Giuseppe Cascini: “spero capiranno che il carcere non risolve i problemi” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 2 giugno 2018 “Le proposte sulla giustizia inserite nel “contratto” sono piuttosto generiche. manca la consapevolezza della crisi di funzionalità”. “Non spetta certo a me dare giudizi sul nuovo governo o sulle persone che lo compongono. È il legittimo governo del mio paese e in quanto tale ha il mio pieno rispetto. Peraltro non credo sia un bene che i magistrati diano etichette preventive ad un governo, definendolo “amico” o “nemico”, dichiara il procuratore aggiunto di Roma Giuseppe Cascini, candidato al Consiglio superiore della magistratura per il cartello progressista AreaDg e già segretario generale dell’Anm. Procuratore, capisco nessun giudizio preventivo sul governo, ma sul programma? Ho letto il “contratto” di governo. Le proposte in materia di giustizia sono piuttosto generiche, alcune sono condivisibili altre molto meno. Ciò che colpisce, però, è quello che manca: la consapevolezza della gravissima crisi di funzionalità del sistema, una analisi delle cause e una indicazione dei rimedi per correggere le tante criticità. Alla sua affermazione qualcuno replicherà: “Alla magistratura non va mai bene nulla…”. Io credo che i magistrati abbiano il dovere di offrire un contributo di riflessione sulle riforme in materia di giustizia e credo che la politica farebbe bene ad ascoltare il punto di vista degli operatori del settore. Cosa impedisce un buon funzionamento della giustizia? Prevalentemente un eccesso di domanda sia in civile che in penale. La carenza di strutture, di personale e di investimenti nella innovazione. Un sistema processuale non adeguato. Tutto questo determina una crisi di efficienza del sistema, che non riesce a dare risposte in tempi ragionevoli alle domande di giustizia. Senza considerare che un sistema inefficiente genera un circuito vizioso che produce ulteriore illegalità e aumento del contenzioso. Ecco, io dalla politica mi aspetto risposte concrete a questi problemi. Non solo perché lo Stato ha il dovere di garantire la effettività dei diritti dei cittadini e una adeguata risposta alle violazioni. Ma anche perché una giustizia rapida ed efficiente produce ricchezza per il nostro paese, rassicura le imprese e attira gli investi- tori stranieri. Eppure il M5s è da sempre sensibile alle dinamiche in tema di giustizia… Mi auguro che l’esperienza di governo faccia maturare la consapevolezza della gravità dei problemi e della urgente necessità di interventi di sistema. Nel programma di governo non ci sono indicazioni di proposte per risolvere la crisi di efficienza del processo civile con circa 5.000.000 di cause arretrate. Mentre per il penale ci si limita a promettere più carcere e aumenti di pena. Il carcere è evocato come una panacea dei mali dell’Italia… Già è sbagliato pensare che il carcere possa essere l’unica risposta all’illegalità. Peraltro nella situazione attuale dove il tasso di ineffettività della pena è elevatissimo, si tratta di una minaccia spuntata. Piuttosto sarebbe più utile e più giusto puntare su sanzioni alternative, su interventi riparativi e ripristinatori, su percorsi di recupero del condannato, capaci di sanare effettivamente la ferita derivante dal delitto. Ma per far questo bisogna garantire efficienza e funzionalità al sistema adeguando e modulando il sistema processuale. E sull’aumento dei tempi di prescrizione? Una riforma della prescrizione che renda l’istituto più razionale e certamente necessaria. Ma senza interventi sulla durata dei processi rischierebbe di aggravare la crisi del sistema. E il progetto di riaprire i piccoli Tribunali? Una proposta senza senso. I piccoli Tribunali sono stati aboliti perché creano inefficienza e ritardi. Bisognerebbe proseguire sulla strada degli accorpamenti e investire sulla informatizzazione del processo. Molto chiaro... E poi voglio evidenziare un aspetto sorprendente contenuto nel capitolo dedicato alla lotta evasione fiscale. A dispetto del titolo il programma contiene la proposta di un condono, eufemisticamente definito “pace fiscale” e un allentamento dei meccanismi di accertamento tributario. In un paese dove l’evasione fiscale è altissima sarebbe un messaggio gravissimo: un colpo di spugna per il passato e maggiori difficoltà di accertamento per il futuro. Il tutto non certo compensati dalla generica promessa di carcere per i grandi evasori. Lei è candidato al Csm. Il M5S è a favore del sorteggio per l’elezione dei componenti. Cosa risponde? Il sorteggio è contrario alla Costituzione che prevede che i componenti del Csm siano eletti. Detto questo, è una offesa all’intelligenza dei magistrati pensare che non siano capaci di scegliere i propri rappresentati. E poi è uno svilimento del Csm. Le correnti un “male necessario”? Il modello costituzionale del Csm italiano e invidiato in tutto il mondo, perché garantisce in maniera effettiva l’indipendenza della magistratura. La presenza dei laici evita pericoli di autoreferenziali-tà. Comunque è sempre un modello di governo autonomo, una corporazione ristretta di professionisti che si auto amministra: il rischio di essere indulgenti con se stessi esiste. Le correnti dovrebbero servire ad evitare questo rischio, ma non sempre ci sono riuscite. Sono stati fatti degli errori? Sbaglia chi scredita il Csm definendolo come il luogo degli accordi sottobanco e degli imbrogli. È vero però che negli ultimi anni il CSM ha in parte perso la sua credibilità e che vi è una diffusa insoddisfazione nel corpo dei magistrati. Abbiamo il dovere di dare una risposta a questa insoddisfazione restituendo ai magistrati la fiducia nel loro organo di autogoverno. Per far questo è necessaria però una rigorosa autocritica da parte di tutte le componenti della magistratura. Senza che nessuno pensi di potersi ergere a paladino della legalità e della moralità. Lei ha condotto l’indagine su Mafia Capitale. Il sindaco di Roma Virginia Raggi ha detto che questa inchiesta ha avuto conseguenze micidiali sul comune: i dirigenti sono terrorizzati dal commettere reati e non firmano più nulla. Mi sembra una visione un po’ semplicistica. Perseguire i reati e un dovere della magistratura. Peraltro le indagini della Procura di Roma si concentrano quasi esclusivamente sui fenomeni di corruzione, mentre sono molto rari i casi di contestazione del reato di abuso d’ufficio. Tossicodipendenti, il carcere non serve. Costa di più, funziona meno di Sergio Damiani L’Adige, 2 giugno 2018 Per i detenuti tossicodipendenti il carcere è poco utile, molto più efficace (ed economico per l’ente pubblico) è la concessione di una misura alternativa alla detenzione come l’affidamento ad una comunità terapeutica. La conferma viene da una ricerca, unica nel suo genere, presentata ieri mattina al 7° Convegno giuridico distrettuale dall’avvocato penalista e assegnista di ricerca dell’Università di Trento, Francesca Pesce. La ricercatrice ha analizzato tutti i soggetti con diagnosi di tossicodipendenza condannati con sentenza definitiva che abbiano iniziato e concluso il percorso della misura alternativa o l’espiazione della pena detentiva a Trento tra il 2008 e il 2015 (ma il lavoro prosegue con l’analisi dei dati anche per 2016 e 2017). La ricerca è stata finanziata dall’Ordine degli avvocati di Trento, Università di Trento, Fondazione Tommasini Bisia e Dipartimento salute della Provincia. L’avvocato Pesce ha applicato il metodo dell’analisi economica del diritto penale. “L’obiettivo - spiega - è fornire strumenti di valutazione delle norme, che permettano di comprendere come investire in modo razionale ed efficiente le risorse statali, allocandole in modo coerente all’obiettivo di massimizzare il benessere collettivo, nel rispetto e tutela dei diritti fondamentali dell’uomo”. La mole di dati raccolti è imponente, qui non possiamo che citare i principali. In generale emerge che i detenuti affidati alle comunità terapeutiche hanno meno probabilità di ricadere nella tossicodipendenza rispetto a chi ha espiato la pena in carcere. Inoltre una volta fuori dal carcere, l’ex detenuto è più soggetto a recidiva criminale: non curato a dovere, con buona probabilità tornerà in fretta a delinquere (e quindi dietro le sbarre). La ricercatrice ha scoperto che delle 129 persone che avevano beneficiato di misure alternative sottoposte a test tossicomanico, il 62% aveva avuto una ricaduta (cioè era tornato a drogarsi), mentre il 38% non ha recidivato. Molto peggio è andata a chi ha espiato la pena in cella: dei 274 detenuti con diagnosi di tossicodipendenza (dunque malati) 193 sono drop out, cioè non si hanno notizie successive alla scarcerazione. I rimanenti 81 detenuti hanno effettuato un test tossicomanico dopo la scarcerazione che è risultato positivo (cioè ricaduta tossicomanica) per ben l’83,5% (+ 21,5% rispetto a chi ha beneficiato di