialettico malato tra cause ed effetti, con il rischio di rendere complicato stabilire anche priorità e obiettivi. E poco importa che i magistrati, ricevuti ieri dal ministro Alfonso Bonafede, abbiano ricevuto rassicurazioni sulla possibilità che a breve possa esserci un edificio unico per gli uffici giudiziari. La situazione delle carceri pugliesi, per dire, è come su tutto il territorio nazionale di cronica insufficienza di dotazioni e mezzi, di organici paurosamente sotto i livelli di sicurezza. A Bari il caso del tribunale in tenda (chiusa) di colpo sta rendendo esplosive alcune situazioni nella Casa circondariale, in particolare quella sanitaria. Il carcere di Bari è sede di un centro clinico diagnostico che è riferimento regionale e spesso interregionale. I viaggi della speranza dei detenuti, insomma, che spesso hanno il centro di Bari come riferimento. In questo mini ospedale dietro le sbarre ci sono apparecchiature radiologiche rotte. In una situazione “normale” i pazienti cambiano struttura di riferimento. In questo caso, per ogni infortunio o malattia che necessiti di una radiografia, è necessario portare fuori il detenuto. I problemi di trasporto sicurezza e costi aumentano in maniera esponenziale. Così come i tempi di attesa. Nella Casa circondariale - Un detenuto non può andare a fare una radiografia all’esterno se non - a meno di casi particolari che non richiedano l’intervento del tribunale di sorveglianza - dopo l’autorizzazione del giudice che ha in carico il suo processo. Giudici che sono sotto le tende sbarrate e con i processi fermi fino al 30 settembre. Ed ecco che il cerchio si chiude. Alluvionati, con fascicoli dispersi chissà dove, tempi che da lunghi come accade normalmente diventano biblici. Con un effetto rimbalzo sulle tensioni interne al carcere. Aggravate dal fatto che manca il medico infettivologo, che in una comunità è figura fondamentale per prevenire e curare sempre possibili contagi di ogni natura. Ma se mancano i referti medici o non si fa in tempo ad effettuare le radiografie le udienze saltano, i tempi si allungano ancora di più, il rischio per chi è in attesa di giudizio di una detenzione sempre più lunga è una realtà. I detenuti sono in qualche modo gli “utenti” più esposti dell’amministrazione della giustizia. I diritti di cui sono titolari, nonostante tutto, rischiano di essere calpestati, e il diritto alla salute è un principio costituzionale. Il risultato è un aumento di costi sociali pesantissimi. In termini di sicurezza e aggravio di spese. Roma: storia di Benedetto, recluso a Rebibbia senza sapere neanche il perché di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 giugno 2018 Si trova nel poliambulatorio, condannato a 4 anni in contumacia, ha un problema cognitivo. “Ho visitato numerose carceri in tutti questi anni, ma non ho mai visto un caso del genere”. Così denuncia a Il Dubbio Irene Testa, membro della presidenza del Partito Radicale, a proposito della visita al carcere di Rebibbia effettuata assieme a Maria Antonietta Farina Coscioni. Una visita particolare perché indirizzata ad una sezione specifica del carcere, il poliambulatorio. Un reparto, quello del G14, nel quale vi sono reclusi detenuti malati, disabili, anche con sofferenze psichiche evidenti. Tra loro c’è l’ex senatore Marcello Dell’Utri che è gravemente malato, così come tanti altri ristretti che potrebbero scontare una pena alternativa al carcere. Ma è anche emerso un caso di uno che non sa nemmeno perché si trova in carcere ed ha 4 anni da scontare. “A differenza degli altri detenuti che hanno sempre qualcosa da chiedere e segnalare - spiega Irene Testa, non diceva nulla. I suoi compagni di cella hanno insistito perché ci parlassi”. L’esponente radicale sottolinea che si era resa conto da sola che qualcosa non andava in lui, perché aveva lo sguardo assente. È un ragazzo e si chiama Benedetto. “Mi sono trovata davanti non un tossico - continua Irene Testa, non un malato con problemi psichiatrici, non un delinquente, ma un ragazzo, orfano e senza altri familiari che si occupino di lui, che a seguito di un incidente occorsogli in giovane età ha un grave ritardo mentale con invalidità annessa”. Ovviamente è tutto da verificare visto che non hanno potuto accedere alla sua documentazione, ma la storia che emerge, se confermata, ha dell’incredibile. Benedetto forse era stato raggirato, una firma a sua insaputa e denunciato per questo. Al processo non si sarebbe presentato, perché neanche sapeva dove si sarebbe dovuto recare. “Secondo il suo racconto - spiega l’esponente radicale Irene Testa - è stato quindi condannato a quattro anni in contumacia”. Quindi senza che il giudice lo abbia visto. “Credo che se l’avesse visto, il magistrato avrebbe capito che qualcosa in lui non andava, un evidente ritardo mentale e che quindi non sarebbe stato in grado di firmare coscientemente”. Benedetto è solo, non ha nessuno. La madre, unico familiare rimasto, sarebbe morta qualche anno fa. Sembrerebbe che sia stato difeso da un avvocato d’ufficio, ma che non avrebbe mai visto di persona. Una storia, ripetiamo se confermata, parla di un buco nero, la scomparsa del mondo esterno e lui, rinchiuso là dentro, in carcere, senza saperne il motivo e senza sapere che cosa gli aspetta. Irene Testa, che tra l’altro è candidata a Garante dei Detenuti della Regione Sardegna, ha denunciato questa storia prendendo spunto da un post su Facebook pubblicato dal grillino Alessandro Di Battista dove si legge che al primo posto vengono i diritti economici, prima ancora di quelli umani e civili. “Una vicenda come questa - denuncia l’esponente radicale - fa capire l’importanza dello Stato di Diritto e che i diritti in generale non diventino di serie A e di serie B”. Ora del caso di Benedetto, anche per verificarne la veridicità della sua narrazione, se ne sta occupando il garante dei detenuti della regione Lazio Stefano Anastasìa. Un intervento autorevole che servirà per attivare tutte le garanzie del caso. Può finire in prigione, 4 anni di carcere da scontare, una persona che probabilmente presenta dei problemi cognitivi? Santa Maria Capua Vetere (Ce): il carcere avrà mai l’acqua corrente e potabile? lavocesammaritana.com, 30 giugno 2018 Dal 1996, ossia dall’inizio, la casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere attende di essere allacciata alla rete idrica. L’istituto, per far fronte al problema idrico, usufruisce di un costosissimo impianto di potabilizzazione che attinge a 2 pozzi di emungimento e, ancora oggi, vengono spesi dall’amministrazione della casa circondariale circa 100.000 € all’anno solo per i costi idrici. Cio’ influisce in modo negativo sulle condizioni igieniche e sanitarie dei detenuti e sulle loro condizioni minime di vivibilità; problema che va da aggiungersi al sovraffollamento della struttura, che ospita oltre 1000 detenuti, e alla carenza di personale penitenziario, oltre al fatto che il personale di polizia accasermato e in servizio non può usufruire dell’acqua corrente nei mesi estivi. Il M5S Smcv ha recentemente richiesto ed ottenuto l’ultimo cronoprogramma relativo ai lavori di realizzazione della condotta idrica per la casa circondariale di Santa Maria C.V. Rispetto al cronoprogramma precedente di aprile 2017, ottenuto a seguito di interrogazione consiliare del 6 luglio 2017, si nota l’ulteriore rinvio in ordine di tempo. Il confronto fra i due cronoprogrammi evidenzia uno slittamento dell’opera da febbraio 2019 ad agosto 2019. Il palleggiamento continuo di responsabilità e azioni tra regione e comune ha accumulato al momento un ulteriore ritardo di ben 8 mesi oltre a tutti gli anni oramai che questa vergognosa situazione di emergenza va avanti. Adesso la responsabilità e’ nelle mani della nostra amministrazione ma considerando i risultati nulli ottenuti fino ad ora anche sul cronoprogramma per la soluzione dei problemi ambientali abbiamo forti dubbi sulla sua conclusione nei tempi stabiliti. Intanto poco interessa se i detenuti non hanno la possibilità di lavarsi con una certa frequenza o di usufruire di acqua potabile. Il Movimento 5 Stelle continuerà a vigilare e informare sulla questione come già fatto a suo tempo con le interrogazioni e la visita ispettiva alla casa circondariale della Portavoce al Senato, Vilma Moronese avvenuta nel 2013 e che ha aperto gli occhi su questa triste vicenda di incuria e mala gestione della cosa pubblica riservandosi qualsiasi azione in suo potere per far sì che non si accumulino ulteriori ritardi. Riusciranno i nostri amministratori a completare i lavori prima della scadenza dell’utilizzo dei fondi che è prevista nel 2020? Ai posteri l’ardua sentenza! Movimento 5 Stelle SMCV Airola (Bn): si diplomano pizzaioli in carcere, storia di riscatto per 7 giovani detenuti ntr24.tv, 30 giugno 2018 Far emergere tutte le potenzialità del territorio e donare una vera occasione di riscatto ai giovani detenuti per guardare con speranza concreta al proprio futuro. Con queste finalità è nato nel 2016 il Corso di formazione per giovani pizzaioli all’interno dell’Istituto penale per minori di Airola in provincia di Benevento col sostegno economico della Fondazione Angelo Affinita. La seconda edizione, svoltasi da settembre 2017 a giugno 2018, ha visto una possibilità ulteriore per i giovani detenuti, grazie alla certificazione rilasciata da Adecco, che consentirà ai giovani pizzaioli di essere inseriti nel database della società e cogliere così le occasioni di lavoro che arriveranno. Il Corso di formazione per giovani pizzaioli segue la strada di una collaborazione tra la Fondazione Affinita e l’Istituto penale minorile, che prosegue da anni e che oggi crede fortemente in questo progetto umano e professionale. Donare un futuro e una piena riabilitazione umana è la sfida più difficile per le carceri italiane, soprattutto quando si parla di carceri minorili, in cui il rischio di tornare alle cattive abitudini una volta scontata la pena è altissimo. Il percorso generale proposto dalla Fondazione ha lo scopo di responsabilizzare il giovane in carcere, per aiutarlo a ritrovare la sua identità attraverso un’immagine di sé positiva e costruttiva, in grado di dirigere la propria esistenza e gestire in modo autonomo il proprio disagio. A fare la differenza è stato soprattutto il team che ha lavorato, prima di tutto selezionando i partecipanti in base alla reale motivazione, creando così un gruppo di lavoro che ha assicurato un clima sereno, impegno e anche percentuali di frequenza molto elevate. I giovani non hanno imparato solo a fare la pizza, ma hanno fatto un percorso di crescita, in cui gli ingredienti principali sono stati rigore e amore. Testimoniare il gusto e la passione nel