È possibile dal carcere fare prevenzione in modo efficace? Ristretti Orizzonti, 29 giugno 2018 A Ristretti Orizzonti pensiamo di sì, e lo facciamo con il progetto di confronto tra le scuole e il carcere. Che ora rischia però tagli pesantissimi. Quelle che seguono sono le lettere inviate da alcuni insegnanti, sull’importanza del progetto di confronto tra le scuole e il carcere, che l’associazione Granello di Senape, con la redazione di Ristretti Orizzonti, porta avanti da ben quindici anni, con risultati straordinari. E che però rischia un ridimensionamento pesante, da due incontri a settimana a uno al mese. E poi pubblichiamo le lettere delle persone detenute agli insegnanti, coinvolti nel progetto, che dovevano partecipare a un incontro nella redazione di Ristretti Orizzonti, come avveniva ogni anno, per fare un bilancio del progetto nell’anno scolastico 2017-2018 e parlare della sua prosecuzione, ma non sono stati autorizzati a entrare in carcere. Nell’incontro con Insegnanti e dirigenti scolastici, convocato dal Direttore il 28 giugno, è stato affermato con forza il valore di questo progetto, che sta soprattutto nelle testimonianze delle persone detenute. Un progetto definito dalla magistrata di Sorveglianza presente, Lara Fortuna, “eccellente e innovativo a livello nazionale”. La speranza è che non ci sia nessun ridimensionamento, e che il carcere faccia uno sforzo per accogliere anche quest’anno migliaia di studenti, e per consentirci di promuovere una autentica azione di prevenzione. E di restituzione alla società, da parte dei detenuti, di un po’ di bene, dopo tanto male.   Lettere aperte al Direttore della Casa di reclusione di Padova Da parte di alcuni insegnanti che partecipano al progetto di confronto tra scuole e carcere Di questo progetto i ragazzi si sentono parte attiva, protagonisti in prima persona Sono una docente del Liceo Marchesi, da 12 anni partecipo con più di una classe del quarto anno al Progetto "A scuola di libertà" con convinzione ed entusiasmo. Questo progetto è unico nel suo genere ed è, a detta di tutti gli studenti che hanno partecipato, l'esperienza più importante che nei cinque anni di scuola gli sia capitato di vivere. Pur avendo  ogni progetto formativo che noi proponiamo agli studenti una sua valenza educativa, questo rimane in assoluto il più significativo, il più ricordato anche negli anni successivi al periodo della scuola, come mi è stato più volte raccontato da ex studenti. I punti di forza di questo progetto sono molteplici. Proverò ad esplicitarne alcuni. Prima di tutto è un progetto di tipo esperienziale. Non è un approfondimento teorico, non è un film, non è un dibattito, non assomiglia alle tante ore di lezione che i ragazzi già vivono a scuola, ma è un incontro di vita. Se c'è una cosa che "funziona" molto bene con i ragazzi e che li coinvolge efficacemente, catturando pienamente il loro interesse, è proprio l'incontro con dei testimoni, con il racconto del loro vissuto. Quando gli studenti incontrano i detenuti vi è un ascolto attentissimo, nessuno deve essere richiamato al silenzio ed il tempo a disposizione è, a detta dei ragazzi, sempre troppo breve! Perché l'interesse è altissimo e le domande che i ragazzi vorrebbero rivolgere ai detenuti sempre sovrabbondanti rispetto al tempo a disposizione per rispondervi. Un secondo aspetto straordinario è che rappresenta una piccola rivoluzione copernicana, cioè gli studenti assaporano "la scoperta", il prima e il dopo, dal "non conoscere" al "conoscere"! Assaporano che la conoscenza porta al cambiamento e ad una visione più critica della realtà. Si rendono conto dei forti pregiudizi che condizionavano i loro punti di vista sul carcere, sulle persone detenute (che non sono i mostri che si immaginavano), sulle diverse motivazioni che possono indurre al crimine. Una conoscenza che li rende orgogliosi e li fa quasi sentire un passo più avanti dei loro coetanei, a cui raccontano ciò che hanno scoperto con grande entusiasmo (alle volte con l'amarezza di non venire compresi). Un terzo aspetto è quello relativo all'educazione alla legalità, alla prevenzione del reato. Ascoltando le vite dei detenuti, di alcuni di loro il racconto della loro infanzia o adolescenza, di come spesso siano arrivati a delinquere iniziando dalle piccole trasgressioni, le stesse che magari anche gli studenti stanno sperimentando, colgono che nessuno è esente dalla caduta, che anche a loro potrebbe capitare di incamminarsi inconsapevolmente per una via senza ritorno, trasgressione dopo trasgressione. Comprendono che spesso dietro a certe scelte sbagliate vi è stato prima l'abbandono della scuola e dello studio. Questo li aiuta, più di tante raccomandazioni, a capire l'importanza del loro percorso scolastico e dell'osservanza delle regole e delle leggi. Un quarto aspetto, non meno significativo dei precedenti, è che di questo progetto si sentono parte attiva, protagonisti in prima persona e non solo fruitori. Spesso i progetti che possono essere offerti a scuola relegano i ragazzi al solo ruolo di "destinatari" del progetto stesso, destinatari di un incontro, di un film, di una rappresentazione o di un concerto. Raramente si riesce a farli sentire protagonisti in prima persona. Ebbene, nel rapporto con i detenuti invece gli studenti percepiscono di essere protagonisti importanti, anzi insostituibili e preziosi, del progetto. Sentono di essere parte attiva, con la loro presenza, le loro domande dirette, il loro ascolto rispettoso e attento, del cammino di recupero delle persone detenute. Sentono i detenuti raccontare quale importanza rivesta per loro questo progetto che li mette a confronto con gli studenti. I ragazzi capiscono che non sono entrati in carcere solo per ricevere ed imparare, ma anche per dare e insegnare. Questa reciprocità è un'esperienza molto formativa e molto gratificante per gli studenti, che non sperimentano spesso situazioni dove siano degli adulti a dire di aver imparato da loro e li ringrazino per questo. Infine una notazione del tutto personale, ma che so condivisa da tanti colleghi con cui mi sono confrontata. Questo progetto fa crescere in umanità anche noi docenti più di mille corsi di aggiornamento! Angiola Gui docente del Liceo Marchesi   La forza del progetto credo stia soprattutto nell’efficacia della testimonianza Ormai da più di un decennio, in qualità di docente responsabile del progetto Educazione alla Legalità presso la mia scuola, il Severi di Padova, conosco Ornella Favero e la redazione di Ristretti Orizzonti. Posso con tutta franchezza affermare che le ricadute, in fatto di discussioni e riflessioni degli allievi, una volta tornati a scuola dopo gli incontri in carcere o dopo gli incontri con i detenuti presso il nostro Istituto, sono state di gran lunga le più profonde, sincere e comunque le più interessanti. La forza del progetto credo stia soprattutto nell’efficacia della testimonianza, non il racconto di un professionista, che per quanto preparato e sincero non appare, agli occhi dei ragazzi, vero quanto può esserlo invece chi racconta di sé e del “peggio" della sua vita. La generosità dimostrata da alcuni detenuti, attraverso i loro racconti, ad ogni incontro è riuscita a scalfire alcune pericolose certezze, come ad esempio il fatto che un delinquente nasce tale e che il carcere è un destino per pochi. Al contrario, incontro dopo incontro, è apparso sempre più chiaro come sia possibile un lento scivolamento verso stili di vita che conducono inesorabilmente a devastare la vita degli altri e la propria. Sento profonda gratitudine per Ornella Favero e per la redazione di Ristretti, caso più unico che raro di intelligente uso delle istituzioni per permettere ai nostri giovani di esperire testimonianze così forti e vere.  Alberto Cardin  docente dell'Istituto Severi, Padova  Creare occasioni per far riflettere sulla propria vita Sto dalla parte di chi, con grandissimo impegno e intelligenza non comune, ha saputo dimostrare che nessuna vita é ormai già "scritta", che capire di avere ancora "qualcosa da perdere" può ribaltare un destino apparentemente già segnato, e che, a dispetto di quanto può sembrarci ineluttabile, creare occasioni per far riflettere sulla propria vita, sui propri e altrui errori e sul dolore ricevuto ma soprattutto provocato, può rivelarsi cura miracolosa. Tutto ciò, persino per quegli uomini che, per primi, non scommetterebbero più sul loro cambiamento, rassegnati a diventare, incarnandola, la colpa commessa. Conosco bene il lavoro di Ornella Favero, fin dai primi incontri tra detenuti e allievi, a scuola e in carcere. Grande stima quindi per lei e chi, assieme a lei, ha saputo regalare il proprio tempo e il peggio del proprio passato, per stimolare nei ragazzi e nei docenti riflessioni altrimenti impossibili, dandoci modo di emanciparci dalle ignoranti scorciatoie che spesso anche famiglia, informazione e purtroppo a volte istituzioni, suggeriscono.  Grande Lavoro quindi quello di Ristretti Orizzonti, senza alcun dubbio. Onorato di esservi Amico. Stefano Cappuccio docente di Tecnologia presso Istituto U. Ruzza, Padova È a partire dall’emozione che si attiva negli adolescenti la riflessione Il Liceo Selvatico aderisce al Progetto Carcere da molti anni, almeno una decina, coinvolgendo un numero elevato di classi. Quest’anno ad esempio hanno partecipato tutte le quarte del Liceo, per un coinvolgimento totale di circa 150 studenti. L’adesione a tale progetto si inserisce nel percorso più ampio di “Educazione alla legalità” che coinvolge tutti gli studenti dalla prima alla quinta e in cui vengono affrontati vari temi: il concetto di diritto/dovere per ogni cittadino, lo studio della Costituzione, l’uso consapevole e responsabile dei social, l’educazione stradale,  la prevenzione dei comportamenti a rischio e delle dipendenze. Il Progetto Carcere è dunque situato all'interno di questo percorso di formazione già strutturato nella scuola, e dà agli studenti una possibilità straordinaria. La conoscenza diretta di persone che hanno commesso reati,  il racconto della loro esperienza umana e carceraria, e soprattutto la loro capacità di raccontarla attraverso le parole, e in qualche modo di “ripensarla”, producono sempre un forte impatto emotivo. Ed è a partire dall’emozione che si attiva negli adolescenti la riflessione, il bisogno di confrontarsi e di capire. Il valore del progetto è duplice. È esperienza, nel contatto diretto tra studenti e carcerati, ed è  riflessione, nella preparazione che precede la visita, ma soprattutto nella fase successiva, quando si ritorna in classe. Allora gli studenti fanno altre domande, cercano risposte, leggono articoli, discutono del passato e del presente, ragionano sulle leggi, sulle trasgressioni e sulle punizioni, sul bene e sul male, aprono confronti inediti anche accesi. Questa seconda parte è forse, per noi insegnanti, la più preziosa, quella che meglio restituisce il senso formativo e culturale di tutto il progetto. Ci auguriamo di poter continuare ad offrire ai nostri studenti la possibilità di aderire a questo progetto anche nel prossimo anno scolastico, senza modificare sostanzialmente la modalità con cui viene effettuato. Donatella Galante, docente del Liceo Selvatico, Padova   La particolare efficacia del progetto si fonda nel confronto diretto con i detenuti In aggiunta a quanto già espresso da Donatella Galante del Liceo Selvatico, mi sento di ribadire almeno un aspetto a mio parere fondamentale del progetto. È proprio il confronto mediato, ma sincero ed evidentemente privo di secondi fini, con persone che hanno sbagliato e si offrono senza sconti al severo giudizio dei giovani che permette ai ragazzi di lasciarsi coinvolgere e riflettere. Non si sentono più assolutamente estranei, cominciano a vedere la devianza come qualcosa che, in modi e contesti diversi, può raggiungere tutti e per questo tutti devono fare particolare attenzione a non sottovalutare comportamenti a rischio. Una lezione "istituzionale" sul funzionamento del Carcere, proposta dall'alto, in modalità formale e "frontale" non avrebbe lo stesso impatto e lo stesso feedback sui ragazzi. La particolare efficacia del progetto si fonda sostanzialmente nel confronto diretto con detenuti (o ex detenuti) che attraverso testimonianze emotivamente significative fanno ripensare sotto vari aspetti al concetto di "responsabilità", così importante per le giovani generazioni. Cordiali  saluti, nella speranza di poter proseguire l'adesione al progetto come l'abbiamo conosciuto, secondo i presupposti che ne hanno determinato successo ed efficacia, a fronte del lungo lavoro di preparazione e adattamento da parte della redazione di "Ristretti Orizzonti" cui va il mio più sentito ringraziamento. Giovanna Giacometti docente del LAS Selvatico, Padova La forza del progetto è quella di dare la possibilità a studenti e detenuti di confrontarsi Distinto Direttore, negli scorsi giorni ci è giunta notizia della sua intenzione di portare cambiamenti strutturali significativi al progetto "Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere". Esprimiamo innanzitutto il nostro dissenso rispetto alla scelta di escludere dal progetto le scuole fuori dal territorio padovano.  Da ormai dieci anni il Liceo Corradini di Thiene (Vicenza) partecipa con centinaia di studenti al progetto, che è entrato a pieno titolo nel percorso di formazione culturale e di cittadinanza attiva della scuola. L'incontro diretto con i detenuti e l'incontro in carcere, la possibilità di rielaborare quanto ascoltato e vissuto in forma scritta o altro, sono aspetti e momenti  fondamentali ed imprescindibili. Il racconto delle storie di vita e la possibilità del confronto diretto con la realtà del carcere sono elementi essenziali alla buona riuscita del progetto e all'interesse degli studenti. Se venissero meno queste possibilità di incontro e confronto, il progetto perderebbe molto della sua efficacia e utilità.  