una misura alternativa) e negativo per solo il 16,5%. In pratica, usciti dal carcere più di 8 detenuti su 10 ci ricadono. Interessanti sono anche i dati sulla recidiva criminale dei tossicodipendenti, cioè su chi torna a delinquere. Ancora una volta i risultati migliori - sotto il profilo della valenza rieducativa della pena - li ottengono coloro che avevano ottenuto l’affidamento in comunità. “Delle 189 persone che hanno beneficiato di una misura alternativa - sottolinea l’avvocato Pesce - ben l’80,95% non ha reiterato la condotta criminale e solo il 19% ha commesso un ulteriore reato dopo la fine della misura”. La recidiva criminale dei detenuti tossicodipendenti si attesta invece intorno al 70%, cioè 7 su 10 tornano rapidamente a delinquere. Rilevante è anche il dato relativo alla tenuta media del periodo drug free, cioè per quanto tempo il soggetto è libero dalla tossicodipendenza e dunque non rappresenta un pericolo per sé e per la comunità: il periodo drug free medio per chi è stato affidato ad una comunità terapeutica è di 434 giorni contro appena 68 giorni di chi è entrato in comunità in modo volontario e autonomo. Chi è rimasto in carcere ha un periodo libero dalle droghe di 345 giorni, ma questo risultato è ottenuto con un investimento di tempo pari a più doppio (826 giorni contro i 410 delle misure alternative). Ricordiamo inoltre che un detenuto in cella costa alla società circa 150 euro al giorno, il doppio di quanto si spende per curarlo in comunità. Per la collettività, in questo caso l’assessore alla salute Luca Zeni, la ricerca costituisce una preziosa bussola per allocare al meglio le risorse disponibili. I detenuti tossicodipendenti vanno curati in comunità di Veronica Manca* Il Dubbio, 2 giugno 2018 Il dibattito giuridico sul trattamento dei pazienti non può prescindere da quello medico-scientifico. il trattamento extra-murario, laddove possibile, rappresenta un investimento qualitativamente più adeguato, ma la scarsità delle risorse finanziarie sta mettendo in crisi il sistema. Quando ho accetto di partecipare ad un incontro interdisciplinare, tra giuristi e medici, in tema di trattamento penitenziario del detenuto tossicodipendente, ho pensato di giocare in casa, data la mia - seppur minima e modesta - esperienza in fatto di carcere e di misure alternative. Ad un confronto, con gli esperti del mondo scientifico, mi sono resa conto, tuttavia, di non essere affatto preparata, tanto meno sufficientemente informata rispetto alle evoluzioni scientifiche, che sembrerebbero aver preso binari progressisti, in direzioni, tuttavia, fino ad ora poco conosciute e che, per quanto possano dirsi suffragate da dati scientifici, destano forti perplessità. La tossicodipendenza è, infatti, un fenomeno sociale complesso che spesso è stato oscurato, senza essere stato, tuttavia, adeguatamente compreso. Una spessa coltre di indifferenza - alternata da ondate di allarmismo, luoghi comuni e stereotipi identificati dai media e da scelte di politica criminale repressive - circonda ormai da tempo la questione della tossicodipendenza: mentre la comunità scientifica si trova al centro di un significativo cambiamento di paradigmi e modelli di cura, il diritto rimane silente e - come spesso accade - impreparato al progresso (e all’ingresso nel suo tessuto del fenomeno delle neuroscienze). Nell’ambito della cura della tossicodipendenza, le ricerche e gli studi ormai ultradecennali, hanno introdotto anche in Italia un articolato sistema, attivo dal 2010, il Network Nazionale di Ricerca sulla Dipendenze (Nnrd): si tratta di una rete di circa quindici centri sparsi sul territorio nazionale, che collaborano alla promozione e alla sperimentazione di studi applicati in ambito specialistico, aventi come base di riferimento le neuroscienze. I progetti promossi spaziano dalla mappatura cerebrale delle aree deputate alla dipendenza tramite la simulazione magnetica transcranica e neurotraining, allo studio neuro- biologico delle complesse alterazioni dovute all’uso degli stupefacenti. A completare il quadro, si aggiungono le ricerche con strumenti di ultima generazione sul sistema immunitario e genetico e sui disturbi psichiatrici correlati. Secondo tali ricerche, il paradigma della comunità terapeutica territoriale è ormai superato, dato che al centro del trattamento non si colloca più la persona nel suo complesso (né l’approccio farmacologico integrato), ma il “cervello”, perché la tossicodipendenza è “una malattia del cervello, curabile, ma a tutt’oggi non guaribile”. Il cervello si pone, quindi, al centro della cura, anche perché - come si sostiene - grazie alla sua neuroplasticità, sembra possibile ripristinarne il “regolare decorso”. E, qui, iniziano i primi interrogativi. Mi sono chiesta, e così, penso, anche molti dei miei colleghi giuristi (ma del resto, in tali termini, si sta ancora interrogando la stessa comunità scientifica, che, dal canto suo - per tutti, Alberto Genovese, Vegliando nelle notti serene …, non ha una visione unanime e condivisa su tali questioni), cosa vuole dire “ripristinare il regolare decorso del cervello” di una persona? In che termini si effettua? Quali sono le conseguenze? E tutto ciò, da solo, è davvero risolutivo del problema tossicodipendenza? (che, come è noto, molto spesso, è un male che intacca il profondo dell’anima e finisce per trasfigurare il volto di una persona come un killer spietato). Soprattutto, tali nuovi modelli trattamentali come possono essere importati nel tessuto normativo (costituzionale) dell’ordinamento penitenziario? Come si giustificano a fronte nella necessaria ed ineludibile esigenza di recuperare - anche se nei strettissimi margini di recupero dalla dipendenza - il paziente nella sua complessità comportamentale? Uno dei trattamenti - in fase sperimentale - già diffuso in alcuni centri d’Italia è dato dalla stimolazione magnetica transcranica profonda ripetitiva (rTms-d): si tratta di una tecnica, utilizzata da ormai vent’anni in America, per forme gravi di depressione e farmaco- resistenza. I vantaggi - secondo la scienza - sarebbero individuati nel fatto che è un trattamento indolore, veloce e non particolarmente invasivo. Le prime applicazioni, in Italia, risalgono al 2012, supportate dalla base scientifica del Prof. Luigi Gallimberti, psichiatra e docente universitario, considerato uno dei maggiori esperti di terapia delle dipendenze. In pratica, lo stimolo elettrico, direzionato in particolari aree del cervello come la corteccia prefrontale dorsolaterale, produrrebbe un’azione di resettamento dell’attività cellulare compromessa dall’uso massiccio di sostanze stupefacenti. La sperimentazione triennale - spiega Alberto Genovese - condotta in pazienti cocainomani compulsivi, avrebbe consentito al 70% dei soggetti di uscire dalla dipendenza. Le testimonianze positive prodotte nei protocolli di follow- up a cui i pazienti sono stati sottoposti, hanno portato - con grande clamore mediato - all’utilizzo di tale metodologia anche in altri centri (a partire dal gennaio 2017). Data comunque l’esiguità della sperimentazione, risulta forse ancora prematuro un giudizio complessivo sull’effettività/ efficienza del trattamento: ciò che, invece, è chiaro è che il modello tradizionale della comunità terapeutica, improntato sulla terapia farmacologica integrata non può più essere considerato l’unico trattamento possibile, o meglio, considerati i nuovi approdi della scienza, non è più pensabile un solo paradigma ideale di cura che possa dirsi l’unico effettivamente risolutivo della dipendenza. Va da sé, quindi, che il dibattito giuridico sul trattamento della tossicodipendenza non può prescindere dal dibattito medico- scientifico attualmente in corso, perché la questione è davvero complessa e involge necessariamente temi di più ampia portata (in primis, la dignità umana): dato per assodato che il trattamento extra-murario, laddove possibile, rappresenta un investimento qualitativamente più adeguato sul detenuto/ paziente che l’intera permanenza nell’istituto penitenziario, bisogna comunque ammettere come la scarsità di personale e il continuo taglio delle risorse finanziarie stiano oggettivamente mettendo in crisi il sistema delle comunità terapeutiche, che, non riescono oggettivamente a far fronte, in modo effettivo ed efficace, a tutte le esigenze di cura (e che, in ogni caso, per alcune situazioni, non sono sempre risolutive, riproponendosi anche all’interno delle comunità il c. d. fenomeno delle “porte girevole”, tenuto conto del tasso elevatissimo di ricaduta). Sarebbe auspicabile che, a fronte dell’evoluzione del sapere tecnico-scientifico, anche il mondo della giustizia penale potesse risvegliarsi dal torpore e accelerare il passo, interrogandosi sul ruolo da attribuire al diritto nel trattamento giuridico e penitenziario della tossicodipendenza (non necessariamente cura e responsabilità penale