Sulle pene alternative zero automatismi, lettera al ministro sul decreto carcere di Riccardo Polidoro* Il Dubbio, 27 giugno 2018 Il Guardasigilli Bonafede sostiene che l’importante è decidere sull’affidamento in prova di ciascun detenuto, con specifica valutazione: è proprio quanto prevede la riforma. “Illustre Ministro, Le scrivo così mi distraggo un po’... e, nell’auspicio che Lei non sia troppo lontano dalla realtà dell’Esecuzione Penale in Italia, chiaramente descritta dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel gennaio 2013 e dalle motivazioni che hanno spinto il nostro Parlamento a emanare la Legge Delega nel giugno 2017, ma anche dall’effettivo contenuto della Riforma dell’Ordinamento Penitenziario che a tale Delega dava attuazione, è necessario chiarirLe alcuni punti. Nella Sua dichiarazione, riportata dall’Agenzia Ansa il 21 giugno scorso, Lei afferma che “sull’esecuzione penale esterna c’è un equivoco di fondo, come se questo Governo volesse mettere le persone in carcere e scordarsele: assolutamente no. Questo Governo vuole fare in modo che se un detenuto esce dal carcere e ha possibilità d’inserirsi nella società, lo faccia non perché ci sono degli automatismi, ma perché lo Stato ha valutato il percorso di reinserimento sociale, senza minare la certezza della pena”. Chi Le scrive ha coordinato il Tavolo degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale che aveva ad oggetto gli ostacoli normativi all’individualizzazione del trattamento rieducativo, e ha fatto parte della Commissione ministeriale per la Riforma presieduta dal Professore Glauco Giostra. Le posso assicurare che se un “equivoco di fondo” c’è, è da ravvisarsi rispetto al contenuto del progetto di Riforma, che alcun automatismo prevede nella concessione delle misure alternative, oggi di comunità, e certamente non “mina la certezza della pena”. In premessa va ricordato che nell’articolo 27 della Costituzione, al comma 3, è scritto “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. L’uso del plurale e non del singolare - la pena - non lascia alcun dubbio sulla circostanza che l’esecuzione della condanna può essere attuata anche con modalità diverse dal carcere, tra queste certamente l’esecuzione penale esterna. Il detenuto che ottiene l’affidamento in prova al servizio sociale non è un uomo libero ma sta scontando la sua pena attraverso un programma di trattamento che dovrebbe prepararlo al reinserimento nella società. Egli, dunque, continua ad espiare la condanna e la pena non perde affatto di valore. In tema di “equivoci” sarebbe meglio usare il termine “pene” alternative o di comunità, in quanto la definizione “misure” certamente può trarre in inganno e far ritenere che l’esecuzione della pena sia cessata. Chiarito tale aspetto, non secondario, va ribadito che la Riforma dell’Ordinamento Penitenziario non prevede alcun automatismo nella concessione dell’esecuzione della pena all’esterno del carcere, ma ne affida ai Magistrati di Sorveglianza la concessione, attraverso la valutazione soggettiva ed oggettiva dei dati in loro possesso. È la Magistratura che viene investita del potere di decidere, con quella discrezionalità che già le viene attribuita quando deve determinare l’entità della pena tra un minimo e un massimo, nel processo di merito, e spesso la forbice è molto ampia. Perché, quindi, opporsi a tale discrezionalità nell’esecuzione penale? Illustre Ministro, la Sua dichiarazione è in linea con quanto previsto dalla Riforma, con quanto chiesto dall’Europa e con quanto scritto nella legge Delega. Quest’ultima scadrà il prossimo 4 agosto e il Governo di cui fa parte potrebbe non farla decadere, restituendo dignità al nostro Paese. Concludo, la distrazione è finita e il ritorno alla realtà mi preoccupa”. *Responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali italiane Non è col carcere che si combatte la tossicodipendenza di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 27 giugno 2018 È stato presentato ieri mattina al Senato, in occasione della Giornata internazionale delle Nazioni Unite contro l’abuso e il traffico illecito di droga, il IX Libro bianco sulle droghe promosso da La società della ragione insieme a Forum droghe, Antigone, Cgil, Cnca e Associazione Luca Coscioni. Il documento - di cui consiglio la lettura a chiunque abbia a cuore un argomento così centrale - è estremamente ricco e offre una panoramica di tanti ambiti collegati al tema delle tossicodipendenze: dall’evoluzione dei servizi per come emerge dalle relazioni annuali al Parlamento del dipartimento Politiche Antidroga della presidenza del Consiglio dei ministri alla situazione internazionale per quanto riguarda la regolamentazione dell’uso della cannabis, dallo stato della ricerca scientifica sugli effetti delle droghe sul cervello al cambiamento nei consumi delle sostanze, dagli interventi innovativi e poco noti nel settore a linee concrete di indirizzo per mettere in rete le esperienze e consolidare le politiche di riduzione del danno. Il Libro bianco si apre rendendo conto delle politiche sanzionatorie messe in atto dall’Italia sulle tossicodipendenze e dei loro effetti sul sistema penitenziario. Torna il carcere era il titolo del rapporto annuale di Antigone dello scorso anno. Un titolo che condensa quanto sta accadendo negli ultimi anni, dopo che la condanna da parte della Corte di Strasburgo aveva spinto il nostro Paese a fare ricorso alla galera in maniera più mirata e meno onnivora. Se nel 2015 gli ingressi in carcere sono stati poco più di 47mila 800, nel 2016 erano arrivati a quasi 47mila 350 e nel 2017 a quasi 48mila 150. Ma la notizia non è questa. La notizia è che quasi il 30% dei detenuti entra in carcere per violazione di un unico articolo di un’unica legge: l’articolo 73 del Testo unico sulle droghe, quello che sostanzialmente punisce la detenzione per piccolo spaccio. Sono questi gli ingressi in carcere che tirano il volano al generale incremento numerico che abbiamo riportato. E ciò vale anche per le presenze: aumentano in generale i detenuti e aumentano percentualmente di più quelli che lo sono per reati legati alla droga. Se si paragonano i dati relativi all’articolo 73 con quelli relativi all’articolo 74 - una condotta criminosa più grave, quella di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope - si riscontra una tendenza annosa per il nostro sistema repressivo sulle droghe: la tendenza, come scrive Maurizio Cianchella nel primo capitolo del Libro bianco “a concentrarsi sui pesci piccoli piuttosto che sui consorzi criminali i quali, grazie a una migliore organizzazione e a maggiori risorse, non solo restano fuori dai radar della repressione penale ma ne traggono anche vantaggio, trovandosi a operare in un mercato ripulito dai competitor meno esperti in una situazione di oligopolio”. Crescono, infatti, gli ingressi in carcere di persone tossicodipendenti, vittime del sistema piuttosto che soggetti da trattare con il solo strumento penale. Dal 17,21% degli ingressi totali che costituivano nel 2015, si passa al 33,95% del 2016 e poi al 34,05% del 2017. Circa un quarto delle persone detenute nelle carceri italiane è tossicodipendente. Pochi di loro riescono ad avere accesso a quelle alternative alla detenzione che la legge prevede per chi ha problemi di dipendenza. Uno sguardo infine alle segnalazioni ai prefetti ex articolo 75 della legge sulle droghe, quello riguardante il possesso di sostanze stupefacenti per uso personale, una condotta che non è penalmente rilevante ma che è soggetta a sanzioni di tipo amministrativo. Si conferma anche qui l’intensificarsi del controllo repressivo dell’uso di sostanze stupefacenti. Passiamo dalle 32mila 478 segnalazioni del 2015, alle 36mila 795 del 2016, per arrivare addirittura alle 40mila 524 del 2017. Ma ciò che più colpisce è l’incidenza delle segnalazioni relative al possesso di cannabinoidi. Nel 2017, il 78,69% delle segnalazioni ha riguardato cannabinoidi. Dal 1990 - anno dell’entrata in vigore della legge Jervolino-Vassalli - a oggi, oltre un milione di persone è stato segnalato perché deteneva sostanze stupefacenti per uso personale. In 884mila e 44 casi (il 72,81%), la segnalazione riguardava il possesso di cannabinoidi. Il mondo intero ha preso atto che la war on drugs è fallita, lasciando troppe vittime sul terreno. Mentre gli altri Paesi rivedono le proprie politiche penali sul tema, in Italia si continua a ingolfare carceri, polizia, uffici amministrativi con un inutile e dannoso dispendio di soldi pubblici e di energie. La retorica della certezza della pena è qui che va a colpire, non certo sui veri criminali. Nel IX Libro bianco si immagina cosa accadrebbe se il carcere non fosse destinato ai tossicodipendenti e non avesse a che fare con una normativa scioccamente proibizionista. Non solo non servirebbe costruire nuove carceri, ma quelle che già abbiamo risulterebbero in eccedenza. Torna la repressione per i reati di droga. Ma in carcere finiscono solo i “pesci piccoli” di Checchino Antonini Left, 27 giugno 2018 L’ultima conferenza sulle sostanze, “per altro blindata e senza dibattito”, risale al 2009 e l’ultima “di reale confronto” al 2001 a Genova. “Unica nota positiva recente, l’inserimento nei Lea della riduzione del danno e un maggiore spazio per la canapa terapeutica. Tutti sul tappeto restano i problemi aperti o irrisolti”, scrivono Stefano Anastasia e Franco Corleone nell’introduzione del nono Libro bianco sulle droghe che è stato presentato al Senato in occasione del 26 giugno, la Giornata internazionale contro l’abuso e il traffico illecito di droga promossa dall’Onu. Il nono Libro bianco sulle droghe è stato presentato dal “Cartello di Genova”, coalizione antiproibizionista tra La Società della ragione, Forum droghe, Antigone, Cgil, Cnca e Associazione Luca Coscioni e con l’adesione di A buon diritto, Arci, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione pubblica Cgil, Gruppo Abele, Itaca, Itardd, Lega Coop Sociali, Lila. Nel volume si fa il punto sulla relazione tra le politiche sulle sostanze, il trend dei consumi, la salute, la repressione, la ricerca scientifica e il gap italiano rispetto alle tendenze internazionali, specie americane, dal Canada all’Uruguay, che segnano dati positivi a fronte dell’inversione di tendenza rispetto alle politiche proibizioniste dall’era Reagan in poi. Corleone e Anastasia, nell’introduzione, fanno riferimento alle occasioni perdute: dalla riunione dell’Onu a Vienna nel 2019 alla presentazione delle due proposte di legge sulla legalizzazione della canapa e di revisione radicale del Dpr 309/90, dalla richiesta ultimativa per la convocazione della Conferenza nazionale sulla politica delle droghe alla ridefinizione della natura e dei compiti del Dipartimento antidroga, fino alla possibilità di un confronto sulle soluzioni che emergono in tanti Paesi in Europa e nel mondo. Il nono Libro bianco racconta invece del ritorno dell’affollamento penitenziario e del ruolo che, in esso, gioca ancora una volta la legislazione proibizionista in materia di droghe. “Se gli ingressi in carcere hanno cominciato ad aumentare dallo scorso anno, quelli per violazione delle legislazione sugli stupefacenti guidano l’incremento, costituendone quasi il 30%, quanti non erano dal 2013. Se i detenuti in carcere aumentano, percentualmente aumentano di più quelli per reati di droga. Un quarto dei detenuti è tossicodipendente e solo una piccola parte di loro riesce ad accedere alle alternative al carcere pure per loro prescritte”. E hanno ripreso a crescere anche le segnalazioni ai prefetti dei semplici consumatori, “caduti anche loro nella rete dei maggiori controlli e dell’ossessione securitaria”. Ben 40.524 segnalazioni (all’80% per possesso di cannabinoidi), 15.581 sanzioni e solo 86 richieste di programmi terapeutici. “Una inutile macchina sanzionatoria che ingolfa uffici amministrativi e di polizia e che in quasi trent’anni ha coinvolto più di un milione e duecentomila persone”. Per il cartello delle associazioni antiproibizioniste “ce n’è quanto basta per continuare a chiedere un cambiamento politico, culturale e legislativo che rimetta l’Italia tra le Nazioni che stanno cercando e sperimentando vie nuove per la prevenzione dei rischi dell’abuso di droghe e della loro proibizione”. Oltre alla tradizionale analisi dei dati sugli effetti penali e sul carcere provocati dalla legge antidroga, il Libro bianco fotografa la realtà dei servizi pubblici e del privato sociale, legati ai nuovi consumi e lo stato della ricerca scientifica sul fenomeno in continua evoluzione. La relazione del Dipartimento politiche antidroga, peraltro mai discussa in Parlamento, offre, invece, un quadro “statico e datato, assolutamente privo di indicazioni per i parlamentari e gli operatori” e sempre senza “il punto di vista dei consumatori che sono confinati nel ruolo di vittime della repressione o di malati da curare, senza valorizzare la loro soggettività”, scrivono ancora Corleone e Anastasia. In appendice, le nostre proposte antiprobizioniste per la riforma del testo unico sulle sostanze stupefacenti e per la legalizzazione della cannabis che, nonostante la dedica esplicita dei curatori ai parlamentari della Repubblica, difficilmente troveranno ascolto nel Parlamento a maggioranza gialloverde. Ci sono infatti tutti gli ingredienti per cui, in assenza di una reale mobilitazione di massa, il decimo Libro bianco, l’anno che verrà, abbia tutte le parvenze di un romanzo dell’orrore. A 28 anni dalla sua approvazione l’impianto repressivo e sanzionatorio che ispira l’intero Testo unico sulle sostanze stupefacenti Jervolino-Vassalli continua a essere il principale veicolo di ingresso nel sistema della giustizia italiana e nelle carceri: 14.139 dei 48.144 ingressi in carcere nel 2017 sono stati causati da imputazioni o condanne sulla base dell’art. 73 del Testo unico. Si tratta del 29,37% degli ingressi in carcere: si conferma l’inversione del trend discendente attivo dal 2012 a seguito della sentenza Torreggiani della Cedu e dall’adozione di politiche deflattive della popolazione detenuta. Ben 13.836 detenuti presenti in carcere al 31 dicembre 2017 lo erano a causa del solo art. 73 del Testo unico (sostanzialmente per detenzione a fini di spaccio). Altri 4.981 in associazione con l’art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), solo 976 esclusivamente per l’art. 74. Mentre questi ultimi rimangono sostanzialmente stabili, aumentano dell’8,5% i detenuti per solo art. 73. Si tratta complessivamente del 34,36% del totale. I “pesci piccoli” continuano ad aumentare, mentre i consorzi criminali restano fuori dai radar della repressione penale. Inoltre, 14.706 dei 57.608 detenuti a fine 2017, sono tossicodipendenti. Il 25,53% del totale. Si consolida l’aumento dopo che il picco post applicazione della Fini-Giovanardi (27,57% nel 2007) era stato riassorbito a seguito di una serie di interventi legislativi correttivi. Preoccupa l’impennata degli ingressi in carcere, che toccano un nuovo record: il 34,05% dei soggetti entrati in carcere nel corso del 2017 era tossicodipendente. Nel 2017 si