Bonafede: “magistrati in politica e carceri, così cambio la giustizia” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 28 giugno 2018 Il ministro: sulla intercettazioni sentirò i procuratori. Alle toghe antimafia, tra cui Di Matteo, proporrò dei progetti. Le esternazioni di Salvini? Non vedo parole fuori posto. Al primo incontro con il Consiglio superiore della magistratura, il neoministro della Giustizia Alfonso Bonafede annuncia che il nuovo governo vuole impedire “per legge” che una toga entrata in politica possa tornare a fare il pubblico ministero o il giudice. Ma è davvero una priorità, visto che al momento i magistrati in Parlamento sono solo tre? “Non è una questione di priorità, ma di principio. Vogliamo ristabilire dei confini chiari, per sottolineare che la magistratura e le altre istituzioni svolgono il proprio ruolo in costante confronto tra loro, ma rimanendo ciascuno nell’ambito del proprio settore di competenza”. Il testo è già pronto? “Avevamo presentato un testo nella scorsa legislatura dal quale si può ripartire, ma poi applicherò ciò che nel mio piccolo chiamo il “metodo Bonafede”: per realizzare i punti del contratto di governo faremo il passo iniziale con i parlamentari dei gruppi di maggioranza, e poi con il Parlamento nel suo insieme”. A proposito di magistrati “fuori ruolo”: come mai, dopo tanto parlare, non ha dato incarichi al pubblico ministero Di Matteo? “Non voglio entrare nel merito di nomi e delle scelte fatte per gli incarichi assegnati. Posso però dire che ho dei progetti di collaborazione tra il ministero e magistrati antimafia tra i quali il dottor Di Matteo, se lui ovviamente sarà d’accordo”. Al Csm ha parlato anche di nuove norme per il contrasto alla corruzione. Che cosa non va in quelle attuali? “Credo che la magistratura non abbia sufficienti strumenti. Servono gli agenti sotto copertura e il Daspo per i corruttori: se sanno che non potranno più avere rapporti con la pubblica amministrazione ci penseranno mille volte prima. E poi un aumento delle pene”. Molti magistrati temono che gli agenti sotto copertura diventino agenti provocatori. “Faremo in modo che il confine tra queste due figure sia ben chiaro. È vero che nella corruzione l’utilizzo dell’agente presenta delle complessità, ma può essere utile e non vogliamo rinunciarci. E poi si possono aumentare le pene”. Che sono già cresciute. “Forse non abbastanza”. Di corruzione è accusato l’avvocato Luca Lanzalone, che proprio lei ha presentato a Virginia Raggi per una collaborazione con il Comune di Roma. S’è sentito deluso, tradito, o crede sia vittima di un errore giudiziario? “Ogni politico, e a maggior ragione il ministro della Giustizia, deve avere il massimo rispetto per l’azione della magistratura che farà tutte le necessarie verifiche. Sono in attesa di conoscere la verità, e anche per esprimere sentimenti o opinioni devo prima conoscere i fatti accertati. Quanto ai miei rapporti passati con Lanzalone, ho già detto quello che dovevo dire”. Gli avvocati, e qualche magistrato, l’accusano di una cattiva gestione dell’emergenza del palazzo di giustizia di Bari. “Abbiamo appena firmato un accordo per una soluzione temporanea se prima del 30 settembre non avremo trovato e reso operativa una sede alternativa. Ma il decreto legge che sospende le attività e i termini processuali era necessario per far cessare lo scandalo della tendopoli e nessuno, quando sono stato a Bari, ha alzato una voce contraria”. Invocano un commissario straordinario. “Non capisco a che possa servire, se c’è un ministro che se ne occupa ogni giorno con un’apposita task force. Io non voglio entrare nella logica dell’emergenza e dei lavori in deroga alle leggi, che ha già fatto troppi danni e messo l’Italia in ginocchio. Io voglio la legalità ordinaria, anche di fronte a un’emergenza come questa”. Sulle intercettazioni ha già annunciato lo stop alla riforma Orlando. E dopo? “Dopo, cioè subito, ci occuperemo di modificarla visto che è criticata da tutti, avvocati e magistrati. Ho già scritto ai ventisei procuratori distrettuali d’Italia per chiedere loro che cosa non va della legislazione vigente e della riforma che bloccheremo. Poi seguirò il “metodo Bonafede”“. Nel contratto di governo c’è pure la legittima difesa; non la preoccupa che 4 italiani su 10 vorrebbero norme più semplici per tenere un’arma in casa? “Lo Stato fa dei controlli su chi è autorizzato a detenere un’arma, e se necessario saranno ancora più rigorosi. Ma sulla legittima difesa c’è una zona d’ombra su cui bisogna intervenire. Le indagini dei magistrati su chi spara anche per difendersi si devono fare sempre, ma non può essere che un cittadino debba affrontare tre gradi di giudizio perché la norma non è del tutto chiara”. Su questo e altri temi, non la imbarazzano le continue esternazioni di Salvini? “Sulla giustizia non mi risulta che abbia detto parole fuori posto, e con i gruppi parlamentari leghisti i primi contatti sono stati positivi e proficui”. Anche sulle carceri bloccherete la riforma della precedente maggioranza. Per modificarla come? “Premesso che il principio costituzionale del reinserimento del condannato resta per me la stella polare, quella riforma mina alla base il principio della certezza della pena, perché permette ad alcuni di non scontare in carcere nemmeno un giorno”. Ma senza automatismi, e sempre dopo la valutazione di un giudice. “Quella riforma, che su altri aspetti è positiva, ha allargato troppo il perimento della discrezionalità. C’era una finalità deflattiva che non possiamo accettare. Non mi interessa diminuire il numero dei detenuti, ma garantire loro il rispetto della dignità anche in carcere”. La riforma delle carceri oggi in Commissione Giustizia alla Camera Public Policy, 28 giugno 2018 Oggi in Commissione Giustizia alla Camera è in calendario la riforma del sistema carcerario, a firma dell’ex ministro Andrea Orlando. Non essendo stato concluso l’iter di esame in Parlamento, la scorsa legislatura, saranno infatti i nuovi deputati ad esaminare il testo. La nuova relatrice è la presidente di commissione Giulia Sarti (M5S). Il 15 giugno scorso, al Senato, nel corso della presentazione delle relazione del Garante dei detenuti, il neo ministro Alfonso Bonafede aveva precisato: “In tempi brevissimi dovrò fare delle scelte importanti sulla riforma” delle carceri “volutamente lasciata alla nuova maggioranza dalla maggioranza precedente. La riforma non mi trova d’accordo e così com’è non potrà andare avanti. Ma si tratta di un intervento vasto al cui interno ci sono anche elementi importanti a cui prestare attenzione, come le garanzie della vita detentiva e il lavoro dei detenuti: su questi punti intendo confrontarmi con il Garante nei prossimi giorni per una nuova partenza”. Al carcere duro solo due ore d’aria, comprese le attività socializzanti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 giugno 2018 Il Magistrato di Sorveglianza di Viterbo ha applicato in modo restrittivo la Circolare Dap sul 41bis. Il Garante Mauro Palma nel suo secondo rapporto aveva sottolineato interpretazioni più limitative rispetto a quelle ipotizzate nella realizzazione del provvedimento. I detenuti al 41bis possono usufruire solo due ore al giorno, da dedicare all’ora d’aria e senza sommare l’ora utilizzata per le altre attività risocializzanti. Permane l’interpretazione alla lettera, quindi in senso restrittivo, della circolare del Dap che ha uniformato le regole del carcere duro. Parliamo della pronuncia del magistrato di sorveglianza di Viterbo Maria Raffaella Falcone che va in controtendenza a un orientamento della giurisprudenza di merito rappresentato dal magistrato di Sorveglianza di Sassari. Se, da una parte, il magistrato viterbese riconosce il limite delle due ore giornaliere come diritto inviolabile da parte dell’Amministrazione penitenziaria, dall’altra, afferma come in tale “soglia” debbano computarsi anche tutte le altre attività risocializzanti concesse al detenuto in regime di 41bis dell’Ordinamento penitenziario, che, quindi, finiscono per essere alternative alla stessa permanenza all’aperto. In sostanza, il detenuto può usufruire di due ore giornaliere all’aria aperta, in alternativa ad un’ora massima di tempo da impiegare nelle attività ricreative/ sportive, nell’accesso alla sala pittura o alla biblioteca. Ma non entrambe. Il detenuto deve, quindi, scegliere come impiegare le due ore massime di accesso all’aria aperta. Permane quindi l’interpretazione restrittiva che non coglie le riflessioni prospettate di recente da parte della dottrina e di una parte della giurisprudenza di merito, che - in presenza di determinate condizioni soggettive e alla luce di fattori ambientali favorevoli - ha ribadito l’importanza di concedere al detenuto in regime di 41bis la possibilità di accedere all’aria aperta per due ore al giorno, senza con ciò penalizzare eccessivamente lo stesso, scomputando da tale soglia i servizi ‘ rieducativi’ garantiti dall’istituto penitenziario. Tale ordinanza conferma però quello che, di fatto, già accadeva. Infatti, nel secondo rapporto al Parlamento presentato dal Garante nazionale Mauro Palma, viene sottolineato che alcuni elementi interpretativi del “decalogo” del Dap - forniti successivamente alla Direzione di un Istituto e fatti circolare, seppure in maniera non formale e istituzionale, in tutti gli Istituti - hanno finito col determinare applicazioni ben più restrittive di quelle proposte nel complesso e lungo dibattito che ha accompagnato la sua redazione. Il Garante evidenzia innanzitutto l’interpretazione che è stata data alle ore da trascorrere all’aperto: di fatto, l’ora nella sala di socialità viene sottratta alle due ore da trascorrere all’aperto. Il Garante ritiene che la dizione “all’aperto” non possa essere ricondotta all’apertura della cella, ma che configuri l’accesso “all’aria aperta”, cioè in spazi a tal fine predisposti ove trascorrere quelle che comunemente sono definite “ore d’aria”. Ricorda, a tal fine, l’articolo 10 dell’Ordinamento penitenziario e l’articolo 16 del Regolamento di esecuzione che limita tale possibilità a motivi eccezionali e che tale limitazione deve essere disposta con provvedimento motivato dal direttore dell’Istituto da comunicarsi al provveditore regionale e al magistrato di sorveglianza. L’articolo 41bis, nel parlare di limitazione della “permanenza all’aperto” non può quindi che fare riferimento a quanto previsto dal citato articolo della legge e dal relativo articolo del regolamento. Del resto, questa interpretazione sembra - a parere del Garante - in linea con la modifica dei decreti ministeriali di imposizione del 41bis che ha sostituito, successivamente all’emanazione della circolare, la formulazione del punto g), passando dal divieto di “permanenza all’aperto per periodi superiori a due ore giornaliere di cui una nelle sale di