debbono intendersi come coincidenti), oltre che sulla portata da riconoscere a tali nuovi prassi (e se tali poi debbano intendersi come metodi intracomunitari o extracomunitari), non necessariamente da avallarsi passivamente, senza un preventivo vaglio consapevole e cosciente dei valori fondamentali che informano l’esecuzione costituzionalmente orientata della pena. *Avvocato del foro di Trento e responsabile della sezione Diritto penitenziario per Giurisprudenza Penale Quel rischio isolamento sulla giustizia che indurrà il governo a dialogare di Errico Novi Il Dubbio, 2 giugno 2018 Sulla cosiddetta “stretta penale a costo zero” ci sarebbe il gelo anche dei pm. Si è parlato troppo di economia. Poco di giustizia. Così poco che ieri Alfonso Bonafede, nuovo guardasigilli, si è celato dietro un cauto riserbo, quando i cronisti gli hanno chiesto di annunciare il suo primo provvedimento: “Niente anticipazioni. Ma sapete che mi occuperò di un settore nevralgico per il futuro del Paese”. In effetti nel dibattito che ha segnato la lunga crisi istituzionale, quel rapporto in apparenza squilibrato che si è avuto tra economia, rapporto con l’Europa e con l’euro, da una parte, e amministrazione della giustizia dall’altra, non è stato solo una parossistica distorsione. Se è andata così è anche perché in materia di giustizia il nuovo esecutivo sarà molto condizionato dalle risorse. E potrà procedere ad attuare il “contratto”, condito da ipotesi interessanti ma anche gravato di proposte irragionevoli, solo dopo aver sciolto il nodo più generale della finanza pubblica. Nell’immediato ne deriverà probabilmente una prima mossa “negativa”, l’accantonamento di due provvedimenti alla cui entrata in vigore mancherebbe pochissimo: la riforma dell’ordinamento penitenziario e il decreto sulle intercettazioni. Potrebbero finire entrambi su un binario morto. Con reazioni diverse da parte di avvocatura magistratura. Riguardo alle intercettazioni, il testo messo a punto da Andrea Orlando prevede che le nuove norme entrino in vigore dal 26 luglio prossimo. Ma Anm e Unione Camere penali hanno sollecitato il congelamento del decreto, per ragioni in parte convergenti, in particolare per il divieto di trascrivere le comunicazioni irrilevanti o lesive della privacy, ritenuto insidioso sia dai pm che dai penalisti. I primi temono di veder trasferita una eccessiva discrezionalità alla polizia giudiziaria, gli avvocati di non poter più individuare gli elementi utili alla difesa, persi in un mare di file digitali. Lo stesso Movimento Cinque Stelle ha violentemente criticato altri aspetti del provvedimento, come il divieto di attivare i trojan, i virus spia, nei domicili degli indagati nelle inchieste di corruzione. Se con un ulteriore provvedimento d’urgenza rinviasse o congelasse l’entrata in vigore del decreto Orlando, Bonafede avrebbe dunque notevoli possibilità di suscitare un consenso generalizzato. Ed è plausibile che opti per tale soluzione piuttosto che tentare di emendare il testo in poco più di un mese. Accantonare la riforma del carcere sarà ancora più semplice, ma assai più rischioso. Al di là dell’esame ancora non completato da parte delle commissioni parlamentari, basterà che l’esecutivo non adotti in via definitiva il provvedimento principale entro il 3 agosto e lasci così decadere la delega. Vorrebbe dire mandare per aria anni di lavoro, culminati negli Stati generali dell’esecuzione penale che hanno visto coinvolti avvocati, magistrati e il meglio dell’accademia. Scelta difficile. E, per il neo guardasigilli Bonafede, assai meno scontata del previsto. C’è d’altra parte una leggenda, che accompagna i Cinque Stelle: sono amici dei magistrati e, sulla giustizia, governeranno sotto loro dettatura. È uno schema banale di cui presto si poterebbe verificare l’inattendibilità. E qui torna di nuovo in questione il rapporto tra risorse disponibili e programma sulla giustizia inserito nel “contratto”. Sarebbe interessante veder subito realizzate le diverse buone idee inserite nel “capitolo 11” dell’accordo scritto da Movimento e Lega. Ma appunto, le idee migliori, in termini di equilibrio del sistema delle garanzie e affermazione dello Stato di diritto, sono quasi tutte costosissime. Richiedono aggiustamenti significativi nella programmazione delle finanze pubbliche, difficilmente definibili nel giro di pochi mesi. Sarà cosi per le ulteriori assunzioni di personale amministrativo e di magistrati, per la riapertura dei Tribunali minori e l’immediata implementazione del processo telematico anche nel settore penale, e soprattutto per realizzare l’ambizione di una giustizia “tempestiva”, con una forte riduzione della durata dei procedimenti. A questo punto potrebbe farsi strada un’altra tentazione: rifugiarsi in provvedimenti “a costo zero” in materia penale, ritenuti più a portata di mano, che finirebbero per abbattere garanzie e principi di ragionevolezza. Alcuni sono di marca leghista più che pentastellata. A cominciare da quel divieto di ricorso ai riti alternativi per i reati che prevedono la pena dell’ergastolo, modifica che nella scorsa legislatura era diventata la “legge Molteni”, dal nome del plenipotenziario di Matteo Salvini sulla giustizia. Ecco: difficile che agli stessi magistrati possa risultare gradito un simile stravolgimento del sistema. Ne verrebbe un allungamento dei tempi in non pochi procedimenti, oltre che un deficit nell’esercizio della giurisdizione. Così come i presunti patri putativi della giustizia pentastellata, cioè i pm, potrebbero non essere entusiasti di diverse misure di contrasto alla corruzione (e non solo): dal nuovo aumento delle pene, già innalzate nella scorsa legislatura, a quel “daspo” contro i corrotti a forte rischio incostituzionalità; dall’agente provocatore, che piace solo a Davigo, alla “rivisitazione sistematica e organica di tutte le misure premiali” promessa in materia penitenziaria, fino all’addio a quel po’ di interventi deflattivi in campo penale come la norma sull’archiviazione per tenuità del fatto. Ipotesi che appunto non susciterebbero il plauso di giudici e pm e che sono ritenute quasi tutte inadeguate dall’avvocatura. Ecco perché presto Bonafede potrebbe passare dai propositi spesso bellicosi del “contratto” all’unica strada che può evitare l’isolamento del governo sulla giustizia: il dialogo con gli operatori del diritto. Innanzitutto avvocati e magistrati, appunto. Dialogo dal quale potrebbero venire sorprese sul quel dossier giustizia di cui ora si parla poco, tanto si dà per scontata l’attuazione delle misure più draconiane finite in quel programma. Il Ministro della Giustizia Bonafede: “Ascolterò tutti, nessuno escluso” giustizia.it, 2 giugno 2018 “Sono onorato di essere ministro della Giustizia della Repubblica italiana e oggi ho giurato sulla Costituzione, la stella polare che ispirerà il mio modo di agire”. Alfonso Bonafede affida le prime parole da Guardasigilli a un post pubblicato sulla sua pagina Facebook. “Affronterò questo compito con lo spirito di servizio che i cittadini italiani meritano. E guardando a loro sono ben conscio dell’importante compito che mi spetta. Come ministro - prosegue Bonafede - ascolterò tutti, nessuno escluso, e porterò avanti i valori dell’onestà e della legalità, gli stessi che ho sempre riconosciuto nel MoVimento 5 Stelle e che mi hanno portato fino a qui. Oggi più che mai c’è voglia di una giustizia equa, presente e tempestiva”. “Da domani - conclude il neo ministro della Giustizia - sarò al lavoro per realizzare i punti del contratto per il Governo del cambiamento, per fare dell’Italia il Paese che i nostri cittadini meritano”. Conte-Bonafede, quale giustizia? di Paolo Ermini Corriere Fiorentino, 2 giugno 2018 L’ascesa del Guardasigilli, in nove anni: dall’incontro grillino in cui fu candidato a sindaco nel 2009 al ministero. Abbiamo un premier. Nel senso che abbiamo un altro premier fiorentino. Giuseppe Conte non è nato in Borgo Allegri o in via dell’Albero, né qui è residente, ma a Novoli ha una cattedra universitaria e molti studenti. Se non altro, ci penserà due volte prima di dire stop alle due grandi opere che Firenze aspetta ormai da anni (o da decenni): il sotto attraversamento dell’alta velocità e, soprattutto, la nuova pista dell’aeroporto. Per Firenze e per la nostra regione, ultime roccaforti del Pd, la nascita di un governo gialloverde avrà certamente molte implicazioni. Nel settore della sanità, ad esempio, dove l’avvento di una ministra grillina contraria all’obbligo delle vaccinazioni rischia di provocare il primo cortocircuito, visto che la Toscana ha fatto da battistrada nella battaglia per la tutela della salute comune privilegiando il ritorno di alcune malattie sotto la soglia di pericolo rispetto alla libertà dei genitori di vaccinare o no i propri figli al momento dell’ingresso nella scuola pubblica. Ma davanti al nuovo governo c’è un altro