Ci sono già nella scuola momenti di conoscenza teorica e formale su temi quali la legalità, il valore delle regole, la giustizia ed altro. La forza di tale progetto è stato finora quella di dare la possibilità a studenti e detenuti di incontrarsi e confrontarsi direttamente, nel rispetto delle sensibilità e della storia di ciascuno. Remigio Cocco referente del progetto carcere del Liceo Corradini di Thiene Lettere aperte agli insegnanti che non abbiamo potuto incontrare da parte dei detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti Partecipare a questo progetto mi ha cambiato la vita Sono Tommaso Romeo, da cinque anni partecipo al progetto scuola/carcere, oggi scrivo a voi insegnanti in quanto quest’anno, a differenza degli anni passati, non è stata firmata l’autorizzazione per farvi partecipare all’incontro di fine anno scolastico con noi della redazione in carcere. Io, a differenza di molti altri detenuti, sono entrato in carcere che avevo un titolo di studio, un diploma, in questi anni di progetto ogni volta che mi trovo davanti ai vostri alunni la mia mente va ai miei anni più belli, quando ero anche io uno studente. Oggi, conoscendo l’importanza di questo progetto, quando incrocio gli occhi dei ragazzi mi ripeto più volte che se avessi avuto l’opportunità di partecipare ad un progetto del genere forse non sarei finito in carcere con una condanna all’ergastolo, sentire dalla viva voce di un ergastolano cosa significa passare tutta la vita in carcere mi avrebbe fatto riflettere molto su certe mie scelte. Devo ringraziarvi per il vostro buon lavoro fatto con i vostri studenti perché sono arrivati agli incontri molto preparati con domande e riflessioni intelligenti, ci tengo a ripetere quello che dico ai ragazzi alla fine della mia storia, che il partecipare a questo progetto mi ha cambiato la vita, perché questo progetto fa bene a tutte le parti che vi partecipano e non solo agli studenti. Penso che è un dovere di tutti salvaguardare un progetto del genere, in primis delle istituzioni, in voi ho visto la credibilità delle istituzioni, ma anche la grande umanità nel trattarci da uomini normali, grazie. Tommaso Romeo Solo noi, che siamo stati gli artefici di tanto male, possiamo spiegarlo Gentilissimi professori, sono Giovanni Zito, uno dei redattori di Ristretti Orizzonti, scrivo questa lettera aperta per farvi capire quanto sia importante per me il progetto con le scuole. Sento il dovere di difendere questo impegno con gli studenti in quanto mi ha dato la capacità di uscire da una subcultura che occupava la mia mente, e solo le loro domande possono avere una forza cosi dirompente. Per la prima volta nella mia vita lotto per qualcosa a cui tengo fortemente, qualcosa di coinvolgente, il mio recupero sociale. Solo il confronto supera le mura della prigione. Quando vedo gli studenti che entrano in carcere ad ascoltare le testimonianze di noi detenuti, rimango senza fiato perché provo tante emozioni, di gioia e tristezza. Difendere questo progetto è compito di tutti noi, il dentro cosi come il fuori devono darsi una mano salda e forte in queste iniziative, perché solo cosi possiamo smuovere quelle resistenze che purtroppo oggi ci ostacolano. La redazione è da sempre che si distingue dagli interventi “tradizionali” di prevenzione della devianza che hanno una efficacia limitata negli studenti e suscitano scarsa attenzione, perché i ragazzi non vogliono ascoltare un'altra lezione, ma scoprire dove e come nasce il male, da che parte arriva il pericolo, e solo noi che siamo stati gli artefici di tanto male possiamo spiegarlo. Se scrivo queste parole è perché ritengo il nostro un progetto unico, dove anno dopo anno riscontriamo molta attenzione da parte dei nostri stessi interlocutori, perché nel momento dell’incontro siamo tutti studenti, cadono le differenze e assumono importanza verità e sincerità, e noi siamo anche altro, non più solo il reato da ascoltare e condannare. Io dico grazie a voi professori che operate per il bene dei giovani studenti, e ai familiari dei ragazzi che affidano un compito cosi difficile da trattare, come quello della prevenzione, a voi e a noi. Abbiamo tutti il dovere di proteggere le generazioni future con qualunque mezzo che possa risultare efficace, e il progetto di confronto fra le scuole e il carcere ci pare che lo sia. Questo investimento sul futuro dei giovani che noi tutti facciamo con impegno costante ci rende liberi, responsabili e concreti, è questo il modo in cui i “cattivi per sempre” cercano il riscatto pagando anche cosi il debito che hanno con i cittadini. Cerchiamo di proteggere il patrimonio di studio, cultura, confronto, ascolto rappresentato da questo progetto, che viene gestito da volontari, detenuti e Istituzioni con coraggio e umiltà da ben 15 anni. Grazie a tutti coloro che saranno partecipi di questo mio pensiero. Giovanni Zito Non sono in grado di dare consigli neanche a me stesso Ho passato l’intero anno scolastico aspettando l’incontro con le scuole, un appuntamento importante con quella parte di società più giovane, con quelle persone curiose della vita. Pensavo che non sarei mai stato in grado di confrontarmi con dei ragazzi, non avrei avuto il coraggio di mettermi in gioco, di rispondere alle loro domande, di dover anche criticare me stesso, il mio stile di vita, le mie scelte, eppure, mi sono ritrovato a rincorrere il tempo per arrivare a quell’appuntamento di lunedì e martedì mattina. Non so bene cosa suscitano in me quei ragazzi pieni di vita, forse nei loro occhi, negli sguardi, nei loro comportamenti, intravedo la figura di un familiare, di un mio figlio, di un nipote o semplicemente la figura di un ragazzo che sta cominciando ad affrontare la vita, con le sue insidie, con la sua complessità in un’età in cui si è più vulnerabili, dove si cade facilmente in comportamenti rischiosi. Allora verrebbe spontaneo voler dare dei consigli. Ahimè, non sono in grado di dare consigli neanche a me stesso, se fossi stato in grado di consigliare non mi troverei in questi luoghi di desolazione, sì, il carcere è desolazione, pieno di persone che hanno fatto scelte di vita sbagliate, persone frustrate, persone sole. Non sono la persona in grado di dare consigli, cerco di dare il mio umile apporto evidenziando il mio percorso di vita per non vedere buttare via la vita altrui, la vita di quei ragazzi, quelle persone che io raffiguro in mio figlio, in mio nipote, in ogni caso, persone per le quali nutro affetto. Non sono più giovane, mi commuovo facilmente, non pensavo di nutrire questi sentimenti; da persona spigolosa, irruente, e per certi versi rude, ho lasciato spazio alle emozioni, a volte penso che il progetto di confronto tra le scuole e il carcere è stato un percorso di vita inverso, sono stati i ragazzi che hanno fatto breccia irruentemente nel mio cuore, suscitando in me tante emozioni. Non sono bravo con le parole, forse mi esprimo meglio quando scrivo, amo la solitudine, e nella mia solitudine rifletto. Purtroppo oggi non ci è stata data la possibilità di incontrare voi insegnanti, io ho aspettato questo incontro, come ogni anno, e quello che avrei voluto chiedervi, la mia curiosità era: avete riscontrato, in almeno un vostro studente, delle riflessioni forti, da far intuire nel suo stile di vita un minimo cambiamento, o comunque, riflessioni che possano essergli rimaste utili per il percorso della vita? In quest’anno scolastico avete riscontrato delle tematiche da approfondire, in cui possiamo essere più incisivi con le nostre storie per mettere in discussione le certezze degli studenti? Ci sono stati degli argomenti su cui siamo stati poco chiari e che richiedevano un approfondimento maggiore per suscitare nei ragazzi delle curiosità, delle riflessioni fuori dagli schemi? Io personalmente nei vostri studenti ho notato raramente posizioni rigide e un rifiuto del confronto, e mi chiedevo: solitamente in quell’età i ragazzi nutrono dubbi, incertezze, contestano per mettersi in evidenza, sono molto duri, anche perché le loro fonti primarie di informazione sono i social, dove imparano in fretta a “spararla più grossa”. Mi chiedevo allora: sono intimiditi dal contesto in cui si trovano e magari in classe poi sono più duri, oppure riusciamo a sensibilizzarli così profondamente? Agostino Lentini Cerchiamo di far riflettere tanti ragazzi, cosi da evitargli alcune scelte di vita devastanti Da anni la redazione di Ristretti Orizzonti organizza incontri con gli studenti delle scuole esterne di ogni grado, ed è noto a tutti che questi incontri hanno aiutato tanti detenuti e tanti studenti a crescere, a scuotere le coscienze e a riflettere su temi scottanti come quello del carcere e del senso della pena. Molto probabilmente, prossimamente, verrà ridimenzionato il numero degli incontri con gli studenti che attraverso il progetto: “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere”, promosso dalla redazione di “Ristretti Orizzonti”, vede entrare centinaia di studenti provenienti da tutto il Triveneto in questo carcere, gruppi che fanno ingresso un paio di volte alla settimana per ascoltare le storie di diversi detenuti e con loro confrontarsi su molte questioni che riguardano anche la prevenzione. Pare che questo progetto, dove si raccontano in prima persona storie di vissuti difficili, verrà limitato ad un incontro mensile, e questa notizia ha portato tristezza negli animi di molti detenuti. Se questa decisione ufficiosa diventasse ufficiale, vedremmo vanificare 20 anni di duro lavoro fatto di impegno, sacrificio e costanza, dove molte persone detenute hanno avuto l’opportunità di crescere sotto molti aspetti, di riflettere, di confrontarsi e attraverso i loro racconti di esperienze complicate e pesantemente negative hanno fatto riflettere tanti ragazzi, cosi da evitargli alcune scelte di vita devastanti. Molti detenuti, grazie a questo progetto, sono riusciti a comprendere a fondo anche la differenza tra il bene e il male, acquisendo un grande senso civico. Molti studenti hanno compreso che nella vita veramente nessuno può definirsi immune dal commettere errori. Questo progetto ha emozionato tutti, ha fatto commuovere giovani studenti, ha fatto riflettere altri, una sua limitazione andrebbe a limitare l’interazione, lo scambio, il confronto tra il di qua e il di là del muro, tra i “buoni” e i “cattivi” Questo progetto è molto apprezzato da studenti, insegnanti, personalità istituzionali e dai magistrati i quali in diverse occasioni hanno avuto la possibilità di attestare un serio percorso di reinserimento dei detenuti, che si impegnano nel confronto con le scuole. Oggi pare che questo utile strumento di crescita e di prevenzione sia ridimensionato, cosi mettendo in discussione il percorso di tutte quelle persone che in questi anni con passione e costanza si sono confrontate con tantissimi studenti ed insegnanti. Noi vogliamo sperare, credere e ci crediamo che la redazione rimarrà quella che è sempre stata, una fonte di cultura, di crescita e di cambiamento, una affermazione della migliore civiltà penitenziaria, e rimarrà anche un fiore all’occhiello di questo carcere di cui andare fieri. Sono fiducioso che le attività che si svolgono all’interno rimarranno senza sconvolgimenti, ma al contrario, saranno sempre sostenute cosi per come meritano. Gaetano Fiandaca Un giorno triste per noi detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti Quest’anno non è stato autorizzato l’incontro con i professori delle scuole esterne del progetto “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere”, che puntualmente si svolge ogni anno alla chiusura dell’anno scolastico. Io mi chiamo Kleant Sula e personalmente sono molto amareggiato e preoccupato per questo fatto, è da moltissimi anni che questo progetto va avanti senza problemi e non mi capacito del perché quest’anno non si possa fare. È da sette anni che partecipo a questi incontri, che per me sono stati degli incontri molto fruttuosi perché vedevo in voi professori l’apprezzamento per tutto il nostro impegno verso i vostri alunni, non mi scorderò mai della professoressa Francesca, che ha invitato tutti i detenuti della redazione che potevano uscire in permesso a una cena a casa propria insieme alla sua famiglia al completo, quante altre persone avrebbero fatto una cosa del genere, ospitare dei detenuti a casa? Tutto questo lo scrivo per farvi capire il legame che si è creato tra di noi, tra la redazione e le vostre scuole. Cari professori, vi chiedo scusa e mi dispiace tantissimo che quest’anno non possiate entrare per l’incontro tanto atteso per poter condividere tutte quelle cose che abbiamo fatto insieme. Sono sicuro che i vostri alunni vi chiederebbero com’è andato l’incontro in carcere con ì detenuti della redazione, io al posto vostro non saprei dare una risposta ma faccio affidamento in voi, che siete molto più bravi di me, che con la vostra semplicità e sincerità fate stemperare tutti i sentimenti di rabbia, non è altrettanto facile per noi in questi momenti capire perché questo incontro non sia stato autorizzato, ma fatichiamo a trovare delle ragioni, visto che non vi era nulla di male ma solo un reciproco insegnamento. Chiediamo un piccolo aiuto a tutti voi, di far capire che gli incontri con ì vostri alunni sono per loro un momento fondamentale di confronto e di crescita. E lo sono anche per noi. Un caro saluto a tutti voi. Kleant Sula Avevo bisogno di essere ascoltato Cari professori, inizio questo mio breve scritto con molto rammarico per il semplice fatto che avrei voluto esprimere la mia riconoscenza e gratitudine a tutti voi personalmente, in primis per averci donato alcune ore con i vostri studenti, che mi sono state d’aiuto per affrontare tematiche che non avrei mai pensato di affrontare, ma soprattutto che non credevo di poter affrontare, invece con tutti voi è stato stranamente facile, forse perché avevo bisogno di essere ascoltato, e in tutti questi anni di carcerazione mi sono sentito ascoltato soprattutto in quelle occasioni avute con tutti voi e vi sarò eternamente grato per questo. Da come potrete notare con le mancate autorizzazioni per questo incontro, che doveva tenersi in redazione, è successo qualcosa che non riusciamo proprio a comprendere, oggi però sono riuscito a capire una cosa che fino a poco tempo fa sentivo soltanto in tv, cioè: ”In Italia quando