lavoro, raccontare storie di sacrificio e di successo, è ciò che ha permesso di aprire un canale di comunicazione. Il corso si è sviluppato su due moduli principali. Il primo dedicato all’orientamento al lavoro, seguito da Patrizia Flammia - con lunga esperienza di orientamento, tra l’altro, come Responsabile del Centro di Solidarietà di Napoli. Il secondo modulo, dedicato alla professione di pizzaiolo, tenuto quest’anno da pizzaioli professionisti di primissimo livello: Anna Iquinto, prima donna ad aggiudicarsi la prestigiosa rassegna del “Pizza Festival” di Napoli, e Alessandro Vittorio, giovanissimo Istruttore Pizzaiolo per l’Accademia Italiana Pizzaioli e Marco Amoriello, pizzaiolo, 1° classificato al Campionato Mondiale della pizza per ben tre volte. Non sono mancati momenti ludici o di approfondimento, come l’incontro di pizza acrobatica con il talentuoso Gianni Franco, titolare della pizzeria Il Buco di Cervinara, esperti di pizza acrobatica e la lezione di abbinamento pizza-vino tenuta dall’appassionato sommelier Loredano Orso. La cerimonia della consegna dei diplomi ai 7 giovani pizzaioli è avvenuta giovedì 28 giugno, all’interno dell’Istituto Penale per Minorenni di Airola ed è stata festeggiata con una cena a base - ovviamente - di pizza preparata dai giovani neo pizzaioli. Volterra (Pi): l’orto urbano viene curato dai detenuti gonews.it, 30 giugno 2018 Un orto curato da detenuti per coltivare ortaggi da consumare all’interno del carcere. E’ il progetto che si è concretizzato nella Fortezza di Volterra nell’ambito del progetto “L’Orto urbano della Fortezza Medicea” all’interno di “100mila orti in Toscana”, nato dalla collaborazione tra il Comune e la casa di reclusione di Volterra. “Dopo la Torre del Mastio, questa vasta area, interna al carcere ma fruibile dall’esterno con certe modalità, torna a vivere e lo fa nel modo migliore - spiega il sindaco Marco Buselli. Volterra ha così il suo primo orto urbano riconosciuto. Aver vinto questo bando ci ha riempito di soddisfazione. Ringrazio la Regione Toscana, che ha aperto questa linea di finanziamento importante e lungimirante, Marina Lauri di Anci Toscana, la Direttrice del Carcere Maria Grazia Giampiccolo, che ha avuto l’idea di far rinascere questi luoghi, l’Assessore alle Politiche Sociali Francesca Tanzini e quello all’Agricoltura Gianni Baruffa, Rossella Trafeli e Michele Paffi per la struttura comunale, il personale del Carcere e chi quotidianamente si occupa dell’orto, ossia gli ospiti della struttura carceraria”. Il progetto si pone il duplice obiettivo di offrire un’importante attività ergo-terapica e trattamentale per i detenuti recuperando al contempo un’area del carcere da destinare alla fruizione dei detenuti e degli esterni che vorranno conoscere o partecipare alle attività di coltivazione. L’attività si apre all’esterno per gruppi organizzati, scolaresche e persone interessate a conoscere l’esperienza di coltivazione sociale della Fortezza. Como: fiori di carta per i detenuti del Bassone di Eletta Revelli ecoinformazioni.com, 30 giugno 2018 I fiori sono bellissimi, ma durano poco. Alcuni fiori, tuttavia, sfidano questa triste verità, perdurando nel tempo nella sostanza come nel valore. Le rose che vedete in questa foto sono di carta e sono confezionate dalle mani di un detenuto del Bassone. Non solo hanno una bella storia da raccontare, ma possono compiere, se acquistate, un piccolo, ma decisivo miracolo. C’è un detenuto, alla Casa circondariale del Bassone, che con le sue mani crea meraviglie dalla carta colorata. Ha imparato a realizzare fiori in una precedente esperienza carceraria, una volta trasferito al Bassone, ha voluto mantenere l’attività coinvolgendo altri detenuti in un piccolo laboratorio di arte applicata. Su indicazione della psicologa operante nel penitenziario, la proposta è stata rivolta ai carcerati in condizioni di fragilità psichica: tenendosi occupati con il lavoro creativo, possono infatti “staccare” la mente dai pensieri ossessivi e opprimenti determinati e/o aggravati dalla realtà carceraria quotidiana. Il progetto ha dunque una valenza “terapeutica”, ma anche un importante obiettivo sociale: attraverso la diffusione degli splendidi fiori creati dai detenuti, si vogliono raccogliere offerte da devolvere a un fondo comune per i carcerati. L’ideatore del progetto pensa anche ai detenuti di origine africana o comunque non locale, spesso privi di ogni sostegno affettivo al di là delle sbarre. In una congiuntura storica e sociale di diffusa e gratuita ostilità verso i migranti, questa dimostrazione di sensibilità merita davvero di essere riconosciuta e incoraggiata, oltre che condivisa. Le offerte libere partono dai 5 euro per i singoli fiori e dai 30 per le composizioni, composte da fiori di tipo diverso e di sicuro (e duraturo) effetto scenico. Le foto di Eletta Revelli dell’associazione La bottega volante illustrano le creazioni che è già possibile acquistare. Se l’iniziativa dovesse avere ampio seguito, verrà realizzato un catalogo completo delle composizioni disponibili. I detenuti coinvolti nell’iniziativa fanno richiesta anche di materiale utile alla realizzazione dei fiori, come tappi di sughero, rotoli di carta igienica o da cucina. Per informazioni, eletta.revelli@gmail.com. Armando Punzo: “volevo cambiare il teatro ma il carcere ha cambiato me” di Anna Bandettini La Repubblica, 30 giugno 2018 Per i trent’anni della Compagnia della Fortezza mostre, un nuovo spettacolo, libri e installazioni, ma soprattutto ancora tanta voglia di riscatto. Oggi non c’è detenuto che non partecipi all’attività del teatro: ogni giorno attori, scenografi, costumisti arrivano nella cella 3 metri per 9 al piano terra, davanti al cortile. Studiano, leggono, provano. Eppure dal 1988 quando per la prima volta il teatro entrò nella Fortezza Medicea di Volterra (carcere allora considerato tra i più duri e turbolenti, con quotidiane violenze tra i detenuti), ci sono voluti spirito combattivo e tenacia di un giovane regista, Armando Punzo, per non fermarsi davanti agli ostacoli burocratici, alla prudenza del direttore, alla diffidenza degli agenti di custodia ma anche dei detenuti e creare interesse intorno alla prima e unica compagnia teatrale stabile nata in un carcere. Non una delle tante attività creative di riabilitazione dei reclusi filiate un po’ ovunque, ma un’esperienza unica, culturale, umana, sociale. Tanto che a ripercorrerla ora, trent’anni dopo, la Compagnia della Fortezza sembra innanzitutto una grande storia di libertà: 30 spettacoli artisticamente e umanamente potenti, detenuti che recitano, tournée, e un carcere passato da luogo di reclusione a centro di produzione culturale, dove gli spettatori entrano, di anno in anno ci si conosce e ci si abbraccia con i detenuti, ci si dà perfino appuntamento allo spettacolo successivo. Un carcere modello che si è riconfigurato attraverso la cultura e la bellezza, studiato e seguito anche dall’estero. E anche per non perdere le fila di ciò che è avvenuto, in occasione dei 30 anni, gli attori detenuti e Armando Punzo (ancora leader e riferimento di questa avventura) hanno organizzato una lunga festa di compleanno a Volterra e dintorni, curata da Cinzia de Felice, con mostre e laboratori, un libro atteso per settembre di conversazioni tra Punzo e Rossella Menna (ed. Sosella) e che avrà il suo cuore in due appuntamenti: il debutto del nuovo spettacolo Beatitudo “liberamente ispirato a quella matrioska che è l’opera di Jorge Luis Borges”, come dice Punzo, dal 23 al 26 luglio in carcere e il 29 al Teatro Persio Flacco di Volterra; e la performance Le Rovine circolari, il 4 agosto sempre con gli attori-detenuti protagonisti in un luogo magico, la Centrale Geotermica Enel Nuova a Larderello, in una delle monumentali torri di raffreddamento che presto sarà riconvertita a spazio di cultura. “Guardo indietro e mi rivedo qui in questa cella ogni giorno per 30 anni - racconta Punzo - Come un ergastolano? Sì, ma un ergastolo piacevole, perché io qui ho trovato la vita. E pensare che quando entrai la prima volta volevo sovvertire il teatro che non mi piaceva più, non il carcere. Cercavo attori non professionisti per ripartire da un grado zero. E pensavo che in un carcere avrei trovato gente con molto tempo a disposizione da dedicarmi”. Andò così? “Al primo corso si era iscritta l’intera comunità di napoletani del carcere. Io che ero fuggito dalle mie origini, ritrovavo Napoli nel cuore della Toscana. Dissi loro la verità: che non ero lì per salvarli dalla reclusione, ma che volevo fare una compagnia fuori dall’ordinario e che se loro non ci fossero stati me ne sarei andato. Rimasero straniti, ma rimasero”. E come andò con le autorità? “Renzo Graziani, direttore di allora, era un illuminato e ci incoraggiò. Furono gli agenti di custodia all’inizio a essere dubbiosi, alcuni contrari. Rompevamo il tran tran. Ma oggi sono i nostri più strenui difensori”. Restano problemi? “La nostra è una compagnia teatrale anomala, sarebbe importante che anche il ministero della Cultura riconoscesse questa anomalia e ci sostenesse di più. Anche perché il nostro è un lavoro realmente stabile. Durante l’inverno c’è quello invisibile degli stage con artisti esterni. D’estate c’è lo spettacolo, e dal 1993 anche le tournée che prima facevamo coi permessi personali ora dal 2003 ci è stato riconosciuto l’articolo 21, l’uscita per motivi di lavoro. Siamo una realtà di reclusione ma con molti contatti esterni. Da qui l’idea di aprire un teatro dentro il carcere”. A che punto è il progetto? “Ci sono stati sopralluoghi. Un teatro aperto al pubblico in un istituto di pena è una cosa unica al mondo e sarebbe legato a un progetto di eliminazione delle sbarre da tutto il carcere. Non ero venuto qui per questo, ma il nostro lavoro ha portato a un cambio radicale del carcere e la nostra piccola “comunità segreta” alimenta un altro modo di vivere la pena e di stare nella società”. La chiave del successo? “Capovolgere la prospettiva: non considerare i detenuti uomini da salvare, ma vederli come qualcos’altro. E poi il carcere: un buco nero che si autoriproduce... Se il nostro teatro non avesse agito come antidoto, come un percorso contrario alla reclusione, alla penitenza, all’isolamento, finendo per rigenerare e rigenerarsi. È la costruzione di “architetture dell’impossibile”, come dico io, che da trent’anni in qua non solo ha reinventato il carcere, ma anche il teatro a cui ha restituito necessità”. Cioè? “Lo spiego con Borges, dalle cui opere è nato il nostro nuovo spettacolo Beatitudo. Borges è l’autore che mette in crisi la realtà, costruisce altri mondi, rinomina le cose. E non è questo che facciamo noi della Fortezza da 30 