tema delicatissimo, non solo per la Toscana, che sarà campo d’intervento diretto dello stesso presidente del Consiglio, professore di diritto privato, e del ministro guardasigilli Alfonso Bonafede, unico ministro fiorentino della compagine: la giustizia, il fronte più delicato dei diritti e dei doveri. Anche su questo fronte i Cinque Stelle hanno avuto finora posizioni tutt’altro che granitiche. Basti pensare a come hanno cambiato orientamento sugli avvisi di garanzia, valutati a lungo - e sciaguratamente - come una condizione sufficiente per escludere chicchessia dall’attività politica e amministrativa. Poi la retromarcia quando nelle inchieste hanno cominciato a finire i loro esponenti. È sui rapporti fra politica e giustizia che il sistema italiano si è spappolato, con il potere giudiziario che è diventato soverchiante con l’avallo di tutti, compresa una parte significativa del mondo dell’informazione. Il giustizialismo, la cultura del sospetto, la voglia di gogna come lavacro illusorio della corruzione, camminano insieme alla demagogia dei populisti. Ma un conto è agitare le piazze a caccia di consensi e un conto è governare un Paese. Berlusconi sulla giustizia ha combattuto soprattutto una battaglia personale legata alla pioggia di inchieste sul suo conto, ma anche Renzi non ha avuto la forza parlamentare sufficiente (e forse nemmeno il coraggio) per affrontare quella riforma che più di ogni altra può ridare all’Italia il profilo di una democrazia sana. Alfonso Bonafede si è preparato nel suo appartamento da deputato romano, prima di andare a giurare come ministro della Giustizia al Quirinale. Con lui, la compagna ed i figli. Ma emozionato come un bambino era anche lui. Si nega al telefono e si sente solo, da lontano: “No, no, devo giurare”. Più tardi dirà ai giornalisti: “Sarà una sfida impegnativa, la gente si aspetta tantissimo da noi ed è giusto che sia così”. E dire che 9 anni fa per alcuni minuti la sua carriera nel M5S poteva prendere una strada diversa da Roma. Febbraio 2009, circolo Arci Bencini, via Mercadante. I 50 attivisti fiorentini dell’appena nato “Firenze a 5 Stelle” devono decidere chi candidare sindaco. “Facciamo lui”, è la proposta che arriva dal meetup: solo che “lui” è Maurizio Romani, medico (poi senatore del movimento, espulso nel 2013). Nel meetup l’ha portato Bonafede. “Son qui da poco”, glissa Romani. Bonafede non è presente, arriva poco dopo: rimane di ghiaccio quando scopre che avevano proposto un altro ma è lo stesso Romani a dire che ha rifiutato. Tra gli attivisti, è Bonafede quello più esperto: così lo scelgono candidato sindaco per acclamazione. Agli albori, a Firenze, quello del M5S è un flop. Bonafede non demorde e continua con l’operazione “fiato sul collo” nei confronti del sindaco Renzi, mandando in streaming i consigli comunali (peccato che allora ci fosse la diretta radio) e realizzando una rubrica su Youtube, “sorridiamoci sopra”. Non sempre aggressivo, in un movimento in crescita, Bonafede nasce No Tav ma dialoga con tutti, tiene rapporti buoni con Grillo e gli attivisti, così come in università dove è cultore della materia (e assistente del prof Giuseppe Conte, oggi premier). Soprattutto, in un movimento in cui “all’inizio eravamo quasi tutti di sinistra”, ricorda Romani, non si sbilancia mai nell’asse destra-sinistra interna al grillismo. Di video in video, passando da esposti e testimoniali di stato per difendere i proprietari delle case sopra il tunnel Tav, l’avvocato civilista Bonafede nel 2013 corre per la Camera: “Si poteva candidare chi si era già candidato nelle liste 5 stelle”, ricorda Romani. E così, sul palco per le elezioni 2013, c’è anche lui, in Santissima Annunziata, con Grillo. Finisce in tv presto, Bonafede, dopo che cade il diktat contro la presenza dei “portavoce” nei talkshow. Barricadero fuori, mediatore dentro, mai contro il garante Grillo, ancor meno contro Di Maio. Da lui passano diversi dossier, tra cui quello dei problemi della giunta Raggi a Roma o lo “scouting” per i candidati all’uninominale o i ministri (anche su Conte c’è il suo zampino). Il suo studio legale (da ieri è il sito web in “fase di ristrutturazione”) si occupa di diritto civile e contratti. Contratti: come quello di governo. Bonafede viene da un M5S, quello fiorentino, che pubblicava i video del Movimento di Lotta per la casa sugli immigrati, ma l’anno scorso lui diceva: “Su rom e migranti convergenze con la Lega”. Però concludeva: “Nessuna alleanza”. Ora dovrà gestire, da ministro, il tema dei diritti dei 500 mila immigrati irregolari che la Lega vuole espellere. E se gli faranno una “class action”, usando la legge che lui ha proposto? Dovrà votare in Consiglio dei ministri il sì alle grandi opere da lui contestate? C’è da mediare, avvocato. Rimpatri e legittima difesa, le priorità di Salvini al Viminale di Marco Cremonesi e Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 2 giugno 2018 I dubbi al ministero: “Non si può far tutto”. Rimpatri, legittima difesa, certezza della pena: continua a concentrarsi su questi tre dossier l’attenzione di Matteo Salvini nel primo giorno da ministro dell’Interno. Il clima di preoccupazione che si respirava nelle stanze del Viminale dopo gli annunci delle scorse settimane di interventi drastici su migranti e sicurezza, è stato in parte stemperato dopo l’insediamento di ieri sera e l’incontro con i capi dipartimento. Ma adesso si attendono le prime mosse, soprattutto sulla scelta degli uomini che faranno parte della sua squadra. Consapevoli che non sarà facile conciliare i proclami con le soluzioni pratiche. I colloqui avuti la scorsa settimana e nelle ultime ore, primo fra tutti quello con il capo della Polizia Franco Gabrielli, si sono concentrati proprio sulle priorità da affrontare. Al prossimo appuntamento con l’Europa, fissato martedì a Strasburgo, dove si continuerà a discutere delle modifiche all’accordo di Dublino sui richiedenti asilo, Salvini non ci sarà. Ma la linea sembra tracciata: se il trattato non sarà cambiato, l’Italia potrebbe allinearsi agli Stati del blocco di Visegrad - Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia - che mirano a far saltare il tavolo, accusando così l’Europa di non voler fornire alcuna assistenza concreta a chi si trova in prima linea rispetto agli arrivi degli stranieri. La vera emergenza rischiano di essere gli sbarchi nelle prossime settimane e mesi e dunque si dovrà stabilire quale direzione prendere nei rapporti con il governo libico. “Devo studiare”, risponde Salvini a chi gli chiede se l’accordo con il libico Al Sarraj sarà rinnovato. È certamente anche su questo che si gioca la scommessa del nuovo governo, perché la gestione di Marco Minniti ha portato a una diminuzione di arrivi pari al 78% rispetto al 2017, ma con una programmazione di investimenti e aiuti dei Paesi africani di provenienza che adesso si dovrà decidere se confermare. Prima di essere nominato ministro, Salvini aveva annunciato di voler effettuare decine di migliaia di rimpatri e ne ha parlato nei colloqui informali dei giorni scorsi. Le resistenze dei Paesi di origine continuano però a essere fortissime, senza il rinnovo di accordi che prevedano nuove forme di cooperazione sarà impossibile riportare gli stranieri a casa. Un altro dei temi da affrontare è quello della sicurezza urbana. Ieri Salvini ha detto di voler “far prevalere i sindaci rispetto ai prefetti” provocando non poche agitazioni al Viminale. Anche perché in campagna elettorale aveva annunciato di voler “radere al suolo i campi rom” e il timore è che possano emergere contrasti tra chi è delegato alla gestione delle emergenze e chi governa le città. Questione da affrontare è anche la scelta dei sottosegretari. Tra le persone vicine a Salvini c’è Gianni Tonelli, l’ex segretario del Sap - il sindacato di destra della Polizia - eletto alla Camera proprio con la Lega. Qualcuno ipotizza che potrebbe essere nominato nonostante le recenti posizioni critiche che ha assunto nei confronti degli attuali vertici della pubblica sicurezza. Processo Cucchi, nuovi verbali falsificati e versioni concordate dai carabinieri di Edoardo Izzo La Stampa, 2 giugno 2018 Questi elementi a carico dei militari della stazione Appia sono emersi nel processo bis sulla morte del giovane geometra romano. Verbali falsificati, anomalie, e versioni “concordate”. Nuovi e schiaccianti elementi a carico dei carabinieri della stazione Appia sono emersi questo pomeriggio nel processo bis sulla morte del giovane geometra romano, Stefano Cucchi, morto all’ospedale Pertini della Capitale dopo essere stato picchiato e arrestato il 16 ottobre 2009 per detenzione di droga. Nel processo bis sono imputati 5 carabinieri accusati a vario titolo dei reati di omicidio preterintenzionale, falso e calunnia. Nella giornata di oggi è stato ascoltato, dal pm di Roma Giovanni Musarò, il carabiniere Gabriele Aristodemo