qualcosa funziona bene si tende sempre a distruggerla”. Il perché a noi è ignoto, ma sta di fatto che non sarà più come prima, non avremo più l’opportunità di crescere cosi come l’abbiamo avuta fino ad oggi con voi, insieme a voi e ai vostri studenti. È difficile trovare delle argomentazioni da proporvi, delle domande da rivolgervi perché l’incertezza è tanta e la delusione ancor di più, per aver subìto la privazione di un qualcosa per me fondamentale, che è la parola. Concludo questo mio breve scritto ringraziandovi di cuore per avermi dato la possibilità di crescere e il coraggio per esprimermi liberamente, e spero che il mio contributo al progetto vi sia stato d’aiuto per comprendere come sia facile cadere in percorsi disastrosi. Mi auguro che questo messaggio sia arrivato anche a tutti i vostri studenti, che colgo l’occasione di salutare tramite voi. In fine saluto tutti voi con la speranza di potervi incontrare di nuovo il prossimo anno insieme ai vostri studenti, nonostante le speranze siano poche. Con stima. Giuliano Napoli P.S. Ho appena finito di vedere un film che s’intitola “Ti va di ballare?” ispirato alla vita di Pierre Dulaine, che introdusse nelle scuole degli Stati Uniti un programma di recupero di ragazzi difficili attraverso il ballo. All’inizio qualcuno lo screditò, ma dopo con la forza dei ragazzi che si sono appassionati al ballo e dei professori che hanno appoggiato quel lavoro, il progetto è diventato enorme coinvolgendo 12.000 studenti all’anno e circa 2.000 insegnanti di ballo. Il nostro progetto in 15 anni ha sicuramente fatto progressi, ma non mi spiego come non sia ancora stato esportato in tutti gli altri istituti. Essere espulso per me era raggiungere l’obiettivo di passare il tempo con i miei amici Mi dispiace di non aver avuto la possibilità di confrontarmi con voi qui in redazione per come è andato quest’anno il nostro progetto. Perché per noi questo confronto serve per capire quanto il nostro lavoro è stato importante per i vostri studenti, anche se le loro lettere e riflessioni parlano chiaro e sono rimasto stupito che tanti lo ritenevano una delle esperienze più significative della loro vita. Queste affermazioni da parte loro mi hanno fatto sentire orgoglioso del nostro progetto, e mi hanno dato la forza di andare avanti anche se ultimamente stiamo avendo dei problemi, compreso questo ostacolo al dialogo con voi qui in redazione. Non capisco perché deve essere messo in discussione questo progetto di prevenzione, e ridimensionato, in quanto tutti gli studenti sono soddisfatti, e mi pare anche i professori. Una esperienza che va avanti da quindici anni, che ha avuto molti successi e che è riuscita a cambiare la nostra visione della vita, che è riuscita a cambiare i pregiudizi degli studenti e fargli capire che il carcere è una parte della società e che non ci sono persone immuni dal rischio di finirci dentro, perché hanno visto dalle nostre testimonianze persone che non immaginavano mai di finire qui dentro. Per me poi è importante confrontarmi con voi professori per approfondire alcuni temi che abbiamo toccato durante l’anno, come il valore della scuola, ma soprattutto per ragionare sul fatto che per quei ragazzi che trovano difficoltà a scuola e che sono problematici, tante volte si sceglie la via dell’espulsione. Anche a me da ragazzino non piaceva andare a scuola e quando andavo facevo tante di quelle che ora chiamo stupidaggini, come conflitti con i professori e i compagni. E sono stato espulso tante volte per questi miei comportamenti, essere espulso per me era raggiungere l’obiettivo di non andare a scuola e di passare il tempo con i miei amici, che normalmente non erano quei ragazzi che si comportavano bene a scuola, ma erano quelli come me che non rispettavano le regole. E in questo modo avevamo creato la nostra compagnia e dal non rispettare le regole a scuola, abbiamo iniziato a fare i piccoli reati e con il tempo cose più gravi, finché siamo arrivati in carcere. Da quei ragazzini che eravamo siamo finiti quasi tutti in carcere con una condanna più o meno pesante. Lo so che non è facile gestire alunni problematici, perché anche i miei professori cercavano di tenermi buono ma non ci sono riusciti. A volte invece di parlare di espulsione i professori cercavano dopo la scuola di tenerci in classe a fare i compiti o come punizione di pulire la classe, la loro era una specie di mediazione, e devo dire che per me questi erano sistemi più efficaci. Ecco credo che si debba lavorare di più sulla mediazione, sul fare un percorso con questi ragazzi e capire le loro difficoltà a rispettare le regole, cosa che non è facile, quando questo ti viene spiegato dalle persone che tu da studente vedi come autorità lontane ed estranee alla tua vita. Forse il nostro progetto aiuta un po’ in questo, perché dà possibilità a loro in prima persona di confrontarsi con noi e di vedere le conseguenze delle nostre azioni. Grazie per l’attenzione. Armend Haziraj Il progetto scuola/carcere è stato per me un salvavita Sono Roverto Cobertera, uomo di colore, che ritiene di essere stato massacrato dalla giustizia di questo paese per un omicidio non commesso, e non perché lo dico io, ma perché si è assunta la responsabilità di quel reato un’altra persona, e io sto facendo di tutto perché il mio processo sia rivisto. Sono da circa sei anni un redattore della redazione di Ristretti Orizzonti, che insieme a me ha sopportato il mio dolore, la forza della mia rabbia e il senso di desolazione che porto con me anche per una storia di affetti che in carcere sono davvero negati, io le mie figlie infatti le sento pochissimo, troppo poco per riuscire a conservare il loro affetto. La redazione mi ha accolto come un amico, il progetto scuola/carcere è stato per me un salvavita, è stato una realtà rivoluzionaria perché mi ha fatto mettere in discussione con me stesso e con la vita di tutti i giorni, facendomi capire tante cose, in special modo aiutandomi a recuperare l’uso della parola e dandomi gli attrezzi per tentare di andare avanti e lottare in maniera diversa, sopportando questa impotenza che sento nel non avere gli strumenti per difendermi e accettando una realtà che si mostra indifferente e superficiale nei miei confronti. Il progetto scuola/carcere non è solo un progetto di prevenzione per i ragazzi, un modo per insegnargli come allenarsi prima per non arrivare a commettere un reato, è anche una scuola dove vieni ascoltato e impari a prenderti le responsabilità delle tue azioni, avere pazienza nei confronti di una giustizia che a volte è poco umana. Penso che se non esistesse questa redazione la vita di molti detenuti non avrebbe nessun senso, iniziando da me. Queste sono le mie riflessioni. Roverto Cobertera Francesco Basentini alla guida del Dap Vita, 29 giugno 2018 Il magistrato ordinario attualmente procuratore aggiunto della Repubblica presso il tribunale di Potenza è stato nominato capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Nato a Potenza nel 1965, Basentini, prende il posto di Santi Consolo. Il Consiglio dei ministri si è riunito mercoledì 27 giugno a Palazzo Chigi, e ha deliberato la nomina di Francesco Basentini a capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il magistrato, Basentini è nato a Potenza nel 1965, prende il posto di Santi Consolo. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) è uno dei quattro dipartimenti in cui si divide il Ministero della giustizia italiano. Da questo dipende il Corpo di polizia penitenziaria. Il compito del Dap è quello di provvedere a garantire l’ordine e la sicurezza all’interno degli istituti penitenziari, lo svolgimento dei compiti inerenti all’esecuzione della misura cautelare della custodia in carcere, delle pene e delle misure di sicurezza detentive, delle misure alternative alla detenzione. Provvede inoltre all’attuazione della politica dell’ordine e della sicurezza degli istituti e servizi penitenziari e del trattamento dei detenuti e degli internati e dei condannati ed internati ammessi a fruire delle misure alternative alla detenzione; al coordinamento tecnico operativo ed alla direzione e amministrazione del personale penitenziario, nonché al coordinamento tecnico-operativo del predetto personale e dei collaboratori esterni dell’amministrazione; alla direzione e gestione dei supporti tecnici, per le esigenze generali del Dipartimento medesimo. Contestualmente il Consiglio dei ministri ha anche deliberato la nomina la nomina a Capo Dipartimento per gli affari di giustizia del dott. Giuseppe Corasaniti, magistrato ordinario attualmente Sostituto Procuratore generale presso la Corte di Cassazione. Colloqui e ore d’aria, i timori sulla tenuta del 41bis di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 29 giugno 2018 L’allarme dell’amministrazione penitenziaria: “Così si rischia l’alleggerimento del carcere duro”. Piscitello: “Si pronunci la Cassazione”. Attualmente sono 732 i detenuti sotto processo o condannati sottoposti al “carcere duro”. L’ultimo campanello d’allarme è suonato nel carcere de L’Aquila, dove si trova la maggior parte dei detenuti al “41bis”. Il 4 giugno scorso, in 51 (su un totale di 151) hanno chiesto udienza al magistrato di sorveglianza, dopo che la sera prima uno di loro aveva gridato da una cella: “Questi ora vogliono aprire Pianosa e ci faranno morire, proviamo a chiedere il colloquio con il magistrato di sorveglianza e parliamone con lui!”. La voce veniva dal fondo di un corridoio ed è rimasta anonima, ma ciò che è accaduto l’indomani, quasi una class action preventiva, fa pensare ad altri contatti che le regole del “carcere duro” dovrebbero invece impedire. I timori espressi, in quel caso, erano legati all’ipotesi circolata in quei giorni che alla guida del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, potesse andare il pm antimafia Nino Di Matteo (al quale il ministro della Giustizia aveva effettivamente pensato, prima di cambiare idea e nominare un altro). Tuttavia le preoccupazioni circa un possibile allentamento del “regime speciale” si fondano su altri episodi, e arrivano dall’interno dello stesso Dap. Attualmente sono 732 i reclusi sotto processo o condannati per appartenenza a Cosa nostra, camorra, ‘ndrangheta e altre organizzazioni criminali sottoposti al “carcere duro”, per via della loro pericolosità. L’obiettivo delle limitazioni rispetto al regime ordinario è tagliare i canali di collegamento con l’esterno e tra di loro, e per questo motivo i colloqui avvengono sempre attraverso un vetro divisorio e il videocitofono. Ma il direttore dell’ufficio detenuti e trattamento, Roberto Piscitello, denuncia da tempo la possibilità che vengano concessi colloqui diretti, riservati e senza controlli, non solo al Garante nazionale dei detenuti (come prevede espressamente la legge), ma anche a quelli regionali e comunali. Sui quali non c’è alcuna “certificata affidabilità”, dice Piscitello, che aggiunge: “Quali garanzie può dare in più il rappresentante locale rispetto a quello nazionale? Questa estensione rappresenta un vulnus grave al divieto di contatti con l’esterno, e può diventare rischiosa per gli stessi garanti locali, ai quali potrebbero essere affidati messaggi o richieste indebite persino a loro insaputa”. In attesa che su questo si pronunci la Cassazione, Piscitello auspica che il Parlamento specifichi, per legge, il divieto per quei colloqui riservati. E denuncia l’ulteriore problema delle due ore giornaliere previste per il passeggio all’aperto, che alcuni giudici di sorveglianza aggiungono alle altre due di “socialità” al chiuso (da svolgersi fra quattro detenuti al massimo). “La legge stabilisce un limite di due ore alla possibilità d’incontro con altre persone - spiega il dirigente del Dap, e finché non si cambia non si può superarlo con l’aggiunta delle ore d’aria che pure si effettuano in compagnia”. Anche su questa questione si arriverà a un verdetto della Cassazione, ma nel frattempo Piscitello propone un chiarimento per legge che eviti la violazione surrettizia della norma. Evitando, per contro, interpretazioni restrittive su altri aspetti che nulla hanno a che vedere con le finalità del “carcere duro”. Come è successo di recente a Novara, dove a un “41bis” è stata bloccata una lettera in uscita nella quale disponeva un finanziamento per l’associazione Nessuno tocchi Caino, legata al partito radicale. Provvedimento confermato dal Tribunale di sorveglianza in virtù di “una nota del Dap che ha espressamente esposto di intercettare tutte le missive contenenti materiale da inviare alla detta associazione”. In realtà, chiarisce Piscitello, “non esiste né può esistere una norma, e tantomeno una circolare del Dap, che impedisca ai detenuti di scrivere a chiunque o finanziare movimenti. Si è trattato di un invito della polizia penitenziaria a segnalare lettere che potessero destare preoccupazioni per l’insorgere di proteste e disordini, ma non mi pare questo il caso. I problemi sono altri”. La chiusura del tribunale a Bari e lo Stato senza Stato di Marco Demarco Corriere della Sera, 29 giugno 2018 A giudicare dai fatti, tutti, dal sindaco al ministro, hanno agito per evitare il peggio. Tutti si sono assunti un pezzo, ma solo un pezzo, di responsabilità. E alla fine il peggio ha vinto su tutti, perché il risultato ultimo sarà quello del caos dopo le macerie. Immaginare uno Stato senza Stato non è poi così difficile. Basta guardare in direzione di Bari. Qui, per effetto di una fatale dissolvenza, lo Stato ha perso un suo simbolo, il Tribunale, e una sua primaria funzione: la giurisdizione. Nel giro di qualche mese, mentre nel Paese si cercavano gli equilibri possibili per un nuovo governo, e secondo alcuni si saltava da una Repubblica all’altra, due perizie tecniche hanno dichiarato il Tribunale, inteso come sede, “inidoneo” dal punto di vista strutturale, in altre parole candidato al crollo; il sindaco ne ha firmato l’inagibilità e lo sgombero entro novanta giorni; il presidente di Regione, su richiesta dei magistrati, ha reso possibile il trasferimento anticipato degli uffici in una tendopoli; e il neo nominato ministro, preoccupato per l’effetto-terremoto