anni? A quelli che vengono ai nostri spettacoli io chiedo sempre: questo posto è un carcere o un teatro? E loro rispondono “un teatro”. Così si ritrova un senso. Se riuscissimo a farlo in altri pezzi di realtà, cambieremmo il mondo”. Mettere fuori le ali di Luciano Del Sette Il Manifesto, 30 giugno 2018 Il progetto ideato da Marta Rizzo e Silvia Scola è indirizzato alle carceri minorili per insegnare il lavoro artigianale del cinema. Ogni sostantivo ha un’etimologia. Vale anche nel vocabolario del cinema. “Attore” deriva dal latino actor, cioè “colui che agisce”. Se la diva o il divo di turno lo fa davanti alla macchina da presa, quelli che dietro la macchina da presa agiscono si chiamano regista, direttore della fotografia, montatore, costumista, attrezzista, elettricista, truccatrice… Si chiamano così, ma al grande pubblico le loro facce sono sconosciute, i loro nomi non dicono nulla. Questa distanza, comunque ingiusta, si annulla dentro i confini del cinema di qualità, che gode di spettatori attenti a leggere fino in fondo i titoli di testa e di coda. Lì, lo spettatore attento ha imparato a conoscere prima l’identità e poi ad amare, registi come Paolo Taviani, Giuliano Montaldo, Daniele Vicari, Wilma Labate; Gherardo Gossi, direttore della fotografia; Roberto Perpignani, maestro del montaggio; Francesco Bruni, sceneggiatore e regista. Non sono citazioni a caso, e invece elenco parziale di coloro che, nel novembre dello scorso anno, hanno dato corpo a un progetto, “Fuori le ali”, cui non stona affatto attribuire l’aggettivo di coraggioso. Un progetto e un’associazione nati su iniziativa della sceneggiatrice Silvia Scola, figlia dell’indimenticato Ettore, e di Marta Rizzo, studiosa del settore. Ricordate Le ali della libertà, i centoquaranta meravigliosi minuti diretti da Frank Darabont nel 1994 e ambientati nell’immaginario carcere americano di Shawshank? Viene da pensare che Marta, Silvia e il fitto gruppo di chi le ha seguite, si siano ispirati al titolo e alla storia di quel film prima di arrivare a scegliere Fuori le ali. E l’ipotesi si rafforza scorrendo il testo che spiega gli obbiettivi del gruppo “Far conoscere il cinema non come arte inarrivabile e privilegiata, ma come lavoro collettivo, artigianale, dove l’oggetto d’arte, il film, è frutto di mestieri diversi e peculiari, concertati tra loro. Scrittura, regia, recitazione, fotografia, scene, costumi, trucco, montaggio, suono, musica, entrano dentro le carceri minorili di Airola, Benevento, e di Casal del Marmo, Roma; poi alla Casa Internazionale delle donne. E in futuro nelle scuole di periferia, negli ospedali e, se si potrà, anche nelle case famiglia, nei centri antiviolenza e di accoglienza… Per testimoniare, se non per realizzarle e percorrerle, l’esistenza di nuove strade e soluzioni oltre la devianza, il dolore, il disagio mentale, fisico, psicologico, sociale”. Poche righe, subito in grado di sgomberare il campo dal dubbio che si tratti di una delle tante e lodevoli iniziative culturali portate all’interno di un’emarginazione sociale estrema, e destinate purtroppo a lasciare labile traccia di sé. Racconta Marta Rizzo “Un paio di anni orsono mi ritrovai ad assistere per motivi di lavoro a uno spettacolo teatrale, La resistibile ascesa di Arturo Ui, di Bertolt Brecht, nel carcere di Rebibbia. Sul palco c’erano gli attori detenuti che avevano recitato per i fratelli Taviani in Cesare deve morire. Pensai che si potesse andare oltre la magnifica idea di Paolo e Vittorio. La sera stessa mi ritrovai a discuterne con Silvia. Il progetto, all’inizio, non si chiamava Fuori le ali, doveva svilupparsi insieme a un’altra associazione e svolgersi a Rebibbia. Solo in seguito ha avuto una sua precisa definizione ed è stato mirato alle carceri minorili”. Silvia Scola “Il nostro obbiettivo era, ed è, spiegare ai ragazzi che il cinema nasce da un lavoro di squadra e quindi offre la possibilità di imparare tanti mestieri: falegname, elettricista, scenotecnico… Ci interessava raccontarlo in quanto risorsa, opportunità per un futuro diverso, prospettiva possibile cui guardare. La risposta degli amici che abbiamo chiamato ad aiutarci in questo compito è stata immediata ed entusiasta”. Con identico entusiasmo hanno aderito, citazioni sparse in un lungo elenco, Il Centro Sperimentale Cinematografico - Cineteca Nazionale, la Scuola di Arte Cinematografica Gian Maria Volonté, il Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani, Gianni Rufini direttore di Amnesty International, Libera, Il Ministero della Giustizia. Nel Consiglio dei Garanti figurano, tra gli altri, Altan, che ha disegnato il logo di Fuori le ali, Luciana Castellina, Gigliola Scola, Dacia Maraini. E ancora citando, Felice Laudadio, Annalisa Forgione, Antonio Falduto… L’esordio sul campo, dal 24 aprile al 29 maggio, è avvenuto ad Airola, nell’ambito del progetto Il Palcoscenico della Legalità, gestito dall’Associazione CO2 di Giulia Minoli e Giulia Agostini. Ricomincio da tre, Amici miei, Il sorpasso, C’eravamo tanto amati, La banda degli onesti sono i cinque capolavori che, in altrettanti incontri, hanno aperto le porte nascoste del cinema ai giovani detenuti. Spiega Silvia Scola “Fuori le ali si articola in tre fasi. Una prima racconta quanto sforzo corale ci sia dietro un film. Il passaggio successivo vuole portare i ragazzi a realizzare un corto o un piccolo documentario sulla loro esperienza, accompagnati dai vari professionisti. Ultima fase la proiezione pubblica del corto o del documentario”. Da Airola, il progetto è approdato, per restarci fino a luglio, all’Ipm, Istituto Penale Maschile e Femminile per Minorenni di Casal del Marmo, dimensione carceraria di notevole complessità. A rompere il ghiaccio è stato, l’11 giugno, Giuliano Montaldo, che ha parlato nelle vesti di attore in Tutto quello che vuoi, di Francesco Bruni, 2017. Quanto sia lungo, contraddittorio, imprevedibile il cammino di Fuori le ali, lo esemplificane bene le domande di due adolescenti reclusi a Casal del Marmo e ad Airola. Ricordano Marta e Silvia “Il primo, mentre stavamo spiegando, ci ha interrotto “Va tutto bene. Ma come si fa a rubare nel cinema?”. E il secondo, cresciuto in terra di camorra “Quindi il vostro è come un clan. Il regista è il capo, e tutti gli altri sono gli affiliati”. Mamma Roma, 1962, soggetto, sceneggiatura e regia di Pier Paolo Pasolini. “Mamma Roma: E sai perché mi’ marito, er padre de Ettore, era un farabutto disgraziato? Pittorretto: Boh, so’ cavoli sua! Mamma Roma: Perché la madre era ‘na strozzina, e er padre un ladrone. Pittorretto: Perché allora la madre era ‘na strozzina, e er padre un ladrone? Mamma Roma: Perché er padre della madre era un boja e la madre della madre ‘n’ accattona, e la madre del padre ‘na ruffiana, e er padre der padre ‘na spia! Pittorretto: Dio liberaci dal male! Mamma Roma: Tutti morti de fame! Ecco perché! Certo se ci avevano i mezzi, erano tutte persone per bene! E allora de chi è la colpa? La responsabilità?” Intervista a Roberto Perpignani Il lavoro di Roberto Perpignani ha un “prima”. Pur se si fatica a crederlo scorrendo l’elenco dei sessantaquattro film di cui, finora, ha realizzato il montaggio: da Il processo di Orson Welles, 1962, come assistente, fino a Una questione privata, 2017, l’ultimo film in coppia dei fratelli Taviani. Eppure è così, e quel ‘prima’ non poteva che fargli dire si al progetto di Fuori le ali. “In effetti posso pensare a una specie di destino. Da giovane, mentre studiavo pittura, frequentavo anche i corsi del Cemea, il Centro di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva. Perciò mi sono occupato di bambini e di adolescenti. Poi il cinema mi ha travolto. O meglio: è arrivato il cinema giovane degli anni ‘60, e di conseguenza… Ma quel rapporto mi è rimasto dentro. Soprattutto perché bambini e adolescenti sono individui che stanno formandosi, sono portatori di qualcosa che occorre assecondare, potenziare”. Nel 1976, arriva dal Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma la proposta di insegnare “Non sapevo bene cosa avrei detto, cosa avrei spiegato. Fu meraviglioso scoprire che il rapporto con i giovani mi metteva nella condizione di studiare insieme a loro. Ci sollecitavamo a vicenda, le lezioni erano dialoghi. Trovarsi di fronte a una realtà da dover decifrare, scoprire, evidenziare, è stata per me un’esperienza molto significativa. Che in quarant’anni ha seguitato a produrre”. La via aperta oggi da Fuori le ali ha condotto Perpignani verso una realtà ancora diversa. Essere coinvolto in un’iniziativa che non trasmette alle nuove generazioni solamente la conoscenza del cinema come parte del patrimonio culturale italiano del ‘900, lo ha spinto a riflettere, a guardare da una nuova prospettiva ciò che finora aveva fatto oltre al mestiere quotidiano “I bambini e gli adolescenti di cui mi sono occupato in passato erano persone problematiche. Dunque ho conosciuto bene cosa significhi avvicinare qualcuno che non ti viene spontaneamente incontro, ma che devi portare a te, lasciare che ti accolga. Ecco la ragione per cui ho subito accettato la proposta di Marta Rizzo e Silvia Scola. Ho detto mi piace, porto la mia esperienza”. L’ingresso nel carcere di Airola e il primo contatto con i ragazzi ha accresciuto l’entusiasmo di Perpignani, quando ha percepito che la distanza da loro era minima, che sarebbe spettato a lui fare in modo di non accrescerla “Vedere un film e sapere che era stato montato da me ha messo in moto un meccanismo di condivisione. Salutandoci, i ragazzi mi hanno detto ‘Ahó, ma tu torni, no?’