presente al momento dell’arresto di Cucchi insieme ad altri 4 carabinieri. Dalle incongruenze del testimone emerge chiaramente che ben due verbali sono stati alterati dai militari dell’Arma: quello della perquisizione domiciliare effettuata a casa dei genitori di Cucchi subito dopo l’arresto, e quello di arresto dello stesso Cucchi. Il verbale di perquisizione, ad esempio, viene modificato. Nella copia acquisita nel 2009 non c’è la firma dell’arrestato ma nello stesso documento, acquisito dalla magistratura nel 2015, compare la dicitura “si rifiuta”. Non solo: anche sul verbale di arresto manca la firma di Cucchi. Oggi Aristodemo ha spiegato la stranezza dicendo che “è normale perché è un atto nostro”. Lo stesso militare però, già ascoltato in aula nel luglio 2015, disse che all’epoca Cucchi si rifiutò di firmarlo. “Mi sbagliai, mi ero confuso”, ha ammesso oggi Aristodemo incalzato dal pm di Roma Musarò. Non solo. Dalle parole dello stesso militare emergono le preoccupazioni dei colleghi che cercavano di concordare le varie versioni da dare agli inquirenti. Aristodemo ha infatti detto in aula che durante la perquisizione domiciliare, Cucchi era seduto sul divano ed era calmo. Il particolare non è di poco conto se si incrocia la testimonianza di Aristodemo con una telefonata intercettata nel 2015 tra lo stesso e Raffaele D’Alessandro (imputato nello stesso procedimento per omicidio preterintenzionale). È D’Alessandro a contattare Aristodemo per dirgli che Cucchi cominciò a dare testate contro il muro e che per calmarlo dovettero ammanettarlo. “Quello che disse D’Alessandro non era vero, perché c’ero anche io lì”, ha dovuto ammettere il militare ascoltato oggi come teste. Inoltre lo stesso Aristodemo avrebbe cambiato versione anche sulla condizione fisica di Cucchi. Nel 2015, infatti, il militare disse: “Cucchi in caserma non aveva segni”, successivamente invece il carabiniere ha detto: “Era un po rosso sotto gli occhi”. Il processo è quello che vede imputati cinque carabinieri in relazione alla morte di Cucchi avvenuta a Roma il 22 ottobre del 2009. I militari dell’Arma coinvolti sono: Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, accusati di omicidio preterintenzionale e di abuso di autorità. Tedesco è accusato anche di falso e calunnia Roberto Mandolini, mentre della sola calunnia risponde Vincenzo Nicolardi. Vincenzo Sapia, tre carabinieri a processo per una morte poco “accidentale” di Claudio Dionesalvi Il Manifesto, 2 giugno 2018 A processo i tre carabinieri che lo immobilizzarono durante un Tso. Prossima udienza, il 5 giugno. Aveva 30 anni, Vincenzo Sapia, pesava 130 chili, era in cura da tempo al Centro di Igiene mentale di Rossano Calabro. Era affetto da disturbi schizo-affettivi. Periodicamente soffriva di allucinazioni, manie di persecuzione e deliri, prima dell’insorgere della fase depressiva. Il 24 maggio del 2014 stava cercando di forzare una porta nel centro di Mirto Crosia, l’antica Krusion, ai piedi della vallata dell’antico Traes, teatro nel 510 a.C. della battaglia decisiva nella guerra tra Crotone e Sibari. In questo territorio mitologico, affastellato tra mare e colline, si è dipanata la dolorosa esistenza di Vincenzo Sapia. Sempre a spasso con il suo cane, credeva, in quella notte di fine maggio, che dentro quella casa ci fosse proprio il suo cane. Sapia voleva riprenderselo. Intervennero i carabinieri che gli chiesero i documenti. Lui prese a spogliarsi di fronte ai militari per dimostrare che ne fosse sprovvisto. Scoppiò una colluttazione, pare che Sapia, preso dal panico, abbia messo a segno un paio di cazzotti per poi essere bloccato. Venne preso per il collo, avvinghiato da dietro. Anche il sindaco del paese, passato di lì, a un certo punto provò a calmarlo, così è scritto nell’ordinanza di allora. Ma il ragazzo riuscì a scappare. Pochi metri e la sua corsa ebbe fine sull’asfalto per via dello sgambetto di un terzo carabiniere. Fu trattenuto per il collo e per i capelli, bloccato dal torace e dalle gambe. Prima un ginocchio e poi un piede sulla schiena. Riuscirono anche ad ammanettarlo solo per una mano. A quel punto Sapia non faceva più resistenza, venne allertato invano il 118. Un medico che passava per caso dichiarava il decesso di Vincenzo Sapia. I magistrati inquirenti, al termine delle indagini preliminari, metteranno nero su bianco che la morte sarebbe stata determinata “da alterazioni elettriche al cuore in un soggetto con il cuore messo male da coronosclerosi, coagulopatia, ipertrofia cardiaca, trombosi coronarica e minato dagli psicofarmaci”. Tutto ciò per escludere l’asfissia da manovre violente. Insomma, un infarto, una morte improvvisa con relativa richiesta di archiviazione. Ma la gip di Castrovillari, Letizia Benigno, non si adeguò alla richiesta del pm: i carabinieri non rispettarono le regole nel trattamento di una persona in stato di disagio psichico. “Diversi sono gli aspetti meritevoli di approfondimento che non consentono un pacificante accoglimento della richiesta di archiviazione”. C’era da chiarire se l’azione fosse avvenuta secondo quei protocolli operativi che prevedono comportamenti prudenziali nei casi di arresto e fermo di persone in condizioni di disagio psichico. Tra le regole di ingaggio quella di “evitare di invadere lo spazio della persona in stato di agitazione mantenendosi a una distanza utile, stabilire un dialogo, dimostrare di comprendere lo stato d’animo dell’interlocutore, evitando di ingenerare sensi di colpa”. Ancora: “Evitare l’immobilizzazione a terra e in posizione prona, trattenerlo possibilmente in piedi; sia l’arresto che l’eventuale ricovero dovranno avvenire in posizione seduta o sdraiata su un fianco evitando in ogni caso posture che comportino qualsiasi forma di compressione toracica”. I tre carabinieri indagati furono, così, rinviati a giudizio e il processo è in corso a Castrovillari da un anno. Prossima udienza il 5 giugno. La famiglia Sapia, con la battagliera sorella di Vincenzo, Caterina, si è affidata agli avvocati Fabio Anselmo e Alessandra Pisa, legali di Ferrara che seguono parecchi casi simili. “Abbiamo fiducia nell’operato della magistratura. Ci aspettiamo chiarezza e giustizia per nostro fratello”, spiega Caterina Sapia. Cucchi, Budroni, Magherini, Aldrovandi, vicende che in Italia hanno acceso i riflettori dell’opinione pubblica verso gli abusi in divisa. Drammi come quello di Andrea Soldi, anch’egli sofferente di problemi psichici, per la cui morte avvenuta durante un Trattamento sanitario obbligatorio due giorni fa sono stati condannati in primo grado i tre vigili urbani e lo psichiatra che lo immobilizzarono, testimoniano tutta l’inadeguatezza degli agenti chiamati ad intervenire. Soggetti spesso privi di formazione, preparati solo ad un uso della forza che in alcuni casi può sfociare in tragedia. Napoli: detenuto di 55 anni muore in cella, stroncato da un malore di Ferdinando Bocchetti Il Mattino, 2 giugno 2018 L’uomo, Crescenzo Muoio, era detenuto da diversi mesi nel carcere di Secondigliano. Il detenuto avrebbe accusato un malore nel corso della notte, forse un infarto, rivelatosi poi fatale. Muoio era stato rinviato a giudizio, insieme con altri dieci presunti affiliati alla fazione criminale subentrata ai Polverino, qualche settimana fa nell’ambito del filone di indagine sulle estorsioni compiute dal clan di Marano nel limitrofo comune di Calvizzano. La salma è trasportata nell’obitorio del Policlinico. Napoli: il cardinal Sepe e l’arma della speranza per sconfiggere la camorra di Francesco Dandolo Corriere del Mezzogiorno, 2 giugno 2018 Oggi il cardinale Crescenzio Sepe compie 75 anni e si va concludendo il dodicesimo anno del suo episcopato a Napoli. Per volere di papa Francesco, rimarrà “almeno altri due anni” nella città partenopea. In questi anni sono emersi i tratti della sua attività di pastore. In primo luogo, si è opposto alla violenza. Agli inizi di maggio, in occasione della liquefazione del sangue di San Gennaro, Sepe ha pronunciato parole molto dure. Ha parlato del sangue della malavita come il cancro di Napoli, che non riesce a liberarsene. Una violenza con molte facce: quella per le strade, negli ospedali, nelle famiglie, nelle relazioni interpersonali, nella scuola, in carcere. Ha chiesto a tutti di mobilitarsi. Ma già con il suo ingresso a Scampia nel giugno 2006 volle dare un messaggio esplicito, abbracciando il quartiere afflitto dalla camorra. Subito dopo la sua lettera pastorale “Il sangue e la speranza”, le numerose iniziative all’insegna di marce, digiuni e preghiere in cattedrale per compattare la diocesi in una sollevazione civile e per dire basta alla camorra sono state di grande significato. L’appello lanciato ai giovani di consegnare i coltelli e di aprire le mani al bene ha ribadito questa tendenza. Più volte ha detto: “Non possiamo girare la testa altrove, ma guardare alla realtà dove viviamo”. Lo