che l’accampamento giudiziario faceva nella nuova Repubblica, ha infine smantellato anche questo, decretando d’urgenza la sospensione tout court di tutti i processi penali. Tranne quelli per terrorismo e mafia, se ne riparlerà a ottobre. A giudicare dai fatti, tutti, dal sindaco al ministro, hanno agito per evitare il peggio. O meglio, come si dice a Bari: per togliersi dalle mazzate. Tutti si sono assunti un pezzo, ma solo un pezzo, di responsabilità. E alla fine il peggio ha vinto su tutti, perché il risultato ultimo sarà quello del caos dopo le macerie. In mancanza di una decisione drastica, quale poteva essere un decreto non per sospendere la giurisdizione ma per trasferire immediatamente gli uffici altrove, più pezzi separati e timorosi dello stesso Stato non sono riusciti a fare uno Stato intero. Quasi una metafora della vicenda italiana. La soluzione invece trovata è provvisoria e probabile: una sede a Modugno, incapace di contenere tutti gli uffici e che tutti si augurano possa essere sostituita con un’altra più funzionale, per la quale il ministero ancora continua la ricerca. Una giustizia ritardata è una giustizia negata, ammoniva Montesquieu. Ma a Bari il quadro è ancora più nero: è quello di una giustizia prima evacuata, poi accampata, allagata e infangata dagli acquazzoni, quindi nuovamente sfrattata e infine dispersa con la promessa di un prossimo ritorno all’ordine. Una giustizia nel frattempo non amministrata, con tutto ciò che questo comporta per i diritti di tutti: di chi accusa e di chi si difende. Fa pensare, poi, che ciò avvenga nella cosiddetta era del cambiamento e nella Regione del nuovo presidente del Consiglio: in continuità con una storia che è iniziata (male) nel 2002, quando il Tribunale di Bari fu posto sotto sequestro perché ritenuto abusivo; è continuata (peggio) nel 2015, quando il ministero della Giustizia non pagando il fitto si è reso moroso; e ha sfiorato l’assurdo (se non la farsa) a ogni apertura dell’anno giudiziario, quando i magistrati ogni volta segnalavano crepe alle pareti e sinistri scricchiolii nel Palazzo del Tribunale e ogni volta a Roma nessuno raccoglieva. Ora il ministero parla di danni relativi: i casi di sospensione sarebbero in numero esiguo. Ma avvocati e magistrati, sommando quelli attualmente all’attenzione dei pm e dei giudici delle varie fasi, ne contano circa centomila. Una bella differenza! In più, se e quando sarà finalmente trovata una nuova sede (e si teme l’ipotesi “spezzatino”, cioè più edifici, anche fuori Bari) bisognerà comunque ripartire con i processi, rimettendoli nei ruoli dai quali sono stati cancellati, e riprovvedendo alla notifica di tutti gli atti. Il che fa dire a molti che se ogni cosa andrà per il verso giusto ci vorranno almeno dieci anni per recuperare la normalità. In un Paese più volte maglia nera in Europa per la lunghezza dei processi, e che è arrivato fino a 140 mila sentenze di prescrizione in un anno, non è una bella prospettiva. Con o senza pena finale, il processo è già una pena. A partire da Bari, se questa è l’antifona, rischia di diventare una pena senza fine. Nel penale il diritto all’oblio cede il passo a quello dell’informazione di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2018 Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 28 giugno 2018, nel caso ML e WW contro Germania. Gli archivi online di giornali e radio sono un bene da proteggere perché garantiscono il diritto della collettività a ricevere notizie di interesse generale, che non è attenuato dal passare del tempo. Di conseguenza, giusto far prevalere la diffusione di informazioni su procedimenti penali, anche a distanza di anni, rispetto al diritto all’oblio. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza depositata ieri nel caso M.L. e W.W. contro Germania con la quale Strasburgo ha respinto il ricorso di due cittadini tedeschi condannati all’ergastolo per un omicidio e scarcerati con una misura di messa alla prova. I due ricorrenti sostenevano che il mancato accoglimento della loro richiesta di anonimizzazione di alcuni reportage che li riguardavano fosse una violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea che assicura il diritto al rispetto della vita privata. Una tesi respinta da Strasburgo che ha fatto pendere l’ago della bilancia a favore dell’articolo 10 della Convenzione che garantisce la libertà di espressione. È vero che ogni persona ha diritto al rispetto della vita privata, che include anche quello di non essere ricordato per fatti del passato legati a condanne penali, ma è anche vero che la collettività ha diritto a ricevere informazioni sui procedimenti penali e sulla scarcerazione dei colpevoli così come a poter svolgere ricerche su eventi del passato. Non solo. La Corte europea mette in guardia dai rischi di un accertamento in sede giudiziaria delle richieste di rimozione presentate da individui a danno di organi di stampa perché questo potrebbe spingere gli organi di informazione a omettere notizie di interesse generale che la collettività ha diritto a ritrovare negli archivi digitali. Né si può chiedere di rendere anonimo ogni articolo perché spetta ai giornalisti decidere quali dettagli sono di interesse generale. La scelta, quindi, se riportare il nome completo di una persona condannata spetta alla stampa nel rispetto delle regole deontologiche. La Corte europea ha anche definito i parametri ai quali le autorità nazionali devono attenersi per raggiungere un giusto bilanciamento tra i diritti in gioco. Prima di tutto, necessario considerare se la notizia contribuisce a un dibattito di interesse generale. Poi va valutata la notorietà della persona, l’oggetto del reportage, il comportamento precedente della persona interessata, il contenuto, la forma e le ripercussioni della pubblicazione e, all’occorrenza, anche le modalità con le quali sono state acquisite eventuali fotografie, tenendo conto che nella libertà di stampa rientra anche il diritto di scegliere le modalità di pubblicazione inclusi i dettagli da divulgare. La Corte poi lancia l’allarme sui rischi sulla libertà di stampa laddove si chieda, in una fase successiva rispetto alla pubblicazione, un accertamento sulla liceità della stessa pubblicazione. In questi casi, infatti, potrebbe accadere che gli editori arrivino a ritenere più conveniente non curare gli archivi. Rischio che la Corte evita rafforzando la tutela della libertà di stampa. Il rischio sterilizza il mandato d’arresto Ue Italia Oggi, 29 giugno 2018 Secondo l’Avvocato generale della Corte di giustizia europea Tanchev, l’esecuzione di un mandato d’arresto europeo deve essere rinviata se l’autorità giudiziaria competente constata non solo che sussiste un rischio concreto di flagrante diniego di giustizia a causa delle carenze del sistema giudiziario dello stato membro emittente, ma altresì che la persona destinataria di tale mandato corre tale rischio. Per stabilire se il soggetto di cui trattasi corra tale rischio, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve prendere in considerazione le circostanze particolari riguardanti sia tale soggetto sia il reato per il quale quest’ultimo è perseguito o è stato condannato (conclusioni nella causa C-216/18 PPU, Minister for Justice and Equality/LM). Abusi edilizi? Senza condanna impossibile la confisca di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2018 Corte dei diritti dell’uomo, sentenza 28 giugno 2018 nel caso Giem e altri contro Italia. No alla confisca per abusi edilizi quando manca un giudizio di condanna. Lo ha affermato ieri la Corte europa dei diritti dell’uomo stabilendo che le autorità italiane non avrebbero dovuto procedere con la confisca di numerosi terreni per costruzione abusiva senza una precedente condanna dei responsabili (assente nei casi esaminati per varie ragioni, tra cui la prescrizione): la sentenza riguarda Punta Perotti (Bari), Golfo Aranci (Olbia), Testa di Cane e Fiumarella di Pellaro (Reggio Calabria). E da subito sono partire le polemiche. Con un vicepremier e ministro dell’Interno, Matteo Salvini che non si è tenuto e ha rilanciato l’attacco alle istituzioni europee, affermando che “la Corte di Strasburgo condanna l’Italia e difende gli eco-mostri e la cementificazione selvaggia? Ennesima prova del fatto che certe istituzioni dovrebbero essere chiuse”. La pronuncia in realtà aveva avuto almeno un precedente, nel 2013, quando i giudici di Strasburgo, arrivarono a medesime conclusioni (sentenza Varvara, 29 ottobre 2013) sempre in una vicenda relativa a una confisca urbanistica. Le conclusioni della Corte vennero poi negli anni successivi in parte disattese dalla Cassazione e soprattutto dalla Corte costituzionale. Quest’ultima soprattutto, nel 2015, con la sentenza n. 49, sminò la portata potenzialmente dirompente della “Varvara” sostenendo che non rifletteva un orientamento consolidato del diritto europeo. Ora la nuova sentenza rende assolutamente possibile, se non probabile, che il giudice dell’esecuzione, chiamato in causa dai proprietari che chiederanno la restituzione degli immobili, nel contesto di un incidente di esecuzione, tornerà a chiamare in causa la Consulta. Plaude invece ai giudici europei Vitotrio Manes, docente di diritto penale a Bologna, e difensore di due delle società interessate: “La Grande Camera ha ribadito che la confisca urbanistica è assimilabile ad una vera e propria sanzione penale, che può essere disposta solo nel rispetto di precise garanzie, prime fra tutte la chiarezza dei divieti e la prevedibilità delle conseguenze, e il necessario coinvolgimento processuale del titolare dei beni; per queste ragioni ha ravvisato, nel caso concreto, violazioni del principio di legalità, ed anche di quello di proprietà, a fronte di una evidente sproporzione dei beni confiscati”. E per Enrico Maria Mancuso, docente di Procedura penale alla Cattolica di Milano, “la pronuncia apre nuovi scenari in ambito interno: i giudici che saranno chiamati a valutare la posizione dei terzi destinatari di un provvedimento di confisca per reati edilizi dovranno valutarne con attenzione la buona fede e dovranno verificare se la pronuncia in questione possa determinare un mutamento degli orientamenti giurisprudenziali recenti, che avevano consentito la confisca anche in assenza di condanna del titolare del bene”. Whistleblowing, segnalazioni record ma tutele da integrare di Ivan Cimmarusti Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2018 In costante aumento i whistleblower, passati da tre nel 2014 a 364 nel 2017 e 334 nei primi cinque mesi del 2018. Ma sempre più spesso questo istituto normativo - che tutela chi segnala illeciti o irregolarità civili, penali e amministrative nella pubblica amministrazione e nel privato - finisce per diventare strumento per dar sfogo a invidie, disagi personali e frustrazioni. “Dovremo discernere le segnalazioni vere da quelle che spesso sono strumentali ad altri fini”, ha detto ieri il presidente di Anac Raffaele Cantone, che ha presentato, assieme al procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e a Virginio Carnevali, presidente di Transparency International Italia, il terzo report annuale sul whistleblowing. Si tratta di una figura importata dal diritto anglosassone, disciplinata con la legge 30 novembre 2017 n.179: consente al lavoratore denunciante (il whistleblower) di essere tutelato dai rischi di atti discriminatori dovuti alle segnalazioni. “Il prossimo anno saremo in grado di capire se questa normativa sta dando i suoi frutti”, ha puntualizzato Cantone. Con la legge, infatti, è stata data competenza totale ad Anac a ricevere le denunce, a gestire le pratiche e ad avviare il meccanismo sanzionatorio che possa evitare forme di discriminazione sul luogo di lavoro. “È una sfida”, continua, perché così il “pubblico dipendente” può operare “nell’interesse dell’integrità dell’amministrazione”. Stando al procuratore Pignatone, le segnalazioni potrebbero ulteriormente aumentare, utilizzando parallelamente altri strumenti normativi per tutelare il whistleblower che intenda rimanere riservato. “Abbiamo almeno un’altra norma: la protezione dei testimoni di giustizia, modificata dalla legge 11 gennaio 2018 n. 6, che potrebbe essere applicata, solo in certi casi specifici, anche al whistleblower”. Pignatone, inoltre, ha spiegato che sul fronte della lotta alla corruzione è “contrario alla figura dell’agente provocatore, mentre si può lavorare sull’agente sotto copertura”. Ma veniamo ai dati di questo terzo report. Il monitoraggio ha riguardato 40 amministrazioni pubbliche, ma solo in 37 hanno risposto ai quesiti. L’area geografica da cui è partito il maggior numero di segnalazioni è il Sud Italia (il 42,81%, rispetto al 32,34% del Nord e al 21,86% del Centro). Sul fronte degli enti pubblici, sono registrate dieci condotte irregolari al Mef, 56 all’agenzia dell’Entrate e 19 al Comune di Milano. L’applicazione della nuova norma - con le conseguenti segnalazioni - ha portato le amministrazioni a rivedere procedure organizzative in diversi enti, tra i quali Roma, Milano e Napoli. Un capitolo di rilievo riguarda l’applicazione della norma sul whistleblower alle società private. In questa “prospettiva”, spiega la circolare 16/2018 di Assonime, “ben si comprende la scelta di estendere il whistleblowing alle imprese ed enti di diritto privato” già soggette alla responsabilità amministrativa prevista dal dlgs 232/01. La nuova legge, infatti, modifica l’articolo 6 di questo Dlgs nella parte in cui stabilisce i requisiti dei modelli organizzativi idonei a prevenire i reati a fini di whistleblowing. Il solo “orario notturno” non basta a configurare l’aggravante della minorata difesa di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2018 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 1 giugno 2018 n. 24727. Il solo “orario notturno” non è sufficiente a configurare la circostanza aggravante della minorata difesa, ove non ricorrano altre condizioni che consentano, attraverso una complessiva valutazione, di ritenere in concreto realizzata una diminuita capacità di difesa sia pubblica che privata. Lo hanno detto i giudici