conferma l’aumento delle presenze in carcere, dopo alcuni anni di diminuzione, e aumenta la percentuale di detenuti per violazione della legge sulle droghe. La legislazione sulle droghe e l’uso che ne viene fatto sono decisivi nella determinazione dei saldi della repressione penale: la decarcerizzazione passa attraverso la decriminalizzazione delle condotte legate alla circolazione delle sostanze stupefacenti così come le politiche di tolleranza zero e di controllo sociale coattivo si fondano sulla loro criminalizzazione. Basti pensare che in assenza di detenuti per art. 73. o di quelli dichiarati tossicodipendenti, non vi sarebbe il problema del sovraffollamento carcerario come dimostrano alcune simulazioni prodotte nel dossier. Un dato positivo arriva dalle misure alternative, in crescita lieve ma costante negli ultimi anni. Il fatto che il trend prosegua oltre la inversione di tendenza nella popolazione detenuta databile dal 2016 lascia ben sperare per una autonomia delle misure penali di comunità. Restano marginali le misure alternative dedicate: 3.146 sono i condannati ammessi all’affidamento in prova speciale per alcool e tossicodipendenti su 14.706 detenuti tossicodipendenti. Continuano ad aumentare le persone segnalate al Prefetto per consumo di sostanze illecite: da 27.718 del 2015 a 38.613 del 2017: +39,30% (+18,13% rispetto al 2016). Si conferma l’impennata delle segnalazioni dei minori che quadruplicano rispetto al 2015. Aumenta sensibilmente anche il numero delle sanzioni: da 13.509 nel 2015 a 15.581 nel 2017: +15,33% (+18,42% rispetto al 2016). E risulta irrilevante la vocazione “terapeutica” della segnalazione al Prefetto: su 35.860 persone segnalate solo 86 sono state sollecitate a presentare un programma di trattamento socio-sanitario; 10 anni prima erano 3.008. Le sanzioni amministrative riguardano invece il 43,45% dei segnalati, percentuale in aumento rispetto all’anno precedente. La segnalazione al prefetto dei consumatori di sostanze stupefacenti ha quindi natura principalmente sanzionatoria. La repressione colpisce per quasi l’80% i consumatori di cannabinoidi (78,69%), seguono a distanza cocaina (14,39%) e eroina (4,86%) e, in maniera irrilevante, le altre sostanze. Dal 1990, 1.214.180 persone sono state segnalate per possesso di sostanze stupefacenti ad uso personale; di queste il 72,81% per derivati della cannabis (884.044). I dati disponibili, parziali (Polizia stradale, 2017) indicano che solo l’1,23% dei conducenti coinvolti in incidenti stradali rilevati è stato accusato di violazione dell’art. 187 del Codice della strada. Sul versante dei servizi, il testo segnala come “la vecchia divisione fra un numero limitato di consumatori altamente problematici e una platea di consumatori occasionali-ricreazionali non è più attuale”. Non funzionerebbe più nemmeno il modello dell’offerta terapeutica “intensiva” per un’utenza altamente problematica, destinata a rimanere a lungo in carico dei SerD e/o delle comunità. “Nel mondo dei consumi - si legge ancora nel voluminoso dossier di 114 pagine - esiste oggi una situazione più graduata e complessa, con molti differenti modelli di consumo associati a differenti livelli di rischio e di danno. Si assiste a una diversificazione degli stili e degli ambienti di uso, ma i medesimi consumatori possono cambiare nel tempo il loro modello di consumo, con frequenti oscillazioni. Ciò richiede un’articolazione dell’offerta dei servizi. Questa nuova realtà dei consumi rimane in larga parte sconosciuta perché è carente, se non assente, la ricerca ufficiale sui modelli e gli stili di consumo, nonostante questo tipo di ricerca sia in grado di fornire una lettura più ampia dei consumi, oltre il “tunnel della droga”, gettando le basi per un nuovo sistema dei servizi”. Sistema “statico” e povertà dei dati non permettono di rilevare gli interventi innovativi “che già esistono: dai progetti di housing, alla formazione al lavoro, alla riduzione dei rischi. I servizi si sono negli anni impoveriti, con gravi carenze di personale che penalizzano soprattutto gli interventi psicosociali”. Gli autori ripropongono quindi il superamento dell’”attuale servizio “a risposta unica”, organizzato come un ambulatorio e focalizzato sulla “patologia” del consumo: che non contrasta, anzi asseconda lo stigma sociale”. Grande assente dai dati governativi la Riduzione del danno che, in Europa è invece un “pilastro” delle politiche pubbliche: dai dropin agli infoshop (servizi di consulenza per un uso più sicuro), dal drug checking alle stanze del consumo. “In Italia la Riduzione del danno è ancora la Cenerentola, l’inserimento nei Livelli essenziali di assistenza può rappresentare una svolta”, si legge nel Libro bianco. Anche la ricerca sulle droghe soffre per il suo sbilanciamento sul “farmaco-centrismo”. Dal 2009 al 2013, il Dipartimento antidroga ha finanziato ricerche in campo farmacologico e neurobiologico per più di un milione e mezzo di euro. E nessuna ricerca psicosociale anche se solo quest’ultima può spiegare le ragioni del consumo, dei suoi contesti, degli stili di vita e di adattamento dei consumatori così da pianificare le opportune politiche. “Lo squilibrio a scapito della ricerca psicosociale si è accentuato con la fortuna della ricerca neurobiologica e della Brain research, col risultato di un nuovo “neuro-centrismo” - si può leggere ancora nel testo che rivendica anche una svolta nelle politiche di ricerca - la Brain research, in particolare i risultati del Brain imaging, sono spesso interpretati a sostegno della addiction theory, in maniera distorta e scarsamente scientifica. La “addiction” come malattia del cervello riconferma l’idea della dipendenza come “malattia cronica recidivante”. Ma le droghe non alterano le strutture cerebrali e la dipendenza è la condizione di chi si trova a ripetere l’unica esperienza in grado di procurargli gratificazione. Tuttavia la Brain research è entrata nel senso comune, svalutando gli interventi diversi da quelli medici farmacologici”. Nel testo, che si può trovare sul sito di Fuoriluogo, ci sono anche interventi che sfatano i miti proibizionisti contro la legalizzazione della cannabis. Leonardo Fiorentini, il direttore del sito del Forum droghe, fa il punto con Mario Perduca sulle esperienze americane, dal Canada all’Oregon, dall’Uruguay alla California, di legalizzazione della cannabis. Tante promesse, nessun incarico. I Cinque Stelle mollano Di Matteo di Giuseppe Sottile Il Foglio, 27 giugno 2018 Né ministro, né sottosegretario, né al posto di Falcone, né a capo delle carceri: così i grillini mollano il loro eroe Di Matteo. Il primo istinto sarebbe quello di cedere a un’innocente volgarità e dire - con la crudezza imposta dalle cose - che lo hanno preso per il culo. Ma una frase così aspra finirebbe per suonare irriverente per Nino Di Matteo, il magistrato che negli ultimi dieci anni ha collezionato solo trionfi, lodi e ovazioni. Ha creduto nella Trattativa ed è riuscito, da pubblico ministero, a ottenere dalla Corte di Assise di Palermo una sentenza che infligge pesanti condanne ai boss di Cosa nostra e a due generali dei carabinieri, tutti colpevoli di avere traccheggiato in maniera obliqua e furbesca sulla pelle delle istituzioni democratiche. Ha tentato con ogni mezzo e con tante interviste di rivelare al mondo le trame oscure che stanno dietro agli ultimi trent’anni di vita politica italiana ed è entrato nel mirino di Totò Riina, il mammasantissima delle stragi, il quale non ha mancato occasione per fargli sapere che lo vuole morto. È l’uomo più scortato d’Italia e, fortunatamente, anche il più amato: almeno centoventi città, piccole e grandi, gli hanno conferito la cittadinanza onoraria e non c’è dibattito su mafia e antimafia dove il protagonista non debba essere lui, con le sue teorie impastate di coraggio e di azzardo ma elaborate con la nobilissima intenzione di debellare intrighi e consorterie, complicità e collusioni, malavita e corruzione. Eppure, nonostante questo medagliere fulgido di ori e di vittorie, l’eroe Nino Di Matteo è stato incredibilmente e cinicamente turlupinato. Quei magliari del Movimento Cinque stelle che poco meno di un anno fa lo avevano addirittura indicato come futuro ministro della Giustizia, al momento decisivo lo hanno posato. Gli hanno preferito il politico Alfonso Bonafede, legatissimo a Luigi Di Maio: un “uomo di apparato”, si sarebbe detto negli anni della Prima Repubblica. Ma la turlupinatura non si è fermata alla stazione romana di Via Arenula, sede del ministero. Ha continuato a girare inesorabile, come una giostra, con tutti i cavallucci luccicanti sui quali Di Matteo avrebbe dovuto salire ma, all’ultimo momento, non è salito perché a ogni salto ha trovato il cavalluccio già occupato da altri pretendenti. Chi lo avrebbe mai detto. Nel luglio dell’anno scorso, quando Beppe Grillo lo indicò come l’uomo ideale per guidare e attuare il “sistema giustizia” ipotizzato dai Cinque stelle, il pm della Trattativa sembrava destinato a una carriera inarrestabile, a una cavalcata impetuosa lungo il crinale che tiene insieme potere politico e potere giudiziario. Invece quei fanfaroni del Movimento grillino gli hanno riservato una carriera a scendere anziché a salire; perché a ogni promessa è seguita puntualmente una crudelissima marcia indietro. Fino al nulla. Ripercorriamola allora questa carriera all’incontrario: potrebbe anche dimostrare che il dogma populista dell’uno vale uno non accetta gli eroi, nemmeno dopo averli utilizzati come strumenti di propaganda per rastrellare voti e consenso. Fallita la nomina a ministro Guardasigilli, i puri e duri dei Cinque stelle avevano dato per scontato che Di Matteo sarebbe stato quantomeno nominato sottosegretario, con il preciso scopo di sostenere e valorizzare l’impegnativo programma di Bonafede. Ma anche questo sogno è svanito, come si dice, nello spazio di un mattino: Salvini e Di Maio, i due uomini forti del governo presieduto da Giuseppe Conte, hanno preferito piazzare nelle stanze del potere ministeriale i loro fedelissimi ed evitare così qualsiasi incognita. Ma il nome di Nino Di Matteo è rimasto sempre e comunque a galla. Al punto che il furbo Bonafede, per non deludere l’ala giustizialista del Movimento, ha addirittura ipotizzato per lui l’incarico che fu di Giovanni Falcone: la Direzione della giustizia penale. Sarebbe stata una incoronazione, anche dal punto di vista simbolico: quale magistrato non ha sognato almeno una volta di occupare la scrivania che fu del giudice coraggioso, massacrato 26 anni fa dalla mafia nell’attentato di Capaci? Ma tra il dire di Bonafede e il fare della nomina si è frapposto un ostacolo insormontabile: quella prestigiosa direzione era stata già assegnata nell’aprile scorso dall’ex ministro Andrea Orlando con il sigillo di un contratto triennale sottoscritto da Donatella Donati, un magistrato che negli ultimi due anni era stata la figura di punta nello staff di Gennaro Migliore, sottosegretario alla Giustizia del governo Gentiloni. Pazienza. Altro giro altra corsa. Sfumata la Direzione della giustizia penale, nelle stanze di Via Arenula si affaccia l’ipotesi del Dap, il potentissimo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, un impero al quale il ministero assegna non solo il compito ma anche i tanti soldi necessari per governare le carceri d’Italia. Di Matteo che per anni si è occupato di mafia e carcere duro, sembra il candidato fatto su misura. E la conquista di questa poltrona gli sarà anche apparsa vicina perché Bonafede, nei giorni immediatamente successivi al suo insediamento, chiede al Consiglio superiore della magistratura la collocazione fuori ruolo di sette magistrati e tra questi, ohibò, c’è pure lui, l’ex pm della Trattativa, oggi sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia. La cosa sembra fatta, tanto che il Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria fa filtrare l’indiscrezione secondo la quale alcuni ergastolani murati al 41bis avrebbero mostrato preoccupazione per l’arrivo del magistrato palermitano: “Se viene questo siamo consumati”, avrebbero detto. Ma l’entusiasmo dell’ala più osannante dei Cinque stelle precipita misteriosamente in una ennesima delusione: il ministro Bonafede, con una mossa a sorpresa, disarciona le speranze costruite dai fan attorno a Di Matteo e nomina al vertice del Dap un magistrato che non ha al suo attivo né un medagliere dorato, né un libro appena pubblicato, né una cittadinanza onoraria, né un fitto album di interviste rilasciate a destra e a manca come fossero pane quotidiano. Il magistrato scelto dal ministro per quell’incarico così importante e all’un tempo così delicato è semplicemente Francesco Basentini, attuale procuratore aggiunto di Potenza. Nessuno al momento è in grado di sapere se Bonafede abbia ritenuto opportuno e doveroso spiegare a Di Matteo le ragioni della sua scelta. L’unica certezza, finora, è che il magistrato più minacciato, più scortato, più applaudito nei convegni e politicamente più esposto nelle platee grilline, ha vissuto una favola rovesciata: doveva diventare generale di corpo d’armata ed è rimasto brigadiere. A piedi, come un bambino abbandonato alla fermata dell’autobus. La cultura contro tutte le mafie di Massimo Bray* La Repubblica, 27 giugno 2018 Non è retorico affermare che la cultura, nelle moltissime accezioni che questa parola racchiude in sé, veicola una forza che può accomunare generazioni, etnie, gruppi sociali, ideali politici diversi per raggiungere un unico grande obiettivo, quello di sconfiggere definitivamente i sistemi mafiosi che ancora oggi arrecano incalcolabili danni alla vita civile ed economica del nostro Paese. Non è retorico perché i frutti di questa battaglia che si combatte ogni giorno, ad ogni livello, dalla più piccola biblioteca di quartiere fino alle grandi campagne guidate dalle associazioni nazionali come Libera, sono sempre più visibili e tangibili, e rappresentano la concretizzazione di quella che è nata come una grande speranza, come un grido unanime che ha iniziato ad attraversare la Penisola dagli ultimi due decenni del secolo scorso per prendere sempre più forza dopo l’assassinio di Falcone e Borsellino. Se oggi la lotta alle mafie è parte integrante del bagaglio culturale delle nuove generazioni, ciò è stato naturalmente possibile soprattutto grazie all’instancabile lavoro portato avanti in questi anni dal mondo della scuola. Si deve, infatti, anche alla ferrea convinzione con cui migliaia di presidi, insegnanti, istituti scolastici italiani hanno raccolto la sfida di far divenire la cultura dell’antimafia un caposaldo nel percorso educativo dei nostri studenti, il fatto che oggi possiamo davvero sperare che il potere mafioso perda definitivamente il suo potere e il suo seguito. Certo, la strada da fare è ancora lunga: troppe sono ancora le notizie che ci giungono quotidianamente di corruzione, collusione tra poteri politici e mafiosi, controllo violento dei territori fino alle porte della Capitale; troppe le notizie dei traffici illeciti, delle speculazioni edilizie, del riciclaggio di denaro sporco, degli altri innumerevoli