ha ribadito con forza quando nell’estate del 2008 i bagnanti si sono mostrati indifferenti di fronte alla tragica morte per annegamento di Violetta e Cristina, due ragazzine rom: “Sono queste le immagini che della nostra città non vorremmo mai vedere”. La Chiesa di Napoli si pone al servizio della gente, in particolare degli ultimi, condividendo angosce e sete di speranza. Quest’ultima parola è un altro tratto basilare dell’attività pastorale di Sepe. Il suo libro del 2008 ha come titolo “Non rubate la speranza”, e si riallaccia idealmente alla visita di Giovanni Paolo II a Napoli nel novembre del 1990, che parlò di “organizzare la speranza”. La lettera per il Giubileo per Napoli del dicembre 2010 esprime la medesima preoccupazione: “Non chiudete le porte alla speranza”. Sepe ricorda la prima missione della Chiesa, una vita vissuta nella speranza, pure nelle situazioni difficili. Speranza che viene dalla fede che è possibile cambiare la realtà con l’impegno personale e gratuito. Nel libro “Tutto può cambiare” Andrea Riccardi ricorda che nel 1973, l’anno del colera, Napoli era una città avvilita, sopraffatta dalla marginalità, incrocio di tanti Sud a livello italiano e mediterraneo: “Ma soprattutto era una città umiliata”. Oggi, dopo 45 anni, tante cose sono cambiate, ma Napoli continua a essere umiliata dal cancro della violenza. Questa è la frontiera su cui confrontarsi. Istituzioni e società civile. C’è bisogno di sognare una società pacifica, rispettosa della dignità di tutti. Occorre una rivolta interiore. “Per amore del mio popolo non tacerò” è la lettera che don Peppino Diana scrisse nel Natale del 1991, tre anni prima di essere ucciso dalla camorra nella sua parrocchia a Casal di Principe. Ed è per onorare la memoria di martiri come lui che è necessario impegnarsi contro la violenza, nella consapevolezza che è una struttura opprimente, ma non invincibile. Consapevolezza che viene dal nutrire sempre la speranza, orizzonte verso il quale il cardinale Sepe ha indirizzato con tenacia il suo episcopato. Roma: “Fine pane mai”, la panetteria dei detenuti di Giulia Martinelli Città Nuova, 2 giugno 2018 Inaugurata nell’aprile del 2017 nella terza casa circondariale di Rebibbia (Roma), è la prima bottega all’interno delle mura carcerarie dove si producono e vendono pane e pizza. Ancora un progetto, tutto italiano, per dare una speranza ai detenuti della terza casa circondariale di Rebibbia (Roma). “La terza bottega: fine pane mai” è infatti una panetteria dove lavorano i detenuti del carcere ma anche un punto vendita aperto al pubblico, così da creare un corridoio e un luogo di incontro tra chi è dentro e chi è fuori. L’iniziativa, finanziata dalla Cassa delle ammende del Dipartimento amministrazione penitenziaria, ha coinvolto diversi detenuti, con storie e pene diverse, tutti con un contratto di lavoro. Un progetto che è partito alcuni anni prima, quando i detenuti scelti hanno iniziato a seguire corsi di panificazione, fino all’apertura di un vero e proprio punto vendita grazie anche all’appoggio dei Panifici Lariano che hanno creduto nel progetto e contribuito al finanziamento con l’acquisto di macchinari e materie prime. Come si legge sul sito del panificio: “Il punto vendita della 3^ bottega, creato tra le mura di cinta del carcere, è la prima rivendita d’Europa che apre le porte al pubblico”. Qui arrivano tutti i prodotti realizzati all’interno della casa circondariale: pane, pizza, pizzette, dolci e altri prodotti gastronomici, i destinatari sono sia i detenuti che gli abitanti del quartiere. “Fine pane mai”, perché il pane non deve mai finire e quindi si lavora tutto il giorno, fin dalle prime luci dell’alba, ma anche un modo per non far finire la vita di chi è in carcere a scontare una pena molto lunga, affinché rimanga la speranza di una vita migliore. Per chi è in carcere, il panificio diventa un’occasione di riscatto ma anche la possibilità di imparare un lavoro, qualificarsi e una volta fuori poter essere ricollocato in una posizione di lavoro. Ma l’idea di aprire un punto vendita all’interno delle mura è pensato soprattutto per avvicinare le persone del quartiere ad una realtà lontana e molte volte sconosciuta. All’interno del carcere non ci sono solo i “cattivi”, c’è chi giustamente sconta una pena ma ha anche il diritto di guardare al futuro e voler riprendere in mano la propria vita facendo qualcosa di buono, per sé e per gli altri. Sulmona (Aq): chiuso in Ospedale il “repartino” per detenuti corrierepeligno.it, 2 giugno 2018 Lo rivela Nardella segretario territoriale della Uil che in questi anni si è battuto per la soluzione del problema che ora potrebbe trovare una nuova soluzione adeguata con l’apertura della struttura ospedaliera che sarà inaugurata il prossimo autunno. Che fosse molto pericoloso ricoverare detenuti e far lavorare poliziotti in uno spazio angusto, privato di luce naturale e sufficiente aerazione e per di più ubicato in un sotterraneo ritenuto privo dei requisiti sismici pretese dalla norma, noi della UIL lo diciamo da più di 10 anni. Tuttavia chiudere il repartino solo dopo che il Garante nazionale dei detenuti ne ha certificato l’assoluta verità da noi espressa ci fa rabbia anche se nello stesso tempo ci rende giustizia. Ad affermarlo è Mauro Nardella segretario della Camera sindacale Territoriale. “Non credere a ciò che da sempre affermavamo ci dispiace veramente - prosegue Nardella - tanto anche se quello che è accaduto oggi rafforza la tesi che l’avvento del garante per i detenuti debba essere visto più come un evento positivo che un modo attraverso il quale favorire la classe detenuta. Far rispettare le regole all’amministrazione penitenziaria in ordine all’applicazione di parametri legislativi siamo convinti che farà stare meglio i reclusi ma anche e soprattutto coloro i quali sono preposti alla sorveglianza degli stessi, ovvero, la Polizia Penitenziaria. Fortuna ha voluto che dopo le insistenti spinte dalla Uil avanzate per la realizzazione del costruendo nuovo repartino il detenuto non tarderà ad essere finalmente allocato in spazi all’avanguardia. Entro l’autunno l’area detentiva ospedaliera sarà infatti inaugurata e con essa verrà posta definitivamente la parola fine a quello che ha sempre rappresentato una trappola per topi oltre che un’autentica vergogna. Ora - conclude il sindacalista Uil - bisognerà solo affrettare un po’ i tempi per collaudare la struttura velocizzandone l’iter. Ne varrà per la sicurezza e l’economia di un carcere visto che da oggi i ricoveri dei condannati di stanza nel carcere di piazzale vittime del dovere avverranno in sedi extraterritoriali. Reggio Calabria: Marziale vuole agevolare esercizio genitorialità detenuti Il Velino, 2 giugno 2018 Il Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza della Regione Calabria, Antonio Marziale, ha incontrato nel carcere reggino di Arghillà la direttrice dell’istituto, Maria Carmela Longo. Al centro della visita, il Protocollo siglato dal Ministero della Giustizia, dall’Autorità Garante nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza e dall’associazione Bambini Senza Sbarre, allo scopo di agevolare l’esercizio della genitorialità dei detenuti. “Di recente - ricorda Marziale - il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia ha notificato ai provveditori regionali dell’amministrazione, ai direttori delle carceri ed ai comandanti di reparto, una nuova raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa volta a promuovere l’effettiva applicazione delle articolate norme contenute nel Protocollo, tendente a garantire ai figli minorenni il diritto ad un legame affettivo con il genitore attraverso una serie di accorgimenti che devono essere tenuti in debita considerazione anche dalla magistratura”. “Il Protocollo - spiegano Marziale e Longo - è particolareggiato con cura e perizia ed è da considerarsi uno strumento di tutela dei diritti dei Minori imprescindibile. Urge, però, diffonderlo al fine di sensibilizzare tutti gli attori coinvolti nell’iter di applicazione, tenendo il bambino sempre al centro delle priorità. Per tale motivo, a settembre avvieremo azioni di confronto pubblico con tutte le parti interessate, comprese l’avvocatura e le famiglie, affinché il Protocollo non rimanga soltanto una fiera delle buone intenzioni”. Genova: premio letterario degli avvocati, fra i detenuti vincono Borgarelli e Rodà di Marco Fagandini Il Secolo XIX, 2 giugno 2018 Nel carcere di Marassi, dove si trova recluso dal 27 ottobre del 2016, Claudio Borgarelli ha preso in mano la penna. E ha scritto un racconto, “La scoperta”, in cui il protagonista è lui, che cammina sui sentieri in mezzo a un bosco, per trovare qualcosa che però resta un segreto. Borgarelli era stato condannato il 2 ottobre scorso in primo grado a 30 anni di carcere per aver ucciso e decapitato lo zio Albano Crocco, 68 anni, proprio in mezzo