della sesta sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 24727 del 1 giugno 2018. La giurisprudenza è prevalentemente orientata a ritenere che non vi è automatismo tra l’aggravante della minorata difesa(articolo 61, numero 5, del Cp) e il “tempo di notte” (cfr. tra le altre, sezione IV, 30 novembre 2016, Mihai). In proposito, si argomenta, infatti, che, poiché il fondamento dell’aggravante di cui all’articolo 61, numero 5, del Cprisiede nella considerazione in termini di maggiore disvalore della condotta lì dove l’agente approfitti, attraverso un meditato calcolo, della possibilità di facilitazione dell’azione delittuosa offerte dal particolare contesto in cui l’azione verrà a svolgersi, la commissione di questa “in tempo di notte” non può realizzare, di per sé solo, automaticamente, l’aggravante, ma può avere rilievo, caso per caso, solo qualora concorrano ulteriori condizioni che abbiano effettivamente annullato o sminuito i poteri di difesa pubblica o privata (di recente, sezione IV, 6 marzo 2018, Ghezzi). Bari: Bonafede rassicura l’Anm, ma scoppia il caso carcere di Alessio Viola Corriere del Mezzogiorno, 29 giugno 2018 I detenuti bisognosi di esami medici o cure rischiano di non avere autorizzazioni per il blocco delle attività. Una delegazione di magistrati ha incontrato il ministro Bonafede: “Ci ha rassicurati sulla sede unica”. Ma i detenuti bisognosi rischiano per il fermo di non essere autorizzati alle cure. L’emergenza giustizia a Bari non è solo quella edilizia, i palazzi che mancano o potrebbero crollare. Richiama a strascico altre emergenze, ormai cronicizzate, che innescano un rapporto dialettico malato tra cause ed effetti, con il rischio di rendere complicato stabilire anche priorità e obiettivi. E poco importa che i magistrati, ricevuti ieri dal ministro Alfonso Bonafede, abbiano ricevuto rassicurazioni sulla possibilità che a breve possa esserci un edificio unico per gli uffici giudiziari. La situazione delle carceri pugliesi, per dire, è come su tutto il territorio nazionale di cronica insufficienza di dotazioni e mezzi, di organici paurosamente sotto i livelli di sicurezza. A Bari il caso del tribunale in tenda (chiusa) di colpo sta rendendo esplosive alcune situazioni nella Casa circondariale, in particolare quella sanitaria. Il carcere di Bari è sede di un centro clinico diagnostico che è riferimento regionale e spesso interregionale. I viaggi della speranza dei detenuti, insomma, che spesso hanno il centro di Bari come riferimento. In questo mini ospedale dietro le sbarre ci sono apparecchiature radiologiche rotte. In una situazione “normale” i pazienti cambiano struttura di riferimento. In questo caso, per ogni infortunio o malattia che necessiti di una radiografia, è necessario portare fuori il detenuto. I problemi di trasporto sicurezza e costi aumentano in maniera esponenziale. Così come i tempi di attesa. Un detenuto non può andare a fare una radiografia all’esterno se non - a meno di casi particolari che non richiedano l’intervento del tribunale di sorveglianza - dopo l’autorizzazione del giudice che ha in carico il suo processo. Le carenze - La direzione registra anche l’assenza di un infettivologo. Alcuni macchinari sono rotti Giudici che sono sotto le tende sbarrate e con i processi fermi fino al 30 settembre. Ed ecco che il cerchio si chiude. Alluvionati, con fascicoli dispersi chissà dove, tempi che da lunghi come accade normalmente diventano biblici. Con un effetto rimbalzo sulle tensioni interne al carcere. Aggravate dal fatto che manca il medico infettivologo, che in una comunità è figura fondamentale per prevenire e curare sempre possibili contagi di ogni natura. Ma se mancano i referti medici o non si fa in tempo ad effettuare le radiografie le udienze saltano, i tempi si allungano ancora di più, il rischio per chi è in attesa di giudizio di una detenzione sempre più lunga è una realtà. I detenuti sono in qualche modo gli “utenti” più esposti dell’amministrazione della giustizia. I diritti di cui sono titolari, nonostante tutto, rischiano di essere calpestati, e il diritto alla salute è un principio costituzionale. Il risultato è un aumento di costi sociali pesantissimi. In termini di sicurezza e aggravio di spese. Milano: “giustizia, risultati record ma le risorse latitano” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 29 giugno 2018 Il bilancio sociale degli uffici giudiziari: essere produttivi diventa quasi un boomerang. A forza di non lamentarsi nonostante le carenze di organico e risorse, e di riuscire ugualmente a smaltire tutto quanto entra ogni anno negli uffici milanesi, questa virtuosità si è volta paradossalmente in boomerang, e Milano (con parametri di produttività migliori di tante città europea) finisce discriminata dal Ministero rispetto ad altre sedi giudiziarie metropolitane: è questo il leitmotiv del “Bilancio di responsabilità sociale” presentato in Aula Magna dai dirigenti degli uffici giudiziari. In Corte d’Appello, rimarca la presidente Marina Tavassi, i 21 mesi di durata media di un procedimento civile migliorano i 24,8 mesi dell’anno precedente, così come i 14,5 mesi nel penale scendono non poco dai 17,7 mesi del 2016. Eppure tutti gli uffici scontano carenze d’organico che l’immissione di alcune decine di cancellieri non ha fatto scendere sotto il 30%; il procuratore generale Roberto Alfonso mostra come il lavoro per migliorare la sicurezza del palazzo di giustizia (presto con 500 nuove telecamere) debba fare i conti con la penuria e la farraginosità della manutenzione ministeriale; e il presidente del Tribunale, Roberto Bichi, fa notare come, a fronte della sempre maggiore concentrazione di nuove competenze sul distretto (sezione specializzata imprese, sezione immigrazione, misure di prevenzione, procedure fallimentari, cause antitrust), il legislatore non abbia però dato un magistrato in più, un cancelliere in più, un euro in più. E intanto intere isole di sofferenza sociale traslocano proprio in Tribunale: 14.00 persone in amministrazione di sostegno, 4.000 richieste di asilo di migranti, 164 aziende e 598 immobili in gestione, e tutta la galassia dei minori e delle adozioni nel Tribunale presieduto da Maria Carla Gatto e nella Procura di Ciro Cascone. L’altra Procura, quella ordinaria, è intanto “in fase di ristrutturazione”, spiega il dirigente Francesco Greco, severo sulla legge 231 sulla responsabilità amministrativa delle imprese: “Per me è fondamentale ma così è fallita, lo dimostrano le sempre minori iscrizioni (20) a Milano, che pure è la città dove si applica di più”. Greco propone un “diritto premiale che ci permetta di separare la responsabilità dei manager da quella degli enti, altrimenti resta un blocco monolitico in cui si difendono a vicenda”. Genova: Pontedecimo, il carcere femminile che favorisce gli uomini di Michela Bompani La Repubblica, 29 giugno 2018 La denuncia del consigliere regionale Gianni Pastorino: “Il paradosso di un carcere che tutela di più gli uomini”. “A Pontedecimo, un carcere nato per essere femminile - l’unico in Liguria - diventa poi luogo di detenzione per uomini che hanno commesso, per lo più, reati sessuali e, per di più, sono ospitati in un’ala più confortevole del complesso”, denuncia il consigliere regionale Rete a Sinistra-Liberamente che con l’avvocata Alessandra Ballerini, in veste anche di osservatrice dell’associazione Antigone hanno compiuto una visita al carcere femminile di Pontedecimo. Nella struttura sono presenti 72 donne e 66 uomini: “Sembra paradossale vedere in un carcere che nasce per la detenzione femminile, siano in realtà maggiormente tutelati - sia dal punto di vista delle strutture sia dell’assistenza - gli uomini”, aggiunge Pastorino, che descrive l’organizzazione della struttura carceraria. “Nonostante i blocchi, maschile e femminile, siano autonomi, sono speculari dal punto di vista architettonico: abbiamo tristemente notato che nella zona femminile c’è un’evidente carenza di spazi di socialità o di attrezzi ludici, presenti invece maggiormente nelle strutture occupate dagli uomini”, dice il consigliere regionale. E Pastorino lancia un appello netto alla Regione: “È necessario un massiccio intervento regionale per mettere a disposizione più specialisti e permettere una maggiore formazione degli operatori, al fine di migliorare le prestazioni sanitarie e garantire ai detenuti e alle detenute la sicurezza di poter accedere alle cure”. Cosenza: detenuti e droga, le loro storie di Katya Maugeri sicilianetwork.info, 29 giugno 2018 “L’eroina la fumavo. È un passaggio progressivo: inizi a usare marijuana con gli amici, a sniffare cocaina durante i fine settimana, solo quando ne hai voglia e ben lontano da ogni forma di dipendenza, così credi. E invece ti ritrovi lì dinanzi la sostanza che la dipendenza non solo la crea ma ti lega a sé, giorno dopo giorno, silenziosamente”. Credi di poter deciderne la quantità e l’utilizzo, invece lei si chiama eroina e il suo tunnel non prevede un tuo parere. Questa è la storia di un uomo che in età matura si ritrova coinvolto nel mondo della tossicodipendenza e con provvedimenti penali: nessun disagio sociale - è figlio di un professionista -, nessun problema economico, né conflitti familiari. Eppure, qualcosa ha distrutto questo equilibrio e adesso segue un percorso di recupero presso la Comunità il Delfino - centro Eden di Cosenza. “Alla dipendenza fisica, a questo condanna l’eroina: se non ti fai non riesci ad alzarti dal letto dai dolori muscolari, hai brividi, e l’aspetto psicologico che si aggiunge al fisico è devastante. Dopo un po’ di anni dall’uso giornaliero, non riesci più a fare nulla senza prima aver assunto la tua “dose”, diventa la priorità”. Si è incatenati, continua a ripete, essere tossicodipendente significa essere schiavo di una bustina che ti fa solo del male, non ti concede di essere riflessivo, lucido e ti illude di vivere in un contesto idilliaco. Una storia d’amore, tra te e lei. E invece intorno la gente le vede quelle certezze, i progetti, che si frantumano e crollano come castelli di sabbia. “I miei erano all’oscuro della mia dipendenza - continua - chi fa uso di droga è quasi sempre un bipolare sa? Siamo bravi a nascondere quel marcio che stiamo vivendo. Si è davanti a una doppia personalità, e siamo in grado di vivere entrambe le realtà. Almeno, così crediamo. In quei momenti non si ha rispetto, per nessuno. Né per la società, nelle regole, dei propri cari. Perché si è egoisti, io ho perso tutto a seguito della sostanza. Ho rovinato un matrimonio, si pensa solo a fare i soldi: sono piccoli gesti che giorno per giorno senza valutarne le conseguenze annullano ogni obiettivo prefissato. Si vive in un mondo estraneo, parallelo”. Ed è inevitabile addentrarsi in ambienti pericolosi: quelle cattive compagnie che ti conducono lì dove non avresti mai pensato di arrivare. Al carcere. “Sono stato arrestato per spaccio di hashish, l’uso della sostanza lo induce spesso, è una conseguenza. Non avevo bisogno di soldi, sia chiaro, ma per garantirsi la qualità migliore è necessario acquistare un determinato quantitativo, che non potendolo consumare si inizia a spacciare. Quella poi diventa la catena del delinquere, trascorro così tre mesi nel carcere di Cosenza causando un trauma alla mia famiglia perché la stampa ci tartassa in prima pagina. Uno scandalo. Non so ancora spiegarmi il perché, la scelta che mi ha condotto ad annullare tutto e mettere al centro delle mie giornate la droga, potrei dire le cattive compagnie, la curiosità, la depressione sociale. Sì, sono aspetti che possono anche aumentare le probabilità di rischio ad avere contatto con la sostanza, ma non credo esista un manuale uguale per tutti”. Uscito dal carcere, però, decide di ricominciare la sua vita, inserendosi benissimo nel mondo lavoro, nel 2005 si sposa e apre delle agenzie immobiliari. Ma i guai non finiscono. “Nel 2007 mi arrestano per usura e mi portano al carcere di Vibo Valentia. Un anno difficilissimo a causa del degrado riscontrato in quell’ambiente: serve una riforma per gli istituti di pena poiché vige un meccanismo di affiliazioni, di affari, di aggregazioni. Un delinquente, un mafioso diventa più forte all’interno di quelle mura, proprio per le alleanze instaurate. E non esiste alcuna forma e speranza di riabilitazione: ho avuto difficoltà persino a leggere, solo durante i colloqui con mio padre e mio fratello mi veniva dato un libro, una rivista. Nessuna attività didattica, così si rischia di incattivire il detenuto allontanandolo per sempre dall’idea di recupero. È un problema sociale. Ma lo sa qual è il ricordo più brutto? - cambia persino tono, e trema - la sera quando si faceva la conta. Sì, la conta. Nella sezione alta sicurezza si controlla che tutti siano presenti e quando finivano chiudevano il blindo. Una sensazione orribile: ci sentivamo degli animali, privati della nostra libertà”. Il suo racconto tocca le corde dell’emotività, è una altalena di umori che si alternano a ricordi tristi, di incredulità “sono stato un folle: potevo morire, ho rovinato tutto, persino il mio ruolo nella società - continua a ripetere - all’epoca ci stavo bene però sa? Vivevo in un mondo tutto mio costruito da illusioni, non un mondo reale. Le cose peggioravano e si sgretolava la mia vita a frammenti e non riuscivo a percepirlo. Ho recuperato negli anni e con immensi sacrifici il rapporto con la mia famiglia” È un uomo ottimista, adesso, in una realtà che gli appartiene e riconosce nell’uomo che è stato quell’anello debole, “sa perché per tanti anni sono stato un tossicodipendente? Perché ero sicuro che da solo avrei potuto gestire il mio distacco dalla sostanza, e trovavo sempre la scusa per rimandare: ed erano settimane, giorni, mesi, anni. Poi, all’improvviso ho scelto di lasciare tutto ed entrare in comunità, mi ero reso conto dopo tanti tentativi falliti, tante possibilità date a me stesso che meritavo una svolta. Troppe volte mi sentivo sicuro e poi ricadevo nuovamente, a causa di stress eccessivo (ma erano solo scuse). Sono due anni che sto bene, stavolta davvero”. Ha dei progetti importanti che vuole realizzare non