biblioteca, palestra, ecc. e in gruppi superiori a quattro persone” alla nuova formulazione del divieto di “permanenza all’aperto per periodi superiori a due ore giornaliere e in gruppi superiori a quattro persone”. Altro che alleggerimento. Radio mafia di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 28 giugno 2018 Il premier Conte e i Cinque Stelle possono fare due cose, dopo aver letto sul Fatto l’articolo di Antonella Mascali che riportava i commenti inferociti di alcuni mafiosi al 41bis sulla nascita del nuovo governo. La prima è farsi belli: “Visto? È bastato che arrivassimo e già la mafia si spaventa”. La seconda è interrogarsi sul significato di quelle parole e studiare le mosse più efficaci per rispondere con i fatti, chiudendo la lunga èra della trattativa Stato-mafia. A ogni cambio di governo, i mafiosi detenuti hanno sempre trovato il modo di farsi sentire. Nel gennaio 1993, agli sgoccioli del breve governo Amato, fecero ritrovare Riina nel famoso covo, poi non perquisito dal Ros. In primavera, appena nato il governo Ciampi, scatenarono la seconda ondata di stragi, fuori dalla Sicilia e contro il patrimonio religioso e artistico. A fine anno il ministro Conso revocò il 41bis a 334 mafiosi. Ai primi del 1994, Cosa Nostra annullò l’u l ti m a strage in programma - quella allo stadio Olimpico di Roma - garantendo al nascente governo Berlusconi la pax mafiosa necessaria per mantenere le promesse. Promesse che, caduto B. dopo soli 7 mesi, furono poi in parte mantenute dall’Ulivo con l’appoggio del centrodestra dal 1996 al 2001: chiusura di Pianosa e Asinara, abolizione di fatto del l’ergastolo (per due anni), legge anti-pentiti. Nel 2001 tornò B. e, dopo appena un anno, fu quasi “avvertito” nel 2002 dal boss stragista Leoluca Bagarella che, in teleconferenza a un processo dal carcere de L’Aquila, lesse una dichiarazione a nome dei detenuti in sciopero della fame contro i politici che non avevano mantenuto le promesse sul 41bis: “Siamo stanchi di essere strumentalizzati, umiliati, vessati e usati come merce di scambio dalle varie forze politiche”. Chi fossero i destinatari dell’avvertimento lo rivelò subito dopo un clamoroso rapporto riservato del Sisde, diretto dal generale Mario Mori, che diede la scorta a Dell’Utri, a Previti e ad alcuni avvocati siciliani eletti nel centrodestra. Il 21 dicembre B. quasi si scusò di non aver abrogato il 41bis, figlio di “una filosofia illiberale”. L’indomani, allo stadio di Palermo, comparve uno striscione a caratteri cubitali: “Uniti contro il 41bis. Berlusconi dimentica la Sicilia”. Il 10 aprile 2006 Prodi rivinse le elezioni e l’indomani Bernardo Provenzano fu catturato, o si fece catturare, o fu fatto catturare a due passi dalla natia Corleone. Nel giro di due mesi, centrosinistra e centrodestra (salvo Idv, Pdci e Lega) votarono il mega-indulto Mastella di tre anni, che includeva anche i reati collegati a quelli mafiosi e il voto di scambio politico-mafioso. E spalancò le celle a 30 mila criminali, senza contare quelli che non vi fecero più ingresso. Nel 2008 tornò B. per la terza volta, dopo una campagna elettorale segnata dagli elogi suoi e di Dell’Utri al compianto “stalliere” Mangano (definito “un eroe” per non aver parlato di loro ai magistrati). Nel 2011 ecco Monti, seguito dalle prime avvisaglie di un cambio non di governo, ma di sistema. Nel novembre 2012 i 5Stelle arrivano primi alle Regionali in Sicilia, anche se poi la giunta è un centrosinistra guidato da Crocetta. E nel febbraio 2013 il M5S eguaglia il Pd di Bersani al 25,5%. Cosa Nostra teme un governo di centrosinistra condizionato da grillini e Sel, mentre a Palermo inizia il processo Trattativa. Una lettera anonima ai pm preannuncia una strage contro il pm Nino Di Matteo: “È stata chiesta dagli amici romani di Matteo (Messina Denaro, ndr), perché questo paese non può finire governato da comici e froci” (il comico è Grillo, i politici gay Vendola e/o Crocetta). Allarme infondato: provvede Napolitano a propiziare un altro governissimo Pd-FI-Centro, con M5S e Sel all’opposizione. Ma poi B. viene condannato ed espulso dal Senato. Alla vigilia del voto decisivo a Palazzo Madama, il 16 novembre 2013, Riina confida al suo compagno di ora d’aria che tutto è pronto per eliminare Di Matteo. Nel febbraio 2014 Renzi prende il posto di Letta e riporta B. al centro della politica col patto del Nazareno. Poi, in poco più di due anni, si suicida. A cavallo fra il 2016 e il 2017 anche il boss stragista Giuseppe Graviano si sfoga col compagno di socialità: nel 1992 - dice - “Berlusca” gli chiese una “cortesia” sulle stragi per “salire” al governo, ma poi dimenticò le promesse; ora il boss vuole inviargli un emissario per rinfrescargli la memoria. Ma il 4 marzo 2018 B. esce dalle urne con le ossa rotte e il 1° giugno nasce il governo M5S-Lega. Subito alcuni boss al 41bis nel carcere dell’Aquila si sfogano davanti agli agenti penitenziari: ce l’hanno sia con Conte per la sua insistenza sul tema mafia nel dibattito sulla fiducia, sia con i 5Stelle e il loro Guardasigilli Bonafede, che non solo vuol cancellare la legge svuota carceri di Orlando, ma addirittura portare Di Matteo in un ruolo chiave del ministero (forse al Dap, la direzione carceri). Lo scrivono i giornali, che i boss leggono e sottolineano. Fra i più allarmati c’è Cesare Carmelo Lupo, fedelissimo di Graviano. Ma subito la voce si sparge a 51 detenuti al 41bis che chiedono un colloquio al giudice lo stesso giorno (bell’isolamento), perché vedono sfumare le loro speranze (alimentate chissà da chi) di benefici penitenziari. Chissà con quale sollievo ora avranno letto che il capo del Dap non sarà Di Matteo, ma un pm di Potenza, magari bravissimo, ma non certo esperto di Cosa Nostra. E che il renziano Faraone ha fatto visita in carcere a Dell’Utri. Se Conte e i 5Stelle non si affrettano a studiare le parole dei mafiosi sulla trattativa che continua tuttora, e a comportarsi di conseguenza, rischiano di ritrovarsi presto qualche messaggio da Radio Carcere molto più sollevato: “Picciotti, falso allarme: questi sono come tutti gli altri”. Paradossi italiani: i reati calano ma la paura cresce di Simona Musco Il Dubbio, 28 giugno 2018 Il Rapporto Censis sulla sicurezza: voglia di “pistole facili”. I reati diminuiscono drasticamente, ma la sensazione di essere costantemente esposti a qualche rischio cresce, tanto che il 39 per cento della popolazione aspira ad avere una pistola per potersi difendere. È questo il quadro offerto dall’ultimo rapporto Censis, presentato ieri nella Biblioteca del Senato, dal quale la paura emerge come “tratto distintivo della società italiana”. Infondata, ma agevolata da una narrazione più feroce e svincolata dai dati reali, che ci ha resi più solitari, diffidenti e chiusi. Nonostante il nostro Paese possa vantare “un moderno modello di sicurezza”, negli ultimi anni il numero di persone con in casa un’arma da fuoco è cresciuto, mentre si chiede di semplificare la normativa per ottenere il porto d’armi. Il rischio - si legge nel rapporto - è “una pericolosa “americanizzazione” della società civile, con un aumento esponenziale di quanti sparano e uccidono”. Circa due quinti della popolazione sono favorevoli a criteri meno rigidi, un dato in netto aumento rispetto al 2015, quando ad invocare il diritto ad avere un arma era il 26 per cento della popolazione. E a tale richiesta si è subito agganciato, con un post su Facebook, il ministro dell’Interno Matteo Salvini. “Una nuova legge che permetta la legittima difesa delle persone perbene, nelle proprie case e nei propri negozi, è una nostra priorità”, ha affermato. Il Censis mette però in guardia: “i rischi che una proliferazione delle armi porti ad un aumento dei morti è reale”. Con leggi meno stringenti, spiega, in Italia le famiglie con armi in casa potrebbero lievitare fino a 10,9 milioni e i cittadini esposti al rischio di uccidere o essere uccisi a 25 milioni. La distorsione della realtà rischia dunque di far balzare le vittime da 150 a 2700 l’anno, sostiene il rapporto. A spaventare circa 19 milioni di persone sono microcriminalità, terrorismo internazionale e la presunta invasione da parte dei migranti. La criminalità rimane comunque al quarto posto tra i problemi più sentiti, segnalato dal 21,5 per cento degli italiani dopo la mancanza di lavoro (52,4 per cento), l’evasione (29,2) e l’eccessivo prelievo fiscale (24), anche se sale al secondo posto tra i ceti più poveri. Ma i dati sconfessano tale percezione: nel 2008 i reati denunciati sono stati 2.709.888, scesi a 2.232.552 nel 2017. Il 17,6 per cento in meno, dunque, con una riduzione di 10,2 punti solo nell’ultimo anno. Il calo è costante e interessa tutti i crimini più allarmanti: si è passati da 611 casi di omicidi nel 2008 ai 343 dell’ultimo anno, le rapine sono scese da 45.857 a 28.612 e i furti, quelli che più preoccupano, sono 1.198.892, cioè 400mila in meno negli ultimi tre anni. Ma non solo: anche il paragone con il resto d’Europa indica una situazione decisamente positiva. Le città più “pericolose” sono Milano, con 237.365 reati, pari al 9,5 per cento del totale, seguita da Roma con 228.856 crimini denunciati, Torino (136.384) e Napoli (136.043). Il calo della criminalità non ha però intaccato la paura. Rimane scarsa la fiducia nelle istituzioni, a partire da Comune (5 punti su 10), sistema giudiziario (4,3), Parlamento europeo, governo regionale e nazionale (punteggio medio di 3,7) e partiti (2,5 punti su 10), mentre sale la fiducia nelle Forze dell’ordine. Ma ciò non fa diminuire il bisogno di difendersi da soli: il 92,5 per cento degli italiani adotta almeno un accorgimento contro ladri e rapinatori, principalmente con una porta blindata (oltre 33 milioni di italiani) e a seguire sistemi di allarme, inferriate e telecamere. Ma soprattutto cresce il numero di italiani che possono sparare: ammontano a 1.398.920 le licenze per porto d’armi nel 2017, il 20,5 per cento in più dal 2014 e il 13,8 per cento in più solo nell’ultimo anno. Principalmente si tratta di licenze per uso caccia (738.602) e per uso sportivo (584.978), circa 200mila italiani in più negli ultimi tre anni, anche se questo numero non coincide con quello effettivo degli atleti tesserati. “Difficile - scrive il Censis - non mettere in relazione questo aumento della voglia di sparare anche con la diffusione della paura”. Aggiungendo i 18.452 cittadini che hanno una licenza per difesa personale, le guardie giurate (circa 57mila licenze) e gli operatori delle Forze di polizia (500.000), sono circa 1,9 milioni gli italiani armati. Ma contando il numero di armi che è possibile tenere in casa, si arriva a 4,5 milioni di italiani, tra cui oltre 700.000 minori. Persone che, “per gioco, per sbaglio, rancore o follia” potrebbero sparare. E uccidere. Bonafede al Csm: “il giudice che ha fatto politica non potrà