a un bosco a Craviasco nel comune di Lumarzo. Con il suo racconto ha vinto giovedì il primo premio per la narrativa nella sezione dedicata ai detenuti del concorso letterario dell’Ordine forense di Genova, che è intitolato agli avvocati Gianni di Benedetto e Piero Franzosa. E il primo premio per la poesia nello stesso concorso e sempre nella sezione detenuti è andato ad Antonio Rodà, arrestato il 20 giugno del 2016 a Lavagna e accusato di essere un membro del gruppo legato alla ‘ndrangheta che per anni ha influenzato la politica e la vita della città del Tigullio. L’uomo è stato condannato il 17 luglio scorso a 14 anni e 8 mesi di carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso e detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. La poesia era intitolata “Nonno Antonio” e descrive questa figura. “È il primo anno che apriamo il concorso ai detenuti - racconta Gabriella De Filippis, avvocata e presidente della giuria - Siamo ormai abituati all’ottimo livello dei concorrenti, ma in questa terza edizione è stata proprio la sezione riservata ai detenuti a offrire spunti davvero interessanti e la partecipazione di diverse persone recluse a Marassi”. E tra questi ci sono Borgarelli e Rodà. Il primo da tempo si dedica a diverse attività, nel carcere. Mentre il secondo avrebbe scritto diversi testi, dedicati a soggetti differenti. Sassari: metti un pomeriggio nel carcere di Bancali di Benedetto Sechi fondazionesardinia.eu, 2 giugno 2018 Entrare in un carcere e trovare una umanità insolita, nei volti dei detenuti, nei loro sorrisi che non ti aspetti e perfino nei modi gentili degli agenti della penitenziaria. Un pomeriggio di fine maggio, di questo 2018, nel carcere di Bancali, a Sassari, per una rappresentazione teatrale messa su, con gli “ospiti” della Casa Circondariale Bacchiddu, da Vittorio e Alessandro Gazale. Il carcere di Bancali è nuovo, fa impressione da fuori per quanto è mastodontico, una fortezza inespugnabile, con dentro uomini e donne che sopravvivono in ogni modo a quella situazione. Ricordo sempre che mia madre, parlando delle disgrazie che possono accadere nella vita mi diceva: “ la garera è fatta pà li cristhiani”, volendo dire che può capitare a tutti di finirci dentro, per colpa o per errore; quindi, ammoniva, non si dovrebbe mai gioire per chi sta in quella condizione. L’idea della rappresentazione teatrale, nasce dal lungo lavoro di un gruppo di detenuti che si sono appassionati ad un progetto, realizzato rovistando carte nelle cantine e nei sotterranei di diversi istituti di pena, ma principalmente nel vecchio carcere di San Sebastiano, noto ai sassaresi come “casanza”. Faldoni maleodoranti ed impolverati che racchiudevano le vite e le storie di tanta gente, di detenuti e condannati certo, ma anche delle loro famiglie e perfino delle loro vittime. Si tratta di storie rimaste sepolte li, loro hanno il merito di averle fatte rivivere, un omaggio alla sofferenza e al dolore di tanti che non ci sono più e di alcuni che ancora possono raccontare. Storie delle colonie penali sarde, quando “sbattere in Sardegna” qualcuno era una punizione aggiuntiva alla pena. Significava non poter avere contatti con la famiglia. Nelle colonie penali sarde si sperimentava il lavoro agricolo, quello dell’allevatore. Una condizione non facile per le regole rigide e di sfruttamento cui erano sottoposti i detenuti. Tra quelle carte, storie complicate, ma anche semplici, lettere mai partite, lette solo dal censore di turno, solitamente il cappellano, che decideva se fosse il caso di spedirle ad una mamma o ad una moglie o di far leggere al detenuto, a quel numero di matricola, quello che in famiglia, oltre le quattro mura, stava accadendo. Lettere mai lette e mai partite. “Carte Liberate” è il nome del volume che, anche grazie all’editore Carlo Delfino, raccoglie gran parte di quelle storie. Un titolo che, mai come questo, rende, anche visivamente, il senso vero del lavoro portato a termine. Sono stati bravi a mettere in scena e a recitare questo lavoro svolto da novelli archivisti. Ma come si diventa archivisti per caso? Un lavoro da topi da biblioteca, ho sempre pensato; un lavoro, invece, che si può fare solo se nasce l’amore per quelle “carte”, per quelle storie, raccontate a volte anche solo da un modulo, a prima vista freddo, che raccoglie le informazioni necessarie ad inquadrare lo status di recluso. Certo, mi è sembrato strano vedere detenuti che interpretano altri detenuti. Interpretare se stessi, in fondo, non è cosa facile. Non lo è per nessuno, ma penso debba essere difficile ancora di più, per chi da quella condizione vorrebbe uscirne e dimenticarla. È stata straordinaria la performance. Stavano sul palco, contemporaneamente, in tredici, senza mai sovrapporsi, recitando ognuno il proprio ruolo, con ilarità e risate a volte, ma anche con commozione e tenerezza, mentre leggevano alcuni brani e liberavano quelle carte. Le liberavano e le trasferivano nella mente e nella memoria di ciascuno di noi. Si intrecciavano storie e temi anche attuali. Il lavoro negli istituti di pena, l’unico modo per dare un senso a quella condizione di uomini “conservati”, altrimenti dediti all’ozio, che è la condizione più pesante per il detenuto, diceva uno di loro. Nel mentre recitavano e interpretavano, pezzi delle loro storie personali affioravano lentamente. Una compagnia teatrale internazionale si potrebbe dire: sardi, veneti, albanesi, indiani, egiziani. C’era chi si sentiva un pò più libero, pur rimanendo in carcere, solo perché finalmente finivano lunghi anni del 41/bis e dell’isolamento. Chi raccontava di una evasione, poi evidentemente conclusa male. Il lavoro di raccolta ha una sua colonna musicale. Impropriamente la chiamo così. Infatti Piero Marras, un cantautore cui sono particolarmente affezionato, ha tratto da queste storie, una quindicina di canzoni, che toccano l’anima nel profondo. Piero Marras ha scritto tante belle canzoni, nella sua lunga carriera artistica. Ma alcune di queste, legate a “Carte Liberate”, che ho avuto la fortuna di ascoltare, sono certo saranno ricordate tra le più belle. Ti emozionano, per i testi, per la melodia, ma soprattutto per come lui le propone, vengono fuori dall’anima, non sono il frutto di un lavoro commerciale, ma di un sentimento artistico nato dentro quelle storie e con queste persone, in carne ed ossa. Una in particolare, che rievoca il cosiddetto ergastolo ostativo (ho imparato oggi): è quella pena che non ha mai una fine. Una condizione senza speranza. Ma si può togliere ad un uomo la speranza? Ho sempre pensato che in quella situazione preferirei la morte. Dicevo, di un pomeriggio a Bancali, un posto che quando ci passi vicino, in auto, dai appena uno occhiata e poi tiri dritto, ti soffermi solo a pensare qualche istante che è pieno di gente, quell’agglomerato di edifici e sbarre, poi la mente se ne va altrove, quasi a voler cancellare la visione di quel posto, che non dovrebbe essere lì. Ecco, un pomeriggio lì dentro, a fare il pieno d’umanità, a riflettere sul fatto che sono luoghi che esistono davvero, che fanno parte della nostra quotidianità. Certo, quasi sempre ci si finisce perché si è sbagliato, a meno che uno non sia condannato da innocente, il massimo delle ingiustizie. Ma aveva ragione mamma, “me figliò, ammentaddi chi la garera è fatta pà li cristhiani”. Como: corsi di Hair Stylist per le detenute del Bassone comozero.it, 2 giugno 2018 È stato inaugurato ieri - 1 giugno - nel carcere del Bassone il Salone di Bellezza voluto dai Club di Como e Varese del Soroptimist International d’Italia per poter ospitare un corso di formazione da Parrucchiera-Hair Stylist per le donne detenute. “Partendo dall’assunto dell’art. 1 della Costituzione “l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”, e dall’art. 27 co.3 che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” - spiegano dalle due associazioni - si ritiene fondamentale creare opportunità formative in ambito professionale e lavorativo in settori diversi”. Il 25 ottobre 2017, Santi Consolo, Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia ha firmato un Protocollo d’intesa con la Presidente Nazionale del Soroptimist International, Patrizia Salmoiraghi, che ha dato avvio al progetto “Donne@Lavoro-SI Sotiene” per il biennio 2017-2019 a favore della formazione delle donne detenute nelle carceri italiane. Soroptimist International, attraverso il corso di base di Acconciatrice- Hair Stylist, intende fornire a queste donne uno strumento per il loro avanzamento pratico-professionale in un settore del mercato che potrebbe offrire diverse opportunità lavorative sia con l’avvio di un’attività autonoma sia in laboratori, negozi o catene in franchising dedicate alle attività estetiche e del benessere. L’obiettivo è dare la possibilità alle donne uscite dal carcere di una emancipazione economica a fine pena. Il corso di