appena sarà fuori dalla Comunità, portare la sua esperienza nelle scuole, lavorare a dei progetti destinati alle attività di prevenzione e informazione sulle dipendenze, ha iniziato la sua attività di volontariato presso l’associazione volontari ciechi, è in atto il secondo capitolo della sua vita. “Adesso mi sento un leone - conclude - sento una voglia di vivere che mi dà forza. Il passato mi aiuterà ad affrontare il futuro con le condizioni giuste, mi ricorderà le conseguenze delle scelte sbagliate”. E ai giovani che credono di trovare nella droga un rifugio, una soluzione alla propria solitudine o semplicemente l’euforia per contrastare la noia consiglia con tono severo: “Trovate la forza di riconoscere il problema e di farvi aiutare: la droga non è un’amica, non è mai la soluzione, e non c’è cosa più bella - sorride - che divertirsi da lucidi”. Roma: “2R-Reset&Recode”, corsi di informatica per giovani detenuti minori.gov.it, 29 giugno 2018 Avvicinare i giovani detenuti all’uso del computer, al coding e alla fabbricazione digitale: è questo l’obiettivo del progetto 2R-Reset&Recode, un’iniziativa ideata dalla Fondazione Mondo Digitale e realizzata in collaborazione con il Centro Provinciale Istruzione Adulti 3 Roma che si rivolge ai ragazzi ospiti dell’Istituto penale minorile Casal del Marmo e ai detenuti della casa circondariale Regina Coeli della capitale. Il progetto mira a sostenere il percorso di reinserimento sociale e lavorativo dei giovani in carcere attraverso il rafforzamento delle loro competenze digitali, ma ha anche altre finalità, come quelle di promuovere le occasioni di confronto, socializzazione e riflessione tra ragazzi detenuti e stimolare la loro creatività, le loro capacità progettuali e la cultura del saper fare. Grazie all’iniziativa i giovani detenuti partecipano a corsi di alfabetizzazione informatica di base, scratch (ambiente di programmazione gratuito), digital making e digital storytelling. La Fondazione Mondo Digitale è un’organizzazione senza scopo di lucro che ha sede a Roma e opera a livello locale, nazionale e internazionale. Nelle scuole e con le nuove generazioni propone una didattica innovativa basata sull’uso delle tecnologie digitali per l’istruzione del 21esimo secolo e lo sviluppo delle competenze per la vita. Trieste: rispunta l’emergenza cimici dentro il carcere del Coroneo di Benedetta Moro Il Piccolo, 29 giugno 2018 Il fenomeno si è ripresentato dopo la disinfestazione effettuata nel 2016 Avviata la procedura per la bonifica. Il garante Burla: “Non è un’epidemia”. Torna nel carcere del Coroneo l’emergenza “cimici dei letti”. Così si chiamano quei parassiti che s’insinuano nei materassi, escono di notte e pungono succhiando il sangue. Hanno colpito diversi detenuti, che si trovano ora a dover combattere con un fastidioso prurito. Fanno parte tutti della terza ala della casa circondariale. L’iter di bonifica, fa sapere il direttore reggente di origini baresi, Ottavio Casarano, che non vuole creare allarmismi, è già partito nei mesi scorsi e si è dunque in attesa di individuare la ditta che dovrà, si spera definitivamente, debellare gli insetti. Il problema in realtà era già esploso nel 2016, ma evidentemente non è mai stato risolto definitivamente. All’epoca l’infestazione si era anche espansa. Le cimici dei letti, insetti, di colore bruno rossiccio, ora invece si sono limitate a infestare una serie di stanze del terzo tratto, un’area di detenzione comune. Cause e tempistiche sono ancora ignote, ma la bonifica dovrebbe comunque partire a breve. Ci vuole il tempo per espletare il bando. “Le procedure sono state attivate, le tempistiche non posso quantificarle, ma credo non saranno lunghe”, afferma Casarano, 51 anni, in reggenza da alcuni mesi al Coroneo, succeduto a Irene Iannucci, direttrice della Casa circondariale di Udine, che a sua volta era subentrata dopo l’addio di Silvia Della Branca. “Su cause e modalità - precisa comunque il dirigente - provvederà la ditta individuata”. Una volta scelta l’impresa che si occuperà dell’igienizzazione si procederà attraverso la crioterapia che si esegue con l’azoto liquido. Anche in passato non era stata individuata con certezza la fonte delle cimici. Si pensava forse gli “untori” fossero piccioni o gabbiani, tanto che per precauzione si era deciso di vietare di dar da mangiare a questi volatili. Si escludeva comunque che fossero state portate da qualche detenuto. Della questione si è interessata l’avvocato Elisabetta Burla, garante comunale dei diritti dei detenuti. “Il bando è stato attivato almeno a marzo - afferma -. La procedura del dipartimento purtroppo non è semplice. Non si tratta tuttavia di una problematica diffusa come l’anno scorso, per cui si era verificata una sorta di “epidemia”. Con il cambio di stagione il problema era stato risolto. Ora è tornato fuori”. Questi insetti si annidano dentro le brande, nelle fessure e creano dei nidi. I detenuti cercano di ripararsi di notte con le lenzuola, ma non basta. Sulla pelle si formano dei rigonfiamenti in seguito alle punture, che creano un forte prurito. A preoccuparsi in queste settimane del problema sono stati pure alcuni avvocati che hanno inviato delle segnalazioni al direttore del carcere, al magistrato di sorveglianza e all’Osservatorio carcere della Camera penale oltre che al garante comunale dei detenuti. Porto Azzurro (Li): il progetto europeo Cooking for Freedom si è concluso tenews.it, 29 giugno 2018 Si è concluso con una conferenza stampa, la proiezione di un video racconto di 2 anni di lavoro e un aperitivo preparato dai ragazzi detenuti il progetto europeo Cooking for Freedom. Nel suggestivo scenario di Forte San Giacomo, ospitati dall’amministrazione penitenziaria, si sono incontrati i 30 partecipanti delle organizzazioni italiane (coop. Beniamino, Istituto alberghiero e della ristorazione Brignetti, Slow Food condotta isola d’Elba e Associazione Antigone), portoghesi, lituane e turche che hanno lavorato al progetto dal 2016 ad oggi. Il direttore Francesco D’Anselmo ha dato il via al confronto sottolineando quanto “un progetto come questo i cui i punti cardine sono l’integrazione con il territorio, la costruzione di “seconde opportunità” basate sulla cultura, la formazione e il lavoro, incontra pienamente la filosofia che ispira la casa di reclusione di Porto Azzurro e aiuta tutti gli attori in gioco a crescere e migliorare”. Il direttore ha poi ringraziato tutti i partner e sottolineato la grande sintonia con la Cooperativa Beniamino, coordinatore del progetto, la cui presidente Veronica Cornaggia ha ricordato “il grande coraggio degli studenti detenuti a mettersi in gioco in un progetto che li “riportava a scuola”, con i ragazzi dell’Istituto Alberghiero che, a loro volta, sono stati un esempio di apertura e accoglienza. Apertura e accoglienza dimostrata anche da ristoratori e produttori coinvolti grazie al lavoro instancabile di Carlo Eugeni della condotta Slow Food isola d’Elba”. “10 organizzazioni, 4 istituti penitenziari, circa 100 tra studenti e studenti detenuti coinvolti, 100 ore di formazione in ogni paese, 56.000 km in viaggio per realizzare tutti i meeting europei, sono solo alcuni dei numeri che descrivono la strada percorsa insieme” ha aggiunto Guido Ricci, presidente dell’Associazione Linc responsabile della progettazione di Cooking for Freedom. “Una strada innovativa, che abbiamo voluto costruire mettendo al centro le esperienze del gruppo come acceleratore di processi di crescita, e la relazione con il territorio come cardine per la creazione di nuove opportunità. Siamo convinti che solo fornendo esperienze qualitativamente e umanamente valide si possa lavorare ad un vero percorso di reinserimento, che arricchisca la persona e la comunità”. Nunzio Marotti, referente dell’Istituto Alberghiero durante il meeting nonché per molti anni garante dei diritti delle persone private della libertà personale, è intervenuto riportando l’attenzione sul “valore che in questo particolare momento storico possono avere percorsi come questo progetto. Unire esperienze, vissuti, storie così diverse è stata una sfida vinta che dà forza all’idea che le differenze possano arricchire anziché dividere”. A chiudere gli interventi Elia De Caro, dell’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale Antigone, partner responsabile degli aspetti di ricerca del progetto, che ha ringraziato gli organizzatori e sottolineato quanto sia importante “aprire alternative e possibilità per le persone detenute. Un’esperienza come questa, di cultura, lavoro e rieducazione all’Elba come in portogallo, Lituania e Turchia, andrebbe valorizzata come esempio su tutto il territorio nazionale”. Al termine del dibattito sono stati consegnati gli attestati di partecipazione agli studenti della Casa di Reclusione presenti, che hanno commentato entusiasti la loro esperienza formativa e l’incontro con gli studenti di Portoferraio e, per concludere, hanno invitato tutti a festeggiare con il buffet preparato da loro stessi. Portoferraio (Li): “Non fare come me”, presentazione del libro con scritti dal carcere quinewselba.it, 29 giugno 2018 Il Lions Club Isola d’Elba non ha voluto mancare ad un importante appuntamento con la solidarietà, la cultura e l’informazione costituito dalla presentazione del libro “Non fare come me - Scritti dal carcere”, che ha avuto luogo nel pomeriggio di mercoledì 27 giugno a Portoferraio presso la libreria Mardilibri: questo è in sintesi il messaggio del presidente Marino Sartori, che ha sottolineato come l’acquisto e la distribuzione nelle scuole di un numero di volumi rappresenti il modesto contributo del sodalizio i cui scopi istituzionali spaziano dall’interesse locale a quello dell’internazionalità. Il volume edito da Marco del Bucchia, una raccolta di testimonianze di 17 detenuti della casa di reclusione di Porto Azzurro che frequentano in carcere, grazie all’opera degli insegnanti Marotti e Lisco, il liceo scientifico, costituisce la realizzazione del progetto scolastico “Comunicazione e prevenzione”. I commenti, l’illustrazione e l’interpretazione dei contenuti e degli scopi del libro sono stati affidati agli interventi di personaggi che a vario titolo hanno sponsorizzato o collaborato alla stesura dell’opera; per cui hanno preso la parola Federico Regini dell’Associazione Elbadautore, Licia Baldi dell’Associazione Dialogo, Marino Sartori del Lions Club, Nunzio Marotti già garante dei diritti dei detenuti per il penitenziario elbano, Francesco D’Anselmo direttore del carcere di Porto Azzurro, Marta del Bono della Comunità Exodus. Particolarmente toccante la diretta testimonianza del giovane William, uno degli autori e redattore di un periodico interno al carcere, che ha evidenziato le difficoltà incontrate nella composizione e nell’assemblaggio di impressioni, nomi o soprannomi dei diciassette elaborati, sottolineando altresì come tali impegni, insieme alla visita al carcere degli alunni delle scuole elbane, permettano di interrompere la tremenda monotonia della reclusione e di non perdere il contatto con la vita. Catanzaro: l’incontro “In nome del padre. Verso sud” nel carcere lametino.it, 29 giugno 2018 “In nome del padre. Verso sud” è il titolo dell’incontro che si è svolto il 28 giugno dalle ore 15 in poi al carcere di Catanzaro: qui sono stati portati avanti dei laboratori di scrittura autobiografica per papà detenuti e papà volontari. Questo progetto nasce negli istituti penitenziari del Nord, ad opera delle volontarie Carla Chiappini e Laura Garcini, e per la prima volta è stato sperimentato al Sud nel carcere di Catanzaro, attraverso un’attività che ha visto nell’evento di ieri il suo momento conclusivo, e che si è basata su tre linee guida: “Quando ero bambino…. Quando sono diventato papà …. Il ricordo di mio padre.” “L’iniziativa” spiega la direttrice dell’istituto, Angela Paravati “è stata portata avanti in collaborazione con LiberaMente e con il gruppo di volontari del laboratorio di lettura e scrittura creativa, per stimolare tutti i papà coinvolti verso la riscoperta della propria storia di figli e di padri e per avvicinare il mondo esterno al “quartiere chiuso” che è il carcere, promuovendo un confronto adulto, paritario e rispettoso”. Il processo di umanizzazione della pena passa anche dalla ricerca di ciò che si è stati prima di entrare in carcere: i detenuti hanno prodotto degli elaborati scritti, che sono stati letti durante la manifestazione, da Pasquale Caridi e Generoso Scicchitano con l’accompagnamento musicale di Domenico Mellace, alla presenza di ospiti esterni. Una forte commozione ha accompagnato questa lettura, per l’autenticità dei sentimenti espressi: dall’attesa dei bambini che aspettano che il padre ritorni a casa, alle visite di genitori anziani ai figli detenuti, che restano comunque figli. Tra i presenti l’onorevole Angela Napoli, il giornalista Filippo Veltri, il presidente di LiberaMente Francesco Cosentini, l’avvocato Rita Tulelli, presidente dell’associazione Universo Minori, l’avvocato Claudia Conidi, il portavoce del forum del Terzo settore Giuseppe Apostoliti, il magistrato di sorveglianza Laura Antonini, il docente universitario Nicola Siciliani De Cumis, le volontarie Giorgia Gargano e Ilaria Tirinato. Ha moderato l’incontro Benedetta Garofalo. Il progetto si è esteso non solo alle esperienze dei papà detenuti, ma anche a quelle dei genitori volontari. In carcere la relazione padre-figlio diventa interiormente fortissima. Come ha sottolineato Veltri, spesso i figli, sia fuori che dentro, si portano dentro sensi di colpa nei confronti dei genitori anziani. Il percorso autobiografico serve a ripercorrere la strada compiuta e a capire il momento in cui c’è stata una svolta negativa, per non ripetere i propri errori. La scrittura diventa un passaporto per un ritorno al passato, per darsi un’altra possibilità, con quella “intelligenza di cuore” che non si ha quando le cose accadono, ma quando, ritornando al passato si decide se farle accadere una seconda volta o se fare scelte diverse. Il carcere infatti funziona come servizio sociale quando viene meno la recidiva. Alcuni dei