reindossare la toga” di Liana Milella La Repubblica, 28 giugno 2018 Palazzo dei marescialli si divide sui primi progetti del ministro. Mattarella: “Sì alle riforme ma siano lungimiranti”. Se sarà collaborazione o scontro è ancora presto per dirlo. Ma al Csm, nel primo incontro ufficiale da Guardasigilli, seduto accanto al presidente Sergio Mattarella, il neo ministro della Giustizia Alfonso Bonafede fa volutamente prevalere la diplomazia. E sceglie proprio le parole del capo dello Stato per riassumere il senso del suo programma: “Garantire la Costituzione significa affermare e diffondere un senso forte della legalità. La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute. La corruzione ha raggiunto un livello inaccettabile. Divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini. Impedisce la corretta esplicazione delle regole del mercato”. Chi potrebbe essere contrario? Nessuno, ovviamente. Come sulle toghe in politica su cui ormai da tempo i magistrati hanno chiesto che si ponga uno stop ai rientri. E alla vigilia, la prossima settimana, della pronuncia della Consulta sul caso Emiliano (poteva iscriversi al Pd, farne anche il segretario regionale, mentre era in aspettativa) ecco Bonafede pronto ad annunciare il suo passo: “Impedire che un magistrato torni a svolgere un ruolo requirente o giudicante per garantire l’autonomia e indipendenza”. Subito sottoscritto dal presidente della commissione Giustizia della Camera, la grillina Giulia Sarti. Pur nell’ambito di una seduta paludata e stretta nei tempi, a palazzo dei Marescialli già emergono i primi distinguo sui progetti del nuovo ministro e risulta evidente chi si rende protagonista di un’apertura di credito (il davighiano Morgigni) e chi invece è assai più cauto (Morosini di Area). E soprattutto chi, come Palamara di Unicost, vuole difendere “l’onore” dell’attuale Csm dall’accusa di correntismo e di nomine a pacchetto. Tra soli dieci giorni le quasi 10mila toghe italiane eleggeranno i nuovi 16 componenti del Csm, una dura campagna elettorale è in atto, le previsioni non danno forti variazioni - 5 o 6 consiglieri alla corrente centrista di Unicost rispetto ai 5 attuali; 5 o 6 alla sinistra di Area rispetto agli attuali 7; 3 o 4 alla destra di Magistratura indipendente rispetto ai 3 di oggi; 2 o 4 alla corrente di Davigo, Autonomia e indipendenza, che oggi ne ha solo uno. L’unica sorpresa potrebbe essere quella dei seguaci dell’ex pm di Mani Pulite, anch’egli candidato. E proprio da Aldo Morgigni, il suo consigliere attuale, è venuta un’apertura di credito verso Bonafede, con espressioni come “speranza verso la sua amministrazione” e l’invito a fare un passo indietro rispetto al taglio dell’età pensionabile (da 75 a 70 anni) voluta dall’ex premier Renzi. Molto più prudente Piergiorgio Morosini (Area) che valuta come “positiva” la scelta di Bonafede di bloccare le intercettazioni, ma è critico sui passi indietro sul carcere e in allarme sulla legittima difesa, perché “sarebbe irragionevole sottrarre al giudice la valutazione del caso concreto”. È per questo che Mattarella, nelle poche parole in chiusura del plenum, rivolge a Bonafede un esplicito invito: sì alle riforme, ma che siano “lungimiranti”, no alle “leggi dettate dall’emergenza”, attenzione “alla tutela dei diritti e all’efficienza”. In quel cenno all’emergenza potrebbero rientrare le polemiche sul decreto Bari, il primo intervento di Bonafede, molto contestato in sede locale dalle toghe, che ha sospeso fino a fine settembre prescrizioni e processi. Da oggi se ne parlerà in commissione Giustizia alla Camera dove si preannuncia la prima battaglia perché il partito degli avvocati è contrario. Una richiesta, quella di un decreto urgente, che in verità era venuta dallo stesso Csm, nella delibera del 6 giugno, subito dopo la visita a Bari del vice presidente Giovanni Legnini. E da Legnini arriva, come da Luca Palamara, il richiamo contro la disinformazione che starebbe coinvolgendo l’attuale consiglio, la cui scadenza è comunque prevista per il 25 settembre, sia che il Parlamento riesca ad eleggere oppure no i nuovi laici prima delle vacanze. Le Camere sono convocate in seduta congiunta per il 19 luglio. Si andrebbe già verso un accordo che dà 3 degli 8 consiglieri laici a M5S, 2 alla Lega, uno a Forza Italia, 2 al Pd. Tra questi sarà eletto il vicepresidente per cui è determinante l’indicazione dei magistrati. Ma Legnini adesso esprime “il rammarico per una tendenza demolitrice tanto pretestuosa quanto esasperata nei toni che rischia di arrecare danni all’attuale Csm e all’onorabilità della magistratura”. Pesano le accuse del procuratore di Milano Francesco Greco (“quando ho bisogno del Csm non so a chi rivolgermi e devo cercare gli amici”) e soprattutto le accuse di correntismo. A cui, numeri alla mano, replica Luca Palamara. “Sicuramente serve una riflessione sulle nomine, su ciò che ha funzionato bene, meno bene, o non ha funzionato, ma bisogna prendere le distanze dai tentativi maldestri di delegittimazione per le scelte sui capi degli uffici. Serve un’operazione verità sulle 970 nomine fatte in 4 anni, un risultato storico mai avvenuto, il 100% degli incarichi della Cassazione”. E ancora, rivolto al Guardasigilli: “Quando lei andrà in giro guardi alle nomine di Milano, Bologna, della Cassazione, e si renderà conto di cosa ha fatto questo Csm per rinnovare la classe dirigenziale”. Un dato infine sulla pubblicità dei curricula, su 517 domande sono stati 389 ad aver dato il loro consenso a pubblicare tutto sul web. Dati e raccomandazioni che suonano come un invito al nuovo governo a non buttare via tutto di quanto è stato fatto. Anche se Bonafede, come già aveva fatto una settimana fa, ha ribadito che la sua azione a via Arenula non vuole essere distruttiva ma prescindere, ma nel segno di tenere quanto di positivo è già stato fatto. “Io, piddino, mi chiedo: è civiltà lasciar morire in carcere Dell’Utri?” di Paola Sacchi Il Dubbio, 28 giugno 2018 Da un lato un esponente del Pd, dall’altro Marcello Dell’Utri. Uno di fronte all’altro. Carcere di Rebibbia, l’altro ieri mattina. È la prima volta che accade. Finora quasi esclusivamente erano andati a trovare l’ex senatore azzurro esponenti di Forza Italia e del centrodestra. Il già sottosegretario dem dei governi Renzi e Gentiloni, ora senatore, Davide Faraone è uno dei quarantenni di punta molto vicini all’ex premier ed ex segretario del Pd Matteo Renzi. Senatore Faraone, perché questa visita a Dell’Utri? A Dell’Utri e a tutti i detenuti. Il senso della visita organizzata dalla delegazione radicale (guidata da Maria Antonietta Farina Coscioni ndr) è stato quello di riaccendere i riflettori sulla condizione di chi sta in carcere. Certamente Marcello Dell’Utri fa più notizia di tutti, ma noi abbiamo verificato una condizione complessiva dei detenuti davvero incredibile, tra l’altro si tratta in molti casi anche di persone che potrebbero scontare la pena in situazioni diverse. Per dire, ne ho visto uno sulla sedia a rotelle e non ho riscontrato abbattimento delle barriere architettoniche. Disabili, gente con il Parkinson, che non sa come farsi la doccia… Bisogna fare una riforma complessiva, davvero. Che impressione le ha fatto Dell’Utri? Con lei, proprio poco dopo le elezioni amministrative, ha scherzato chiedendole: “Ma il Pd c’è ancora? “. La cosa che mi ha impressionato è stata trovare una persona completamente diversa da come uno se la sarebbe immaginata. Uno insomma si sarebbe aspettato una persona che enfatizzava le condizioni, molto gravi, della sua malattia, un uomo depresso, tendente a far passare il messaggio che lì dentro sta morendo. Invece, io ho visto l’esatto contrario. E cioè? Ho visto una persona che sta studiando per laurearsi ancora. E che ha suscitato in me un lieve sorriso, cosa che in quel luogo è un privilegio, non solo quando mi ha ironicamente chiesto se il Pd ci fosse ancora. Mi ha detto che prima andavano più spesso parlamentari del suo partito ai quali però a un certo punto ha chiesto di venire meno frequentemente. Perché gli parlavano di problemi e gli facevano perdere tempo per i suoi studi. La mia visita l’ha molto gradita perché vengo da una cultura politica completamente diversa dalla sua. Cosa pensa del caso Dell’Utri? Non spetta a me entrare nella vicenda giudiziaria. Ma credo che di fronte a una persona che sta molto male (tumore alla prostata, gravi problemi cardiovascolari ndr), che ha già scontato quattro anni come Dell’Utri, ci si debba chiedere se sia giusto che continui a restare in carcere invece che agli arresti domiciliari. Problema che naturalmente riguarda tutti gli altri detenuti nelle sue condizioni, giudicate dai medici incompatibili con il regime carcerario. A lei che viene dai Ds che impressione ha fatto incontrare il cofondatore di Forza Italia? Ma io non sono andato lì a fare un congresso. Sono andato a occuparmi di questioni che attengono alla civiltà di un Paese. Dietro a un fatto noto come quello di Dell’Utri ci sono tanti fatti ignoti. Cambiamo tema. Che deve fare il Pd per uscire dalla crisi? Dobbiamo tornare ad essere una forza politica con una forte identità. In questo momento non lo siamo più. Avevamo preso oltre il 40 per cento alle elezioni europee perché avevamo una leadership e parole d’ordine chiare. Quando invece abbiamo incominciato a non riconoscere le leadership abbiamo perso. Mentre la Lega e i Cinque Stelle hanno vinto perché hanno leadership forti e parole d’ordine chiare, anche se per noi non condivisibili. Nel Pd invece oggi non c’è chiarezza né di leadership né di linea politica. Serve questo, anche a costo di decisioni dure. Dobbiamo dare una carta di identità credibile al partito. Veramente una leadership forte c’era: quella di Renzi. Eppure in questi giorni sembra che si continui a dargli addosso come se lui fosse una sorta di capro espiatorio, il colpevole sempre e comunque di tutto. È così? C’è questo atteggiamento semplicistico. Credo che, al di là delle sconfitte successive al referendum, dopo quel 40 per cento delle europee sia partita un’azione di logoramento. E tutta al nostro interno. E questo penso sia stato un errore. Si rassegnino tutti quelli che pensano che Renzi è un marziano venuto nella nostra “ditta” che nessuno deve toccare. Renzi è sicuramente ancora oggi una leadership forte che esprime un’idea chiara. Non possiamo né vogliamo smarrirla né al congresso che si farà né comunque nei contenitori che si formeranno nel futuro politico. Alcoltest. Va ricordato il diritto all’avvocato, altrimenti l’automobilista non è punibile La Repubblica, 28 giugno 2018 La Corte di Cassazione dopo il caso di un uomo condannato in Appello a Trieste a otto mesi di carcere e 1.800 euro di ammenda per essersi rifiutato di sottoporsi alla verifica. Le forze dell’ordine non lo avevano però informato della sua facoltà di convocare