sistemi con cui le organizzazioni mafiose sembrano sempre riuscire a ottenere i loro profitti criminali. Eppure, allo stesso tempo, si avverte forte e concreta la volontà dei cittadini di ribellarsi, di non chinare più la testa; si moltiplicano le denunce contro il pizzo, si creano sempre nuove esperienze in grado di agire contro il degrado ambientale e contro l’abbandono scolastico che spesso rappresenta l’anticamera del coinvolgimento dei ragazzi nella criminalità organizzata; si aprono biblioteche e centri di aggregazione anche nelle zone più difficili, si organizzano incontri, si tiene viva e si diffonde la memoria di chi ha dato la vita per denunciare e combattere la mafia, per affermare il valore della legalità. L’Istituto della Enciclopedia Italiana, ormai da anni partner di Trame, il festival dei libri sulle mafie che si tiene ogni anno a fine giugno a Lamezia Terme, ha voluto portare il suo contributo a questa grande battaglia culturale attraverso l’iniziativa “Le parole della Costituzione”, un master di scrittura tenutosi per la prima volta lo scorso anno e che quest’anno si replicherà dall’1 al 7 luglio a Racalmuto, paese natale di Leonardo Sciascia, in collaborazione con l’Associazione Strada degli Scrittori, con la Fondazione Sciascia, con il Distretto Turistico Valle dei Templi e con il patrocinio della Regione Sicilia. Dal progetto scaturirà appunto un volume, con la scelta di 40 voci scritte dai docenti del master, che raccoglierà direttamente dalla nostra Carta costituzionale gli spunti e le riflessioni sulla legalità come valore imprescindibile per costruire una società più giusta, più sicura e più solidale. Tra le parole più importanti della Costituzione c’è ovviamente il lavoro, diritto fondamentale di ogni cittadino, che non è più tollerabile, in una democrazia avanzata, sia soggetto a un potere basato sul clientelismo, sull’ingiustizia, sul malaffare. Ci sono inoltre cultura e paesaggio: i capisaldi, anch’essi individuati con grande lungimiranza dai padri costituenti, di una comunità che sceglie di non sottostare alla legge del più forte ma di credere invece nella bellezza, che è la più grande ricchezza di cui siamo eredi e che dobbiamo trasmettere a chi verrà dopo di noi: una bellezza costituita non solo dal più grande patrimonio storico e artistico del mondo, ma anche dalla ricchezza delle nostre tradizioni, delle culture locali, delle produzioni agricole e artigianali, nonché dalla nostra capacità di progettare industrie pulite, città più sicure e accoglienti, comunità più coese e solidali, che non sfruttano e non rifiutano chi viene da lontano per fuggire dalla guerra e dalla povertà. La conoscenza, l’informazione, il coraggio di costruirsi una strada alternativa rispetto a quelle già tracciate da chi vede le persone solo come strumenti al servizio dei propri interessi: questi sono i migliori antidoti al potere mafioso. “Io credo nel mistero delle parole - ha scritto Sciascia ne “Gli zii di Sicilia” - e, che le parole possano diventare vita, destino; così come diventano bellezza”; e dunque, ancora, non è retorica, ma è anzi indice di fiducia in un reale cambiamento il credere che contro la mafia e il suo silenzio omertoso il potere più grande sia quello delle parole che raccontano di cultura, di legalità, di bellezza e di futuro. *Direttore dell’Istituto della Enciclopedia italiana Ho visto Dell’Utri in carcere, la giustizia non dovrebbe mai perdere l’umanità di Davide Faraone huffingtonpost.it, 27 giugno 2018 La salute è un diritto sia per chi fila dritto, sia per chi ha commesso errori, anche gravi. Stamattina, insieme alla delegazione del Partito Radicale composta da Maria Antonietta Farina Coscioni e da Irene Testa, mi sono recato al carcere di Rebibbia per una visita nella sezione che ospita i detenuti malati. È la prima tappa di un viaggio che, come capogruppo del Pd a Palazzo Madama, farò nel sistema sanitario e che toccherà ospedali e pronto soccorsi ma anche le carceri italiane, perché la salute è un diritto di tutti, anche di chi sbaglia. A Rebibbia non ho visto nulla di diverso da quello che, in questi anni, ho visto nelle altre carceri italiane. C’è un problema grave che riguarda il diritto alla cura dei detenuti, una situazione a tratti disumana che non può essere rimossa sola perché riguarda uomini e donne che nella vita hanno sbagliato. Ho incontrato i detenuti malati, i disabili e ho potuto anche scambiare due chiacchiere con Marcello Dell’Utri durante l’ora d’aria. Ho visto in lui un uomo che, nonostante la grave malattia, ha mantenuto una dignità che mi ha colpito. Gli resta poco più di un anno di pena da scontare; non sta bene, ma fa di tutto per nasconderlo. La politica non gli interessa, studia, segue lo sport, e quando gli ho detto che ero del Pd mi ha risposto “perché ancora esiste?”. Ci siamo fatti una risata, sapendo entrambi che in quel posto ridere è un privilegio. Qualunque cosa si pensi di Marcello Dell’Utri, credo che la giustizia non dovrebbe mai perdere il senso di umanità. Vale per i detenuti “noti”, ma anche per i tanti invisibili che nelle carceri non dispongono molto spesso di cure sanitarie adeguate. Se il regime di detenzione è incompatibile con le cure, soprattutto per quei soggetti affetti da patologie gravi, è giusto permettere ai detenuti di curarsi all’esterno. Una scelta che, oltre ad essere ispirata al senso di umanità, ha anche ragioni costituzionali. Ecco, riportare al centro dei riflettori le enormi criticità del sistema sanitario all’interno delle carceri per i malati gravi, i disabili e per chi soffre di problemi psichiatrici penso sia una questione di civiltà, importante tanto quanto chi detenuto non lo è, e ogni giorno fa i conti con i casi di malasanità. Caso Alpi: il Gip non archivia e dispone nuove indagini La Repubblica, 27 giugno 2018 Respinta la richiesta di archiviazione avanzata dalla procura di Roma. Il giudice ha chiesto di ascoltare, entro 180 giorni, i cittadini somali intercettati da Firenze e una fonte del Sisde. Ci saranno nuove indagini sull’omicidio di Ilaria Alpi, la giornalista del Tg3 assassinata assieme all’operatore tv Miran Hrovatin il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio. Lo ha deciso il gip Andrea Fanelli, che, sciogliendo la riserva, ha respinto la richiesta di archiviazione avanzata tempo fa dalla Procura di Roma e ha disposto ulteriori accertamenti da effettuarsi entro il termine di 180 giorni. Il magistrato, che ha così recepito le istanze avanzate dagli avvocati Carlo Palermo e Giovanni D’Amati della famiglia Alpi, contrari all’archiviazione del procedimento, ha ordinato alla Procura di accertare, anzitutto, le ragioni del ritardo della trasmissione a Roma delle carte provenienti da Firenze concernenti una intercettazione tra cittadini somali, e di sentire come persone informate sui fatti due di questi per capire “da chi è partito l’ordine di versare 40mila dollari all’avvocato Douglas Duale”, difensore di Omar Hashi Hassan, unico imputato di questa vicenda prima condannato definitivamente a 26 anni di reclusione e poi assolto per non aver commesso il fatto nel processo di revisione a Perugia, e da chi è partita l’informazione “che Ilaria Alpi era stata uccisa da militari italiani”. Il gip Fanelli ha disposto anche l’audizione dello stesso penalista Duale “al fine di accertare se effettivamente gli sia stato corrisposto del denaro dal governo somalo o da altri soggetti per la difesa di Hashi e, in caso affermativo, quale fosse la ragione di tale elargizione”. Da sentire, infine, “la fonte confidenziale citata nella relazione Sisde del 3 settembre 1997, previa nuova richiesta al direttore pro tempore in ordine all’attuale possibilità di rivelarne le generalità”. In quella vecchia relazione Sisde, cui ha fatto riferimento il gip Fanelli, “emergerebbe il coinvolgimento dell’imprenditore Giancarlo Marocchino nel duplice omicidio nonché in traffici di armi”. Già il gip Emanuele Cersosimo, con ordinanza del 2 dicembre 2007, aveva chiesto alla Procura che venisse ascoltata la fonte confidenziale dell’allora servizio segreto civile ma “il ministero dell’Interno aveva risposto, con nota del primo aprile 2008, che perduranti esigenze di tutela della fonte stessa non consentivano di fornire elementi atti a rivelarne l’identità. A distanza di oltre 10 anni - è scritto nel provvedimento di 14 pagine del giudice Fanelli - appare utile verificare la persistenza delle ragioni di segretezza addotte dal Sisde”. Appena due settimane fa era morta la madre di Ilaria, Luciana Alpi, a 85 anni, ventiquattro dei quali spesi a combattere per far trionfare la verità sull’omicidio di sua figlia e di Miran Hrovatin. Luciana Alpi era diventata l’icona di una battaglia che non è riuscita a vincere. Ma grazie alla sua ostinazione, alla sua scrupolosa verifica delle notizie che si sono susseguite in tutti questi anni, alla sua costanza nel pretendere verità dalla magistratura italiana, senza mai cedere alla rassegnazione, questa donna coraggiosa ha alzato il velo delle ipocrisie e delle omissioni che hanno sempre costellato un caso pieno di misteri, ma al tempo stesso chiarissimo. La notizia è stata accolta con favore da Odg, Fnsi, Usigrai e tutte le associazioni che in questi mesi si sono impegnate per mantenere vive le indagini, protestando con sit-in e manifestazioni contro la richiesta di archiviazione del caso. “Una bella notizia che riaccende la speranza - scrive Libera in una nota - per ribadire ad alta voce che noi non archiviamo la verità e la giustizia. Sì, perché riteniamo che Ilaria e Miran siano stati uccisi perché cercavano la verità, la verità e la giustizia che le mafie e i poteri illegali calpestano e che la giustizia ha il dovere di portare alla luce”. La Fnsi ha fatto sapere inoltre che “nelle prossime ore, d’intesa con i propri legali, valuterà la possibilità di costituirsi parte civile”. Permanenza all’aria aperta e 41bis O.P.: massimo di due ore giornaliere giurisprudenzapenale.com, 27 giugno 2018 Prevale l’interpretazione restrittiva del limite massimo di due ore giornaliere all’aria aperta. Con la pronuncia in esame, il Magistrato di Sorveglianza di Viterbo conferma l’interpretazione restrittiva della preclusione di cui al co. 2-quater lett. f) dell’art. 41bis O.P., così come da ultimo integrata dalla Circolare DAP del 2 ottobre 2017 (la n. 3676/6126). Contrariamente ad un orientamento della giurisprudenza di merito (ben rappresentato dal Magistrato di Sorveglianza di Sassari, in alcune recenti ordinanze, come quelle dd. 23 ottobre 2016 e, da ultima, il 28 aprile 2017), il Magistrato di Sorveglianza di Viterbo aderisce ad un’interpretazione letterale della normativa in materia di permanenza dell’aria aperta (costituita dalla “norma di rango primario” e dalla Circolare Dap del 2017) che stabilisce il limite massimo di due ore giornaliere. Se, da una parte, il Magistrato riconosce il limite delle due ore giornaliere come diritto inviolabile da parte dell’Amministrazione penitenziaria, dall’altra, afferma come in tale “soglia” debbano computarsi anche tutte le altre attività risocializzanti concesse al detenuto in regime di 41bis O.P., che, quindi, finiscono per essere alternative alla stessa permanenza all’aperto. In altri termini, il detenuto può usufruire di due ore giornaliere all’aria aperta, in alternativa ad un’ora massima di tempo da impiegare nelle attività ricreative/sportive, nell’accesso alla sala pittura o alla biblioteca. Ma non entrambe. Il detenuto può, quindi, scegliere come impiegare le due ore massime di accesso all’aria aperta, incombendo sull’Amministrazione penitenziaria il dovere di consentire allo stesso di usufruire dei servizi minimi indispensabili, previsti per legge. Permane comunque l’interpretazione restrittiva che non coglie le riflessioni prospettate di recente da parte della dottrina e di una parte della giurisprudenza di merito, che - in presenza di determinate condizioni soggettive e alla luce di fattori ambientali favorevoli - ha ribadito l’importanza di concedere al detenuto in regime di 41bis O.P. la possibilità di accedere all’aria aperto per due ore al giorno, senza con ciò penalizzare eccessivamente lo stesso, scomputando da tale soglia i servizi “rieducativi” garantiti dall’istituto penitenziario. Magistrato di Sorveglianza di Viterbo, ord. 22 marzo 2018. Dott.ssa Maria Raffaella Falcone Opposizione ampia agli atti esecutivi di Enrico De Mita Il Sole 24 Ore, 27 giugno 2018 Il contribuente sottoposto a esecuzione esattoriale può proporre opposizione a norma dell’articolo 615 del Codice di procedura civile davanti al giudice ordinario dell’esecuzione, contestando anche il diritto di procedere all’esecuzione. A stabilirlo è la sentenza 114/18, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 57, comma 1, lettera a) del Dpr 602/73, nella parte in cui non prevede che, nelle controversie sugli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella o all’atto di intimazione ad adempiere, sono ammesse le opposizioni dell’articolo 615. La sentenza si lascia apprezzare per l’ampio respiro delle statuizioni, cui ha contribuito l’elevato livello dell’ordinanza di rimessione del tribunale di Trieste. Chi si oppone alla riscossione coattiva deve potersi difendere pienamente, anche quando la giurisdizione sia devoluta al giudice ordinario. Ogni contraria statuizione “confligge frontalmente con il diritto alla tutela giurisdizionale”. Il giudice remittente aveva evidenziato l’illegittimità dell’articolo 57, che limita l’opposizione all’esecuzione avente ad oggetto la riscossione dei tributi al solo profilo dell’impignorabilità dei beni per contrasto con gli articoli 3,24, 111 e 113 della Costituzione. La norma prevede che non sono ammesse: le opposizioni dell’articolo 615 del Codice di procedura civile, fatta eccezione per quelle concernenti la pignorabilità dei beni; le opposizioni regolate dall’articolo 617, relative alla regolarità formale ed alla notificazione del titolo esecutivo. Quindi, se era proposta opposizione, l’articolo 57 avrebbe precluso una pronuncia. La Corte riconosce che le regole di riparto della giurisdizione non incidono sull’apertura delle opposizioni agli atti esecutivi, tutte ammesse con l’eccezione delle opposizioni sulla regolarità formale e la notificazione del titolo esecutivo, attratte nella giurisdizione del giudice tributario. Al contrario, nel caso dell’articolo 615, nelle ipotesi in cui sussiste la giurisdizione del giudice ordinario e l’azione esercitata dal contribuente assoggettato alla riscossione deve qualificarsi come opposizione all’esecuzione ex articolo 615, essendo contestato il diritto di procedere a riscossione coattiva, ad avviso della Consulta, c’è una carenza di tutela giurisdizionale perché il censurato articolo 57 non ammette tale opposizione innanzi al giudice dell’esecuzione e non sarebbe possibile il ricorso al giudice tributario perché carente di giurisdizione. Né questa carenza sarebbe colmabile con la possibilità dell’opposizione agli atti esecutivi laddove la contestazione della legittimità della riscossione non si limiti alla regolarità formale. Le deroghe tributarie al diritto comune sono legittime costituzionalmente in quanto ragionevoli. La sentenza 114/18 richiama la costante giurisprudenza: la peculiarità del credito tributario non può arrivare a giustificare il differimento della tutela giurisdizionale. La tutela del contribuente non può attendere perché impedita da una preclusione. Chi potrebbe risarcire un contribuente che fosse stato eliminato dall’esistenza commerciale a causa di un’esecuzione ingiusta? La Corte riporta nell’alveo costituzionale il diritto soggettivo perfetto del contribuente. Turbativa anche per chi favorisce la partecipazione di società “amica” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 27 giugno 2018 Corte di cassazione -Sentenza 26 giugno 2018 n. 29267. Fare pressioni per ottenere che la Pa inviti una società “amica” a presentare un’offerta per un bando - nel caso per la fornitura di buste per la raccolta differenziata - integra il reato di “turbata libertà del procedimento di scelta del contraente” (articolo 353-bis del codice penale). E ciò anche se poi non viene indetta nessuna gara. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 29267 del 26 maggio 2018, affrontando il ricorso di due imputati sottoposti a misure cautelari nell’ambito di un procedimento relativo a diverse ipotesi di corruzione nella provincia di Latina. Al contrario, per i ricorrenti dovevano ritenersi penalmente rilevanti le condotte poste in essere nel corso del procedimento diretto a stabilire il contenuto del bando, ma non quelle tenute rispetto ad un procedimento futuro che poi non ha mai avuto inizio. La Suprema corte, nel respingere i ricorsi, ricorda che il reato sanziona chiunque “con violenza o minaccia, o con doni, promesse, collusioni o a altri mezzi fraudolenti” “turba il procedimento amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando o di altro atto equipollente al fine di condizionare le modalità di scelta del contraente da parte della pubblica amministrazione”. Il bene giuridico tutelato, dunque, prosegue la decisione, è identico al precedente articolo (353 c.p.) che punisce la “Turbata libertà degli incanti”, “poiché anche in questo caso la norma è diretta a colpire i comportamenti che, incidendo illecitamente sulle libera dialettica economica, mettono a repentaglio l’interesse della P.A. di poter contrarre con i miglior offerente”. Non cosi, invece, per ciò che concerne il momento di operatività della tutela che per la turbata libertà degli incanti (articolo 353 c.p.) richiede l’esistenza di una gara; laddove, per la turbata libertà del procedimento (353 bis c.p.), “viene anticipato nel tempo - quando un bando non sia stato adottato, anche ove la relativa procedura sia stata avviata senza essere però approdata al suo esito finale - nella consapevolezza che gli interessi meritevoli di tutela possono essere lesi non solo da condotte successive ad un bando il cui contenuto sia stato determinato nel pieno rispetto della legalità, ma anche da comportamenti precedenti, in grado di avere influenza sulla formazione di detto contenuto”. Trattandosi di un reato di pericolo, prosegue la Corte, “l’azione consiste, nel turbare mediante atti predeterminati il procedimento amministrativo di formazione del bando, allo scopo di condizionare la scelta del contraente”. Per cui siccome “il condizionamento del contenuto del bando è il fine dell’azione, è evidente che il reato si consuma indipendentemente dalla realizzazione del fine medesimo”. Per integrare il delitto, dunque, “non è necessario che il contenuto del bando venga effettivamente modificato in modo tale da condizionare la scelta del contraente, né, a maggior ragione, che la scelta del contraente venga effettivamente condizionata”. “È sufficiente, invece, che si verifichi un turbamento del processo amministrativo, ossia che la correttezza della procedura di predisposizione del bando sia messa concretamente in pericolo”. Il che nel caso specifico è avvenuto con la richiesta rivolta a due pubblici ufficiali di invitare la società amica. E ancora, in un altro passaggio, i giudici affermano che “la mancanza di gara, ma l’evidente assenza di una qualunque libertà della Pubblica Amministrazione nella scelta del contraente, portano a ritenere configurabile il delitto contestato”. Con l’articolo 353-bis c.p., infatti, “sono entrate per la prima volta nella sfera della rilevanza penale le condotte di turbativa cui non abbia fatto seguito l’adozione di alcun bando di gara”. In tal modo, prosegue la sentenza, “si è inteso evitare ogni vuoto di tutela, incriminando anche quei tentativi di condizionamento a monte degli appalti pubblici che risultino ex post inidonei ad alterare l’esito delle relative procedure”. In definitiva, “l’illecita interferenza nel procedimento amministrativo diretto stabilire il contenuto del bando, finalizzata a condizionare le modalità di scelta del contraente determina, già di per sé sola, l’applicazione delle sanzioni penali”. Puglia: emergenza detenuti psichiatrici, audizioni in III Commissione Corriere di Taranto, 27 giugno 2018 L’emergenza sanitaria dei detenuti con problemi psichiatrici è stata oggetto delle audizioni della III commissione consiliare presieduta da Pino Romano. Alla seduta odierna sono intervenuti i referenti delle Case circondariali presenti sul territorio regionale e delle Asl Bat e Brindisi, a cui fanno capo le due REMS pugliesi, quelle di Spinazzola e Carovigno. Forti criticità nella gestione e assistenza dei detenuti con problemi psichiatrici all’interno delle strutture penitenziarie sono state segnalate dalle direttrici dei penitenziari: Valeria Pirè, referente per Bari e Altamura, e Stefania Baldassari per Taranto hanno segnalato l’incompatibilità delle detenzione con il trattamento delle problematiche sanitarie, la presenza elevata di detenuti a doppia diagnosi (soggetti tossicodipendenti con problemi psichiatrici) e l’insufficienza del personale addetto. In particolare, a Bari su circa 430 detenuti ci sono 80 casi di soggetti patologici mentre 105 sono quelli con doppia diagnosi, a fronte di due psichiatri di cui uno presta servizio anche su Turi e Altamura, dove i casi sono 75. La casa circondariale di Lecce, per cui è intervenuta la vice direttrice Patrizia Andrianello, è l’istituto più grande - con 998 detenuti di cui il 30% presenta disturbi di tipo psichiatrico - che ospita il reparto regionale con 20 posti letto e la presenza di 4 psichiatri. Situazione diversa nelle due residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Nella struttura di Spinazzola, che prevede 20 posti letto, vi è una piena allocazione delle risorse secondo quanto riferito dal dg della Asl Bat Alessandro Delle Donne, 26 sono i pazienti dimessi fino ad ora mentre 22 sono in lista d’attesa con tempi medi di 10 mesi. Per quanto riguarda la residenza di Carovigno è intervenuto Domenico Suma dell’Asl Brindisi, che sottolineando l’esistenza di una efficiente rete collaborativa con le associazioni del territorio, ha riferito che i soggetti sottoposti a detenzione sono 18, con una lista d’attesa di non più di due mesi che ha visto 38 casi di dismessi in due anni. Inoltre è presente una sezione femminile con due posti letto. Franzoso (Fi): situazione grave, serve bando per personale di servizio medico “Posti letto nelle Rems insufficienti ed equipe sanitarie specializzate per l’assistenza dei detenuti con patologia psichiatrica-psicologica carenti. Spazi inadeguati alle esigenze terapeutiche. Non solo. Assenza di un piano aggiornato dei rischi suicidari in carcere. E osservatorio regionale sulla sanità penitenziaria che non si riunisce da anni”. Descrive così Francesca Franzoso, consigliere regionale di Forza Italia, la situazione emersa dalla audizione sull’emergenza sanitaria relativa ai detenuti con problemi psichiatrici, oggi in III Commissione. Audizione, chiesta dalla stessa Francesca Franzoso, nel corso della quale sono stati ascoltati i direttori del carcere di Taranto, Lecce, Bari, e i responsabili delle due Rems di Spinazzola e Carovigno. “Nelle strutture penitenziari pugliesi - dichiara Franzoso - il diritto alla salute, materia di competenza regionale, non è garantito e le condizioni dei detenuti psichiatrici ha raggiunto ormai livelli di emergenza. C’è necessità di dotare le strutture di personale medico specializzato, reclutandolo, previa ricognizione nei penitenziari, attraverso un bando apposito”. “L’amministrazione regionale - prosegue Franzoso - ha il dovere garantire il diritto alla salute dei detenuti, in particolare dei soggetti interessati da patologie psichiatriche. Una categoria con percentuali in continuo aumento e che, in istituti penitenziari come quello di Bari, ha raggiunto picchi del 50 per cento, (299 su 445 detenuti), del 38% a Lecce (su 998 ospiti); mentre 291 su 567 sono i detenuti a doppia diagnosi (tossicodipendenti psichiatrici) nel carcere di Taranto. In queste strutture l’offerta professionale dedicata equivale ad un solo psichiatra ad appena 38 ore settimanali. Infine: sono in tutto 38 i posti letto complessivi disponibili nelle Rems di Spinazzola e Carovigno, il tempo medio delle liste d’attesa è di dieci mesi”. Da qui la proposta: “La Puglia - conclude Franzoso - deve occuparsi del problema. Le Asl, di concerto con i direttori dei Dipartimenti di Salute mentale, devono stabilire il numero di ore di specialistica ambulatoriale, psichiatrica e psicologica, necessario per il servizio nelle carceri e provvedere a pubblicare dei bandi ad hoc per la copertura del servizio negli istituti”. Bari: assenti al vertice sul Palagiustizia, così gli avvocati sfidano Bonafede di Bepi Castellaneta Corriere del Mezzogiorno, 27 giugno 2018 È scontro totale tra l’avvocatura barese e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sull’edilizia giudiziaria dopo che il Tribunale di via Nazariantz è stato dichiarato inagibile. Il presidente dell’Ordine, Giovanni Stefanì, nel corso dell’assemblea degli avvocati, ha annunciato l’intenzione di disertare il vertice di oggi al ministero. Avvocati e magistrati premono per una sede unica. La pioggia torrenziale affossa uno dei tendoni di via Nazariantz utilizzati per le udienze e ferma il corteo. Ma la protesta degli avvocati contro la paralisi giudiziaria decisa per decreto fino al 30 settembre si rivela comunque un fiume in piena. Al punto che il presidente del Consiglio dell’Ordine di Bari, Giovanni Stefanì, formalizza lo strappo con il governo annunciando l’intenzione di disertare l’incontro fissato per oggi al ministero della Giustizia. “Sono stato convocato per la sottoscrizione della convenzione su Modugno, ma non firmerò”, dichiara. “Mi rifiuto - spiega Stefanì rincarando la dose - di essere firmatario di una convenzione che condanna la giustizia barese”. Le parole del presidente dell’Ordine vengono accolte con un’ovazione dai circa trecento avvocati che, insieme anche a molti magistrati, partecipano all’assemblea nazionale dell’Unione delle Camere Penali nell’aula magna della Corte d’Appello, nel vecchio palagiustizia di piazza De Nicola. Dove l’esasperazione per il disastro dell’inagibilità del Tribunale di via Nazariantz si mescola alla rabbia per la linea del governo, deciso a imboccare la strada della soluzione spezzatino con il trasloco forzato in un immobile dell’Inail in via Brigata Bari e nella ex sede distaccata di Modugno. Una linea in buona parte annunciata dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede durante la visita barese del 7 giugno, quando l’esponente del governo, dopo un giro tra i tendoni martellati dal sole, ha bocciato la proposta di un decreto per l’individuazione di una sede unica in sostituzione dell’edificio di via Nazariantz. Alla fine il decreto è stato emesso, ma solo per bloccare le udienze penali non urgenti fino al 30 settembre. Una soluzione che consentirà di smontare le tende utilizzate come aule dopo la revoca dell’agibilità per il vecchio palagiustizia penale, ma che non restituisce la funzione giurisdizionale a una città sede di uno dei più grandi distretti giudiziari italiani. La frattura tra governo e avvocatura appare profonda. E per il momento insanabile. Tanto più che i legali, in occasione della prima delle tre giornate dello sciopero proclamato per protestare contro il disastro barese, sottolineano la distanza abissale con le posizioni di Bonafede, al quale evidentemente non è bastato “metterci la faccia” come ha rivendicato con orgoglio meno di un mese fa. “Il ministro ha detto delle cose false quando ha dichiarato che la decisione del decreto legge è stata condivisa dall’avvocatura: non è vero”, taglia corto il presidente della Camera Penale di Bari, Gaetano Sassanelli. Il quale non usa mezzi termini, dice che “il ministro vuole affossare definitivamente la funzione della giurisdizione penale a Bari” e sottolinea la visione unitaria di magistrati e difensori, un fronte comune che invece insiste nel chiedere una sede unica. Per il momento gli appelli che si accavallano a Bari, là dove il Tribunale penale è stato sostituito da una tendopoli giudiziaria che sarà smantellata a breve, non sembrano sortire effetti. Una improvvisa retromarcia romana appare improbabile. Tanto più che Bonafede non ha mancato di ribadire le scelte fatte criticando peraltro la decisione degli avvocati di proclamare tre giorni di sciopero. Un atteggiamento che non è passato inosservato; al contrario, i messaggi affidati ai social hanno gettato ulteriore benzina sul fuoco. “Il ministro - dichiara da Bari il presidente nazionale dell’Unione delle Camere Penali, Beniamino Migliucci - ha scritto ai penalisti attraverso Facebook: impari che esistono le sedi istituzionali”. Insomma, il livello dello scontro sale con il passare delle ore. E la questione della giustizia barese finisce al centro anche del dibattito politico. Il deputato e coordinatore di Forza Italia per Bari e provincia, Francesco Paolo Sisto, noto penalista, sottolinea il grave danno di immagine per la città e attacca non soltanto il ministro, ma anche il sindaco Antonio Decaro, il governatore Michele Emiliano e i parlamentari grillini “che hanno disertato questa assemblea”. Sisto bolla il decreto del governo come “un insulto alla intelligenza giuridica anche solo di uno studente di diritto penale”, e sottolinea come il provvedimento sia viziato da una “chiara incostituzionalità” in quanto “la Corte costituzionale ha più volte chiarito che non si può intervenire sui termini di prescrizione relativamente a reati già commessi. Ma l’aspetto più grave - attacca il deputato di Forza Italia - è la chiara scelta del ministro di non impiegare risorse”. Firenze: a lezione di intaglio, i detenuti imparano i mestieri d’artigianato artistico agenziaimpress.it, 27 giugno 2018 Detenuti a lezione di artigianato artistico. A renderlo possibile il protocollo d’intesa siglato a febbraio scorso tra l’Opera di Santa Maria del Fiore con la Case Circondariali di Sollicciano e “Mario Gozzini” e Cpia 1 Firenze. Nei mesi scorsi è stata realizzata un’attività educativa continuativa con i detenuti dei due istituti carcerari con lezioni in carcere e speciali uscite