. Come a dire ‘Mica sarai venuto qui per fare l’opera buona della dama di carità e poi te ne vai’”. Il sorriso nella voce dissolve in una pausa, in un istante di silenzio, per arrivare a una riflessione importante, forse la miglior sintesi del ruolo, del compito, che Fuori le ali si è assegnato “Mi piacerebbe tantissimo se questo progetto desse dei risultati di cui tutti noi, un giorno, potessimo vantarci. Vantarci nel senso di essere autorizzati ad affermare che i risultati sono visibili, hanno un segno non solo positivo, ma costruttivo. Questi giovani sono in una condizione che nessuno di noi vorrebbe vivere. Allora non si tratta di andar lì a compiere dei gesti di generosità. Andare lì vuol dire prendere coscienza che tutto questo ci riguarda ed essere consapevoli delle difficoltà da affrontare”. Perpignani cita ad esempio concreto Airola e Castel del Marmo: due dimensioni simili e al tempo stesso differenti. Nella prima una popolazione carceraria legata alla malavita campana, nella seconda la forte presenza extracomunitaria. Due dimensioni in cui è necessario capire rispetto a ciascuna e sul momento, come parlare, discutere, ascoltare “Sono arrivato a un’età in cui potrei dire che la parte più indaffarata della mia vita l’ho passata, e godermi l’extra tempo. Ma quale extra tempo? Ho un sacco di cose da fare, vorrei mettere su un centro di studi sui linguaggi delle immagini e dei suoni… Eppure sento che se venissi meno a questo impegno, se abbandonassi Fuori le ali, verrei meno a un pilastro del mio senso civile”. Parole di un signore di settantasette anni, che al cinema e a tutti noi ha regalato il montaggio di Cesare deve morire. Intervista a Lucariello, professore di rap Le immagini che accompagnano queste pagine sono frammenti di un video musicale, Puortame là fuore, girato all’interno del carcere di Airola. Raccontano di un’esistenza quotidiana che scorre consumando i giorni di ragazzi finiti lì perché, sentenza di giustizia, hanno sbagliato, sono colpevoli di questo, di quest’altro e di quest’altro ancora. Quelle immagini, con le facce oscurate dai pixel, i corridoi sbarrati, un’altalena in un cortile, le finestre come gabbie, i muri sbreccati delle celle mal nascosti da fotografie e disegni, creano, guardandole, una sensazione di impotenza, il dubbio angosciante di una libertà da lì in poi negata per sempre e per forza di cose, al di là degli anni di condanna e degli anni conteggiati fin lì dalla vita. C’è chi, e sono molti, senso di impotenza e dubbi angoscianti ha deciso di sconfiggerli entrando in carcere per lavorarci Al piccolo esercito degli operatori sociali sono andati aggiungendosi, numero in crescita nel tempo, uomini e donne del mondo dello spettacolo e della cultura. Uno di loro porta il nome di Luca Caiazzo, in arte Lucariello. Fiero esponente del rap italiano in lingua napoletana (così si definisce), quarantenne, figlio di Scampia, Lucariello ha all’attivo quattro album, l’ultimo, Il Vangelo secondo Lucariello, contiene una traccia dal titolo eloquente, Guagliune ‘e miez ‘a via; la sigla finale della serie Gomorra, Nuje vulimme ‘na speranza, scritta con il rapper Ntò; le collaborazioni con Almamegretta, Negramaro, Fabri Fibra, Caparezza e con il maestro Ezio Bosso nel brano Cappotto di legno. Lucariello, insieme a Raiz, canta Puortame là fuore “Sette anni fa mi chiamò un’educatrice di Airola per un incontro con i ragazzi. È un carcere di cui si parla solo quando succede qualcosa, dove si fanno pochi laboratori e poche attività rieducative. Dopo quell’incontro, mi misi in testa di tornare. Contattai una Onlus che lavora lì, la Co2, e organizzammo un corso di rap, linguaggio che appartiene molto ai giovani e argomento in grado di mantenere alta la soglia di attenzione”. Lucariello figlio di Scampia è abituato a parlar chiaro: ad Airola impera la mentalità dell’aspirante boss; molti, nonostante possano restare al minorile fino a venticinque anni, non vedono l’ora di compierne diciotto per passare al carcere dei maggiorenni, e così ‘arricchire’ il loro curriculum. Il corso di rap ha prodotto un cd, cinque pezzi cantati dai detenuti. Poi un laboratorio di formazione professionale sui mestieri del teatro. I testi di Puortame là fuore, scritti dai ragazzi, sono frutto del laboratorio dello scorso anno sugli autori di canzoni, durato cinque mesi. Di recente l’incontro e la collaborazione con Fuori le ali “È stata un’esperienza molto bella. Il cinema riesce a creare una magia che attrae, crea interesse. Ma, è bene rendersene conto: tutto ciò che si fa, qui e altrove, è un granello di sabbia nel deserto. E perciò, ogni volta, solo un buon punto di partenza. Con Fuori le ali ho funzionato soprattutto da garante, perché i ragazzi mi conoscono, conoscono le mie canzoni, mi danno fiducia, condizione importantissima”. Quanto può contare in un percorso di recupero il granello di sabbia della musica? “Spero possa servire. Il problema più grosso, però, non è tanto il recupero sul piano interiore, ma rispetto al fatto che questi ragazzi, una volta usciti, si ritrovano nelle stesse condizioni di prima, dopo aver trascorso anni a contatto con altri sovente peggio di loro. Il carcere, mi viene da dire, è una specie di scuola al contrario, in cui si costruiscono i criminali del futuro”. Intervista a Wilma Labate e Daniele Vicari Da Ciro il piccolo a Qualcosa di noi. E in mezzo La mia generazione, Genova per noi, Maledetta mia, Lettere dalla Palestina, Signorina Effe… Non c’è film, documentario, sceneggiatura in cui, nel corso di quasi trent’anni di lavoro, Wilma Labate sia venuta meno all’impegno di affrontare piccole e grandi storie, sempre e comunque scomode. Labate ha oltrepassato il portone del carcere di Airola insieme alla montatrice Annalisa Forgione “Ho aderito all’idea di Fuori le ali perché è molto vicina alle cose che faccio. E mi interessava poter stabilire un rapporto con il mondo doloroso e poco conosciuto dei detenuti giovanissimi”. La regista, ad Airola, porta con sé Domenica, girato nel 2001. Una scelta ragionata e precisa “È un film ambientato a Napoli, protagonista una bambina che mai aveva fatto l’attrice. È la storia di una dodicenne orfana, chiamata a riconoscere il cadavere del suo violentatore. Mi avevano avvertita che la proiezione non sarebbe stata semplice. In genere, dopo un po’, i partecipanti si annoiavano, uscivano a fumare, cominciavano a chiacchierare. Per cui ero pronta a far vedere un paio di minuti, interrompere e parlare con loro. Così ho fatto. E invece, dalla platea, ‘Veramente vorremo vedere il film. Faccene vedere un altro po’. Questo è successo di quarto d’ora in quarto d’ora, Li guardavo, chiedevo ‘Interrompo?’, e loro ‘No’. Così siamo arrivati alla fine. Il dibattito, permettimi di usare un termine assolutamente fuori moda, è durato un paio d’ore. I ragazzi erano attirati dal fatto che il film fosse girato a Napoli, ma soprattutto, credo, si erano in parte identificati con la protagonista della storia”. Negli interlocutori, la regista scopre una grande vitalità, non trova alcuna traccia di apatia e di pigrizia. Le domandano come si fa il cinema e dei suoi mestieri, come ha trovato l’attrice e scelto i luoghi dove girare. Avverte forte il coinvolgimento. Domenica ha spinto qualcuno a raccontare qualcosa di sé? “Lo hanno fatto, ma tra i denti. Per esempio mi chiedevano se, dopo il film, la bambina era riuscita ad avere successo, quanto e se il film le avesse cambiato la vita. Uno di loro è venuto da me e mi ha detto ‘Io temo che questo film non sia andato tanto bene. A chi glie ne frega di una che è orfana e vive per la strada?’ E un altro, ‘In fondo anche noi siamo così’”. Da Partigiani a Prima che la notte. E in mezzo Uomini e lupi, Velocità massima, Il passato è una terra straniera, Diaz... Non c’è documentario corto, film, in cui, nel corso di vent’anni di lavoro, Daniele Vicari sia venuto meno all’impegno di affrontare piccole e grandi storie, sempre e comunque scomode. Vicari ha oltrepassato il portone del carcere di Airola guardando al progetto di Fuori le ali nel ruolo di direttore artistico della Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volonté. Cinema e carcere. È uno stimolo che secondo lei ha funzionato? “Assolutamente. Ho avuto con il carcere un lungo rapporto, poco più che ventenne facevo attività a Rebibbia e il servizio civile l’ho svolto in una struttura che si occupava di detenuti. Nello specifico, vedere un film e poterne discutere, fino alla possibilità di praticare il cinema, fa sentire questa forma d’arte molto vicina a tutti. Quando la si porta in un carcere, le persone improvvisamente si ‘accendono’, scoprendo ad esempio che si può imparare a fare un’inquadratura, e nell’inquadratura succedono delle cose che hai sempre visto ma non ti sei mai chiesto in che modo si arrivi a realizzarle. Ad Airola ho proiettato il backstage di Il passato è una terra straniera, in cui è molto ben visibile la macchina cinema, sono ben chiari i ruoli e le funzioni delle persone che ruotano intorno a una scena. È stato un modo per rompere la barriera nei confronti miei e di Gherardo Gozzi, il mio direttore della fotografia. Nelle sequenze del backstage, i ragazzi hanno visto che un film è qualcosa di pratico”. In mancanza di una macchina da presa, Vicari costruisce con un pezzo di cartone un inquadratore, e insieme ai ragazzi gioca a costruire l’immagine, che non è solo guardare un soggetto, ma anche muoversi fisicamente, avvicinandosi e allontanandosi. “Aver fatto cadere un piccolo mistero ha dato loro uno strumento per comprendere che inquadrare è una scelta analoga a quella di parlare; ha sciolto il rapporto grazie all’aspetto ludico, capace di azzerare le distanze. Il nostro obbiettivo come Fuori le ali è di sperimentarci nell’insegnamento all’interno di questi luoghi reclusivi, e in futuro di riuscire a sviluppare programmi specifici. Il fatto che qui il cinema possa venir concepito in quanto lavoro è un passaggio fondamentale. Il cinema non ti riguarda solo in quanto spettatore, ti riguarda perché domani potrebbe essere il tuo lavoro”. Intervista al magistrato Giacomo Ebner Giacomo Ebner, il magistrato addetto al Dipartimento di giustizia minorile di comunità, che su incarico del Ministero coordina il progetto, chiama quelli di Fuori le ali ‘i sognatori’. Da una parte, dice, ci sono loro, con la volontà di fare, le idee, l’entusiasmo e, appunto, i sogni. Dall’altra, la dimensione carceraria e tutti i problemi, gli ostacoli burocratici, i limiti che pone. “A Roma si era partiti con tante iniziative, tanti film e il coinvolgimento di tantissimi ragazzi, ma è stato necessario ridurre tempi e numeri. I minori, in carcere ci stanno poco, due o tre mesi al massimo, in attesa di trovare collocazioni alternative. I detenuti dai diciotto ai venticinque anni, che hanno commesso reati quando erano ancora minori, scontano periodi più lunghi. E dunque per loro è stato possibile mettere a punto un programma di maggior respiro”. L’idea di Fuori le ali, lei l’ha conosciuta stando dal lato opposto della scrivania, facendola sua ben oltre i compiti che ufficialmente le sarebbero spettati “Mi sono sentito subito coinvolto, quindi ho messo a disposizione le mie competenze per risolvere i problemi e dare un contributo di carattere tecnico, visto che faccio educazione alla legalità”. In precedenza, ha definito sognatori gli artisti e i tecnici di Fuori le ali. Il rapper Lucariello, che lavora con il carcere di Airola usando come tramite la musica, sostiene che ogni progetto, lì e in realtà analoghe, è un granello di sabbia nel deserto. Anche Fuori le ali è un semplice granello? “Premetto che io sono sempre stato dalla parte dei sognatori. Tanto più adesso che ho raggiunto una certa età. Se a cinquanta, sessant’anni, non si ha più voglia di cambiare il mondo almeno un po’, inevitabilmente