un difensore. Ogni automobilista ha in ogni caso il diritto di chiedere la presenza del proprio avvocato prima di essere sottoposto all’alcoltest, non solo quando risulta positivo allo stesso. E se le forze dell’ordine procedono con la verifica senza ricordare al fermato tale facoltà, i risultati del test sono nulli. Come anche le conseguenze penali, previste dalla legge, nel caso in cui il conducente si rifiuti di eseguire l’esame. Lo ha stabilito, in una sentenza del 22 marzo e depositata qualche giorno fa, la Cassazione, che ha analizzato il ricorso di un automobilista condannato dalla corte d’Appello di Trieste a otto mesi di carcere e 1.800 euro di ammenda. L’uomo si era rifiutato di sottoporsi al test dell’etilometro, ma gli agenti non gli avevano chiesto se aveva intenzione di convocare prima il proprio avvocato. La Corte ha dunque riformato il giudizio espresso precedentemente in appello, proprio a causa del “mancato avviso al ricorrente della facoltà di farsi assistere da un difensore nel momento in cui venne formalizzata la richiesta di effettuare il test alcolemico”. A dare la notizia il portale di informazione giuridica dirittoegiustizia.it. La sentenza rende l’avviso delle forze dell’ordine un elemento imprescindibile di tutto la procedura: in assenza di questa comunicazione, il conducente che si nega al test non può essere penalmente punibile. Una sentenza simile era arrivata a Milano nel 2013, quando con le stesse motivazioni un gup aveva assolto un ventenne che era stato trovato positivo all’etilometro e che si era aggrappato al cavillo della mancata convocazione del suo avvocato. In quell’occasione l’Asaps, l’associazione dei sostenitori della polizia stradale, aveva sottolineato come l’obbligo delle forze dell’ordine di informare il conducente non possa corrispondere all’obbligo per gli agenti di attendere l’arrivo sul posto del difensore oltre un termine ragionevole. Nel reato di oltraggio a pubblico ufficiale va comunque provata la presenza di più persone di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 28 giugno 2018 Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 27 giugno 2018 n. 29406. Non basta che l’offesa verbale contro il pubblico ufficiale sia avvenuta nella “pubblica via” per far presumere la sussistenza del reato di oltraggio prevista dall’articolo 341bis del codice penale. Infatti, la Corte di cassazione con la sentenza n. 29406 depositata ieri, ha definitivamente cancellato senza rinvio la sentenza di secondo grado che aveva fatto cattivo uso di un precedente della stessa Suprema corte sul punto della presunzione che l’oltraggio sia stato percepito da una pluralità di persone. Nel caso specifico, il privato assolto in primo grado e poi condannato su ricorso del Procuratore, aveva offeso alcuni appartenenti alla polizia giudiziaria prima in un’isola ecologica comunale posta all’interno di un parcheggio e poi all’interno del comando dei carabinieri. La Cassazione fa notare come abbia errato il giudice di appello a non considerare sufficientemente improbabile la presenza di un traffico pedonale o veicolare all’interno dell’isola ecologica. E che sia stato egualmente un errore non considerare che all’interno del comando gli unici presenti sarebbero stati solo gli agenti oggetto dell’offesa. Spiegano allora i giudici di Piazza Cavour che il reato di oltraggio a pubblico ufficiale è a contenuto plurimo, devono perciò ricorrere tutte le condizioni previste in astratto dal codice penale e cioè devono concorrere le circostanze del luogo pubblico o aperto al pubblico - ciò che era pacifico - e della presenza di più persone. Su tale ultimo punto i giudici di appello, invece di raggiungere la prova, hanno adottato una presunzione, visto il carattere pubblico dei luoghi. E la sentenza di primo grado applica il ragionamento presuntivo errando la lettura di un precedente di legittimità. La Cassazione fornisce dunque la corretta interpretazione e chiarisce che la mera potenziale percezione delle offese da parte di più persone non vale di per sé, ma presuppone che tale presenza sia positivamente accertata. La regola presuntiva non può sostituirsi alla prova dell’elemento strutturale del reato, ma serve solo a presumere “fino alla mera percepibilità”, una volta provata la presenza di più persone. Senza - questo sì - che sia necessario dimostrare l’avvenuta percezione. Abruzzo: situazione critica nelle carceri e senza il Garante dal 2011 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 giugno 2018 La visita agli Istituti di Sulmona e Teramo ha evidenziato carenze strutturali e sanitarie. Situazione critica in alcune carceri abruzzesi, sia dal punto di vista strutturale che sanitario, soprattutto per quanto riguarda i reparti detentivi ospedalieri. Pesa molto l’assenza del Garante regionale dei detenuti, nonostante che l’Abruzzo, fin dal 2011, è dotato di una legge che lo istituisce. Parliamo del rapporto dell’ufficio del Garante nazionale Mauro Palma dedicato alle visite effettuale a luglio del 2017 ma reso pubblico ieri in mancanza ancora di una risposta da parte del ministero della Giustizia. La delegazione era composta dal componente del collegio del garante Emilia Rossi e i componenti dell’Ufficio Raffaele De Filippo, Giovanni Suriano e Armando Vincenti. Durante le visite è stato riscontrato, in più occasioni, la mancanza di adeguata informazione sull’esistenza del Garante regionale e la difficoltà nell’accedere alle informazioni. “Di particolare rilievo negativo - si legge infatti nel rapporto - si è segnalato il diniego alla visione dei registri dell’area sanitaria opposto alla delegazione dal responsabile del presidio della Casa Circondariale di Teramo, dott. Franco Paolini”. Le strutture visitate sono state le carceri di Sulmona e Teramo, le rispettive unità operative per detenuti degli ospedali e la residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) di Barete. Le condizioni strutturali del carcere di Teramo e Sulmona sono segnate dal modello architettonico dell’epoca di costruzione degli edifici, comune ad entrambi, dalla tipologia del territorio e dal tasso di affollamento, comune, anche questo, alle due strutture. Per quanto riguarda il carcere di Teramo, il Garante segnala soprattutto la sua inaccessibilità con mezzi pubblici di trasporto: l’istituto si raggiunge, infatti, da una strada extra-urbana collinare distante più di tre chilometri dalla prima fermata di autobus, sprovvista di possibili ripari dalle intemperie, illuminazione e marciapiedi. “Tale situazione - viene spiegato nel rapporto - genera una sorta di isolamento logistico che colpisce i familiari delle persone detenute, il personale dell’Istituto, i volontari e chiunque intenda accedere alla struttura senza un mezzo privato di trasporto”. Per quanto riguarda le carenze strutturali, dal rapporto emergono criticità come la mancanza di servizi igienici nelle celle: tranne poche eccezioni sono generalmente prive di docce all’interno e, conseguentemente, di acqua calda. Nelle sezioni di Alta sicurezza di entrambi le carceri risulta che hanno le finestre schermate e ciò riduce sensibilmente il passaggio di luce. E ciò contrasta l’articolo del regolamento dell’esecuzione dell’ordinamento penitenziario secondo il quale “le finestre delle camere devono consentire il passaggio di luce e aria naturali”. Altra criticità non da sottovalutare è la mancanza di strumenti ed attrezzature necessarie ad affrontarne eventuali terremoti. Per quanto riguarda la detenzione femminile, particolare critici- tà è la scarsa opportunità di trattamento individuale. L’aspetto sanitario, invece, risulta molto critico. Per quanto riguarda Sulmona, si verificano ritardi nella consegna dei referti, il sovraccarico dell’ambulatorio di psichiatria, aperto soltanto al mattino e impegnato anche nei test d’ingresso, la mancanza di rapporto costante e frequente con il direttore sanitario. Al carcere di Teramo, invece, risulta molto critica la gestione dei detenuti affetti da patologie psichiatriche. Forti criticità per quanto riguarda le unità operative ospedaliere per detenuti. In particolar modo quella dell’ospedale di Sulmona dove il Garante ha chiesto l’immediata chiusura per la gravità delle carenze strutturali ed igieniche. Infine la delegazione ha visitato la Rems di Barete che risulta ben organizzata, ma si raccomanda di vietare ulteriori ricoveri di persone inviate per finalità diverse dall’esecuzione di misure di sicurezza. Marche: appello del Garante per i finanziamenti delle attività trattamentali nelle carceri Ansa, 28 giugno 2018 Il Garante Nobili scrive ai Presidenti di Giunta e Consiglio per un loro intervento diretto. Appello del Garante dei diritti, Andrea Nobili, rivolto ai Presidenti di Giunta e Consiglio regionale affinché vengano sbloccati i finanziamenti per le attività trattamentali negli istituti penitenziari. In una lettera inviata a Ceriscioli e Mastrovincenzo viene chiesto un intervento diretto in questa direzione, che vada a confermare il “consolidato sostegno ad un delicato contesto sociale come quello carcerario”. Il Garante fa presente che la legge di settore del 2008 è di fondamentale importanza per la concretizzazione delle stesse attività e per l’adozione di misure a tutela dei diritti dei detenuti, con specifico riferimento ai percorsi dedicati alla loro risocializzazione. Rappresentando alcune segnalazioni pervenute all’Autorità di Garanzia, Nobili scrive che “il ritardo nella messa a disposizione delle risorse desta preoccupazione tra gli operatori, anche perché un eventuale venir meno delle stesse avrebbe ripercussioni negative con l’interruzione di progetti già avviati”. Da qui la richiesta di un intervento che porti alla soluzione di uno dei tanti problemi che attualmente gravano sul sistema penitenziario. Emilia R.: il Garante “ispezioni non annunciate nelle carceri per rafforzare la prevenzione” di Cristian Casali cronacabianca.eu, 28 giugno 2018 Convegno a Bologna. Il Garante nazionale Palma sui suicidi in Emilia-Romagna: “Niente colpe specifiche, ma agire sui trasferimenti passivi e sulla lentezza nell’avviare alle Rems chi ha disturbi mentali”. Un incontro in viale Aldo Moro a Bologna sull’attività di prevenzione dei garanti della libertà personale. Ad aprire i lavori il Garante regionale, Marcello Marighelli, che ha affrontato il tema dei meccanismi di prevenzione nelle carceri e in generale negli spazi della privazione o limitazione della libertà personale: “L’attività di prevenzione di trattamenti contrari al rispetto dei diritti fondamentali della persona si svolge sostanzialmente con il monitoraggio di tutte la situazioni di privazione della libertà personale e quindi con visite anche non annunciate nelle carceri, nelle camere di sicurezza delle forze di polizia, nei servizi di diagnosi e cura dove si praticano trattamenti