di una giornata per visitare il Complesso museale dell’Opera del Duomo attraverso la partecipazione al percorso educativo “Dialogo- ovvero la parola mostra la bellezza”, laboratori sui mestieri d’arte. Un modo per consentire alle persone che vivono nelle due strutture di avere un’esperienza anche fuori dal carcere. Successo per il Laboratorio di Intaglio e Intarsio In particolare il Laboratorio di Intaglio e Intarsio, realizzato sotto la guida del maestro artigiano Omero Soffici e finanziato dalla Cooperativa Il Borro, ha ottenuto grande successo tra i detenuti. I partecipanti sono stati introdotti alle tecniche di questo antico mestiere per poi realizzare un particolare della decorazione (un capitello) della celebre Sacrestia delle Messe nel Duomo, capolavoro dell’arte della tarsia lignea ad opera di Giuliano e Benedetto da Maiano. “Il complesso monumentale del Duomo di Firenze rappresenta una risorsa educativa inesauribile - spiega Enrica Paoletti, responsabile dell’area educazione dell’Opera di Santa Maria del Fiore - la condivisione di queste risorse con un pubblico come quello dei detenuti è stato un momento estremamente prezioso teso a favorire la conoscenza e la mediazione culturale”. “Siamo felici di aver concretizzato i rapporti con l’Opera di Santa Maria del Fiore e ci auguriamo di implementarli” ha affermato Claudio Pedron, responsabile del Cpia Firenze 1 del carcere di Sollicciano. “Dostoevskij diceva che il grado di civilizzazione di una civiltà si misura dalle sue prigioni. L’opportunità di contribuire in tal senso ci onora - ha dichiarato il presidente della Cooperativa il Borro, Massimo Mattei - E ci emoziona anche offrire un’opportunità a chi si deve misurare con un cambiamento, a chi ha sbagliato e soprattutto a chi è dovuta ancora un’opportunità”. Latina: truffe e maltrattamenti nei Centri migranti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 giugno 2018 Dopo la vicenda di Benevento arrestati i responsabili di Onlus che gestivano sei Cas a Latina. Immigrati maltrattati, truffe, frode nelle pubbliche forniture. Che i centri di accoglienza in convenzione con privati presentano molto spesso condizioni cattive lo si sapeva da sempre. Ma ieri, dopo la presunta frode sull’accoglienza dei migranti a Benevento che avrebbe avuto la complicità di un funzionario della Prefettura, grazie ad una operazione della polizia, ne abbiamo avuto l’ennesima dimostrazione. La squadra mobile di Latina ha arrestato sei persone responsabili di Onlus operanti nella gestione di diversi Centri di accoglienza straordinaria (Cas) nella provincia pontina. I reati ipotizzati sono, a vario titolo, falso, truffa aggravata, frode nelle pubbliche forniture, maltrattamenti. Nel corso dell’indagine gli uomini della squadra mobile di Latina e quelli del Commissariato di Fondi hanno effettuato diversi sopralluoghi all’interno dei Centri, riscontrando gravi situazioni di sovraffollamento e carenze di natura igienico-sanitaria. Analizzando la documentazione depositata dai responsabili delle Onlus per la partecipazione ai bandi di gara indetti per l’accoglienza dei migranti, inoltre, i poliziotti hanno scoperto una serie di “gravi e sistematiche” violazioni nell’esecuzione degli obblighi assunti dai gestori dei Cas in sede di aggiudicazione delle gare. Dalla intercettazione è infine emerso che una delle Onlus, di fatto, si spartiva la gestione dei richiedenti asilo con un’altra Onlus, senza alcuna comunicazione alla Prefettura di Latina. La gestione dei Cas, tramite privati, è un problema denunciato non solo dalla campagna LasciateCIEntrare o da varie organizzazioni che si occupano dei diritti umani. Basterebbe leggere la relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta sul trattamento dei migranti, consegnata il 21 dicembre del 2017 alla Camera, dopo due anni di lavori. L’anomalia più grave che era emersa dalla relazione riguarda proprio i Cas, i Centri di accoglienza straordinaria. A dicembre del 2017 hanno ospitato l’ 81 per cento dei richiedenti protezione internazionale presenti in Italia, cioè 151.239 persone su un totale di 186.833. Il ricorso ai Cas cresce con un tasso doppio rispetto all’incremento delle presenze. “Dovevano essere una soluzione momentanea e transitoria, invece è diventata permanente”, aveva spiegato Federico Gelli, l’allora presidente della Commissione in quota Pd. Quando parliamo di Cas intendiamo casali, alberghi, affittacamere, residence, ostelli, tensostrutture, case famiglia, caserme: i gestori, o gli affittuari, hanno ottenuto l’appalto dalle prefetture e si sono presi i migranti. Sono quasi tutti privati, ad eccezione di quelli aperti in edifici militari e religiosi che però coprono una parte minima dei flussi. Grosso modo, sette centri su dieci sono gestiti da privati, che li mandano avanti grazie al contributo dello Stato. Secondo la Commissione d’inchiesta, si annidano qui i problemi maggiori riguardo alla mediazione culturale, alla integrazione, alla professionalità degli operatori. Oltretutto i Cas sfuggono più facilmente ai controlli, a differenza della rete Sprar. “Non dobbiamo generalizzare - aveva spiegato Gelli - ma il rischio di sprecare denaro pubblico a beneficio di soggetti che non offrono i servizi per cui sono pagati è concreto. Per questo ha fatto bene Minniti ad attivare una task force per monitorare il meccanismo di affidamento delle prefetture”. Il generale della Finanza Stefano Screpanti davanti alla Commissione il 29 novembre dell’anno scorso, parlò di casi di “omessa effettuazione delle procedure di gara a favore di chi è sprovvisto di requisiti necessari”, e di “forme di illegalità contigue tra il settore pubblico e il privato”. Brescia: l’addio ad Angelo Canori un “padre” per i detenuti bresciani di Carlo Alberto Romano Corriere della Sera, 27 giugno 2018 Il volontariato penitenziario bresciano, ma non solo quello, piange la scomparsa di una delle sue figure più rappresentative: Angelo Canori storico presidente del Volca e per circa 10 anni anche segretario di Carcere e Territorio. Difficile ricordare in poche righe ciò che Angelo ha rappresentato; non abbiamo timore di smentite affermando che molte delle caratteristiche di apertura al territorio, fiducia nel volontariato e collaborazione con la comunità esterna che oggi caratterizzano gli istituti penali di Brescia non sarebbero le stesse senza il contributo da lui profuso. La sua costanza nell’avvicinarsi a questo difficile angolo di umanità è stata pari solo alla sua capacità di anteporre l’intervento al giudizio e questo potrà costituire un mirabile esempio per le future generazioni dei giovani che intendano avvicinarsi all’universo carcerario. Il suo impegno non si esauriva certo nell’ingresso in carcere; egli era profondamente ed intimamente convinto che la famiglia e il contatto con essa fosse una delle chiavi di lettura principali per recuperare le persone condannate e fin che la salute lo ha sorretto, non ha mai disertato una presenza allo storico sportello del Volca in via Pulusella. Questo suo orientamento ha permesso a detenuti con le famiglie lontane di potersi ricongiungere in occasione di un permesso o direttamente accogliendo le famiglie nei locali a ciò adibiti dal Volca. La sua profonda e radicata fede cristiana veniva declinata nell’estremo rispetto del prossimo specialmente se detenuto e trovava una formidabile interpretazione nella sincera disponibilità con cui Egli gestiva gli appartamenti dedicati all’accoglienza, senza porre alcun limite al bisogno, che poteva manifestarsi nelle ore serali o festive. L’elemento indelebile del suo impegno a favore delle persone in esecuzione penale trova la sua massima espressione nell’impressionante numero di colloqui che il sig. Canori ha svolto per circa un trentennio nei due istituti cittadini incontrando uomini e donne detenuti che trovavano in lui un interlocutore sempre pronto ad ascoltare ma anche ad aiutare concretamente, ed è facilmente desumibile dal fatto che alcuni di essi, conosciute le sue precarie condizioni di salute, si siano mobilitati anche per visitarlo in ospedale. Infine vogliamo sottolineare come il Suo impegno abbia trovato nella difficile ma meritoria opera di informazione e sensibilizzazione della comunità un compendio straordinario nella convinzione che l’adeguatezza della pena debba passare attraverso una corretta cultura della sanzione e del principio rieducativo costituzionalmente sancito, principio che ha ispirato ogni giorno della vita di Angelo Canori, fuori e dentro le mura del carcere. *Presidente Associazione Carcere e Territorio Foggia: l’importanza del recupero del detenuto dietro e oltre le sbarre foggiatoday.it, 27 giugno 2018 Il prossimo 28 giugno alle ore 19.00 presso il Laboratorio di Legalità “Francesco Marcone” si parlerà di carcere e di recupero delle persone che vivono o hanno vissuto l’esperienza della detenzione. È partito il 22 giugno, con l’appuntamento “Yoga al pomodoro” dedicato a genitori e figli, il cartellone estivo del progetto “Ciascuno cresce solo se sognato: per una filiera equa e solidale del pomodoro”, realizzato dalla Cooperativa Sociale “Pietra di Scarto” di Cerignola, con il sostegno di “Fondazione con il Sud”. Un ciclo di incontri di approfondimento sulle tematiche affini al progetto - lotta allo sfruttamento e al caporalato, conoscenza e analisi delle mafie locali, approfondimento critico della filiera del pomodoro, sostegno alle fasce deboli della società come migranti e persone detenute, ma anche laboratori di lettura e non solo per grandi e piccini - che rappresenta un’azione propedeutica e necessaria al raggiungimento degli obiettivi di progetto, puntando a formare una visione olistica del cittadino prima e del consumatore poi. Il prossimo 28 giugno alle ore 19.00 presso il Laboratorio di Legalità “Francesco Marcone”, bene confiscato alla mafia che la Cooperativa gestisce dal 2010 e cuore pulsante del progetto, si parlerà di carcere e di recupero delle persone che vivono o hanno vissuto l’esperienza della detenzione. Ospiti della serata saranno: Carmelo Cantone (Provveditore Regionale agli Istituti Previdenziali di Puglia e Basilicata) e Pina Mirella Enza Malcangi (Direttore dell’Uiepe di Foggia). A dialogare con loro ci sarà Annalisa Graziano, giornalista e scrittrice, autrice del libro “Colpevoli. Vita dietro (e oltre) le sbarre”. “Abbiamo volutamente dato all’incontro un titolo provocatorio - afferma Pietro Fragasso, presidente della “Pietra di Scarto” - Quante volte infatti abbiamo sentito dire: “Mettiamoli in cella e buttiamo la chiave”, riferendoci ai detenuti, definendo chi sbaglia come perduto per sempre, non più utile a niente e a nessuno. La nostra esperienza racconta tutt’altro: la persona che sta sanando o ha sanato il suo debito con la società diventa risorsa, ricchezza, potenziale positivo all’interno del contesto cittadino, che grazie ad un percorso educativo e formativo, metta al centro l’indirizzo costituzionale per cui a ciascuno è data una nuova possibilità di vivere costruttivamente la propria esistenza. È chiaro che perché ciò accada, oltre allo sforzo della persona che ha pagato il suo debito con la giustizia, serve lo sforzo di una collettività che diventi accogliete e pronta a scommettere su di lui. E qui sta la sfida più grande”. Larino (Cb): i detenuti sfidano i luoghi comuni con 3 giorni di teatro aperto a tutti primonumero.it, 27 giugno 2018 Il regista è Giandomenico Sale, già conosciuto e apprezzato sia come attore che come organizzatore di eventi culturali di qualità. Il palcoscenico è il piazzale del carcere di Larino e gli attori, sì gli attori, sono detenuti della massima sicurezza. Campani, soprattutto, ma non solo. Ragazzi e uomini condannati per reati gravi che nel penitenziario di Larino, sotto la coraggiosa e saggia gestione del direttore Rosa La Ginestra, stanno scontando la loro pena ma sperimentano anche la riabilitazione. E quale strumento più efficace per sognare la libertà e superare i limiti fisiologici e di condizione del teatro? Un gioco di ruoli, un sovvertimento delle regole abituali, un ribaltamento delle gerarchie, che in un istituto di pena sono spesso condizionanti. Una sfida, da tutti i punti di vista. Così, sulla scia di un percorso iniziato anni fa e che vede la preziosa collaborazione dell’Istituto Alberghiero Federico di Svevia, la scuola che i detenuti frequentano e che promuove progetti di grande valenza, 21 detenuti metteranno in scena La Gatta Cenerentola. Venerdì, sabato e domenica prossimi (29 e 30 giugno e 1° luglio) tre serate aperte al pubblico per celebrare, 8 mesi dopo l’avvio del progetto, questo nuovo tassello nel percorso di formazione riabilitazione del quale Giandomenico Sale si è occupato da volontario, affiancato dalla scenografa Gisella Santacuzzi, con la collaborazione delle insegnanti Maraviglia e Tilli e il supporto della dottoressa Finelli, funzionario giuridico per il reinserimento dei detenuti. Una commedia, un melodramma “liberamente ispirato alla favola di Basile, del più classico repertorio favolistico, che dà modo di vivere il sogno e la libertà” commenta il direttore del penitenziario di contrada Monte Arcano Rosa La Ginestra, sottolineando anche il valore del linguaggio della favola di Basile, “un napoletano arcaico che è stato reso più comprensibile ma che i detenuti, molti dei quali campani, riconoscono perché è la lingua della loro terra. In questo modo loro, che spesso si sentono in una sorta di subcultura, hanno potuto apprezzare la loro napoletanità assurta a un linguaggio aulico”. Il regista promette divertimento, vivacità, sorprese dovute al gioco del travestimento. “La Gatta Cenerentola - chiarisce Giandomenico Sale - è un’opera vicina al mio percorso personale di studi sia per la parte antropologica che artistica, con la quale i ragazzi si sono messi in gioco, superando tanti limiti”. E arrivando, alla fine di un percorso, “alla consapevolezza del corpo, della mimica, dell’apprendimento” aggiunge la scenografa Gisella. Soddisfatta Maria Chimisso, preside dell’Alberghiero (e vicesindaco di Termoli) che ha ribadito la presenza della scuola “nei percorsi di riqualificazione dell’individuo e di chi prima di tutto è un cittadino, portatore di diritti e doveri”. 