si finisce con l’impoverirsi. Aggiungo, usando a mia volta una metafora, quella della goccia nell’Oceano: le gocce cominciano a essere tante e quindi ad avere una portata maggiore di quella singola. Nel carcere, poi, la goccia è pioggia, perché se fuori c’è molto spazio e poco tempo, ‘dentro’ c’è poco spazio e molto tempo. Allora ciò che entra, che si riesce a fare, amplifica tutto, specie in situazioni che hanno risvolti concreti nel sociale, nel futuro dei ragazzi”. Per quanto coinvolto, lei rimane un osservatore in qualche modo esterno. Come legge, allora, l’atteggiamento dei giovani di fronte a un’iniziativa, sì di carattere culturale, ma finalizzata ancor di più a prospettare la possibilità di fare del cinema un mestiere? “Sono iniziative che stimolano la curiosità, in quanto completamente estranee al vissuto di coloro cui vengono proposte. Mostrare il cinema nel suo aspetto onirico, e poi andare dietro le quinte, raccontare la costruzione di un film, crea un coinvolgimento notevole. Posso affermare di aver sentito circolare una buona dose di passione”. In ultimo: viene il dubbio che la distanza tra chi entra in carcere portando anche il migliore dei progetti e chi ci vive, rimanga incolmabile “Il rischio c’è, esiste sempre, nell’incontro tra due mondi opposti. Di sicuro, chi va lì ha tanto da imparare quanto chi lo accoglie. I passi in avanti devono essere reciproci. Ma i ragazzi hanno voglia di cose belle, e se capiscono che a proporle sono persone di cui si possono fidare, le distanze riescono ad assottigliarsi. È questo che bisogna fare”. Abusi sui minori tra le pareti di casa. La più grave emergenza sociale di Diana Cavalcoli Corriere della Sera, 30 giugno 2018 Sono 6 milioni i bambini maltrattati in Italia in base al rapporto Cesvi ma il fenomeno è sottostimato secondo l’Oms: per ogni caso denunciato, nove non vengono alla luce. La cifra da tenere a mente è 6 milioni. Sono i bambini e gli adulti maltrattati in Italia secondo l’”Indice regionale sul maltrattamento all’infanzia”. Un report, presentato da Cesvi che affronta i pericoli a cui sono esposti i minori con un’attenzione particolare alla dimensione familiare e territoriale. Il primo dato che emerge è legato alla diffusione degli abusi. “È tra le mura domestiche - denuncia l’organizzazione umanitaria - che si verificano più spesso le violenze. A livello globale oltre il 60% degli under 14 ha vissuto episodi critici in casa”. Il fenomeno però è sottostimato. L’Oms ha calcolato che per ogni caso denunciato ce ne sono almeno nove che non vengono alla luce. E vale anche nel nostro Paese dove tra i fattori di rischio troviamo la povertà, il basso livello d’istruzione dei genitori e il consumo di alcol e droghe. Ma influisce anche l’assenza di servizi assistenziali dedicati alla famiglia. “Nel quadro delle emergenze sociali - spiega Daniela Bernacchi, Ceo & General manager Cesvi - il maltrattamento dei bambini è il fenomeno forse peggiore, non solo per la sproporzione di forze tra il maltrattante e il maltrattato, ma anche per le conseguenze nel medio-lungo termine”. Il circolo vizioso - Chi cresce vittima di abusi ha infatti maggiori probabilità di diventare violento. “Gli ex bambini maltrattati sono adulti con un pesante fardello di dolore e spesso scaricano sui figli il proprio disagio. Si viene a generare così un circuito vizioso intergenerazionale, che solo un intervento esterno, ad esempio quello dei servizi pubblici, può interrompere”. In Italia in particolare, il 47,1% dei bambini maltrattati è vittima di grave trascuratezza materiale e affettiva, il 19,4% ha assistito a episodi di violenza, il 13,7% ha sofferto di abusi psicologici, il 6,9% ha subito un’aggressione e il 4,2% abusi sessuali. “Gli effetti della trascuratezza - spiegano nel report - possono tradursi in un ritardo nel raggiungimento delle principali tappe evolutive. Si va dai disturbi dell’apprendimento, fino alla totale chiusura e sfiducia verso il prossimo”. Mentre per quando riguarda le violenze fisiche, i bimbi possono arrivare a presentare i sintomi della sindrome post-traumatica e della depressione. In questo contesto delicato, l’indagine Cesvi ha il merito di non fermarsi ai dati nazionali ma cerca di tracciare le differenze regionali, tenendo conto di diversi elementi tra cui l’offerta di servizi sul territorio. Un fattore che può essere fondamentale per ridurre gli abusi o prevenirli. Nello specifico l’analisi passa in rassegna le soluzioni messe in campo dai servizi sociali dei nostri 8 mila comuni, che seguono ogni anno quasi 100 mila bambini. Per stilare la classifica sono stati scandagliati diversi programmi che sostengono il benessere dei bambini e della famiglia. Ne sono un esempio i contributi per l’inserimento lavorativo e per gli asili nido. L’Indice mette così in evidenza la persistenza di forti disparità tra il Nord e il Sud d’Italia. Maglia nera per la Campania che si colloca in ultima posizione, al 20esimo posto sia per contesto che per servizi. Seguono Calabria, Sicilia, Puglia, Basilicata e Molise. Male anche l’Abruzzo e il Lazio. Disparità tra regioni - Tra le regioni dove si registra il miglior livello di benessere complessivo dei bambini, spicca l’Emilia-Romagna che si distingue per i servizi di cura e per il lavoro. Dietro in classifica Veneto e Friuli-Venezia Giulia. Tra le realtà “stabili” si collocano il Trentino-Alto Adige e la Lombardia che, a fronte di criticità ambientali basse, rispondono con una gamma di servizi al di sotto della media nazionale. “Considerate le differenze territoriali - chiosa Bernacchi - è auspicabile il varo di politiche di prevenzione in un confronto Stato-Regioni dedicato al maltrattamento dei bambini”. Oltre alla creazione di un sistema informativo di monitoraggio e di rilevazione puntuale dei dati (ancora assente in Italia). “Attraverso l’Indice - prosegue - vogliamo riportare l’attenzione sulla necessità di dare vita a una Legge Quadro Nazionale creando strumenti normativi e amministrativi per la costruzione di politiche intergenerazionali”. Un modo per far valere la famosa Convenzione dell’Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. In quel testo il 20 novembre 1989 - vale la pena ricordarlo - si scriveva: “Ogni bambino ha diritto alla vita, al nome, a una famiglia, alla sua identità”. Migranti. Quei cento morti in mare sono loro la vera emergenza di Piero Sansonetti Il Dubbio, 30 giugno 2018 L’intero establishment europeo discute e si accalora su come fermare le Ong e renderle inoffensive. Cioè sul modo nel quale fermare i soccorsi. Io mi chiedo: se fossero stati italiani? Se ieri in Italia - poniamo - in un attentato terroristico, o in un incidente, o in un incendio, o nel crollo di un ponte, fossero morte 100 persone, molti bambini, madri, padri, se fosse avvenuta una simile immane tragedia cosa avremmo fatto, detto, scritto? La notizia che cento persone (di nazionalità africana) sono affogate nel Mediterraneo invece non ha prodotto nessun effetto. Molti siti on line, anche di grandi giornali, non l’avevano tra le prime notizie ieri pomeriggio. Il governo italiano non si è mosso, non ha operato, né dichiarato, non si è difeso, né ha polemizzato. Silenzio. Mi pare che anche i partiti dell’opposizione siano rimasti tranquilli al loro posto. Io non voglio accusare nessuno. Non sopporto il giochino delle responsabilità morali: è un gioco vigliacco. Vorrei solo ragionare. Cercando di non considerare le cifre come qualcosa di vago e poco interessante e invece le “percezioni” come il Vangelo. Proviamo a ragionare così, per ipotesi. Se in Italia ieri fosse avvenuta una strage con 100 morti, tutti - dico: tutti - avrebbero avuto la percezione di trovarsi di fronte a un’emergenza che supera tutte le altre emergenze. Se per esempio quei morti fossero stati causati dal terrorismo, giustamente il governo si sarebbe concentrato sull’emergenza- terrorismo, avrebbe studiato misure di prevenzione, di repressione, di indagine. Giusto? Nessuno avrebbe più immaginato l’emergenza- sbarchi come una priorità. Ecco, io dico semplicemente questo. Se ogni anno nel Mediterraneo muoiono due o tremila persone (forse di più), molti bambini, molte donne incinta, e altri muoiono nei campi di concentramento in Libia, o torturati dai negrieri lungo il percorso di fuga dai loro poverissimi paesi africani, è ragionevole o no dire che esiste una emergenza migranti, e che l’emergenza sta nel salvare quante più vite possibile? Io non credo che nessuna persona, e nessun ministro, o leader politico, o premier o vicepremier, posto di fronte a una domanda di questo genere possa rispondere di no. E’ evidentissimo che oggi l’emergenza è il salvataggio delle vite umane. Non esiste nessuna proporzionalità tra cento morti più del previsto e trecento sbarchi più del previsto. L’emergenza sono i morti, non gli sbarchi. La mia non è una tesi politica, è logica pura, adattata ai principi elementari della civiltà umana. E invece, clamorosamente, succede che l’intera classe dirigente europea - cioè del continente più avanzato e civile del mondo - si arrovelli su come fermare gli sbarchi o su come distribuire alcune migliaia di profughi (in un continente, appunto di circa mezzo miliardo di esseri umani) e non si occupi neppure per sbaglio dell’emergenza stragi. Di più. L’intero establishment europeo discute e si accalora su come fermare le Ong e renderle inoffensive. Cioè sul modo nel quale fermare i soccorsi. Sarebbe come se essendo scoppiato un incendio che minaccia di bruciare un villaggio, le autorità ordinassero il blocco della ambulanze. Non trovo che ci sia niente di politico in questa discussione. Non ha nessun senso dividersi tra destra e sinistra (come ha scritto saggiamente su queste pagine Renata Polverini, deputata di Forza Italia). E’ una follia immaginare una sinistra che vuole salvare le vite umane e una destra governista che le vuole annientare, o viceversa. Allora, però, per favore, torniamo alla realtà. In primo luogo noi giornalisti, che siamo i maggiori creatori di percezioni false. Talvolta per sciatteria, talvolta per ragioni di mercato. Gli sbarchi in Italia sono dieci volte meno di tre anni fa. Non c’è più una emergenza sbarchi. I morti invece sono in aumento, e anche se non fossero in aumento sono comunque alcune migliaia, una quantità spaventosa. Gli immigrati clandestini in Italia sono la metà di dieci anni fa. A cosa serve la campagna anti-sbarchi? E come si fa a non capire che la conseguenza di questa campagna è l’aumento dei morti? E come si può non considerare la necessità di ridurre i morti come una necessità assoluta che supera tutte le altre possibili emergenze? Caro Salvini, la propaganda politica io - glielo assicuro - la