sanitari obbligatori e nei centri per l’identificazione e il rimpatrio dei cittadini stranieri irregolari”. Ospite dell’iniziativa il Garante nazionale Mauro Palma, che ha descritto la vicenda della nave cargo danese Alexander Maersk per giorni ferma davanti alle coste del ragusano, con a bordo 108 migranti prelevati dalla Lifeline. Palma si era appellato al comandante generale della guardia costiera, Giovanni Pettorino, sostenendo che i migranti a bordo si trovavano di fatto privati della libertà personale. Appello che non è rimasto inascoltato, tanto che è arrivato il via libera dal ministero all’ingresso della nave nel porto di Pozzallo. Quanto all’aumento dei suicidi nelle strutture carcerarie dell’Emilia-Romagna (nel 2017 i casi in strutture della regione sono stati otto, il doppio rispetto al 2016, mentre i tentativi di suicidio sono stati 125 e 1.383 gli atti di autolesionismo), il Garante nazionale Palma, interpellato sul punto, ha evidenziato che il fenomeno “è spesso dovuto a fattori insondabili delle persone”, rimarcando che è “contrario ad attribuire colpe”. Il Garante ha però evidenziato che la situazione “è il segno di un malessere”, attribuibile principalmente a due cause, i trasferimenti passivi e la lentezza, in alcuni casi, nell’indirizzare i detenuti con disturbi mentali in strutture sanitarie adeguate, come le Rems. Al seminario sono intervenuti anche Alessandro Albano, responsabile delle relazioni internazionali del Garante nazionale, Stefania Carnevale, Garante comune di Ferrara, e Franco Corleone, Garante regione della Toscana. Nel pomeriggio, invece, Bruno Mellano, Garante regione del Piemonte, ha presieduto una tavola rotonda con i garanti territoriali. Calabria: università e carcere, buone prassi per l’inserimento degli studenti detenuti di Piero Mirabelli fattialcubo.it, 28 giugno 2018 La garanzia del diritto allo studio per i detenuti e le molte criticità che incontrano quando vengono avviati al percorso universitario sono stati i temi fondamentali del seminario “Università e carcere” che si è tenuto presso la sala riunioni “Giovanni Arrighi” del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Unical. L’incontro, organizzato dal Comitato unico di Garanzia d’Ateneo, ha visto la partecipazione di Franco Prina, professore dell’Università di Torino e presidente della Conferenza Nazionale dei Delegati ai Poli Universitari Penitenziari (Cnupp), di Giuliana Mocchi, presidente del Cug, Franca Garreffa, responsabile degli studenti detenuti, Pietro Fantozzi, delegato del Rettore per il Polo Universitario Penitenziario, e Rita Giglio, capo area trattamentale della Casa di reclusione di Rossano. Assente invece per motivi di salute il direttore della Casa di reclusione Giuseppe Carrà. Dal 2010, quando il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Unical ha immatricolato alcuni studenti detenuti nel carcere di Rossano - attualmente gli iscritti sono nove - si è sentita sempre di più l’esigenza da parte di altre case di reclusione calabresi di far intraprendere un percorso universitario alle persone private della libertà. Per questo Garreffa e Mocchi hanno subito messo in luce la necessità di istituire al più presto un Polo Universitario Penitenziario in Calabria, affermando che la formazione dei detenuti è importante tanto quanto quella degli studenti, e questa può essere data solo realizzando una struttura dedicata, che offra una prospettiva culturale completa, non limitata ai soli esami universitari. Il 3 luglio, grazie ad un’azione organizzativa messa in atto insieme al sistema carcerario, si dovrebbe firmare la convenzione con il Prap (Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria), affinché il Polo venga del tutto istituzionalizzato. Franco Prina nell’intervento principale ha cercato di individuare le buone prassi per il superamento delle difficoltà nelle quali i detenuti si imbattono quando gli viene data la possibilità di iscriversi all’università, ostacoli che si creano spesso per un mancato dialogo tra penitenziario ed Ateneo. In primo luogo la Cnupp intende svolgere attività di promozione, riflessione e indirizzo del sistema universitario nazionale e dei singoli Atenei in merito alla garanzia del diritto allo studio dei detenuti. Per questo, l’obiettivo principale è rappresentato dall’impegno a garantire l’opportunità di percorsi universitari in maniera diffusa, anche in aree geografiche in cui oggi esse sono assenti o poco strutturate. Tale diritto non deve però essere strumentalizzato, la logica è sempre quella di una responsabilizzazione delle persone che scelgono il percorso. Fino ad oggi circa 600 studenti detenuti si sono iscritti nelle 27 università aderenti alla Cnupp, la quale ha redatto varie linee guida sia verso le istituzioni penitenziarie, sia verso quelle universitarie, per creare delle condizioni omogenee all’interno dei poli. Nelle strutture carcerarie bisogna creare un contesto favorevole per le attività di studio e i rapporti con i docenti, tramite camere o reparti adeguati; garantire la continuità dei percorsi di studio limitando i trasferimenti non indispensabili; estendere a tutti i Poli dei collegamenti internet (siti universitari, possibilità di didattica online) e mettere a disposizione dei responsabili universitari delle informazioni sui detenuti necessarie alla programmazione dei percorsi di studio. Le università da parte loro dovranno per prima cosa inserire la figura del delegato del Rettore per il diritto allo studio dei detenuti, creando in seguito un gruppo di responsabili per la didattica. Non devono mancare infine tutte le risorse necessarie al funzionamento del polo: tutor dedicati, libri, computer ed altro. Il diritto allo studio deve essere sempre sostenuto in tutte le sue forme attuando nei casi in cui è possibile l’esenzione dalle tasse e gli accessi alle borse di studio. Le opportunità offerte devono poi essere spendibili all’esterno, se finita la detenzione non si viene supportati per il reinserimento nella società si rischia di essere marcati solo come “ex detenuti”, nonostante la laurea. Università e carcere insomma devono cooperare affinché “quando il portone si chiude alle spalle di una persona, non si crei il vuoto dietro di sé”, ma prevalga un senso del nuovo e del possibile. Sassari: il Comune promuove un progetto per l’inserimento dei detenuti in attività pubbliche sassarinotizie.com, 28 giugno 2018 Seguendo l’Approvazione del Progetto di Inclusione socio-lavorativa dei detenuti del Comune di Tissi e di Porto Torres anche il Comune di Sassari delibera l’approvazione nello stesso mese di giugno il medesimo progetto unitario. Le Amministrazioni Comunali hanno inteso promuovere un’iniziativa utile per procedere alla stipula di un protocollo d’intesa per l’inserimento dei detenuti della Casa Circondariale di Sassari in attività di pubblica utilità a favore delle comunità locali. Il progetto dispositivo si attua e vede per la prima volta enti locali che promuovono sinergicamente con risorse economiche proprie un protocollo d’intesa per un progetto di inclusione sociale e lavorativo rivolto a persone sottoposte a pena. Il progetto vuole rispondere ai bisogni di tipo lavorativo, sociale, relazionale ed economico dei beneficiari e nel contempo intende offrire un servizio adeguato agli standard richiesti dalle Pubbliche Amministrazioni, con un significativo risparmio di risorse economiche nelle manutenzioni urbane. Il servizio si interesserà della manutenzione ordinaria e del decoro urbano, ivi inclusi gli spazi verdi. Pertanto i destinatari si occuperanno di: spazzamento strade, piazze, porticati pubblici, rastrellamento, taglio erbacce, riordino aiuole e spazi verdi, annaffiatura, messa a dimora di arbusti e fioriture, piccole potature di arbusti e cespugli, rasatura erba. Il raggiungimento dell’importante intesa è stato reso possibile grazie all’impegno coordinato tra i vari amministratori aderenti a Italia in Comune: Sergio Merella e Ivan Cherchi per il Comune di Tissi, Paola Conticelli per il Comune di Porto Torres e Marco Boscani per il Comune di Sassari. Italia in Comune è il nascente partito politico di Federico Pizzarotti e Alessio Pascucci che ha già eletto i primi sindaci negli ultimi ballottaggi alle Amministrative in Puglia (a cui già aderiscono oltre 400 amministratori locali) e si prepara per le Regionali ed Amministrative in Sardegna. Bolzano: ceceno evade dal carcere “cerca il killer della figlia” di Luigi Ruggera Corriere dell’Alto Adige, 28 giugno 2018 Ha appreso nel carcere di Bolzano, dove si trovava per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, della brutale uccisione di sua figlia di 7 anni a Vienna. Ora l’uomo è evaso e i parenti del presunto assassino, un ragazzo 16enne, temono una vendetta. Entrambe le famiglie, quella della vittima come anche quella del presunto assassino, sono di origine cecena. La piccola Hadishat era sparita l’11 maggio dal parco giochi del condominio nel quale viveva. Il giorno dopo il cadavere è stato trovato avvolto nel nylon in un container dei rifiuti. Il caso aveva suscitato molto scalpore a Vienna. Nei giorni scorsi il padre della bimba non è rientrato da un permesso nel carcere a Bolzano. Ora i parenti del ragazzo accusato del delitto si dicono molto preoccupati. L’avvocato della famiglia di Hadishat, il legale viennese Nikolaus Rast, tranquillizza: “La famiglia - ha dichiarato l’avvocato all’agenzia stampa austriaca Apa - non è interessata a una vendetta di sangue”. L’uomo potrebbe invece tentare di tornare nel suo paese d’origine. Il brutale omicidio, un mese fa, aveva sconvolto l’Austria. La piccola Hadishat era stata colpita a sangue freddo: solo alcune ore dopo era stato scoperto il corpicino senza vita in un contenitore per la spazzatura. Le indagini delle autorità austriache avevano ben presto portato alla scoperta dell’autore del crimine. Si tratta di un giovane immigrato ceceno di 16 anni, vicino di casa della bambina. L’uomo, identificato come K., ha confessato durante il suo primo interrogatorio. Secondo una prima ricostruzione dei fatti, il sedicenne avrebbe trascinato la bambina di 7 anni in bagno. Aveva con sé un coltello da cucina, un coltello da pane con una lama seghettata di circa 20 centimetri, come ha spiegato egli stesso alla polizia. Nel bagno, K., studente delle superiori, ha poi spinto la bambina nel piatto della doccia dove ha commesso l’omicidio, accoltellando la povera bambina alla gola. I familiari della bimba, non vedendo rincasare la figlia, si erano recati quella sera alla stazione di polizia per denunciarne la scomparsa. Subito erano scattate le ricerche, fino alla drammatica scoperta avvenuta dopo l’allarme lanciato dagli operai della nettezza urbana che hanno notato il cadavere della piccola. I soccorritori non avevano potuto far altro che constatare il decesso della