8 mesi di impegno, piccoli passi per arrivare a un risultato emozionante, che i parenti dei detenuti vedranno di persona domenica a pranzo, al termine dei colloqui nello spazio aperto che in via eccezionale diventa il palcoscenico di una rappresentazione che ha avuto il merito, fra le altre cose, anche di migliorare il clima nella sezione carceraria. Perché l’amicizia dietro le sbarre non è mai scontata e nemmeno facile come qualcuno potrebbe credere. La prof. Chiara Maraviglia, che ha accompagnato con pazienza, tenacia ed entusiasmo i detenuti in questo laboratorio, non ha dubbi che al di là della riuscita dello spettacolo un obiettivo fondamentale è già stato centrato. “Si sono aperti sempre più, superando le diffidenze iniziali, sono riusciti a stravolgere i loro sistemi di valutazione travestendosi da donna, sperimentando una dimensione diversa e una grande partecipazione corale”. Appuntamento da venerdì sera alle 20 e 30 con La Gatta Cenerentola. il biglietto costa 15 euro e comprende anche un gustosissimo buffet. Milano: Socrate, la libertà e quel 41bis, la classe mista nel carcere di Opera di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 27 giugno 2018 Per un anno 20 universitari e 20 ergastolani hanno studiato assieme filosofia e teatro. Quaranta persone sedute per terra, in cerchio. Una classe “mista”, un esperimento nuovo, mai visto: metà degli studenti erano detenuti condannati all’ergastolo, gli altri ragazzi dell’università Statale. Una volta a settimana, per un anno, dentro al carcere di Opera si sono svolte lezioni di filosofia e teatro. Temi di discussione: l’attesa, la speranza, la libertà. “È la prima volta in assoluto che un’esperienza simile viene autorizzata dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E questo è stato per noi fonte di grande soddisfazione e allo stesso tempo grande responsabilità”, riflette Stefano Simonetta, docente di via Festa del Perdono. Per tutta la durata del laboratorio lo ha affiancato l’attrice e autrice Elisabetta Vergani: utilizzando testi e drammaturgie, pian piano e discretamente, le due guide hanno fatto emergere le storie personali e le hanno intrecciate insieme, in un unico racconto che alla fine è risultato esemplare, in qualche modo vicino a tutti. “Siamo andati in direzione ostinata e contraria, come cantava Francesco De Gregori. Restando umani in ogni attimo”, spiega la drammaturga. Ciascuno, in quel cerchio, si è sentito importante, e forse è questa una delle chiavi dell’inclusione. “Lo psichiatra Eugenio Borgna diceva che “aspettare è guardare. Guardare l’altro e attendere di essere guardati”. Ecco, io spero che quelle persone rinchiuse a scontare pene senza fine si siano sentite davvero guardate. E quindi, capite”, continua Elisabetta Vergani. I ragazzi della Statale sono testimoni di una esperienza che definiscono straordinaria. “Il mio compagno di banco, o di cerchio, mi diceva di aver trovato uno scampolo di libertà solo dopo l’arresto, quando in lui si è sciolta la rabbia. Dentro una cella di isolamento, per la prima volta, è riuscito a guardare alla propria storia con un po’ di distacco e senza annullarsi nel giudizio, chiedendosi semplicemente “Cosa ho fatto di me?”, ricorda Marina Beraha, 22 anni. Ginevra Conte è emozionata: “Il mio citava Socrate, alle prime lezioni giurava di volare libero con la mente, nonostante le sbarre della cella. Ma alla fine del corso ha ammesso che il suo era solo un autoconvincimento, una suggestione. La libertà si trova nelle relazioni, nella continua scoperta. È per questo che è così importante creare osmosi tra dentro e fuori dal carcere”, considera. “Speriamo tutti di essere perdonati per qualcosa, siamo sospesi tra passato e presente, con la voglia di futuro e la paura della responsabilità”, dice ancora Giulia Cacopardo. Filo conduttore del laboratorio, brani che spaziavano da Socrate a Emily Dickinson ad Antonia Pozzi, passando per Fedor Dostoevskij e Italo Calvino. “La sensazione di straniamento in quel non-luogo dove per un anno siamo entrati un giorno alla settimana è stata liberatoria per tutti - assicura ancora Stefano Simonetta. Alla fine tutti abbiamo cambiato il nostro sguardo. Sul tempo e sugli altri”. La speranza è poter ripetere il laboratorio l’anno prossimo, con il placet del direttore del carcere Silvio Di Gregorio e del nuovo rettore della Statale che verrà eletto proprio domani (in lizza, con un testa a testa all’ultimo voto, Giuseppe De Luca e Elio Franzini). Nelle due case di reclusione di Opera e Bollate, infatti, le lezioni per detenuti si tengono, ma questo è stato il primo corso con una classe “mista”. Riuscito, riuscitissimo. Anche perché è riuscito ad accorciare le distanze. “Ognuno di noi doveva impegnarsi a compiere un movimento di apertura verso l’altro, a dispetto delle diversità fisiche, anagrafiche, culturali -spiega ancora la studentessa Alice Pennino. La libertà è empatia e trasformazione. Disponibilità a rischiare tutto, tranne che se stessi”. Hanno imparato nozioni filosofiche e soprattutto un approccio emotivo che tornerà utile. Enrico Frisoni è meditabondo: “Ci spinge avanti sempre un vuoto, un “mancato” cui cerchiamo con incessante ansia e zelo di tornare. Abbiamo in mente quello, ci pensiamo, ma nel frattempo abbiamo scoperto la vita”, sono le sue parole. Quelle del detenuto Domenico, rimaste impresse nella testa dello studente Davide Neri, suonano come un appello a continuare con progetti come questo: “È difficile parlare di libertà con il 41bis sulle spalle. Ma per un anno, una volta alla settimana, quando con voi ragazzi siamo diventati classe, siamo riusciti a aprirci a noi stessi e al mondo. Grazie a voi abbiamo immaginato i nostri figli, che non abbiamo potuto crescere. A capire un po’ dei loro pensieri. Grazie, per averci fatto sentire liberi e soprattutto responsabili”. Ravenna: “La bellezza dentro, donne e madri nelle carceri italiane” di Valentina Stella Il Dubbio, 27 giugno 2018 La mostra fotografica del fotoreporter Giampiero Corelli, allestita nel tribunale di Ravenna. Fino a tutto il mese di luglio è allestita nei locali del Tribunale di Ravenna, precisamente nel corridoio delle aule delle udienze penali, la mostra fotografica del fotoreporter ravennate Giampiero Corelli, autore dell’omonimo libro, “La bellezza dentro - donne e madri nelle carceri italiane”. L’iniziativa, nata grazie all’Ordine degli Avvocati di Ravenna e alla Presidenza del Tribunale stesso, si sarebbe dovuta concludere nel mese di giugno ma avendo riscosso ampio apprezzamento e interesse da parte degli operatori di giustizia e della cittadinanza è stata prolungata. La curatrice d’arte fotografica Maria Vittoria Baravelli ha commentato: “Per molti reporter la fotografia si configura come un autentico lasciapassare; un passaporto che permette di viaggiare fino ai confini del mondo. Ma il viaggio che Giampiero Corelli racconta con la sua mostra non è esotico, lontano e sospeso in un tempo sconosciuto, ma radicato in una realtà non così lontana da noi eppure all’apparenza invisibile. Corelli - continua a Baravelli - offre la possibilità di vedere quello che forse non avremmo mai visto, donandoci persino una temporanea ubiquità. Un viaggio dentro i confini dell’essere umano. È la prima volta che un luogo come il tribunale ospita una mostra fotografica che unisce la parte culturale, artistica della fotografia al contenuto sociale delle immagini, e questo è motivo per pensare che si possa fare cultura anche in luoghi che non sono adibiti a tale funzione”. L’avvocato Mauro Cellarosi, Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Ravenna, al Dubbio illustra il messaggio che gli organizzatori vogliono lanciare con l’iniziativa: “Innanzitutto devo ringraziare il presidente del Tribunale Roberto Sereni Lucarelli che ha avuto l’entusiasmo di capire che la mostra sarebbe potuta essere una idea interessante su un tema attuale. Il messaggio che vogliamo lanciare è che in questo momento, in cui il carcere è visto solo nella sua connotazione afflittiva per cui la pena deve essere eseguita costi quel costi, noi vogliamo invece porre l’attenzione sul recupero di una dimensione umana della pena, ovviamente nella cornice del diritto”. Sottolineando che anche la Camera Penale della Romagna ha sostenuto il progetto, Cellarosi conclude: “Noi non ci dimentichiamo del carcere anche quando qualcuno si preoccupa, come qualche magistrato, che in carcere si sta troppo poco. Sarebbe bellissimo, auspicabile che il cento per cento dei detenuti potesse usufruire di una piena rieducazione e che si puntasse maggiormente sull’accesso alle misure alternative al carcere, da considerare come ultima ratio”. “Rinnega tuo padre”, di Giovanni Tizian. La rivolta contro i padri nelle famiglie di ‘ndrangheta recensione di Massimo Recalcati La Repubblica, 27 giugno 2018 Giovanni Tizian racconta in un libro-inchiesta la guerra condotta in Calabria per sottrarre ai boss la patria potestà, rompendo il vincolo di sangue che regge il potere delle cosche. Una battaglia fondata su un principio: un genitore simbolico, la legge, che opera la castrazione del genitore reale. Quanto è grande il debito simbolico che vincola i figli ai loro genitori? E sino a che punto il giusto rispetto verso chi ha generato e accudito la nostra vita può giustificare la nostra devozione? Interrogativi che attraversano da sempre il legame tra genitori e figli, ma che diventano incandescenti nell’ultimo libro di Giovanni Tizian - giornalista costretto a vivere sotto scorta per le sue inchieste sulla ‘ndrangheta, “Rinnega tuo padre” (Laterza). Si tratta di un’opera di coraggioso impegno civile che affronta il tema scabroso della filiazione nell’ambito delle organizzazioni criminali mafiose. Quando i padri allevano i loro figli nel culto della violenza, a camminare per le strade impugnando fucili a canne mozze, nel disprezzo assoluto verso la vita degli altri, come possono questi figli svincolarsi dalla presa mortifera di una educazione ispirata solo dalla morte, come possono rinnegare il padre? Come possono distinguere il volto idealizzato di chi li ha cresciuti dalla smorfia brutale di chi invece li incita a calpestare la Legge degli uomini? L’indottrinamento mafioso è un lavaggio del cervello sistematico che inocula nella vita del figlio l’esistenza di un’altra Legge, un codice d’onore differente che si fonda innanzitutto sul rispetto assoluto nei confronti del Nome del proprio padre e della sua famiglia. L’educazione ‘ndranghetista, spiega bene Tizian, si distingue in questo per rigore. Come il fascismo, essa sostiene gli ideali di ordine e disciplina, i “valori” dell’arroganza e dell’onore. La vita del figlio viene derubata, la sua giovinezza sequestrata da un imperativo più forte: diventare un soldato, un militante della cosca. È un reclutamento ideologico che avviene in ogni cultura dell’odio: non possiamo dimenticare il bambino killer dell’Isis che giustiziava a sangue freddo e senza alcuna emozione gli “infedeli”. L’infanzia è infatti l’età della vita più propizia all’idealizzazione, alla credenza cieca verso la parola dei propri genitori. Il morbo del pensiero critico non si è ancora infiltrato nelle pieghe della vita, non ha ancora mostrato le diverse facce della Verità. Un ragazzino cresciuto dalla ‘ndrangheta aderisce pienamente alla narrazione mitica che istituisce la sua appartenenza al clan come l’unico senso possibile del mondo. L’eredità non si istituisce - come invece dovrebbe - sulla trasmissione del sentimento della vita, ma su quello della morte. La Legge del padre non custodisce il senso della vita, ma sospinge i suoi figli a negare la vita nel Nome del padre. “La devi ammazzare. Due colpi in faccia a quell’infame di tua madre”. È l’ordine spietato che Don Nicola consegna a Rocco, il proprio figlio dodicenne. Il bambino soldato è l’obbiettivo perseguito dall’educazione ‘ndranghetista per preservare il suo dominio nel passare delle generazioni. Chi può salvare la vita di questi figli esposti al morbo dell’appartenenza fanatica e dell’odio militare che ne deriva? Sono le madri che solitamente inviano un primo segnale d’allarme. Ma a quale destinatario? Giovanni Tizian racconta la vicenda del giudice Di Bella, del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria, che ha avuto il coraggio di impugnare, contro il delirio violento dell’educazione mafiosa, il provvedimento di decadenza della responsabilità genitoriale nei confronti dei padri della ‘ndrangheta. Prima di lui nel 2008 fu il Procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, a ottenere la decadenza della patria potestà di un padre mafioso. Di Bella - scrive Tizian - ha però avuto l’audacia di trasformare questo atto sporadico in un metodo di lotta contro il carattere perverso dell’educazione ‘ndranghetista. Il principio etico che lo sostiene è chiaro: ci vuole un padre simbolico - il Tribunale dei minorenni - per castrare l’arroganza e l’onnipotenza del padre reale; ci vuole un autentico atto paterno - quello del giudice che prescrive l’allontanamento dei figli dalle grinfie dei loro padri - per consentire alla vita del figlio di crescere facendo esperienza della libertà. È un esempio formidabile di come le istituzioni possono a volte supplire l’assenza di funzione paterna. Resta però la ferita, in ciascuno di questi figli, dell’abbandono, della perdita del padre. Un lutto che dovrà essere elaborato nel tempo. Rinnegare il padre è un peccato mortale? Nelle storie di figli che Tizian racconta appare piuttosto come la sola drammatica possibilità di fare esistere davvero un padre, ovvero un senso umano della Legge. “Rinnega tuo padre”, di Giovanni Tizian (Laterza, pagg. 224, euro 16) Noi e i clochard, una convivenza difficile di Antonella Boralevi La Stampa, 27 giugno 2018 La rilevazione Istat sulla povertà in Italia dice che ci sono 5 milioni di poveri, il 30% sono di origine straniera. Un giornalista del Corriere della Sera, Franco Manzoni, cammina per le strade del centro di Milano. Attraversa piazza Lombardia. E viene assalito da un senzatetto. Lo definisce “italico energumeno senza fissa dimora”. L’energumeno lo fissa con gli occhi sbarrati, cerca di prenderlo per il collo, urla: “Ti faccio a pezzi”. È mezzogiorno. Molte persone assistono alla aggressione, aspettano l’autobus. Ma nessuno chiama il 113. Lo fa, da solo, il giornalista. Lo portano poi al Pronto Soccorso perché ha sintomi da infarto. Io non credo che sia una storia da confinare alle pagine di cronaca locale. Penso che sia invece una storia scomodissima su cui farci alcune domande. Proprio oggi che esce la rilevazione Istat sulla povertà in Italia. E ci dice che 5 milioni di persone (il 30% degli stranieri) vivono in povertà assoluta. Cioè con 826 euro al mese al Nord e 742 euro al mese al Nord. Sono, queste persone, gli uomini e le donne che vediamo educatamente mettersi in fila alle mense che nessuno chiama più “dei poveri”. Vestiti magari con abiti trovati in parrocchia, ma impeccabili. Con i capelli in ordine, le mani pulite. Sorridenti. Gentili. Con i loro bambini per mano. Persone che cercano ogni tipo di lavoro. E accettano ogni lavoro che trovano. Poi ci sono i clochard. I senzatetto. Coloro che la vita ha escluso. Persone cariche di dolori assoluti e segreti, di tragedie, di storie che schiantano i pensieri. Persone che hanno rinunciato alla speranza. Stanno nel mondo, ma senza starci. Vivono per la strada. Si costruiscono, sotto i portici, sui marciapiedi, casette di cartone. Ci mettono accanto il carrello portato via dal supermercato che fa loro da armadio. Stanno stesi per terra, su coperte vecchie, vestiti di stracci, talvolta con accanto la bottiglia. Per gabinetto, usano i giardini. Si lavano i piedi nelle fontane. Spesso parlano da soli. Talvolta si litigano tra loro, si picchiano. Alcuni sono invece gentili, educati, salutano i passanti, creano legami di simpatia con quelli che vedono più spesso. Molti Comuni e molte organizzazioni solidali cercano di aiutarli. Provano a convincerli, quando fa molto freddo, ad accettare di dormire nei loro ricoveri, camerette pulite, docce, cibo caldo. Pochi accettano. Temono, pare, di perdere il posto, dove magari riescono a intercettare molte elemosine. Altri non rinunciano a una scelta di vita, vivono la strada come libertà assoluta. Talvolta cacciano in malo modo i volontari che portano il caffè caldo, le coperte. Talvolta invece ringraziano. Noi non riusciamo a trovare un modo per convivere con i clochards. Il loro modo di vivere ci angoscia, ma anche ci incute rispetto. La loro libertà non conosce limiti. Eppure, forse, anche per i clochard dovrebbe valere il principio fondante di ogni democrazia: “La mia libertà finisce dove comincia la tua”. Piattaforme di sbarco per i migranti, piano dell’Onu per aiutare l’Europa di Beda Romano Il Sole 24 Ore, 27 giugno 2018 Nonostante dubbi e interrogativi, rimane al centro delle discussioni l’idea di creare delle piattaforme di sbarco in giro per il Mediterraneo con cui gestire l’arrivo di migranti dall’Africa e dall’Oriente, alleviando indirettamente l’impegno dei paesi alle frontiere esterne dell’Unione, come l’Italia e la Grecia. Il tema verrà discusso dai Ventotto qui a Bruxelles in un vertice il 28 e 29 giugno. L’obiettivo sarà di raffreddare gli animi e trovare nuove soluzioni al tema migratorio. Non sarà facile. A dire il vero già due anni fa il premier ungherese Viktor Orbán aveva proposto l’opzione di piattaforme di sbarco, ma era stata ritenuta ai tempi in violazione dei diritti umani. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite ai rifugiati (Unhcr), Filippo Grandi, ha scritto una lettera alla presidenza bulgara dell’Unione, dicendosi pronto a sovrintendere all’organizzazione di questi centri che sarebbero chiamati nel caso anche a smistare gli immigrati in giro per l’Europa. Nella sua missiva, l’Alto Commissario parla di “nuovi accordi organizzativi dentro e fuori dall’Unione”. Poi aggiunge: “L’Unhcr sta mettendo a punto una proposta, insieme all’Organizzazione internazionale per le migrazioni”. I contorni politici, giuridici ed economici dell’operazione sono tutti ancora da precisare. Alcuni qui a Bruxelles considerano che queste piattaforme dovrebbero servire a suddividere i migranti secondo la loro condizione giuridica per poi redistribuirli in Europa. In buona sostanza sarebbero delle Ellis Islands, non dissimili dall’isola di New York che ha accolto milioni di immigrati europei tra Ottocento e Novecento. Non mancano i dubbi da risolvere. Dove creare queste piattaforme: nell’Unione? In Europa? In Africa? Nessuno sembra volerle. Come avverrebbe poi la redistribuzione degli asilanti ed eventualmente dei migranti economici? E infine, quanto ai ritorni: basterà la volontarietà dei singoli nel caso di assenza di accordi di riammissione? I dubbi sono tanti e le incertezze pure. A proposito del luogo in cui potrebbe nascere una piattaforma di sbarco, nei giorni scorsi Tirana ha smentito di essersi detta disponibile. In realtà, è probabile che vi siano stati primi contatti con Bruxelles. Intanto, dopo un lungo negoziato i Ventotto si sono accordati per concedere all’Albania e alla Macedonia l’agognato via libera ai negoziati in vista dell’adesione. Con l’obiettivo di trovare un compromesso con Francia e Olanda, preoccupate da eventuali nuovi arrivi migratori, l’inizio delle trattative è stato fissato nel giugno 2019. Nel frattempo, Bruxelles sarà chiamata a fare un occhiuto lavoro preparatorio. Riuniti martedì in Lussemburgo, i ministri per gli Affari europei hanno dibattuto il canovaccio di conclusioni di summit del 28-29 giugno, senza apportare cambiamenti di sostanza. Ognuno ha ribadito la propria posizione, anche Enzo Moavero, ministro degli Esteri italiano. Dal canto suo, la Germania ha insistito per negoziare accordi bilaterali che gestiscano nell’area Schengen i movimenti secondari, ossia di persone senza autorizzazione. Immigrazione, è opportuno pensare alla creazione di un dipartimento europeo di Mariano Bella e Luciano Mauro* Il Dubbio, 27 giugno 2018 La Convenzione di Dublino va modificata e i paesi che si oppongono a ogni ricollocamento dei migranti dimenticano che le cose sono cambiate radicalmente dalla sua entrata in vigore nel 1997. Il migliore esempio di democrazia diretta non viene da Atene o dalla Svizzera, ma bensì da una striscia satirica di qualche decennio fa, in cui un gruppo di primitivi delegava ai propri leader, scelti a caso, anche la decisione sui giorni della settimana: all’estrazione del terzo giovedì consecutivo, si registrò qualche mugugno, tuttavia, rapidamente assorbito. Non siamo a questi livelli in Italia, ma sulla buona strada. Un paio di settimane fa il tema era l’uscita dall’euro, poi le clausole di salvaguardia, oggi la crisi dei migranti, domani le aperture dei negozi nei giorni festivi, dopodomani i vaccini. Giunti alla metà di luglio chissenefrega, poi agosto (chiunque tu sia non ti conosco), fino alla sveglia di fine ricreazione all’inizio di settembre, quando bisognerà dire cosa s’intende fare con i conti pubblici e metterlo per iscritto. Saranno dolori, ma ne abbiamo già parlato. Ora vediamo qualcosa sul tema dell’immigrazione, provando a sfuggire a considerazioni troppo polarizzate e oscillanti tra gli approcci emergenziali e quelli umanitari-caritatevoli. Sul tema, ci pare si possano fermare un paio di punti. Intanto, la Convenzione di Dublino va modificata. I Paesi che si oppongono a ogni ricollocamento dei migranti invocando il “pacta sunt servanda” dimenticano che il principio vale a condizione del “rebus sic stantibus” e della “bona fides”: le cose sono cambiate radicalmente dalla sua entrata in vigore nel 1997 e la buona fede pare abusata, data l’oscura - e talvolta criminale gestione dei traffici migratori. Bisogna farsene una ragione: viceversa, anche la nobile propensione a esportare democrazia e libertà, è destinata ad avvizzire. In secondo luogo, la questione migratoria è strutturale e potrebbe assumere dimensioni crescenti, rendendo definitivamente impossibile una gestione nazionale e sovranista del problema. L’esperienza dell’ultimo decennio insegna che, anche in Italia, sono stati trascurati due fattori d’importanza cruciale che hanno influenzato la rappresentazione pubblica dei fenomeni migratori. Il primo è connesso all’approccio meramente economicista/ statistico che spesso si rinviene nei documenti degli organismi internazionali, che valuta l’immigrazione sotto un profilo esclusivamente utilitaristico: in che misura gli immigrati servono/ non servono, compensano/ non compensano il declino demografico, garantiscono/ non garantiscono il mantenimento dell’equilibrio pensionistico e così via. Quasi si trattasse di androidi creati per specifiche finalità, privi di quel mix di credo religioso, tradizioni, usi e costumi che si definisce “cultura” di un popolo. L’altra faccia (fallimentare) di questa medaglia (fallimentare) è l’abbraccio del multiculturalismo, che sorvola sul fatto che la suddetta cultura di alcuni o molti migranti è spesso assai distante rispetto a quella del Paese di accoglienza. Ciò può comportare, come di fatto accaduto da molte parti, non l’integrazione, ma la separazione, configurando “società semiautonome” (D. Murray) caratterizzate da insanabili fratture sociali anche in aperto conflitto con i valori occidentali. Queste isole non possono essere accettate. Il secondo fattore riguarda l’inefficienza amministrativa del nostro Paese, che crea un’estesa area grigia all’interno della quale si collocano varie attività irregolari (lavoro nero, mancato rispetto di nome igienico-sanitarie, contraffazione, abusivismo commerciale e così via) nelle quali sono quasi sempre coinvolti immigrati che, o non sono stati adeguatamente assistiti pur avendone titolo/ diritto o non sono stati allontanati/ espulsi dal territorio con tempestività e che dunque si adattano a sopravvivere in situazioni di permanente marginalità. La combinazione di questi due fattori accresce enormemente presso l’opinione pubblica la percezione di pericolosità dei flussi migratori. Infine, la materia, di per sé complessa, viene sistematicamente complicata dalla gestione intergovernativa dei flussi migratori sul piano europeo. Gestione intergovernativa vuole dire che ciascuno stato membro di tanto in tanto decide come gli pare, appena trovi sponda in qualche altro partner, per di più utilizzando gli accordi di Schengen in modo flessibile, se non capriccioso. Suggerimento per il prossimo Consiglio Europeo di fine giugno: creazione di un dipartimento europeo per l’immigrazione. Una volta definiti i suoi compiti attraverso un’ampia discussione parlamentare - tassonomia dei migranti, procedure di prima accoglienza, ricollocazioni e rimpatri - esso decide a prescindere dai volubili desideri dei singoli stati. Al medesimo dipartimento verrebbe assegnata la responsabilità delle frontiere esterne, potenziandone le risorse e le attività attraverso un bilancio autonomo, alimentato direttamente da una tassazione trasparente in capo ai cittadini europei (così che ciascuno abbia contezza dei costi dell’azione). Gli stati che non si adeguano verrebbero penalizzati economicamente, con procedure proporzionali, semplici e rapide. Per quanto riguarda l’Italia, è necessario accrescere l’integrazione tra amministrazione centrale e amministrazioni locali sul controllo dell’ordine pubblico e la repressione dei reati di criminalità predatoria e di quelli connessi ad attività che favoriscono e sono espressione di comportamenti antisociali da parte degli immigrati clandestini, responsabili del diffuso, istintivo, comprensibile sentimento di paura che accompagna le valutazioni sul merito dell’accoglienza. Sinteticamente (e banalmente): se vogliamo essere più buoni con il prossimo, dobbiamo essere più severi con chiunque trasgredisca le leggi (e viceversa). Non ci pare esistano altre soluzioni. *Ufficio Studi Confcommercio “Incostituzionale il decreto Minniti-Orlando sui richiedenti asilo” di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 27 giugno 2018 Criminalizzazione della solidarietà. Oggi il ricorso approda in Cassazione, promosso da Arci, Asgi, A buon diritto e Giuristi democratici. È suonato il contrattacco a quello che viene definito “populismo giuridico”, inaugurato dall’ex ministro Marco Minniti e ora proseguito, con maggiore enfasi destrorsa ma nello stesso solco, per esplicito e ormai corale riconoscimento, dal suo successore leghista. Arriva stamattina sul tavolo della prima sezione civile della Corte di Cassazione il primo ricorso contro il decreto Minniti-Orlando (n. 13/2017) che ha dato l’avvio alle modifiche securitarie di norme e procedure senza neanche passare dal Parlamento. Si contesta, in punta di diritto, l’origine legale della criminalizzazione dei difensori dei diritti umani e della solidarietà, come ha spiegato il vice presidente dell’Arci Filippo Miraglia. Il vulnus “dei principi dello Stato di diritto” per i ricorrenti risale, appunto, a quando il passato governo ha stabilito una giustizia “diminuita”, squilibrata, un diritto alla difesa depotenziato solo per i migranti e i richiedenti asilo, unici soggetti destinati a non avere i tre gradi di giudizio garantiti a tutti gli altri ma solo il verdetto di una commissione amministrativa territoriale e al massimo una videoregistrazione di questa loro prima e unica pseudo “udienza”. Il ricorso - presentato ieri in conferenza stampa dalle associazioni che lo patrocinano Arci, Asgi, A buon diritto e Giuristi democratici - sarà discusso oggi dall’avvocato Antonello Cervo in udienza pubblica, segno della rilevanza giuridica del caso, destinato evidentemente a fare da precedente. La discussione si basa sulla storia giuridica di un ragazzo di 20 anni del Mali, sottoposto a detenzione in un centro di tortura in Libia, al quale il Tribunale di Napoli ha potuto riconoscere solo la protezione umanitaria e non quella ulteriore, sussidiaria, in base a una serie di lacune giuridiche - cinque ne sono state individuate - per cui la sentenza è stata accolta in Cassazione con un prospetto di incostituzionalità del decreto stesso. L’avvocato del ragazzo in questione non ha neanche potuto interloquire con il giudice. “Ma non si tratta solo del destino di un giovane maliano - chiarisce Valentina Calderone di A buon diritto - in ballo ci sono i diritti di tutti e siamo noi a difendere la legalità, la Costituzione, i trattati, la rispondenza alla direttiva comunitaria in materia di asilo”. “Occorre riappropriarci dell’attività di critica normativa e lo faremo - aggiunge Margherita D’Andrea dell’Asgi - perché l’ordinamento giuridico stravolto contribuisce a creare irregolarità, quindi situazioni di marginalità e alla fine insicurezza nelle città”. Il ricorso per altro segue le orme delle critiche della stessa Anm al decreto Minniti. Allarme droghe: +39% in due anni. Ragazzi italiani al secondo posto in Europa La Repubblica, 27 giugno 2018 Nono libro bianco delle associazioni coscioni, Antigone e Abele. Il 30% dei detenuti entra in carcere per motivi legati agli stupefacenti. Da 27.718 del 2015 a 38.613 del 2017, ovvero +39% in soli due anni. È una vera impennata l’aumento dell’uso di droga fra i minorenni: quadruplicato il consumo, che è invece raddoppiato per gli adulti. Inoltre, il 30% dei detenuti entra in carcere per motivi legati agli stupefacenti, un quarto della popolazione in cella è tossicodipendente. E l’assistenza ha sempre meno mezzi e personale. A fotografare la situazione è il nono libro bianco sulle droghe, presentato questa mattina in occasione della giornata internazionale contro il Narcotraffico. È promosso dalla Società della Ragione Onlus insieme a Forum Droghe, Antigone, Cgil, Cnca e Associazione Luca Coscioni e con l’adesione di Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica Cgil, Gruppo Abele, Itaca, Itardd, Lega Coop Sociali, Lila. Su 38.613 segnalati al Prefetto per consumo di sostanze illecite nel 2017 - erano 27.718 nel 2015 - nell’80% dei casi si tratta di consumatori di cannabinoidi, a seguire di cocaina (14%) ed eroina (5%) e, con percentuali minime e frammentate, altre sostanze. Il carcere - Qualche numero del dossier che rende l’idea della situazione italiana: 14.139 dei 48.144 ingressi in carcere nel 2017 sono stati causati da imputazioni o condanne per detenzione ai fini di spaccio. Si tratta del 29,37% degli ingressi: per la prima volta dal 2012 si inverte la tendenza, sale il numero dei detenuti. “I “pesci piccoli” continuano ad aumentare, mentre i consorzi criminali restano fuori dai radar della repressione penale sottolineano i curatori. 