detenuti, in questo lungo percorso di recupero, hanno il sostegno delle visite settimanali dei propri genitori e parenti, altri purtroppo no; per altri ancora il percorso autobiografico può essere un modo per comprendere la grandezza di un dono che hanno comunque avuto: quello di essere diventati genitori. Essere genitori non è mai facile: ma se si è reclusi all’interno di un carcere è difficilissimo. Per favorire la genitorialità responsabile qui a Siano, con l’associazione Universo Minori, è stato avviato un progetto per consentire l’incontro tra i figli minori dei detenuti in uno spazio pensato a misura di bambino, in modo che questi incontri siano una lezione di educazione alla legalità, e, almeno in un certo senso, un nuovo inizio. Bolzano: libro fotografico realizzato in carcere vince Premio Marco Bastianelli 2018 di Anna Rita Nuzzaci* Ristretti Orizzonti, 29 giugno 2018 Il libro fotografico realizzato presso la Casa Circondariale di Bolzano, cui hanno partecipato in ben quattro edizioni oltre cento detenuti, ha vinto il premio Marco Bastianelli 2018 come miglior libro fotografico dell’anno. Lo stesso libro è stato esposto al Museion, il museo di arte contemporanea, di Bolzano. Si tratta di un riconoscimento importante per i detenuti e per l’istituto di Bolzano che premia l’impegno di quanti credono nell’attività trattamentale. Le carenze strutturali di questa sede, infatti, non permettono di realizzare tutto ciò che si desidererebbe fare; ma il suddetto premio è la prova che le difficoltà strutturali non paralizzano l’opera educativa. *Direttore della Casa Circondariale di Bolzano Armi leggere, crimini pesanti di Carlo Tombola* e Francesco Vignarca** Il Manifesto, 29 giugno 2018 Nel mondo sono un miliardo e 13 milioni le armi leggere, 857 milioni quelle in mano ai civili. Alla Conferenza Onu la protesta “arancione”, il colore del nuovo movimento Usa contro le armi da fuoco. Negli Stati uniti 15.600 vittime nel 2017. In Italia oltre 1.100.000 licenze: il Ministero “tace”. La scorsa settimana nel Palazzo di Vetro delle Nazioni unite a New York gran parte dei partecipanti alla terza Conferenza di revisione del Programma di Azione Onu sul traffico illecito di armi leggere ha indossato qualcosa di arancione. È il modo di aderire alla campagna “Wear Orange”, perché l’arancio è il colore del movimento americano contro le armi da fuoco sin da quando venne usato dagli amici di Hadiya Pendleton, ragazzina di quindici anni uccisa a Chicago nel 2013 durante una sparatoria tra gang rivali. I dati sulle vittime di pistole e fucili negli Usa sono davvero quelli di un bollettino di guerra: quasi 6.000 morti e 11.000 feriti nei primi cinque mesi del 2018 e un trend che cresce inesorabile. Si è passati dai 12.500 morti del 2014 ai 15.600 del 2017, con il “salto” avvenuto nel 2016: 15.100 uccisi a fronte dei 13.500 del 2015. Forse è per questo che nella prima settimana di dibattito alle Nazioni Unite uno dei momenti più significativi e di maggiore attenzione è stato la testimonianza di Mei-Ling Ho-Shing, una giovane studentessa sopravvissuta al massacro di Parkland in Florida. A guidare gli sforzi della società civile internazionale per limitare la diffusione della violenza armata c’è IANSA, movimento globale di centinaia di Ong e individui in tutti i continenti. “Nel 2001, quando concordarono il Programma di Azione, tutti gli Stati furono di si dicevano gravemente preoccupati per la fabbricazione, il trasferimento e la circolazione illecita di armi leggere e di piccolo calibro e per il loro eccessivo accumulo e diffusione incontrollata. Queste parole sull’eccessiva circolazione sembrano essere scomparse dal dibattito, eppure riflettono una problematica realtà di violenza” ha sottolineato Rebecca, Peters coordinatrice Iansa. Certamente le organizzazioni presenti (tra cui Opal Brescia a Rete Italiana Disarmo) sono ben consapevoli delle molte ed ardue difficoltà a cui deve sottostare ogni percorso di regolazione internazionale, in particolare nel settore altamente sensibile del commercio/traffico degli armamenti leggeri. C’è intanto da adeguarsi alla cornice internazionale, entro cui si deve formare il consenso su questo tipo di programma. Di conseguenza, è abbastanza improbabile che possa entrare in questa revisione ciò che era stato escluso dal Trattato sulle armi convenzionali (Att) del 2013, segnatamente le questioni spinose riguardanti il controllo delle munizioni e l’attività dei broker. Poi c’è il merito stesso di cui si sta discutendo, cioè il commercio illecito di armi leggere in tutti i suoi aspetti, e tutti gli elementi dell’oggetto di discussione presentano ampi margini interpretativi. Commercio è qualsiasi trasferimento. Illecito è alla lettera molto più che illegale, comprendendo anche ciò che non è espressamente proibito ma può causare gravissime violazioni dei diritti umani o delle leggi internazionali. Quanto alla categoria delle armi leggere, è meglio descritta dall’acronimo Salw (small arms and light weapons) che include tutte le armi “portatili”, al limite anche un micidiale lanciagranate anticarro Rpg o un missile terra-aria del tipo Stinger. E non si può ignorare che tra gli aspetti principali ci sia anche quello delle munizioni delle armi leggere. Ma qui non è tanto un problema di definizione bensì di quantificazione: cioè di dati insufficienti. I soli dati globali su cui oggi si può basare ogni considerazione e ogni politica contro le armi illecite sono forniti dalla Small Arms Survey che si fonda solo in parte su ufficiali. Quante sono le SALW in circolazione nel mondo? Circa 857 milioni sono nelle mani dei civili, 133 milioni delle forze armate, 23 milioni delle polizie: in totale un miliardo e 13 milioni. Sono cifre da prendere con le molle. Solo metà dei Paesi hanno una qualche registrazione delle armi civili, per il resto ci sono solo stime (indirette). Non adottano registrazione gli Stati Uniti, il paese più armato del mondo. In Canada la registrazione è stata addirittura abolita nel 2012. Com’è abbastanza prevedibile, non si sa nulla delle armi in possesso privato in Libano, Giordania, Afghanistan, Congo Rdc, Venezuela, Yemen, se non che sono sicuramente molte. E ancora peggio è per molti Stati in cui le leggi sul possesso di armi sono ampiamente aggirate (Pakistan, Turchia, Messico, Kenya; si dice che in Cina ne circolino 50 milioni non registrate, ma con scarse prove in mano). Per l’Italia? La stima delle licenze è di oltre 1.100.000 ma come Opal ha già denunciato molte volte il dato esiste ma non viene reso pubblico dal Ministero dell’Interno per non causale, ma strumentale, disorganizzazione. *Direttore Scientifico di Opal Brescia **Coordinatore della Rete Italiana per il Disarmo Migranti. Il vertice Ue si sblocca all’alba: “c’è l’accordo di tutti i 28 leader” La Stampa, 29 giugno 2018 “È stato un lungo negoziato, ma l’Italia da oggi non è più sola”. Il premier Giuseppe Conte, lasciando all’alba il vertice europeo, visibilmente soddisfatto, elenca un articolo dopo l’altro il testo delle conclusioni del summit per dimostrare come i partner Ue abbiano recepito e sottoscritto molte delle richieste del piano in dieci punti presentato da Roma. Sono da poco passate le 4.30 quando il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, dopo una maratona di trattative durata 13 ore in totale, otto e mezzo delle quali dedicate ai migranti, annuncia l’accordo a 28 sul dossier migranti. Poco dopo i leader iniziano ad uscire alla spicciolata dal palazzo del consiglio europeo. Tra i primi il presidente francese Emmanuel Macron. In molti avevano previsto “che non ci sarebbe stato un accordo, che sarebbe stato il trionfo delle soluzioni nazionali. Stasera siamo riusciti a trovare una soluzione europea”, commenta soddisfatto. Poi arriva Angela Merkel che definisce “un buon segnale” il fatto che sia stato raggiunto un accord a 28. La cancelliera, che rischia la tenuta del suo governo, è riuscita ad ottenere il riferimento ai movimenti secondari. “I paesi - si legge nel documento - devono prendere tutte le misure necessarie e collaborare strettamente tra di loro per contrastare i movimenti secondari”. Si tratta ora di capire se basterà al ministro falco Horst Seeheofer. Il più analitico è Conte, il professore, che cita uno ad uno gli articoli del documento sull’immigrazione. Primo fra tutti il principio secondo il quale “chi arriva in Italia, arriva in Europa”, ma anche il rifinanziamento del Fondo fiduciario per l’Africa; la necessità di riformare il regolamento di Dublino; l’apertura di centri di sbarco e accoglienza nei Paesi terzi e quelli volontari in Europa. Sui quali, assicura Conte, ci riserveremo una eventuale decisione “al livello governativo in modo collegiale” ma, precisa, “direi che non siamo assolutamente invitati a farli”. Il premier assicura che l’Italia è soddisfatta, “è stata una lunga trattativa”, dice lasciando il palazzo quando ormai albeggia, ma da questo vertice esce “un’Europa più responsabile e solidale”. Secondo il premier polacco Mateusz Morawiecki, la chiave che ha aperto la porta ad un’intesa, è stata la volontarietà di partecipare ai meccanismi che sono stati introdotti. Di sicuro i leader sono riusciti a trovare un compromesso su cui pochi avrebbero scommesso alla vigilia della riunione e l’Italia porta a casa un segnale forte dopo una trattativa a tratti anche dura, portata avanti dall’inizio con l’intenzione di chiudere a 28. Dal vertice è anche venuto il via libera al rinnovo delle sanzioni alla Russia, che ora dovranno essere adottate formalmente. Migranti. Intesa Italia-Malta per bandire dal mare le navi delle Ong di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 29 giugno 2018 Dopo Roma, La Valletta chiude i porti alle imbarcazioni di salvataggio anche per cibo e rifornimenti. La prima a subirne le conseguenze è la Proactiva della spagnola Open Arms. L’obiettivo ormai è chiaro: liberare il Mediterraneo dalle navi delle organizzazioni non governative. E così, dopo aver impedito loro l’accesso ai porti italiani, si passa alla fase successiva. Questa volta è Malta a chiudere. Dopo aver sempre consentito l’ingresso alle imbarcazioni delle associazioni straniere per fare rifornimento di viveri e carburante, le autorità de La Valletta decidono di impedire l’attracco anche per questi adempimenti. La prima a subirne le conseguenze è Proactiva Open Arms che in un tweet annuncia: “Italia e Malta negano l’accesso alle loro acque territoriali alla nostra nave Open Arms, un battello umanitario che ha salvato oltre cinquemila vite in un anno sotto il coordinamento della Guardia costiera, che è stato dissequestrato dalla giustizia italiana ed il cui equipaggio è europeo, come la bandiera” della stessa nave. L’accordo - Dopo i momenti di grave frizione seguiti all’insediamento di Matteo Salvini al Viminale, l’accordo è dunque raggiunto. Appena due settimane fa - subito dopo la scelta del governo italiano di impedire alla nave Aquarius di approdare in Sicilia - lo scambio di accuse tra lo stesso Salvini e i ministri maltesi era stato durissimo. E uno degli argomenti utilizzati dal titolare dell’Interno era proprio quello di “fare affari con le Ong concedendo l’uso dei porti e delle piattaforme per far decollare gli elicotteri, ma impedendo poi di attraccare dopo aver caricato a bordo i migranti”. Adesso invece, dopo la decisione de La Valletta di fare entrare la Lifeline e di metterla sotto sequestro - come sollecitato da Roma - dopo aver sbarcato gli stranieri, tutto è evidentemente cambiato. I due Stati procedono seguendo una strategia comune per non concedere né il carburante né la cambusa, e potrebbe coinvolgere entro breve anche gli altri Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, prima fra tutti la Tunisia. Le coste africane - Dopo il viaggio lampo in Libia - che al momento si è concluso con un nulla di fatto rispetto alla possibilità di fermare le partenze dei migranti allestendo campi di accoglienza - Salvini ha manifestato l’intenzione di andare anche a Tunisi. La diplomazia è al lavoro per ottenere il via libera, visto che i rapporti si sono raffreddati quando il titolare del Viminale ha attaccato il governo locale accusandolo di “mandare galeotti nel nostro Paese” e ha così provocato la convocazione formale dell’ambasciatore. Alla Farnesina assicurano che non ci saranno problemi ad organizzare la missione. E uno degli obiettivi è certamente quello di impedire che Tunisi apra i porti agevolando l’attività delle Ong. Le stime del Viminale, elaborate sulla base dei dati forniti dall’Unhcr e dall’Oim, calcolano che l’inattività delle organizzazioni non governative porterà a una riduzione degli sbarchi di almeno il 35 per cento. I trafficanti - Il resto dovrebbero farlo i pattugliamenti della Guardia costiera libica alla quale saranno donate entro qualche settimane altre 20 motovedette. A questo punto sarà però necessario individuare altre forme di cooperazione, nella consapevolezza che i trafficanti non fermeranno le partenze dalla Libia e più in generale dalle coste africane. Ma anzi potrebbero decidere di sfidare il blocco caricando i migranti su imbarcazioni di fortuna e mandandoli così a morire, proprio come è già accaduto in passato. Certamente non potranno bastare i corridoi umanitari che al momento hanno consentito di trasferire dall’Africa all’Italia appena 500 persone. Anche perché sarebbero gli stessi libici, qualora non fossero soddisfatte le loro richieste di ottenere finanziamenti, vetture, elicotteri, a sospendere il controllo del territorio consentendo alle organizzazioni criminali di continuare a gestire il traffico di essere umani. Migranti. Quando l’emergenza è un alibi per il business di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 giugno 2018 Nella gestione dei Cas, carenti di personale e di servizi, la rendicontazione è poco precisa. Il business sui migranti non si elimina chiudendo i porti, ma creando condizioni dove nessuno possa lucrarci sopra. La condizione ideale per lucrare è parlare di una emergenza che non c’è. Il “business accoglienza” si è sviluppato perché negli ultimi anni sono stati circa 130mila