piccola, che aveva compiuto 7 anni. Le indagini si erano presto concentrate sul vicino di casa sedicenne, connazionale della vittima, che conosceva bene frequentando lo stesso parco giochi nel sobborgo viennese. Contro il sedicenne sarebbero state raccolte prove schiaccianti ed il ragazzino, una volta messo alle strette dagli inquirenti, ha poi così fatto le prime ammissioni agli inquirenti, ammissioni che dovranno comunque venire confermate nel corso del processo. Il sedicenne resta in ogni caso l’unico indiziato del delitto. Ora però le forze dell’ordine austriache sono anche alla ricerca del padre della bambina: si teme infatti che dopo l’evasione dal carcere di Bolzano, potrebbe tornare a Vienna. Nei suoi confronti è stato spiccato un mandato di cattura internazionale. Il terribile omicidio aveva destato sconcerto non solo in Austria. Secondo i dati forniti da Telefono Azzurro, ogni anno in Italia scompaiono in media più di cento bambini, e ben 270mila in tutta Europa. Numeri che rappresentano solo in parte le dimensioni di un fenomeno complicato da indagare a causa delle difficoltà di reperire informazioni sui minori dei quali si perdono le tracce. Milano: una buona filosofia sulla pena di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 28 giugno 2018 In un Paese che offre quotidianamente fin troppi motivi di sconforto, non mancano le sorprese. L’ultima (o penultima o terzultima) è stata raccontata ieri su queste pagine da Elisabetta Andreis. Una classe di quaranta allievi nel carcere di Opera ha seguito un corso di filosofia ogni settimana per un anno. Già questa sarebbe una buona notizia, che diventa ottima se si aggiunge che si tratta di una classe mista: venti studenti universitari della Statale e venti ergastolani, guidati da un professore di filosofia, Stefano Simonetta, e da un’attrice, Elisabetta Vergani che ha letto brani scelti di autori classici e contemporanei, da Socrate a Calvino. È una notizia da sottolineare nel giorno in cui il Censis comunica che 4 italiani su dieci vorrebbero disporre di una pistola da utilizzare per legittima difesa. L’esperienza del laboratorio è in sé straordinaria almeno per un paio di ragioni. Intanto perché la filosofia affronta i grandi temi con cui un condannato a vita, più di chiunque altro, prima o poi dovrà fare i conti, come la libertà, la giustizia, la colpa, il perdono, il tempo. E ancora meglio se questi conti li fa, oltre che con se stesso, nel dialogo e nel confronto. L’altro motivo è che la stessa, speculare, occasione di riflessione sui valori morali e civili venga offerta ai giovani nello scambio (terribile e vivificante) con vite non comuni né banali. Sempre ricordando la famosa frase di Dostoevskij: “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”. Torino: “Caffè libera entrata” al teatro del carcere Lorusso Cotugno torinotoday.it, 28 giugno 2018 Il 19 luglio alle ore 20.30 presso il teatro del carcere “Lorusso Cotugno”, in via Maria Adelaide Aglietta 35 a Torino, si terrà lo spettacolo teatrale “Caffè Libera entrata”, curato dall’Associazione La Brezza in collaborazione con l’Associazione culturale Liberi pensatori Paul Valèry e la Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino. L’evento è gratuito. È obbligatorio prenotare entro il 30 giugno. (Inviare un’e-mail all’indirizzo labrezzatorino@gmail.com con codice fiscale, nome, cognome, luogo e data di nascita). Lo spettacolo teatrale ricreerà una cena letteraria in un caffè torinese d’altri tempi. Gli attori interpreteranno intellettuali, scrittori e gente comune coinvolti in un dibattito su temi di attualità culturale e politica. Il pubblico verrà invitato anche ad intervenire nel gioco teatrale. La performance è la naturale conclusione del laboratorio teatrale rivolto ai detenuti del “padiglione A” della casa circondariale ed organizzato dall’associazione La Brezza di Torino e dalla compagnia teatrale “Liberi pensatori Paul Valèry”. Coordinato dalla regista Stefania Rosso, con la partecipazione di giovani artisti, il laboratorio teatrale è frutto dell’analisi dei testi di illustri autori che hanno frequentato i caffè torinesi e i salotti letterari. In questi luoghi si riunivano periodicamente intellettuali e personaggi più o meno noti alle cronache mondane per dibattere e confrontarsi su argomenti legati all’attualità. L’apertura dei cancelli per l’ingresso del pubblico è prevista alle ore 19.30; gli spettatori dovranno presentarsi muniti di documento di identità e senza borse, cellulari e chiavette usb. Lo spettacolo durerà circa un’ora e mezza. Chi è interessato potrà anche partecipare a un aperitivo organizzato da Liberamensa alle ore 18.30 (prenotazione obbligatoria, euro 10). Nuoro: Moliere va in scena alla casa circondariale di Badu e Carros cronachenuoresi.it, 28 giugno 2018 Oggi, 28 giugno 2018, alle ore 16.00 presso la Casa circondariale Badu e Carros di Nuoro, la Compagnia stabile dei detenuti “Nuova Jobia” porterà in scena la commedia “Il malato immaginario” di Moliere. La Compagnia stabile dei detenuti “Nuova Jobia”, attiva, dal 2013, è formata da 10 detenuti della sezione alta sicurezza e da 7 volontari diretti dall’educatore di strada del Comune di Nuoro Pietro Era, che opera nella Casa circondariale grazie ad un protocollo d’intesa tra l’amministrazione comunale di Nuoro e l’amministrazione penitenziaria di Badu e Carros. Si rafforza così l’azione messa in atto per portare, attraverso la cultura, un miglioramento della vita dei detenuti e restituire un senso di normalità in una situazione estrema quale la vita carceraria. Non solo per i detenuti ma anche per coloro, che a vario titolo, dentro il carcere lavorano. “Siamo molto contenti di continuare a sostenere questo tipo di iniziative e rafforzare la collaborazione con la Casa circondariale di Badu e Carros per portare sempre più spesso il carcere in città e viceversa”, dice l’assessore ai Servizi sociali Valeria Romagna, “Il teatro è un grande strumento di formazione e crescita, il fatto che entri in carcere non rappresenta solo un grande gesto di libertà e apertura, ma uno strumento di cambiamento basato sulla cultura e sulla bellezza”. Sui migranti vertice europeo fallito in partenza di Carlo Lania Il Manifesto, 28 giugno 2018 Oggi a Bruxelles. Il presidente del Consiglio Ue Tusk ai leader europei: “La posta in gioco è molto alta e abbiamo poco tempo”. L’Italia minaccia di non firmare il documento finale. Lo scontro tra l’Italia e il resto dell’Europa sui migranti sta probabilmente arrivando alla fine e il risultato, qualunque dovesse essere, rischia di decretare molti perdenti e nessun vincitore. Le speranze che dal Consiglio europeo di oggi possano uscire soluzioni condivise per quanto riguarda la gestione dei migranti, col passare delle ore si sono infatti ridotte sempre più al lumicino al punto che già ieri sera a Bruxelles giravano voci preoccupate circa non solo la possibilità che l’Italia possa non firmare il documento finale del vertice, ma anche che i 28 leader europei possano ritrovarsi presto a far fronte a un’eventuale chiusura delle frontiere tra Germania e Austria e tra Austria e Italia. Decisione catastrofica che comporterebbe di fatto la fine di Schengen e il definitivo isolamento dell’Italia. Intervenendo ieri in parlamento proprio per illustrare i contenuti del Consiglio europeo di oggi, il premier Conte è stato chiaro: per l’Italia punti come la condivisione tra gli Stati della responsabilità dei migranti, l’apertura dei porti europei alle navi che effettuano i salvataggi e il superamento del regolamento di Dublino rappresentano condizioni imprescindibili. “Bisogna scindere il piano dell’individuazione del porto sicuro da quello dello Stato competente a esaminare le richieste di asilo”, ha spiegato tra gli applausi della maggioranza. Senza avere prima incassato questi risultati, per Conte non vale neanche la pena discutere di come bloccare i movimenti secondari dei richiedenti asilo, praticamente l’ultima boa alla quale è aggrappata la sopravvivenza politica della cancelliera Angela Merkel. Ma il premier ha anche fatto suo, senza citarli, il lavoro svolto negli ultimi cinque anni dai governi Letta e Renzi, ricordando come l’Italia abbia salvato l’onore dell’Europa prestando soccorso a decine di migliaia di vite nel Mediterraneo. Un riconoscimento attribuito per la verità nel 2017 al nostro Paese dal presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker, che probabilmente all’epoca non pensava certo di dover discutere un giorno con il leader di un Paese il cui ministro degli Interni liquida come “retorica” le torture subite dai migranti in Libia. Proprio il rapporto con Salvini è del resto per Conte uno dei punti più complicati da gestire. Giusto per facilitare il lavoro del premier in vista del consiglio di oggi, ieri il leghista è tornato a insultare il presidente francese: “Macron fa il matto perché è al minimo della popolarità nel suo Paese”, ha esternato lasciando la Camera dopo aver sentito l’intervento del premier. Una complicazione in più per Conte, diviso dalla necessità di muoversi senza marcare in maniera evidente la distanza con il suo vicepremier e quella di non urtare leader europei con i quali seppure sottotraccia - vedi la cena segreta di due sere fa a Roma proprio con Macron e consorte - cerca disperatamente di scongiurare una possibile rottura. Raccomandazione che ieri sera, in un incontro al Quirinale, gli avrebbe rivolto anche il presidente Mattarella. La strada è dunque in salita, anche se a Conte arrivano segnali incoraggianti. Il leader spagnolo Pedro Sanchez, che ha scelto di schierarsi con Germania e Francia - ha fatto sue alcune richieste italiane chiedendo “l’individuazione di porti sicuri” in modo che la responsabilità de migranti sia distribuita tra tutti i Paesi membri. E aperture in questo senso sarebbero arrivate anche dalla Francia e dalla cancelliera Merkel. Decisa, però, a far rispettare lo stop dei richiedenti asilo che dopo aver presentato domanda di protezione nello Stato di arrivo si muovono all’interno dell’Unione europea. Punto sul quale l’ennesima bozza di documento finale del vertice non a caso ribadisce come fondamentale, chiedendo agli Stati di adottare “misure interne legislative amministrative” per bloccare i movimenti secondari. Unico punto in comune a tutti a questo punto è la volontà di esternalizzare le frontiere europee aprendo campi profughi in Paesi terzi. Anche questa però, a poche ore dall’inizio del vertice, sembra essere una strada tutta in salita. In un documento circolato ieri la Commissione Juncker ha escluso che i campi profughi possano sorgere in Paesi europei che non fanno parte dell’Ue, come possono essere i Balcani nella proposta avanzata dall’Austria. E per quanto riguarda la possibilità di collocarli in Nord Africa continuano ad arrivare rifiuti da parte dei Paesi in