considero una attività importantissima, e decisiva per il funzionamento della democrazia. Purché non diventi un incitamento alla perdita di ogni influenza dell’etica in politica. Vede, ministro, dire a un popolo di disperati, poverissimi, terrorizzati dal futuro, “tu l’Italia non la vedrai se non in cartolina”, come lei ha fatto, non è più propaganda politica, è invito al cinismo di massa, all’arroganza, alla volgarità. Può portare qualche voto alle elezioni europee, forse, ma il prezzo, in termini di civiltà del nostro stesso popolo, sarà altissimo. Che populismo è questo? Migranti. La strage dei bimbi nel Mediterraneo rimasto senza Ong di Fabio Albanese La Stampa, 30 giugno 2018 Scomparsi al largo della Libia almeno 100 profughi. Le navi dei volontari bloccate nei porti europei. I soccorritori della Guardia costiera libica mentre portano a terra il corpo senza vita di uno dei tre neonati recuperati a largo di Tripoli. Tra i cento dispersi ci sono almeno altri dieci bambini di età compresa tra i quattro e i dodici anni. Soltanto sedici i naufraghi salvati. Si stima che a bordo dell’imbarcazione affondata ci fossero 125 persone. A Bruxelles i 28 stavano ancora discutendo di migranti quando, nella notte tra giovedì e venerdì, un vecchio barcone in legno lasciava Gasr Garabulli, a Est di Tripoli, per cominciare la sua traversata del Mediterraneo centrale, ormai svuotato di navi Ong. Ha potuto fare solo poche miglia, prima che il motore si incendiasse e a bordo i circa 120 migranti fossero presi dal panico facendo rovesciare l’imbarcazione e trascinando in fondo al mare “almeno cento persone”, come dice la Guardia costiera libica. Tra loro bambini, ce n’erano una decina a bordo; alcuni erano neonati, altri avevano tra 4 e 12 anni. Di tre di loro, i libici hanno potuto recuperare i corpi: “Hanno tutti meno di un anno, due sono marocchini, un altro è egiziano”, hanno detto in un comunicato. Degli altri non si sa nulla: ufficialmente sono dispersi, come gli altri occupanti del barcone. Secondo l’Oim, solo quest’anno ci sono stati “quasi mille morti”. Ci sono 16 superstiti, tutti uomini, giovani rimasti in acqua per oltre un’ora prima che qualcuno li salvasse. Tra loro, un giovane yemenita che ha raccontato ai volontari dell’Unhcr che “a bordo eravamo in 125”. Dei cento dispersi, “70 erano uomini e 30 donne”, dice l’Unhcr. L’allarme è scattato solo a giorno fatto, l’intervento subito trasferito alla Guardia costiera libica (che ieri ha pure recuperato altri 345 migranti su 3 gommoni), giunta però troppo tardi. In questo contesto si inserisce la vicenda politica che riguarda le Ong, ormai ridotte quasi all’impotenza: 3 navi di altrettante Ong tedesche, la Lifeline, la Sea Watch 3 e la Seefuchs, sono ferme nel porto della Valletta. Malta non consente loro di ripartire. La Lifeline per via dell’inchiesta, dopo lo sbarco di 3 giorni fa; le altre due, che erano a Malta per rifornimenti, perché le autorità della Valletta hanno bloccato accesso e uscita dai porti alle navi Ong; ieri la Sea Watch è stata pure sottoposta a controlli. Per lo stesso motivo, la Aquarius di Sos Mediterranee e Msf ha dovuto fare rotta per la Francia ed è arrivata ieri a Marsiglia. Nel Mediterraneo centrale restano solo due imbarcazioni, entrambe della spagnola ProActiva Open Arms: la Open Arms, tornata in mare in questi giorni dopo lo stop per il sequestro a Pozzallo e lavori in Spagna, e il veliero Astral; quest’ultimo ha a bordo un gruppo di 4 eurodeputati e proprio ieri ha chiesto di poter entrare in un porto italiano, ricevendo il no del ministro dei Trasporti Danilo Toninelli “in ragione della nota formale che mi giunge dal ministero dell’Interno e che adduce motivi di ordine pubblico”, anche se poi lo stesso Toninelli ha rettificato: “Mi riferivo alla Open Arms, non all’Astral”. La Open Arms era distante 80 miglia dal luogo del naufragio ma si è offerta di intervenire, anche se è a corto di carburante proprio perché non può rifornirsi nei porti italiani e maltesi (“Le Ong vedranno l’Italia solo in cartolina”, ha detto il ministro Salvini); la nostra Guardia costiera ha risposto che non era necessario perché, come ha raccontato la Ong, l’intervento “era già sotto controllo della Guardia costiera libica”. Migranti. Le decisioni del Consiglio Ue, ecco perché a Bruxelles perdono tutti di Federico Fubini Corriere della Sera, 30 giugno 2018 Non un solo Paese si è detto disposto ad aprire i “centri controllati” o ad aprire i porti insieme all’Italia. Ormai non passa settimana senza che sulla Rete compaia un altro video di un nuovo genere che si produce in Libia. Di solito durano un trentina di secondi, sono girati con uno smartphone e mostrano un migrante che urla sotto tortura. Queste clip servono ai sequestratori per spedirle via WhatsApp alle famiglie dei migranti presi prigionieri ed esigere un riscatto. Esposte ogni giorno a questi pericoli, attualmente in Libia si stima vivano un milione di persone rimaste intrappolate nel viaggio dall’Africa verso l’Europa. Aspettano il prossimo passaggio. Sono espressione di un miliardo di subsahariani alle loro spalle, alcuni in fuga dalla guerra o dalla dittatura, quasi tutti con un reddito in media undici volte inferiore a quello comune di un europeo. Ieri un’altra nave che ne trasportava un centinaio è affondata nel Mediterraneo: aveva tre bambini a bordo, non se ne sa più nulla. Dall’altra parte ci siamo noi, naturalmente. Ci sono i leader europei che ieri sono emersi dal loro vertice con un documento in 12 punti sulla migrazione che è parso disintegrarsi al contatto con l’aria al di fuori delle stanze di Bruxelles. Ciò che non è scritto in quel testo resta forse l’unico punto sul quale tutti sono veramente d’accordo: nessun governo democratico può resistere a lungo, quando si diffonde nell’opinione pubblica la percezione di aver perso il controllo delle frontiere. E nessun politico può assistere senza reagire all’erosione, fra gli elettori, di quel minimo senso di sicurezza che viene dal sapere che i confini possono essere gestiti ordinatamente. La spinta - Provate un po’ a conciliare la spinta continua che viene dall’Africa con la fragilità delle democrazie e dei sistemi di cooperazione e competizione in Europa. Ne viene fuori una sola certezza: chiunque proponga soluzioni semplici a problemi così complessi - dall’”accogliamoli tutti” al “fermiamoli tutti e rimandiamoli indietro” - vi sta ingannando di sicuro. Non esistono situazioni semplici. Ancora meno visto il modo nel quale funzionano i leader che l’altra notte erano chiusi in quella stanza a Bruxelles. Sempre più spesso il loro orizzonte non è la ricerca di soluzioni di lungo respiro a un problema comune: è il tempo di un tweet, o di un post di Facebook o i tatticismi che servono per sopravvivere a un avversario interno com’è toccato in questi giorni ad Angela Merkel in Germania. È del tutto evidente che a lei, come al francese Emmanuel Macron, come al vicepremier Matteo Salvini risolvere la grande questione africana per l’Europa interessa molto meno che gonfiarsi nei sondaggi, anche a costo di fare lo sgambetto leader del Paese vicino e esporre il proprio Paese a ritorsioni. Il giudizio - È contro questo stato dell’Europa che va giudicato l’”accordo” uscito ieri. Tutti vi ottengono qualcosa, in apparenza. L’Italia ha un impegno a rafforzare la Guardia costiera libica che fermi e riporti indietro i barconi; un invito alle organizzazioni non governative a “non ostruire” i libici nella loro area (mai resa nota) di “ricerca-e-salvataggio”; e l’idea, molto astratta per ora, di centri per migranti costituiti in Paesi terzi come la Tunisia. La Francia ottiene che Macron si erga a mediatore di un accordo nel quale spicca l’idea di “centri controllati” dove chi sbarca resta chiuso e chiede asilo: è l’idea, cara al leader francese, che l’Italia debba farsi carico di questi centri alla frontiera praticamente per tutti. Infine Merkel ottiene vaghe parole sugli irregolari da rimandare in Italia, che forse le permetteranno di restare cancelliera ancora un po’. La sensazione - Difficile però scacciare la sensazione che sulla sostanza del problema migratorio non cambi niente, se non in peggio. Non un solo Paese si è detto disposto ad aprire questi “centri controllati” o ad aprire i porti insieme all’Italia. Non è chiaro come rimpatriare chi si vedrà negare l’asilo. Né come possano bastare i fondi messi a disposizione dell’Africa, per dare lavoro ai milioni di giovani che vogliono fuggire di lì. Complica poi il bilancio per l’Italia il fatto che, da oggi, molti governi anche importanti potranno rifiutarsi di accogliere le proprie quote di richiedenti asilo da ricollocare, se noi italiani non avremo costruito quei famosi centri chiusi. Ieri l’Italia non ha vinto. L’Europa nemmeno. Migranti. Quote, rimpatri e centri, così Parigi e Berlino hanno spiazzato Roma di Marco Bresolin La Stampa, 30 giugno 2018 L’intesa al vertice Ue è stata trovata sul concetto di volontarietà ma nessuno dei Paesi firmatari accoglierà i profughi arrivati in Italia. Un accordo scritto sulla sabbia. Sventolato come un successo dal premier Giuseppe Conte alle cinque del mattino, dopo una notte di trattative estenuanti. Ma che con il passare delle ore si sgretola tra le puntualizzazioni dei vari capi di Stato e di governo. Tutti cantano vittoria, ognuno sostiene di aver portato a casa il risultato. E questo perché i punti-chiave dell’intesa sull’immigrazione ruotano attorno al concetto di “volontarietà”. Uno stratagemma per uscire dall’impasse che vuol dire tutto e niente, ma che serve a salvare dal fallimento un summit carico di attese. E così, pur in assenza di risultati concreti, i leader riescono a non perdere la faccia. Mentre, dalla parte opposta del Mediterraneo, cento esseri umani perdono la vita. L’Italia è stata indubbiamente la vera protagonista di questo Consiglio europeo estivo. L’esordiente Conte si è subito fatto avanti con prepotenza, giocando alla prima occasione il “jolly”. La minaccia del veto ha costretto i 28 a un negoziato a oltranza che si è concluso soltanto alle 4.30 del mattino, con un risultato che “ci soddisfa all’80%”, dice Conte. Eppure anche Viktor Orban considera l’esito del summit “una grande vittoria per i Paesi di Visegrad”, ma per le ragioni opposte a quelle dell’Italia. Chi ha ragione? Per trovare una risposta bisogna tornare alla notte tra giovedì e venerdì, con i 28 leader inchiodati sulla sedia, ostaggio del veto italiano. Un atteggiamento (tentato dal premier anche ieri durante l’Eurosummit, ma bloccato sul nascere e senza risultati concreti) che ha creato frizioni con diversi leader, Macron in primis. Poi però proprio il francese ha preso in mano la