i migranti che si sono fermati in strutture temporanee, i famosi centri di accoglienza straordinaria (Cas) da sempre saliti agli onori della cronaca per truffe, maltrattamenti, carenze di personale e mancanza di servizi essenziali. Centri nati, appunto, con la scusa emergenziale. A questi si contrappongono i Sistemi di protezione richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) dove la rendicontazione delle spese è molto precisa, ci sono dei criteri fissati e qualsiasi variazione deve essere autorizzata. È tutto controllato, monitorato, blindato. Mentre nei Cas questo tipo di trasparenza non esiste: vince il bando della pre-espulsione) fettura chi presenta la migliore offerta economica. Per le spese basta fare una fattura, come vengono spesi i soldi non è rendicontato. E i controlli sono disomogenei e spesso fatti a campione. Lo Sprar, invece, ha il pregio di non essere solo assistenziale, ma oltre al vitto e alloggio, deve erogare servizi come la mediazione linguistica e culturale, corsi di lingua italiana, percorsi di formazione e professionali, orientamento e assistenza legale al fine di favorire l’integrazione. L’accoglienza è prevista per sei mesi, rinnovabili per altri sei ed è comunque garantita fino alla decisione della Commissione territoriale oppure, in caso di ricorso, fino all’esito dell’istanza sospensiva. Ma quanti comuni italiani hanno aderito al progetto Sprar? Basta andare a verificare i dati aggiornati a Marzo del 2018 e si evince che sono 1200 i coinvolti, però su un totale di 7.982 comuni. Una questione che sollevò Emma Bonino, la leader di “+ Europa”, sottolineando l’importanza della presa a carico dello Sprar da parte di tutti i comuni. Infatti, nel piano nazionale di ripartizione Richiedenti Asilo e Rifugiati presentato all’inizio del 2017, viene spiegato che 3.493 comuni al di sotto dei duemila abitanti dovrebbero accogliere 6 migranti ciascuno, mentre gli altri 4.491 comuni al di sopra dei duemila abitanti dovrebbero ospitarne in numero variabile in rapporto al numero di cittadini. Discorso a parte per 14 comuni capoluogo, che dovrebbero accogliere 2 rifugiati ogni 1.000 cittadini. Una gestione perfetta che, oltre a risollevare l’economia dei comuni (crea lavoro attraverso l’assunzione del personale e indotti), non ci sarebbe la percezione di essere “invasi” visto la distribuzione omogena dei migranti. Non a caso, con un decreto del ministero dell’Interno del 2016, era stata avviata una fase caratterizzata dalla valorizzazione e dal rafforzamento degli Sprar come modello di accoglienza diffusa incentrato sul ruolo degli Enti locali e imperniato sulla loro capacità di progettare servizi di accoglienza integrati in partenariato con il terzo settore e in rete col territorio. A partire dai primi mesi del 2017 l’associazione nazionale comuni italiani (Anci) ha realizzato e messo a disposizione degli enti locali una serie di iniziative e di strumenti specifici di supporto per sostenere in modo stabile e fattivo i percorsi territoriali di adesione allo Sprar. Gli Enti locali hanno avuto la possibilità di inviare domande e ricevere risposte puntuali su una vasta gamma di argomenti relativi all’attivazione di uno Sprar, incluso il nuovo Codice degli appalti in relazione all’affidamento dei servizi e al reperimento delle strutture. Tutto in modo trasparente e funzionale all’integrazione dei migranti. Vale la pena ribadire e che il sistema Sprar prevede un approccio integrato all’accoglienza finalizzato a inserire il migrante non in un circuito meramente assistenziale ma in un percorso che, insieme ai servizi minimi materiali, lo accompagna verso l’integrazione sul territorio, a partire da un progetto personalizzato, promuovendo forme di ospitalità in piccoli centri nei quali i rifugiati gestiscono personalmente i loro spazi e sperimentano forme di autonomia. Tale modalità di accoglienza risulta estremamente più efficace rispetto alle grandi strutture collettive rappresentate dai Cas o da altre tipologie di centri. Ma finora il primato dell’accoglienza ce l’hanno ancora quest’ultimi. Negli ultimi anni sono stati circa 130mila i migranti che si sono fermati in queste strutture, mentre solo 30mila i migranti accolti negli Sprar. Quindi il business continua. Migranti. Le Commissioni territoriali respingono 6 domande di asilo su 10 di Luca De Vito La Repubblica, 29 giugno 2018 Il calvario dei migranti passa (anche) dalle aule del Palazzo di Giustizia. Lo fa capire una statistica, riportata nel bilancio di responsabilità sociale del tribunale di Milano, presentato ieri: sei domande di asilo su dieci che vengono rivolte alle Commissioni territoriali (che fanno riferimento al ministero dell’Interno) vengono rigettate e si trasformano in ricorsi al tribunale. Generando così un flusso di audizioni e decisioni dei giudici che negli ultimi anni è in crescita: oltre 2.000 i procedimenti avviati nel 2015, più di 3.600 quelli del 2017. In tutto lo scorso anno la Lombardia ha accolto il 14 per cento dei migranti in strutture del proprio territorio, in totale più di 26.500 persone. Fenomeno che ha quindi messo a dura prova le aule di giustizia, costringendo il tribunale presieduto da Roberto Bichi a mettere in campo “una forte attenzione al tema immigrazione” a partire dal 2017, anno in cui è stata creata una sezione specializzata che tratta proprio questo tipo di ricorsi. Ma la giornata di ieri è stata il momento per fare il punto della situazione su tutte le attività portate avanti dai magistrati milanesi. Oltre al bilancio del tribunale, sono infatti stati presentati anche quello della procura, della procura generale, della procura presso il tribunale dei Minori e quello della corte d’Appello. Una macchina della giustizia che va avanti, con fatica, tra sotto-finanziamento e scarsa capacità di innovazione, ma che continua a macinare risultati positivi. Prendiamo la procura: se le notizie di reato e i relativi procedimenti sono cresciuti in un anno, il personale è sempre troppo poco, con una percentuale di “scopertura” del 16 per cento per quanto riguarda i sostituti procuratori, del 21 per cento per i vice procuratori onorari e del 49 per cento per quanto riguarda i cancellieri ovvero il personale che lavora quotidianamente a fianco dei magistrati. “Osservo sempre questi dati con meraviglia - ha detto il procuratore capo Francesco Greco - perché riusciamo a stare ancora in piedi malgrado la situazione precaria per le carenze di organico. Abbiamo un numero di notizie di reato uguale se non superiore a quello delle procure di Roma e Napoli ma noi abbiamo a disposizione meno magistrati e questa storia di non lamentarci è diventata un boomerang per noi, mentre in altre sedi lanciano allarmi”. Non solo. Lo stesso procuratore capo ha puntato il dito anche contro i ritardi nei processi di digitalizzazione della macchina della giustizia, lamentando software obsoleti e farraginosi che non parlano tra loro e non semplificano il lavoro. Anche nella relazione del tribunale, presieduto da Bichi, si legge che “il legislatore da anni ha attribuito ai tribunali distrettuali importanti nuove competenze senza accompagnarle con nuove risorse di personale e mezzi”. Nonostante questo, dal 2015 al 2018 si è assistito a una diminuzione del 20,3 per cento delle pendenze ordinarie e del 3,5 per cento delle procedure esecutive. Un fronte su cui invece ci saranno novità a breve riguarda la sicurezza del Palazzo di Giustizia, un tema mai completamente risolto dopo la vicenda di Giardiello che nell’aprile del 2015 entrò in tribunale sparando e uccidendo tre persone. Ieri il procuratore generale Roberto D’Alfonso ha annunciato che “questa settimana o all’inizio della prossima inizieranno i lavori per l’installazione di un nuovo impianto di videosorveglianza composto da circa cinquecento telecamere di nuova generazione, a difesa del Palazzo di Giustizia”. Si tratta di un progetto approvato dal ministero della Giustizia che prevede anche l’installazione di tornelli agli ingressi pedonali del tribunale e dell’edificio di via San Barnaba 50, oltre all’arrivo di videocitofoni negli uffici dei magistrati e nelle aule di udienza, all’interno dei quali saranno installati dei sistemi di allarme da utilizzare in caso di emergenza. Droghe. Mancano politiche e servizi di Tania Careddu altrenotizie.org, 29 giugno 2018 La macchina sanzionatoria, che ingolfa uffici amministrativi e di polizia, e la legislazione proibizionista con le sue conseguenze penali, sono le basi dell’immobilismo politico sul tema delle droghe. Visto che il principale veicolo di ingresso nel sistema della giustizia italiana quando si parla di droga è l’impianto repressivo che ispira l’intero Testo Unico sulle sostanze stupefacenti Jervolino-Vassalli, vecchio di vent’otto anni. Senza le leggi repressive e carcerarie non si avrebbe il sovraffollamento nelle carceri: quasi il 30 per cento dei detenuti entra in carcere per un articolo di legge e un quarto della popolazione detenuta è tossicodipendente. E la repressione si abbatte sui consumatori tanto che, rispetto al 2015, c’è un più 40 per cento di segnalazioni per consumo di sostanze. Anche perché, forse, il vecchio sistema terapeutico non funziona più: nuovi stili di uso a differenti livelli di rischio e di danno, necessitano di una nuova articolazione dei servizi, altrimenti incapaci di rilevare i cambiamenti delle modalità di consumo. In effetti, la ricerca sulle droghe è ancora farmaco-centrica perché si parte dal presupposto (erroneo) che le difficoltà umane ad affrontare certe situazioni sono dovute ad alterazioni neuronali e manca, piuttosto, un approccio psicosociale che affronti le cause del consumo e i contesti. Penalizzato, oltre che da una cultura di massa che annulla l’esistenza della malattia mentale, anche da una drammatica riduzione del personale che non riesce a intercettare un’area intermedia di soggetti che non si rivolge ai servizi. Manca una reale integrazione tra i servizi e la comunità, trascurando così le caratteristiche di vulnerabilità individuali e i fattori di contesto. “Nelle politiche in materia di droga, di fatto, si incrociano due aspetti: da una parte, una domanda di sicurezza sociale, spesso centrata su motivazioni securitarie e ‘contenitivè del fenomeno e non di rado enfatizzato e manipolato da allarmi sociali e dall’altra, l’esigenza di garantire la salute e il benessere delle persone che consumano sostanze”, si legge nel Nono libro bianco sulle droghe, redatto da Fuoriluogo. Ma è fondamentale per le politiche che devono intervenire sulle droghe, la valutazione circa il rispetto dei diritti umani, che potrebbe essere violato a causa dello squilibrio a favore dell’approccio legale penale a scapito di quello di inclusione sociale e di protezione della salute e di eliminazione dello stigma. Di fronte a tutto questo, la politica italiana è assente da molto tempo e nell’ultima Relazione finale al Parlamento neppure risultava attivata, si legge nel Rapporto, la rilevazione degli interventi e quanto si sa è merito delle Ong. Le Relazioni, negli anni, sono cambiate nella mole ma manca sempre la voce di un rappresentante del governo che la presenti al Parlamento e che se ne assuma la responsabilità politica. Gran Bretagna. Ministro giustizia: abolire condanne inferiori ad un anno di carcere blitzquotidiano.it, 29 giugno 2018 Nel Regno Unito le condanne al carcere inferiori a un anno dovrebbero essere abolite, salvo si tratti di reati gravi: è quanto sostiene Rory Stewart, ministro aggiunto al Ministero della giustizia. Non sono mancate posizioni critiche di chi sostiene che l’iniziativa potrebbe trasformarsi in un “via libera ai criminali”. Nonostante l’insistenza sulle condanne detentive rispetto a reati violenti e sessuali, Stewart ha annunciato che intende “ridurre significativamente, se non eliminare, il periodo di prigione di meno di 12 mesi”. Questo perché, a suo parere, i servizi socialmente utili sono più utili a ridurre i tassi di recidiva. Tuttavia, scrive il Daily Mail, molti avranno il timore che un tale approccio segni la fine della “punizione veloce ed efficace” per i trasgressori della legge. Negli ultimi anni, giudici e magistrati sono stati sempre più riluttanti a utilizzare lavori socialmente utili nel timore che non fossero efficaci. I ministri britannici mirano ad alleggerire le prigioni dove circola droga, in cui autolesionismo, violenza e aggressioni agli agenti della polizia penitenziaria hanno raggiunto livelli da record. Recentemente, il ministro della Giustizia David Gauke ha invitato i tribunali a utilizzare condanne brevi di meno di 12 mesi soltanto come “ultima risorsa”. Stewart, scrive il tabloid britannico, nello stabilire il piano per ridurre il numero di detenuti, raddoppiati a 83.000 negli ultimi 25 anni, si è spinto oltre. Il discorso di Stewart è in un momento in cui la Gran Bretagna è alle prese con un’esplosione di criminalità. Lo scorso anno i reati violenti sono aumentati del 21%, la polizia ha registrato 1,3 milioni di reati. Sudan. Aumentano gli attacchi in Darfur ma l’Onu vuole ridimensionare la sua missione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 29 giugno 2018 Alla vigilia del voto di domani del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sulla possibile ristrutturazione e sul conseguente ridimensionamento dell’Unamid (la Missione congiunta Onu - Unione africana in Darfur), Amnesty International ha diffuso esclusive immagini satellitari e fotografie che mostrano le conseguenze dei recenti attacchi condotti dall’esercito sudanese e dalle milizie filo-governative nella regione. Negli ultimi tre mesi, nel corso delle operazioni militari contro l’Esercito di liberazione del Sudan - Al Wahid, 18 villaggi dell’area del Jeben Marra sono stati saccheggiati e poi dati alle fiamme. Fino a 20.000 persone sono state costrette alla fuga e hanno trovato riparo nelle grotte e nelle caverne delle montagne del Jebel Marra senza essere state ancora raggiunte dagli aiuti umanitari. Dopo 15 anni dall’inizio del conflitto, oltre un milione e mezzo di darfuriani risultano sfollati e non possono ancora tornare nelle loro terre.