teoria interessati. Tutti segnali che non lasciano prevedere niente di buono. “La posta in gioco è molto alta e c’è poco tempo per trovare una soluzione”, spiegava ieri il presidente del Consiglio Ue Donald Tusk. Droghe. Fontana spara già alto. Le associazioni: “Incompetente” di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 giugno 2018 Il piano d’azione del ministro in attesa della delega alle politiche antidroga: “Tolleranza zero, più proibizionismo, più carcere, lavori forzati per chi usa sostanze”. Perduca: “Conte non affidi un tema così complesso a chi non ha alcuna esperienza”. Un salto indietro di decenni: si torna alla “tolleranza zero”, si torna alla War on drugs dichiarata ufficialmente persa e perdente dal 2011. Di più: il proibizionismo ha fallito? “No, semmai è il contrario”, il problema è che “non c’è un vero proibizionismo”. La cannabis? Legalizzata mai. E poi ancora: “Lavori socialmente utili per chi viene scoperto a consumare droghe”. Un terzo dei detenuti è tossicodipendente? “Sì, ma stanno in galera perché hanno commosso reati, e ci devono rimanere”. Il ministro leghista della Famiglia (unica) Lorenzo Fontana, in attesa di firmare il decreto governativo che gli affiderà la delega alle Droghe, spiega in un’intervista a La Stampa la sua visione del mondo delle sostanze e della lotta alle tossicodipendenze. E fa già rimpiangere perfino un suo predecessore, l’ultrà pro-life Carlo Giovanardi che continuò a mettere sullo stesso piano la cannabis e l’eroina fino a quando la legge manifesto che portava il suo nome divenne carta straccia grazie alla bocciatura della Corte costituzionale. Senza alcuna distinzione tra legalizzazione e liberalizzazione, il leghista Fontana (neofita della materia) azzera d’un colpo ogni ambizione riformatrice che fosse mai rimasta nelle fila degli ammutoliti alleati grillini di governo: “Non liberalizzerò la cannabis, mi metto nei panni dei genitori, non credo vorrebbero che i loro figli fumassero”, spiega. La riduzione del danno probabilmente non fa parte del vocabolario del cattolicissimo ministro, e di regolamentazione dell’uso non problematico delle sostanze nemmeno a parlarne, pur ammettendo di aver fumato una volta uno spinello ma di non avere avuto poi voglia di un secondo. D’altronde che Fontana non abbia “mai avuto alcun interesse, figuriamoci competenza” in materia di droghe (come asserisce il radicale Marco Perduca dell’Associazione Luca Coscioni), lo si capisce da come analizza il fenomeno di quel 25% di detenuti tossicodipendenti di cui solo una piccolissima parte riesce ad accedere alle misure alternative previste: “È ovvio che ai drogati - dice così - servono cure al di là delle misure carcerarie, ma non vorrei che passasse il messaggio che se commetti un reato ma sei tossicodipendente non vai in galera”. Fontana poi trascura completamente che quasi il 30% degli ingressi in carcere è per violazione delle norme sugli stupefacenti: un mare di “pesci piccoli” come non succedeva dal 2013, è il dato riportato dal nono Libro bianco (ma che sarà senz’altro contenuto anche nella prossima Relazione al parlamento del Dipartimento anti droghe, attesa entro la fine della settimana). “È il ministro Fontana che vuole la droga libera”, reagisce Maria Stagnitta, presidente di Forum droghe che definisce “preoccupante” la scelta di assegnare la delega ad un esponente di governo che dimostra “una visione preistorica delle politiche sulle droghe”. “È proprio la proibizione - continua Stagnitta - che di fatto rende oggi il mercato delle sostanze illecite il più libero di tutti. Oggi i “nostri figli” possono acquistare sostanze illegali (di cui spesso non conoscono l’esatta composizione o qualità) ovunque, a qualunque ora e a qualsiasi età. Chi vuole continuare con il proibizionismo vuole mantenere lo status quo”. Sorpreso per la scelta del governo “che, oltre a non aver incluso nel contratto un tema a cui si dovrebbe invece dedicare, affida un percorso lungo 30 anni a un ministro che non ne ha mai preso parte”, è Marco Perduca. L’esponente radicale chiede al premier Conte di “non dare la competenza sulle droghe al ministro Fontana” perché nel suo “curriculum politico e istituzionale non si rintraccia alcun interesse, figuriamoci le competenze” adatte ad una questione tanto delicata e complessa. “Proprio come per aborto ed eutanasia - prosegue Perduca - il cosiddetto “Movimento per la vita” vuole continuare a imporre sofferenze, discriminazione e morti anche nel campo della droga, regalando alla malavita un giro di affari da 14 miliardi. Non si tratta di un’emergenza ma di un fenomeno strutturale da affrontare a tutto tondo, con competenza, dedizione, visione e lungimiranza, tenendo a bada ideologi o tecnocrati”. E invece, ricorda, “per esempio la Conferenza nazionale “triennale” manca dal 2009”. “L’ignoranza - conclude Perduca - uccide, sulla droga serve informazione”. Ma non è la linea del governo giallo-verde. Polonia. Legge sulla Shoah, il Parlamento fa marcia indietro di Monica Perosino La Stampa, 28 giugno 2018 La controversa legge polacca sull’Olocausto ha avuto vita breve. Dopo solo cinque mesi di vita e durissime reazione della comunità internazionale, il primo ministro della Polonia, Mateusz Morawiecki, ha presentato in Parlamento un emendamento che ne modifica un punto fondamentale. Il testo originario prevedeva l’imposizione di pene detentive per chiunque parlasse di una co-responsabilità della Polonia con i crimini di guerra del nazismo tedesco. L’emendamento prevede di rimuovere le conseguenze in sede penale per chiunque venga riconosciuto colpevole di ascrivere allo Stato polacco crimini nazisti, e prevede di lasciare solo conseguenze in sede civile. Nella prima formulazione, approvata dal senato polacco lo scorso febbraio, la legge sui campi di sterminio prevedeva pene fino a tre anni di carcere per chiunque si riferisca ai lager nazisti come campi “polacchi”. Ma il punto che più aveva fatto scatenare le reazioni era un altro: diventava illegale accusare la nazione polacca di collaborazionismo con il regime hitleriano e quindi di negare quanto in realtà successo. Il buon nome del Paese “Stiamo lasciando la penalizzazione criminale che potrebbe distrarre l’attenzione dall’obiettivo”, ha detto ieri Morawiecki, perché “va ricordato che questo obiettivo era ed è di difendere il buon nome della Polonia e della verità storica”. Il Paese è stato occupato dalla Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale e ha perso sei milioni dei suoi cittadini, fra cui tre milioni di ebrei. “Mi felicito che il governo polacco, il parlamento, il senato e il presidente abbiano deciso di annullare quei paragrafi che avevano scatenato una tempesta e malumore in Israele e nella comunità internazionale”, ha commentato il premier Benyamin Netanyhu. “A tutti è chiaro che la Shoah è stato un crimine senza precedenti, perpetrato dalla Germania nazista contro la nazione ebraica e gli ebrei polacchi. Abbiamo raggiunto con la Polonia una formula concordata”. Dopo mesi di trattative, scandite da tensioni e polemiche tra i due governi, sembra che la pace diplomatica tra Israele e Polonia sia stata ristabilita: “Nessuna legge può cambiare e cambierà quanto purtroppo è successo”, ha aggiunto Netanyahu, che ha voluto sottolineare di aver sempre convenuto che l’espressione “campi di concentramento polacchi” era “chiaramente sbagliata e riduce la responsabilità della Germania per averli istituiti”. Egitto. Caso Regeni, nei video Giulio non si vede, ma mancano dei frame di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 28 giugno 2018 Nuovo giallo nel materiale consegnato dalla procura generale d’Egitto: dai fotogrammi ripresi nella metro mancano proprio i minuti in cui sarebbe avvenuto il sequestro. Disposte nuove investigazioni. L’immagine di Giulio Regeni non c’è. Ma nei fotogrammi recuperati dalle registrazioni delle telecamere a circuito chiuso nelle 53 stazioni della metropolitana del Cairo ci sono dei “buchi” che riguardano gli orari di interesse investigativo, e cioè lo spazio di tempo tra le 19 e le 21 del 25 gennaio 2016, quando Giulio salì per l’ultima volta su un vagone della linea 2. In quello e in altri frangenti, tra il materiale che a fatica i tecnici di una società russa specializzata sono riusciti a rimettere insieme “non vi sono né video né immagini”, comunicano la Procura di Roma e la Procura generale egiziana. “Pertanto - prosegue la nota congiunta dei due uffici diffusa ieri - sono necessarie ulteriori e più approfondite indagini tecniche per accertarne le cause. Investigazioni che il procuratore generale d’Egitto ha effettivamente disposto”. Il giallo - Le possibilità che tra le migliaia di “frames” non sovrascritti (cioè cancellati da altre immagini registrate sopra quelle precedenti) e archiviati nel server centrale dove vengono convogliate tutte le immagini riprese nei sotterranei del Cairo, ce ne fosse qualcuno che potesse aiutare a scoprire la verità sulla fine del ricercatore friulano sequestrato, torturato e ucciso due anni e mezzo fa, erano ridotte al lumicino. Tuttavia, il fatto di non averle trovate non risolve il problema; proprio perché mancano del tutto. E alla parola “buchi” utilizzata nel comunicato, si potrebbe sostituire il termine “tagli”, almeno in ipotesi. A verificare questa eventualità, vale a dire una volontaria manomissione dei nastri, dovrebbero servire gli accertamenti già disposti dal procuratore Nabil Ahmed Sadek; e se non sarà possibile venirne a capo resterà comunque il sospetto. Anche perché il sequestro delle immagini, subito richiesto nel febbraio 2016 dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e dal sostituto Sergio Colaiocco, avvenne con fatale ritardo, solo dopo che s’era avviata la procedura di cancellazione automatica. Nuove investigazioni - Resta dunque intatto il mistero su chi potrebbe aver seguito e prelevato Regeni durante il viaggio in metro, così come sulla possibilità di tracce cancellate. Ma nel frattempo l’indagine ha raggiunto alcuni punti fermi, soprattutto grazie al lavoro dei magistrati romani, dei carabinieri del Ros e dei poliziotti del Servizio centrale operativo. Nella ricostruzione degli investigatori italiani, infatti, ci sono fondati elementi per considerare coinvolti nella scomparsa di Giulio (e nei successivi depistaggi) almeno nove agenti della National security egiziana, individuati con nome, cognome e grado grazie agli incroci dei tabulati telefonici, alle intercettazioni e alle deposizioni del sindacalista Abdallah, alle deposizioni degli stessi militari indiziati, che Sadek ha trasmesso a Roma. Questa situazione, dopo i ripetuti incontri e contatti tra le due Procure, ha portato all’ultima frase del comunicato di ieri: “Si è deciso, nell’ambito della collaborazione per arrivare a scoprire i colpevoli del sequestro, delle torture e