situazione e ha iniziato a lavorare con il collega, mettendo sul tavolo la proposta franco-spagnola di creare “centri sorvegliati” all’interno dell’Ue: punti di raccolta in cui distinguere gli aventi diritto all’asilo dagli “irregolari”, per poi redistribuire tra gli Stati Ue i primi ed espellere gli altri. Roma e Parigi hanno trovato un compromesso, ma poi è iniziata la parte più difficile della trattativa. Quella con gli altri partner. In particolare con Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. La distanza sembrava incolmabile e Donald Tusk ha proposto di fermarsi e riprendere i lavori al mattino. Angela Merkel è andata su tutte le furie: “Finché non c’è un’intesa nessuno esce da qui”. I quattro di Visegrad si sono stretti attorno all’emendamento-Orban: “Accettiamo solo se scriviamo chiaramente che tutto è su base volontaria. E bisogna specificare che la riforma di Dublino va approvata all’unanimità, senza dead-line” (un modo per non farla mai). Accontentati su tutti i fronti. Compromesso al ribasso? Per Merkel l’importante era evitare il peggio. L’irrituale abbraccio della Cancelliera con un membro del suo staff all’alba rappresenta bene il concetto di “pericolo scampato”. Nelle conclusioni restano quindi scritti i principali punti dell’intesa, che ha visto Conte dare il via libera al rinnovo delle sanzioni alla Russia. Nel documento c’è il sostegno all’Italia in Libia, il progetto delle piattaforme di sbarco nei Paesi terzi (che però viene respinto dagli stessi), i 500 milioni per il fondo fiduciario per l’Africa e un richiamo alle Ong. Ma la sostanza è tutta sui nuovi centri di sbarco, “che però non cambiano in alcun modo le regole di Dublino - dice il premier belga Charles Michel -. Rimane la responsabilità per i Paesi di primo ingresso”. Macron ha ribadito che “le regole del diritto internazionale e di soccorso in mare sono chiare: è il Paese più vicino che deve essere scelto come punto di approdo”. Una versione che fa a pugni con l’esultanza di Conte, convinto di aver cristallizzato il principio della “responsabilità condivisa”. A giochi fatti, Macron assicura che la Francia non ospiterà quei centri, la Spagna neppure e quindi il cerino resta nelle mani di Conte. Che a quel punto si sfila: “L’Italia non ha dato la sua disponibilità”. Nessuna intesa nemmeno con la Merkel sui movimenti secondari. La Cancelliera incassa però l’accordo con Grecia e Spagna e fa capire che un patto con Roma è indispensabile per salvare Schengen e per accettare, su base volontaria, i richiedenti asilo sbarcati in Italia. Che si ritrova sempre più isolata, geograficamente e politicamente. Msf: “spostano le frontiere a sud e ci colpiscono in quanto testimoni scomodi” di Adriana Pollice Il Manifesto, 30 giugno 2018 Claudia Lodesani, presidente di Medici Senza Frontiere Italia: “Siamo dei testimoni scomodi e non dobbiamo documentare cosa avviene nell’area delle operazioni. Msf salva vite in molte parti del mondo, abbiamo problemi solo in Europa”. Claudia Lodesani, presidente di Medici senza frontiere Italia, in merito alle risoluzioni adottate dal Consiglio d’Europa durante il vertice che si è concluso ieri. “Msf salva vite in molte parti del mondo, abbiamo problemi solo in Europa. Siamo accusati di favorire i trafficanti eppure non c’è lo stesso accanimento contro i trafficanti veri” “I governi europei devono mettere fine alle politiche che costringono le persone a rimanere intrappolate in Libia o a morire in mare” è il commento di Claudia Lodesani, presidente di Medici senza frontiere Italia, in merito alle risoluzioni adottate dal Consiglio d’Europa durante il vertice che si è concluso ieri. Come valuta il compromesso raggiunto dai 28 stati? Sono due i punti rilevanti: spostare le frontiere europee a sud della Libia per tenere i migranti in Africa. Ma i flussi non si arrestano perché così viene deciso a Bruxelles. L’altro punto è tenere le Ong al di fuori della zona di ricerca e soccorso della Libia. Siamo dei testimoni scomodi e non dobbiamo documentare cosa avviene nell’area delle operazioni. Msf salva vite in molte parti del mondo, abbiamo problemi solo in Europa. Siamo accusati di favorire i trafficanti eppure non c’è lo stesso accanimento contro i trafficanti veri. Se ci spingiamo a ridosso delle acque libiche è perché i naufragi avvengono nelle prime 24 ore dalla partenza. È ancora possibile per le Ong operare nel Mediterraneo? Msf fornisce assistenza dal 2002. I nostri team medici, in accordo con il ministero, erano a terra, a Lampedusa e Pozzallo. Poi nel 2014 è iniziato un flusso altissimo di migranti dalla Libia, a occuparsene era la missione Mare nostrum. Nel 2015 venne sospesa e in dieci giorni ci furono 1.200 morti in mare. Sono numeri più alti di quelli che si registrano in zone di guerra. Così decidemmo di fare soccorso nel Mediterraneo. L’anno scorso il ministro Minniti siglò l’accordo con la Libia e le Ong diventarono scomode. Da allora i flussi sono diminuiti dell’80%, va però anche detto che sono drasticamente diminuite le navi delle Ong e sono aumentati i morti in mare. La settimana scorsa sono stati 220 gli annegati. Ieri in 100 sono stati inghiottiti dalle acque a largo della Libia. Se ne occuperà la Guardia costiera libica. La Marina di Tripoli non è attrezzata per sostenere il compito da sola. Abbiamo sempre operato in accordo con il Centro di coordinamento di Roma fino a che il clima politico non è cambiato. Le ong hanno anche una funzione di controllo e denuncia su quanto accade ai migranti, non dimentichiamo che la Libia non ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra. E comunque le nostre operazioni sono legali e rientrano nelle norme internazionali. Salvini ha annunciato che alle Ong sarà vietato sbarcare in Italia anche per i rifornimenti. Vi accusa di venire finanziati da Soros per cancellare le identità nazionali. Sono provocazioni faziose e poco serie. Sul sito internet c’è il nostro bilancio, è tutto alla luce del sole. Questi attacchi continui posso far calare le donazioni (e forse è proprio questo lo scopo) ma possono anche produrre l’effetto opposto. La gente è scesa in piazza per chiedere di aprire i porti, si sono fatti sentire i sindaci, ci arrivano molti messaggi di sostegno. Chiudere i porti per i rifornimenti è l’ennesimo atto di questa guerra alle ong. All’Aquarius di Sos Méditerranée (su cui opera un team di Msf) è stato negato l’approdo a Malta, all’Italia non è stato neppure chiesto, hanno preferito fare rotta su Marsiglia, dove la Ong ha la sede. Giorni e denaro sprecato. Ne stiamo discutendo per trovare contromisure ma l’intenzione è ritornare a operare perché, fino a che la gente rischia la vita, non possiamo non farlo. I naufraghi riportati in Libia in che condizioni vivono? Nell’ultimo mese Msf è stata in quattro centri di detenzione, le torture e i maltrattamenti sono descritti nei referti medici. È indegno sminuire le sofferenze di queste persone, le cui condizioni sono documentate dall’Onu. Msf ha un team di psicologi agli sbarchi per i sopravvissuti ai naufragi: bambini che hanno visto morire i genitori, adulti che hanno perso i familiari. Quasi tutti soffrono per le conseguenze delle torture, traumi psicologici o fisici come gli effetti della falaka: la pianta del piede viene colpita ripetutamente fino a ledere i nervi, col tempo si ha difficoltà a camminare perché alle gambe arrivano scosse elettriche. L’Europa dovrebbe farsi carico della cura e del reinserimento di queste persone, soprattutto farle arrivare attraverso vie legali, che oggi non esistono più. Turchia. Solidali con chi si è sempre schierata con gli ultimi di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 30 giugno 2018 Lettera a Cristina Cattafesta, presidente del Cisda e detenuta in Turchia. E mentre penso a te dietro quelle fredde mura (anche se fuori il clima sarà rovente) mi viene il dubbio che invece di pensare solo a te stessa ti stia preoccupando anche per tutti quei profughi che sono rinchiusi nel Dipartimento immigrazione in attesa di espulsione. Sono molti e al loro rientro li attende l’inferno che volevano lasciarsi alle spalle. Come ignorarlo? Torna presto Cristina perché c’è molto da fare e sicuramente l’averti detenuta ingiustamente non avrà diminuito la tua voglia di giustizia anche per gli altri e le altre. Cara Cristina, spero tu stia bene, e sono rassicurata da quanto ha riferito l’avvocato del consolato italiano, che ti ha fatto visita, alla tua famiglia, ma sappiamo che le ferite più profonde, in questi casi, non sono quelle fisiche. Sii forte. Sono passati cinque giorni da quando ti hanno trasferita al Dipartimento immigrazione di Gaziantep per il rimpatrio e ancora sei trattenuta senza nessun motivo. Dopo che è venuta meno l’assurda accusa di propaganda terroristica (per una foto in cui compariva anche una bandiera del Pkk trovata sul profilo Facebook) ed è stata decisa la tua espulsione. Per quanto anche questa sia da considerare ingiusta: tu con la delegazione del Cisda (Comitato italiano di solidarietà con le donne afghane), come molti altri osservatori, volevate solo contribuire allo svolgimento democratico del voto in Turchia, anche per i curdi. E invece il 24 giugno, durante un controllo della polizia nella provincia di Batman, sei stata fermata. Rimandavo di giorno in giorno il desiderio di scriverti perché speravo, e spero ancora, nella tua imminente liberazione. È insopportabile l’idea di saperti rinchiusa, senza comunicazioni con l’esterno, senza nessuna accusa. Il trattamento che ti è stato riservato ha provocato ovunque reazioni indignate e l’espressione di tanta solidarietà che sono sicura ti sarà giunta anche dietro le sbarre che ti privano della libertà. D’altra parte non poteva che essere così, come non essere solidali con te che ti sei sempre schierata con gli ultimi, con chi soffre ingiustizie, discriminazioni e violenze, dall’Algeria all’Afghanistan fino alla Turchia, senza dimenticare il nostro paese. Non ti sei mai risparmiata, sempre generosa e disponibile, con tutti, ma soprattutto con le donne. Di fronte alle emergenze ci sei sempre stata, si può sempre contare su di te. Eppure viviamo momenti bui dove sotto accusa sono coloro che si impegnano nel mondo della solidarietà, che salvano i profughi in mare, che aiutano chi fugge dalle guerre e dalla fame, che si battono per i diritti umani. Sembra che il mondo si sia capovolto: i diritti umani sono diventati blasfemi con l’incalzare della barbarie. E mentre penso a te dietro quelle fredde mura (anche se fuori il clima sarà rovente) mi viene il dubbio che invece di pensare solo a te stessa ti stia preoccupando anche per tutti quei profughi che sono rinchiusi nel Dipartimento immigrazione