formazione sarà svolto da Ornella Gambarotto, titolare della catena di negozi “Equipe Ornella” che rappresenta sul territorio un’eccellenza nell’ambito dell’attività di parrucchiera e salone di bellezza. Ornella ha generosamente messo a disposizione la sua professionalità e il suo tempo per rendere possibile questo progetto. Parte degli arredi del Salone di Bellezza sono stati donati da Ikea, partner internazionale dell’Unione Italiana del Soroptimist. Anche il Club di Merate ha partecipato con l’arch. Augusta Comi che ha offerto il progetto di allestimento dello spazio dedicato al Salone di Bellezza del Bassone. Presenti all’inaugurazione la Direttrice della Casa Circondariale di Como, Carla Sanatandrea, la Presidente Nazionale del Soroptimist International d’Italia, Patrizia Salmoiraghi, la Vice Presidente, Paola Pizzaferri, la Presidente del Club di Como, Annarita Polacchini e la Presidente del Club di Varese, Daria Banchieri e numerose socie dei due Club. “Il Club di Como è molto felice di questa collaborazione con il Club di Varese - ha dichiarato Polacchini - che ci ha portato a realizzare insieme questo progetto presso la sezione femminile della Casa Circondariale di Como. Il Soroptimist Club di Como ha già portato avanti una analoga azione nel passato allestendo un laboratorio di sartoria all’interno del Carcere e questa azione, mira a dare continuità al progetto e sostegno e prospettive alle donne in difficoltà. Un sentito ringraziamento a Ornella Gambarotto per la sensibilità dimostrata nel mettersi a disposizione per la realizzazione di questo service”. “Anch’io sono molto lieta dell’esperienza collaborativa con SI Como. Potrebbe venire istintivo chiedersi perché il Club di Varese a Como, dove il Soroptimist di Como per tradizione è già estremamente attivo nei confronti delle detenute e per giunta da molti anni? Il carcere di Varese non dispone della sezione femminile e nella Casa Circondariale del Bassone si trovano anche detenute provenienti dal territorio varesino e il fare rete è un mezzo sempre vincente e lo dimostra il risultato odierno”. “L’iniziativa parte da un protocollo sottoscritto a livello nazionale tra Soroptimist e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. - ha spiegato Santandrea - Da una valutazione dei fabbisogni delle carceri italiane si creano dei progetti da calare nelle singole realtà e, per il carcere di Como, la necessità avvertita era proprio quella di creare un Salone di bellezza, per la cura di se stesse e un giardino ricreativo che vedesse impegnate le detenute ospiti dell’Istituto. Non dobbiamo dimenticare che ogni strumento a sostegno delle donne è uno stimolo per il cambiamento, per insegnar loro nozioni e tecniche che potrebbero essere sviluppate anche al termine della pena. “In carcere anche anche le cose più normali come uno specchio sono diverse rispetto a fuori e, partendo da queste considerazioni - ha evidenziato Gambarotto - ho voluto dedicare parte del mio tempo proprio a loro, mettendomi a loro disposizione, per insegnar loro a prendersi cura di sé perché si è donne sia dentro che fuori. Un secondo aspetto a cui tengo particolarmente è legato all’insegnamento. Con queste lezioni, chi lo vorrà, potrà apprendere un lavoro, sviluppare una propria attitudine perché un domani possa diventare un lavoro, una professione. Cose semplici, piccoli passi, a cui tengo moltissimo”. Il Soroptimist International è un’associazione mondiale di donne impegnate in diverse professioni che si adopera attraverso le proprie competenze per migliorare la condizione delle donne. Il Club di Como è attivo dal 1954 con numerosi service in ambito sociale e culturale privilegiando l’aiuto alle donne e la promozione del loro potenziale, attraverso il motto “Insieme diamo valore al futuro delle donne”. Cina. 29 anni dopo, ancora niente giustizia per il massacro di Tiananmen di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 giugno 2018 La notte tra il 3 e il 4 giugno 1989, le truppe dell’Esercito popolare di liberazione cinese entrarono a Pechino per porre fine a settimane di proteste pacifiche e sgomberare piazza Tiananmen dai manifestanti. Fu una carneficina di centinaia, se non migliaia di persone del tutto inermi e inoffensive. A distanza di 29 anni, le autorità cinesi non hanno ancora aperto un’indagine indipendente né tanto meno hanno riconosciuto di aver compiuto un massacro. i familiari delle vittime non solo non hanno mai ottenuto risarcimenti ma continuano a essere perseguitati ogni qual volta intendano commemorare gli eventi di Tiananmen. Il gruppo delle Madri di Tiananmen, che ormai da quasi tre decenni porta avanti la campagna per un’indagine indipendente, è stremato dalla persecuzione, dalla delusione e dall’età che avanza: dal 1989 sono decedute almeno 51 madri (le ultime due: Wang Fadi nel dicembre scorso, all’età di 84 anni, e Li Xueven, a febbraio, a 90 anni). La censura è sempre all’opera contro i tentativi di tenere viva la memoria del massacro e anche quelli più innocui vengono repressi. Come accaduto nel maggio 2016 a quattro amici che avevano messo in circolazione una bevanda alcoolica con l’etichetta che richiamava Tiananmen: accusati un anno fa di “incitamento a sovvertire i poteri dello stato”, sono tuttora in carcere in attesa che inizi il processo. All’inizio di maggio due funzionari pubblici uiguri sono stati condannati a 11 anni per essere stati trovati in possesso di un rapporto in lingua inglese sul massacro del 1989. L’accusa nei loro confronti è stata quella di “voltafaccia”, una definizione dall’evidente sapore politico riservata agli esponenti della minoranza uigura che non dimostrano sufficiente fedeltà alle autorità cinesi. Un altro caso è quello dell’attivista Dong Guangping. In carcere dall’inizio del 2014 all’inizio del 2015 per aver preso parte a una commemorazione, è fuggito in Thailandia dove ha chiesto asilo politico. Nonostante l’Alto commissariato Onu per i rifugiati l’avesse riconosciuto tale e avesse organizzato il suo ricollocamento in un paese terzo, nel novembre 2015 le autorità di Bangkok l’hanno deportato in Cina dove ora è in attesa di processo per il tipico “incitamento a sovvertire i poteri dello stato” e anche di “attraversamento illegale della frontiera nazionale”. Un veterano del movimento per la democrazia del 1989, Zhu Yufu, è ancora sotto sorveglianza dopo aver trascorso sette anni in carcere, sempre per “incitamento”. Aveva scritto una poesia, intitolata “È ora” e l’aveva resa pubblica via Skype: “È ora, popolo cinese! La piazza appartiene a tutti, I piedi sono i tuoi, È ora di usare i tuoi piedi e scendere in piazza per fare una scelta!”. Parafrasando Zhu Yufu, è ora che il governo cinese riconosca i tragici fatti della Storia e si decida a fornire giustizia e risarcimento del danno ai parenti delle vittime. Quelli che, 29 anni dopo, sono ancora vivi. Arabia Saudita. La principessa in copertina e le attiviste in carcere di Francesca Caferri La Repubblica, 2 giugno 2018 Vogue Arabia dedica la cover ad Haifa Bint Abdullah, figlia del re morto nel 2015, in vista dell’abolizione del divieto di guida. Ma scoppia la polemica, dopo l’ondata di arresti delle ultime settimane. “Un oltraggio”. “Una vergogna”. “Chissà cosa pensano i suoi fratelli che sono stati arrestati per più di tre mesi”. Non sono stati teneri i commenti sui social network alla copertina del mensile Vogue Arabia, che per celebrare l’abolizione del divieto di guida per le saudite, prevista per il giugno, ha messo in copertina la principessa Haifa Bint Abdullah, figlia del re morto nel 2015, al volante di un’auto sportiva. Poche settimane fa infatti il governo saudita ha fatto arrestare le principali promotrici della campagna per la guida alle donne, Loujain Al Hatloul, Aziza Yousef e Eman al Nafjan, nonché due delle donne che nel 1991 avevano per prime preso il volante in Arabia Suadita, oggi ultrasettantenni. Se le ultime due sono state rilasciate, le altre restano in carcere con l’accusa di tradimento, nonostante gli appelli dei governi internazionali, di Amnesty International e di Human Rights Watch. Per ricordarlo alcuni attivisti hanno sovrapposto i loro volti a quello della principessa, in una serie di immagini già condivise da migliaia di persone sui Social Network. “L’arresto di queste donne getta dubbi sull’intera campagna di riforme voluta dal principe ereditario Mohammed Bin Salman”, ha scritto due giorni fa in un editoriale il New York Times. Haifa Bint Abdullah è una delle figlie del re Abdullah. I suoi due fratelli, considerati rivali politici dal Mbs, come è chiamato in patria, sono stati fra i detenuti nella retata anti corruzione promossa dal principe in novembre. Accusati di corruzione, hanno pagato più di un milione di dollari ciascuno per essere liberati. Ma, come tutti gli altri arrestati di quelle giornate, non sono più tornati sulla scena pubblica.