dell’omicidio del cittadino italiano Giulio Regeni, di organizzare il prossimo incontro non appena saranno completati gli accertanti suddetti, per un confronto complessivo sulle attività d’indagine sin quei compiute”. Nel linguaggio della diplomazia giudiziaria instauratasi in questi due anni, “confronto complessivo” significa finale, e cioè propedeutico a una decisione conclusiva. A questo punto è prevedibile che la nuova riunione tra Sadek, Pignatone, Colaiocco e gli investigatori dei due Paesi avvenga dopo l’estate, quando si tireranno le fila per decidere se incriminare o meno - e da parte di quale Procura - i sospettati egiziani. Myanmar. Ecco i nomi dei responsabili della pulizia etnica contro i rohingya di Riccardo Noury Corriere della Sera, 28 giugno 2018 Il comandante in capo delle forze armate di Myanmar, il generale Min Aung Hlaing, e altri 12 militari sono coinvolti in crimini contro l’umanità commessi contro la popolazione rohingya nel nord dello stato di Rakhine. I nomi - oltre al generale Min Aung Hlaing, recatosi personalmente nel nord dello stato di Rakhine prima e durante la campagna di pulizia etnica per presiedere a parte delle operazioni, ci sono nove militari suoi sottoposti e tre membri della Polizia di frontiera - sono contenuti in un rapporto diffuso ieri da Amnesty International, che sollecita l’intervento del Tribunale penale internazionale affinché chi ha le mani sporche di sangue sia chiamato a rispondere del ruolo avuto nella supervisione o nel compimento di crimini contro l’umanità e di altre gravi violazioni dei diritti umani previste dal diritto internazionale. Secondo Amnesty International le forze armate di Myanmar si sono rese responsabili di nove delle 11 fattispecie di crimini contro l’umanità elencati nello Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale. Basato su oltre 400 interviste, corroborate da prove precedentemente acquisite - tra le quali immagini satellitari, foto e video validati e analisi di esperti militari e forensi - e frutto di nove mesi di intense ricerche, tanto in Myanmar quanto in Bangladesh, il rapporto è finora il più completo resoconto di come le forze armate di Myanmar abbiano costretto oltre 702.000 uomini, donne e bambini - ossia oltre l’80 per cento della popolazione rohingya presente nello stato di Rakhine allo scoppio della crisi, il 25 agosto 2017 - a fuggire in Bangladesh. Nelle settimane precedenti la fine di agosto dello scorso anno, l’esercito ha trasferito nello stato di Rakhine il 33° e il 99° battaglione della Fanteria leggera, implicati secondo Amnesty International in crimini di guerra nello stato di Kachin nel nord dello stato di Shan tra la fine del 2016 e la metà del 2017, nel contesto del conflitto armato ancora in corso in quelle zone del paese. In alcuni villaggi rohingya i comandanti dei battaglioni appena arrivati hanno reso chiare le intenzioni sin dall’inizio. Intorno al 20 agosto 2017, cinque giorni prima dello scoppio della violenza, il comandante del 33° battaglione ha incontrato a Chut Pyin, nei pressi della città di Rathedaung, i leader rohingya dei villaggi circostanti. Secondo sette persone presenti, intervistate separatamente da Amnesty International, il comandante ha minacciato che se nell’area vi fossero state attività dell’Arsa o se gli abitanti dei villaggi avessero fatto “qualcosa si sbagliato”, i suoi soldati avrebbero aperto il fuoco contro i rohingya senza fare distinzioni. Amnesty International ha anche ottenuto la registrazione audio in lingua birmana, che ritiene autentica, di una telefonata tra un abitante rohingya di Inn Din, nei pressi della città di Maungdaw, e un militare sul posto, Nella registrazione, l’ufficiale dice: “Abbiamo l’ordine di bruciare l’intero villaggio al minimo disordine. Se voi non ve ne state in pace, distruggeremo tutto”. L’ondata di violenza che è iniziata poco dopo, in cui i militari hanno incendiato parzialmente o del tutto diverse centinaia di villaggi rohingya tra cui quasi tutti quelli nella zona di Maungdaw, è stata ampiamente documentata da Amnesty International e da altre fonti. I militari hanno stuprato donne e ragazze rohingya, sia nei villaggi che durante la fuga verso il Bangladesh. Amnesty International ha intervistato 20 donne e due ragazze sopravvissute allo stupro, 11 di loro a stupri di gruppo. L’organizzazione ha potuto documentare stupri e violenze sessuali in 16 località diverse del nord dello stato di Rakhine. Si è trattato di una prassi costante e diffusa che ha terrorizzato le comunità rohingya e che ha contribuito a cacciarle dai loro territori. Alcune sopravvissute allo stupro hanno aggiunto al trauma l’uccisione sotto i loro occhi dei familiari. In almeno un villaggio i soldati hanno lasciato le donne stuprate all’interno di abitazioni cui hanno successivamente dato fuoco. Amnesty International ha intervistato 23 uomini adulti e due ragazzi arrestati e sottoposti a maltrattamenti e torture e poi consegnati alla Polizia di frontiera, che li ha tenuti in detenzione senza contatti col mondo esterno per giorni e anche settimane. Tra i metodi di tortura, sono stati segnalati bruciature, pestaggi, l’annegamento simulato (noto come water-boarding), lo stupro e altre forme di violenza sessuale. Molti uomini rohingya detenuti a Taung Bazar hanno denunciato che gli è stato dato fuoco alla barba, un uomo e due ragazzi detenuti a Zay Di Pyin hanno riferito di essere stati privati di acqua e cibo, di essere stati picchiati quasi a morte e, in molti casi, di aver subito bruciature con le candele sui genitali. Alcuni detenuti sono morti sotto tortura, tra cui un ventenne picchiato a morte con un asse di legno solo per aver chiesto dell’acqua. Per ottenere il rilascio, i detenuti hanno dovuto pagare esose tangenti e firmare un documento da cui risultava che non avevano subito alcun maltrattamento. Dieci mesi dopo, le autorità di Myanmar non hanno ancora fornito informazioni su chi è ancora in stato di detenzione, dove si trovi e di cosa sia eventualmente accusato. Si tratta, per il diritto internazionale, di detenzioni arbitrarie. La conclusione di Amnesty International è chiara: i vertici delle forze armate sapevano o avrebbero dovuto sapere che erano in corso crimini contro l’umanità, eppure non hanno usato la loro posizione di comando per fermarli prima e durante e per punire i responsabili, negando persino gran parte di quanto accaduto. Arabia Saudita. Nuova ondata repressiva, in arresto nota attivista per i diritti delle donne di Siria Guerrieri La Repubblica, 28 giugno 2018 Caduto il divieto di guida, Mohammed Bin Salman stringe il cappio sul movimento per i diritti femminili. Dopo la storica abolizione del divieto di guida per le donne, domenica scorsa, il governo saudita mostra il suo volto feroce. La polizia ha arrestato una delle attiviste per i diritti femminili più conosciute e importanti del Paese, che a lungo si era battuta per la fine della proibizione della patente alle saudite, così come per il diritto al voto nelle elezioni ammnistrative. Hatoon al-Fassi, professoressa universitaria alla King Saud University e commentatrice autorevole del quotidiano al-Riyadh, è stata portata oggi in carcere. Ancora non si conosce quale sia l’accusa, ma l’arresto si inserisce in un’ondata repressiva scatenata dal governo contro le attiviste per i diritti femminili: imprigionate a decine per “tradimento della Patria”, proprio a ridosso dell’apertura sul volante alle donne. È la linea dura voluta proprio dal principe Mohammed Bin Salman, il potente figlio del re saudita che è alla guida del processo di modernizzazione del Paese: da un lato le innovazioni, portate avanti dal principe per dare una scossa all’economia e alla cultura del paese, dall’altro lato una forte stretta repressiva contro il dissenso. La professoressa al-Fassi, che insegna Storia delle donne nel Dipartimento per gli affari internazionali dell’università di Riad, nel suo curriculum di attivista per i diritti delle donne ha una serie di battaglie per i diritti delle donne: dalla fine del divieto di guida, passando per il diritto di voto. La notizia del suo arresto è stata diffusa dal gruppo ALQST, che si occupa delle violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita. Nell’ondata repressiva scatenata da Bin Salman, nella settimana a cavallo della fine del divieto di guida, sono finite 17 attiviste: tutte con l’accusa di essere “traditrici della Patria” e di avere contatti sospetti con ambasciate straniere. Nove di loro sono tuttora in carcere, e non è escluso che siano state vittime di tortura: le autorità hanno dichiarato che rimangono in carcere in considerazione delle loro confessioni in relazione alle accuse a loro carico”. Dall’Alto Commissariato per i diritti umani dell’Onu è arrivato in serata un comunicato di condanna, con la richiesta di immediata scarcerazione per tutte le attiviste portate in carcere in questi giorni: “L’Arabia Saudita - si legge nel comunicato - è stata applaudita per la modernizzazione avviata dal principe Prince Mohammed Bin Salman, e per la fine del divieto di guida per le donne. Ma questi arresti ai danni di donne attiviste messi in atto in tutto il Paese sono estremamente preoccupanti e probabilmente mostrano il vero volto dell’Arabia Saudita per quanto riguarda i diritti delle donne”. Marocco: condannato a 20 anni di carcere il leader delle proteste nel Rif Reuters, 28 giugno 2018 Il leader del movimento di protesta che da oltre un anno scuote la regione settentrionale del Rif è stato condannato a 20 anni di carcere, ieri, da un tribunale di Casablanca. Nasser Zefzafi, 39 anni, è stato arrestato a maggio 2017 per aver organizzato manifestazioni nella sua città natale, Al-Hoceima, in quello che è stato definito “al-Hirak al-Shaabi” (“movimento popolare”). È stato accusato di indebolire l’ordine pubblico e minacciare l’unità nazionale. Come parte dello stesso verdetto, anche altri contestatori - Nabil Ahmijeq, Wassim El Boustani e Samir Aghid - sono stati condannati alla stessa pena detentiva. Ad altri 35 attivisti sono state comminate pene che vanno dai 15 anni ad un anno di carcere. Un verdetto “crudele e di rappresaglia”, ha scritto Naima El Gallaf, avvocato degli attivisti di Hirak, sulla sua pagina Facebook. Le proteste sono scoppiate dopo la morte di un pescatore, Mouhcine Fikri, nell’ottobre 2017. L’uomo era stato schiacciato in un camion della spazzatura mentre cercava di recuperare dei pesci che la polizia gli aveva confiscato e gettato nell’immondizia. La morte dell’uomo ha acceso la miccia delle proteste dell’intera popolazione che chiede particolari misure socio-economiche per lo sviluppo della regione nord-orientale, tra le più povere del paese. Si tratta della più importante protesta di massa in Marocco dopo le dimostrazioni pro-democrazia avvenute durante la primavera araba, nel 2011.