in attesa di espulsione. Sono molti e al loro rientro li attende l’inferno che volevano lasciarsi alle spalle. Come ignorarlo? Torna presto Cristina perché c’è molto da fare e sicuramente l’averti detenuta ingiustamente non avrà diminuito la tua voglia di giustizia anche per gli altri e le altre. In questo momento possiamo solo contare sull’impegno delle autorità italiane ed europee e su tutte le istituzioni perché facciano il possibile per farti rientrare al più presto in Italia. Stati Uniti. La Giornata d’azione per riunire e scarcerare le famiglie richiedenti asilo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 30 giugno 2018 In occasione della Giornata mondiale d’azione che si svolge oggi in diverse città degli Usa e in varie capitali del mondo, Amnesty International ha chiesto alle autorità statunitensi di porre immediata fine alla separazione e alla detenzione dei bambini e degli adulti che si presentano alla frontiera tra Messico e Usa per chiedere asilo, nonché di riunire immediatamente le famiglie tuttora separate a causa delle dannose e illegali politiche dell’amministrazione Trump. Nonostante il decreto firmato dal presidente Trump il 20 giugno, migliaia di bambini terrorizzati sono ancora separati dai loro genitori, sconvolti dal pensiero di non sapere quando li vedranno nuovamente. Chiudendo i bambini in gabbie o trasferendoli in centri d’assistenza a migliaia di miglia di distanza, le autorità statunitensi stanno volontariamente infliggendo loro una sofferenza mentale profonda e che durerà a lungo, unicamente per scoraggiare le loro famiglie disperate dal proposito di chiedere asilo. L’ingiunzione preliminare emessa il 26 giugno da una corte federale, che ha ordinato la riunificazione di migliaia di famiglie separate a forza è uno sviluppo positivo, anche se l’amministrazione Trump potrebbe ancora fare ricorso. Intanto, le famiglie che sono state riunite sono ancora pochissime. Il 19 giugno il Dipartimento per la sicurezza interna ha reso noto che, dal 5 maggio al 9 giugno, erano stati separati 2342 bambini da 2206 genitori o tutori alla frontiera tra Messico e Usa. Dati ufficiali ottenuti dagli organi d’informazione lasciano supporre che altre migliaia di famiglie siano state separate persino prima dell’entrata in vigore della “politica di tolleranza zero”. Tra aprile e maggio 2018 una missione di ricerca di Amnesty International si è recata alla frontiera tra Messico e Usa per documentare in che modo venivano trattati i richiedenti asilo. Nella maggior parte dei casi, le famiglie poi separate si erano presentate legalmente alle autorità di frontiera con l’intenzione di chiedere asilo e queste ultime non avevano dato loro alcuna spiegazione per giustificare la separazione. Una donna brasiliana di 39 anni e suo figlio di sette anni erano fuggiti dal loro paese dopo aver ricevuto minacce di morte da una banda criminale che la donna aveva denunciato perché spacciava droga di fronte alla loro abitazione. La banda collaborava quotidianamente con la polizia e aveva minacciato la donna di morte anche se si fosse trasferita in altre zone del Brasile. Amnesty International ha incontrato questa donna in un centro di detenzione per migranti del Texas. Ha raccontato di essere stata separata, senza ricevere alcuna spiegazione, il giorno dopo essersi presentati a un varco ufficiale di frontiera per chiedere asilo, nel marzo 2018. “Mi hanno detto: ‘Tu qui non hai alcun diritto, e non hai diritto di stare con tuo figlio”, ha raccontato in lacrime. “In quel momento è come se fossi morta. Sarebbe stato meglio se fossi morta all’istante. Non sapere dove si trovi tuo figlio, cosa stia facendo è la sensazione peggiore che può avere una madre. Cosa vuol dire che una madre non ha il diritto di stare con suo figlio?” Una donna di 63 anni proveniente dall’Honduras ha raccontato ad Amnesty International che le bande criminali avevano minacciato di morte lei e la sua nipote 14enne e avevano incendiato la loro abitazione. Erano fuggite subiti, sapendo bene che altri conoscenti erano stati assassinati dopo che avevano chiesto aiuto alla polizia o si erano spostati in altre zone del paese. Due giorni dopo essersi presentate alla frontiera del Texas, gli agenti della polizia di frontiera le avevano portato via la nipote. “Non mi hanno detto perché la stavano prendendo con loro. Solo che la stavano separando da me. Se mi rimandano indietro in Honduras, sai che succederà? Finirà che mi ammazzeranno. Ho 63 anni e non ce la faccio più a reggere tutto questo. Ci sono giorni in cui sono davvero disperata e triste. È tanto tempo che non vedo la mia famiglia”. Molti genitori separati dai loro figli mostravano un’estrema angoscia e scoppiavano a piangere mentre raccontavano le loro storie ai ricercatori di Amnesty International. L’organizzazione per i diritti umani ha documentato casi in cui la separazione forzata delle famiglie, con l’esplicito obiettivo di scoraggiare e punire coloro che chiedono protezione alla frontiera statunitense, corrisponde alla definizione di tortura sulla base delle leggi nazionali e del diritto internazionale. Gran Bretagna. Intelligence coinvolta in torture e rapimenti dopo l’11 settembre di Sara Giuliani Il Giornale, 30 giugno 2018 Un’inchiesta parlamentare ha denunciato il maltrattamento dei detenuti stranieri da parte dei servizi segreti britannici. Le agenzie dell’intelligence britannica sono state accusate di aver praticato torture e maltrattamenti ai danni di detenuti stranieri sospettati di terrorismo, dopo gli attacchi dell’11 settembre. A rendere la notizia di dominio pubblico, due report dell’Intelligence e Security Committee of Parlament di Londra, il comitato parlamentare britannico in fatto di intelligence e sicurezza. Il primo report riguarda i casi di maltrattamento perpetuati ai danni dei detenuti stranieri tra il 2001 e il 2010, mentre il secondo prende in considerazione le questioni attuali. Travolta dall’inchiesta anche la premier britannica Theresa May, accusata di aver negato al Comitato l’accesso ad alcune informazioni chiave dell’intelligence. Dopo le due denunce parlamentari, tutti i capi dei servizi segreti e i ministri britannici in carica dopo l’11 settembre - a cominciare dall’ex Segretario di Stato per gli affari esteri, Jack Straw, in carica dal 2001 al 2006 - dovranno adesso affrontare nuovi appelli giudiziari per definire il ruolo del Regno Unito nella pratica di torture, rapimenti e detenzioni di presunti terroristi. Pesanti le accuse rivolte alle agenzie MI6 e MI5, imputate di essere state coinvolte in centinaia di casi di tortura e decine di detenzioni. Secondo il rapporto le due agenzie non solo sarebbero state a conoscenza dei maltrattamenti operati dall’intelligence americana, ma in alcuni casi ne avrebbero addirittura preso parte attiva. “Il fatto che gli Stati Uniti e altri paesi maltrattassero i detenuti è fuori dubbio”, è scritto nel primo report “così come il fatto che le agenzie e l’intelligence della difesa ne fossero a conoscenza fin da subito”. Per il Guardian si tratta di “una delle accuse più schiaccianti della storia dell’intelligence britannica”. Francia. Sigarette elettroniche per combattere il fumo nelle carceri skyvape.it, 30 giugno 2018 Contro le sigarette in carcere a Caen vengono distribuite 1000 sigarette elettroniche con una partnership con il Chu e l’associazione “La vape du Coeur”. Forse il primo caso in Francia di ricerca di metodi alternativi per i detenuti delle prigioni dove un’operazione guidata dall’associazione nazionale La vape du coeur, in collaborazione con l’ospedale universitario di Caen ha visto queste due entità appoggiare con la direzione del carcere di Caen in Normandia una partnership per dichiarare guerra al tabacco. Interveniamo due o tre volte alla settimana al momento nelle prigioni di Caen con seminari, ed è in questa occasione che spieghiamo loro i vantaggi della sigaretta elettronica che consente di fumare senza combustione con rischi nettamente minori alla salute”. spiega Xavier Guyou, riferimento normanno di Heart Vape. Quando il progetto è stato avviato nell’aprile 2018, i promotori del progetto hanno inizialmente preso di mira il personale penitenziario per creare un “ambiente favorevole alla diffusione delle sigarette elettroniche. Trenta agenti sono stati così tentati con una significativa riduzione del consumo di tabacco. “Alcuni mi mandano dei messaggi per chiedermi come riuscire a resistere al fumo, del quale non possono rinunciare, compresa la mattina. Dico loro che si deve imbrogliare il cervello, ad esempio cambiare le tue abitudini quando prendi un tè o un caffè” - continua Xavier Guyou. Dopo il personale della prigione, le sigarette elettroniche sono già state distribuite a circa 130 detenuti. Nell’ambito di un bando annuale per progetti volti a ridurre i rischi legati al tabacco, l’ Agenzia Regionale della Salute della Normandia ha dato ben 50.000 € a sostegno dell’azione congiunta dell’Ospedale universitario di Caen e di La vape du coeur: “I nostri interventi sono complementari, dice il Dr. Marie Van Der Schuerer, capo del dipartimento di Medicina delle Dipendenze presso Chu Caen a partire dal 1 ° giugno 2018, ed offriamo competenza medica e terapia sostitutiva alla nicotina a tutte le persone che fumano più 20 sigarette al giorno, un livello di consumo troppo alto dove sigaretta elettronica è sufficiente per fare qualcosa”. “E’ il momento di lavorare insieme perché questo tipo di dispositivo di prima o seconda generazione è ora molto difficile da trovare nel commercio”, aggiunge Marie Van Der Schuerer che Spera che questa iniziativa in Francia contribuirà a ridurre il numero di morti da tabacco che “ogni giorno uccide 200 persone. Un progetto che spera di vedere svilupparsi in altre prigioni. Yemen. Rivolta contro gli Houthi nel carcere di al Hodeida Nova, 30 giugno 2018 E’ in corso una rivolta carceraria contro i ribelli sciiti Houthi nel carcere di al Hodeida, nell’ovest dello Yemen. La rivolta, secondo l’emittente televisiva “al Arabiya”, è scoppiata in seguito al trasferimento di alcuni detenuti verso altri centri di detenzione gestiti dal gruppo filo-iraniano, in particolare a Hujja, Sana’a e altre zone del paese. Tra i detenuti trasferiti ci sono anche i condannati a morte per aver fatto parte dell’esercito governativo yemenita. Nella rivolta scoppiata ieri ci sono stati scontri a fuoco in carcere con tre feriti, anche se notizie non confermate parlano della presenza di alcuni morti. Le squadre speciali degli Houthi hanno circondato il carcere e sono intervenuti con i lacrimogeni. Circolano in queste ore dei video ripresi dall’interno del carcere di al Hodeida e diffusi sui social network.