14.706 dei 57.608 detenuti al 31/12/2017 sono tossicodipendenti. Il 25,53% del totale”. Questo segnalano gli autori dell’indagine, preoccupati per l’impennata, dopo anni di calo, degli ingressi in carcere che toccano un nuovo record: il 34,05%dei soggetti entrati in cella nel 2017 era tossicodipendente. I giovani - L’Italia è il terzo Paese in Europa dove si consuma più cannabis: si stima che il 33,1% della popolazione l’abbia usata almeno una volta nel corso della vita, una percentuale inferiore solo a Francia (41,4%) e Danimarca (38,4%). Se si considera la sola fascia d’età dai 15 ai 34 anni, l’Italia è al secondo posto: si stima che il 20,7% ne abbia fatto uso nei dodici mesi precedenti all’ultima indagine del 2017, contro il 21,5% della Francia. Secondo l’ultimo rapporto europeo pubblicato, l’Italia è il quarto paese per uso di cocaina tra quelli dell’Unione Europea, con il 6,8% delle persone con età compresa tra i 15 e i 34 anni che ne ha fatto uso almeno una volta, preceduta da Regno Unito, Spagna e Irlanda. Le misure alternative - Un dato positivo arriva dalle misure alternative, in crescita lieve ma costante. Restano marginali le misure alternative dedicate: 3.146 sono i condannati ammessi all’affidamento in prova speciale per alcool e tossicodipendenti su 14.706 detenuti tossicodipendenti. Le segnalazioni e le sanzioni amministrative - Continuano ad aumentare le persone segnalate al Prefetto per consumo di sostanze illecite: da 27.718 del 2015 a 38.613 del 2017: +39,30% (+18,13% rispetto al 2016). Si conferma l’impennata delle segnalazioni dei minori che quadruplicano rispetto al 2015. Aumenta sensibilmente anche il numero delle sanzioni: da 13.509 nel 2015 a 15.581 nel 2017: +15,33% (+18,42% rispetto al 2016). Riguardano invece il 43,45% dei segnalati, percentuale in aumento rispetto all’anno precedente. Per quasi l’80% sono consumatori di cannabinoidi (78,69%), seguono a distanza cocaina (14,39%) e eroina (4,86%) e, in maniera irrilevante, le altre sostanze. Le violazioni dell’art. 187 del codice della strada. Per guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti, i dati disponibili, parziali (Polizia Stradale 2017) indicano che solo l’1,23% dei conducenti coinvolti in incidenti stradali è stato accusato di questa violazione. Le richieste - Il libro bianco è anche un’occasione per fare un punto politico sugli stupefacenti. Secondo L’associazione Luca Coscioni e le altre coinvolte nel libro Bianco: “Il nostro è un paese capace di rispondere all’emergenza con sanzioni e repressione, misure definitivamente inefficaci in termini di risultati a tutti i livelli. L’attuale legge sulle droghe si conferma il volano delle politiche repressive e carcerarie. Senza detenuti per art. 73, o senza tossicodipendenti, non si avrebbe l’attuale sovraffollamento. Non funziona più l’offerta terapeutica basata su vecchi modelli di consumo delle sostanze”. Tra le sette richieste al governo, c’è in primis la completa revisione del Testo unico vigente sulle sostanze stupefacenti. “In particolare la completa depenalizzazione del possesso e della cessione gratuita di piccoli quantitativi destinati all’uso personale. Quindi l’inserimento nei LEA della riduzione del danno, ovvero le politiche e servizi che mirano a ridurre il danno correlato all’uso di sostanze psicoattive legali e illegali. E ancora, la messa a regime della regolamentazione nazionale sulla cannabis terapeutica e l’organizzazione, a nove anni dall’ultima convocazione, della Conferenza nazionale, sede della valutazione delle politiche nazionali in materia. Infine il rilancio e la riorganizzazione dei servizi per le dipendenze”. Libro Bianco sulle droghe, torna la repressione di Stefano Anastasia e Franco Corleone Il Manifesto, 27 giugno 2018 “Si pensava a qualcosa di meglio”, avrebbe detto Sergio Endrigo, del tempo che ci tocca di vivere. Questo Libro Bianco sulla politica delle droghe, il nono, viene pubblicato alla conclusione di un lungo ciclo che ha visto protagonisti e vicende assai contrastanti, dalla approvazione della legge Fini-Giovanardi al dominio di Giovanni Serpelloni sul Dipartimento antidroga, dalla cancellazione della legge iperproibizionista e punitiva da parte della Corte Costituzionale a timide modifiche legislative. Purtroppo, nonostante gli scenari internazionali di riforma che si sono manifestati in questi anni, non si è attuato nessun cambio di orientamento politico; addirittura non si è più identificato un responsabile politico e si è lasciato a una pura gestione amministrativa il Dipartimento antidroga. Il nulla ha prevalso e così le associazioni impegnate da anni su questo fronte hanno presentato una diffida giudiziaria verso il Governo per inadempienza rispetto al dovere previsto dal comma 15 dell’articolo 1 del Dpr 309/90 sulla convocazione di una Conferenza triennale allo scopo anche di suggerire al Parlamento le necessarie modifiche alla legislazione. L’ultima conferenza, per altro blindata e senza dibattito, risale al 2009 e l’ultima di reale confronto al 2000 a Genova. Unica nota positiva recente, l’inserimento nei Lea della riduzione del danno e un maggiore spazio per la canapa terapeutica. Tutti sul tappeto restano i problemi aperti o irrisolti: la riunione dell’Onu a Vienna nel 2019, la presentazione delle due proposte di legge sulla legalizzazione della canapa e di revisione radicale del Dpr 309/90, la richiesta ultimativa per la convocazione della Conferenza nazionale sulla politica delle droghe, la ridefinizione della natura e dei compiti del Dipartimento antidroga, un confronto sulle soluzioni che emergono in tanti paesi nel mondo. Intanto, questo Libro bianco ci racconta del ritorno dell’affollamento penitenziario e del ruolo che, in esso, gioca ancora una volta la legislazione proibizionista in materia di droghe. Se gli ingressi in carcere hanno cominciato ad aumentare dallo scorso anno, quelli per violazione delle legislazione sugli stupefacenti guidano l’incremento, costituendone quasi il 30%, quanti non erano dal 2013. Se i detenuti in carcere aumentano, percentualmente aumentano di più quelli per reati di droga. Un quarto dei detenuti è tossicodipendente e solo una piccola parte di loro riesce ad accedere alle alternative al carcere per loro prescritte. E hanno ripreso a crescere anche le segnalazioni ai prefetti dei semplici consumatori, caduti anche loro nella rete dei maggiori controlli e dell’ossessione securitaria: oltre 40.000 segnalazioni (all’80% per possesso di cannabinoidi), 15.581 sanzioni e solo 86 richieste di programmi terapeutici. È solo una inutile macchina sanzionatoria che in quasi trent’anni ha colpito più di un milione e duecentomila persone. Il taglio originale di questo Libro Bianco è di mettere al centro della riflessione sulla politica delle droghe, oltre alla tradizionale analisi dei dati sugli effetti penali e sul carcere, la fotografia della realtà dei servizi pubblici e del privato sociale, legati ai nuovi consumi e lo stato della ricerca scientifica sul fenomeno in continua evoluzione. Questa parte mette in luce i limiti della Relazione del Dipartimento politiche antidroga che offre un quadro statico e datato, assolutamente privo di indicazioni per i parlamentari e gli operatori. Un altro suo limite grave è rappresentato dalla assenza del punto di vista dei consumatori che sono confinati nel ruolo di vittime della repressione o di malati da curare. La Relazione del Governo non è mai discussa dal Parlamento. Vogliamo sperare che diversa sorte abbia questo Libro Bianco. Fontana: “contro la droga serve tolleranza zero, lavori socialmente utili per chi consuma” di Alberto Mattioli La Stampa, 27 giugno 2018 Il Ministro per la Famiglia con delega alla lotta alle tossicodipendenze: tra le priorità le sostanze “fatte in casa”. Il decreto è pronto, ma non ancora firmato. Però credo che la delega per la lotta alle tossicodipendenze verrà assegnata a me. E ho già incontrato i funzionari del Dipartimento perle Politiche antidroga”. Parola di Lorenzo Fontana, ministro leghista per la Famiglia e le Disabilità, già al centro di aspre polemiche sulle famiglie arcobaleno e per questo rubricato un po’ sbrigativamente come l’antigay del governo. Fontana, le prime tre cose che farà se effettivamente di droga si occuperà lei… “Prima: potenziare a tutti i livelli l’azione delle forze dell’ordine, dal contrasto allo spaccio alla guerra al traffico internazionale. Seconda: massima attenzione alle droghe “fatte in casa”, quelle che chiunque può prodursi in cucina seguendo le istruzioni su Internet. Terza: prendere ispirazioni da quel che si è fatto all’estero, dove qualche politica antidroga ha avuto successo”. “Tolleranza zero”: si riconosce nella formula? “Direi di sì. Purtroppo le persone con dipendenza da droghe stanno aumentando, mentre l’attenzione cala. Di droga si parla meno. In passato, il “tossico” devastato dall’eroina lo vedevi. Oggi il consumo è molto più diversificato, capillare, nascosto, quindi meno evidente. Il problema è stato trascurato dalla politica. È ora di invertire la tendenza”. Il fatto che la delega sia attribuita al ministro della Famiglia e non a quello della Salute è un segnale? “Sì, e importante. Intanto perché la tossicodipendenza non distrugge la vita solo al drogato ma anche a chi gli sta intorno, che dev’essere aiutato. E poi perché per contrastare il consumo bisogna partire dalla famiglia e dalla scuola. Ma oggi, proprio perché le droghe sono cambiate, mettere in guardia i ragazzi è più difficile di ieri”. Don Mazzi dice alla “Stampa” che oggi “la droga è diventata sinonimo di divertimento”. “La differenza nella percezione del pericolo di cui parlavo si vede anche da questo. Molti non si rendono nemmeno conto di quanto facciano male certe sostanze”. Secondo il Libro bianco sulle droghe, il numero delle sanzioni amministrative ai consumatori, aumenta ma raramente vengono seguite dalla terapia. Insomma, i consumatori vengono puniti ma non invitati a curarsi. “E questo è sbagliato. Chi viene scoperto a consumare droga potrebbe andare a rendersi utile nelle comunità di recupero. La definizione di lavori socialmente utili non mi piace, ma il concetto è questo”. Lo stesso Libro bianco denuncia il fatto che circa un quarto di detenuti è tossicodipendente. Mettere in galera i drogati non è forse il modo migliore per curarli. “Certamente no. Ma non è che si vada in galera perché si è tossicodipendenti, si va in galera perché si sono commessi dei reati. E ovvio che ai drogati servono cure al di là delle misure carcerarie. Però non vorrei nemmeno che passasse il messaggio che se commetti un reato ma sei tossicodipendente non vai in galera. Una cosa è l’attenzione dal punto di vista sanitario, un’altra da quello penale”. Marco Perduca, coordinatore di legalizziamo.it, dice che sulla droga i ragazzi sono informati poco e male. “È vero che nelle scuole di droga non si parla abbastanza. Ma è anche vero che c’è poca informazione in generale e che oggi parlare di droga, come abbiamo visto, è più difficile. Spesso non manca la volontà, mancano le competenze”. L’Italia è il terzo Paese in Europa per consumo di cannabis e il secondo se si considera la fascia d’età fra i 15 e i 34 anni. Non è la prova del fallimento del proibizionismo? “Semmai è la prova del contrario, cioè che un vero proibizionismo non c’è. Purtroppo la pericolosità di queste sostanze non si vede sempre, ma è dimostrato che il loro uso prolungato provoca dei danni gravissimi. Bisogna sottrarre il dibattito all’ideologia. La priorità è tutelare la salute dei nostri ragazzi”. Insomma, non sarà lei a liberalizzare la cannabis? “Assolutamente no. Mi metto nei panni di un padre o di una madre: avrebbero piacere che i loro figli fumassero? Non credo proprio”. Ma uno spinello l’ha mai fumato? “Una volta, ad Amsterdam. Non ho avuto voglia di un secondo. E sono sicuro che la liberalizzazione non sia la strada giusta”. Giornata mondiale delle vittime della tortura rainews.it, 27 giugno 2018 Nella giornata internazionale dedicata alle vittime della tortura la liberazione di un noto attore yemenita da un carcere controllato dagli Emirati Arabi Uniti fa tornare di attualità la storia di abusi sessuali nei confronti dei prigionieri denunciata nei giorni scorsi da un’inchiesta dell’Associated Press che ha pubblicato i disegni con cui un detenuto sopravvissuto alle angherie descrive i maltrattamenti. Un noto attore yemenita, Nasser al-Anbari, e almeno altri tre i detenuti sono stati liberati dalle prigioni controllate dagli Emirati Arabi Uniti in Yemen. Erano trattenuti nel sud del paese senza formali accuse da quasi un anno. La liberazione giunge a pochi giorni dalla denuncia di Associated Press che ha rivelato come centinaia di prigionieri yemeniti catturati nei raid anti-terroristi dalle forze speciali degli Emirati che fanno parte della coalizione sostenuta dagli Stati Uniti, siano stati sottoposti a torture e abusi sessuali. Nella prigione di Beir Ahmed nella città meridionale di Aden, dove si trovava anche al-Anbari, centinaia sono i detenuti che sarebbero stati costretti a spogliarsi e a subire perquisizioni violente, anche anali da parte degli agenti degli Emirati in cerca di cellulari nascosti. Secondo quanto riportato in forma anonima da alcuni funzionari di sicurezza altri prigionieri potrebbero essere liberati nei prossimi giorni dalle prigioni segrete di Aden. Gli Emirati Arabi Uniti sostengono di non controllare alcun carcere nello Yemen e dicono che il governo yemenita ha il pieno controllo degli istituti. Il ministro degli interni yemenita Ahmed al-Maysari invece ha più volte ribadito di non avere il controllo sulle prigioni e di non poter nemmeno entrare ad Aden senza autorizzazione da parte degli Emirati. L’episodio risale al 10 marzo scorso nella prigione di Beir Ahmed. Quindici agenti arrivano nella prigione con i volti nascosti da cappucci ma dai loro accenti si capisce che sono stranieri - dagli Emirati Arabi Uniti. Mettono in fila i detenuti e ordinano loro di spogliarsi e sdraiarsi. Gli uomini urlano e piangono mentre vengono sottoposti alla perquisizione anale e quelli che fanno resistenza vengono minacciati con l’aiuto di cani e picchiati a sangue. Secondo sette testimoni intervistati in forma anonima da Associated Press sarebbero stati centinaia i detenuti a subire un analogo trattamento quel giorno. Testimonianze che aprono uno squarcio sulle torture e gli abusi sessuali che sarebbero perpetrati dalle forze di sicurezza in almeno cinque prigioni dello Yemen controllate dagli Emirati Arabi Uniti alleati dell’Arabia Saudita nella guerra in corso dal 2015, da quando cioè i ribelli Houthi appoggiati dall’Iran hanno preso il controllo di buona parte del nord del paese. I disegni I testimoni hanno riferite che le guardie yemenite che lavorano sotto la direzione di ufficiali degli Emirati hanno usato vari metodi di tortura e di umiliazione sessuale. Alcuni detenuti sono stati violentati mentre altre guardie filmavano gli abusi. Tra le torture anche l’applicazione della corrente elettrica ai genitali dei prigionieri ai cui testicoli venivano anche appesi sassi. Le violenze sessuali perpetrate sono arrivate fino all’uso di pali di legno e di acciaio. Dall’interno della prigione di Aden, i detenuti sono riusciti a far passare alcune lettere e disegni che documentano questi abusi e che sono finiti a disposizione dell’Associated Press. I disegni sono stati realizzati su fogli di plastica con penna a inchiostro blu. Chi li ha realizzati ha dichiarato all’AP di essere stato arrestato l’anno scorso e di essere passato da tre diverse prigioni. “Mi hanno torturato senza nemmeno dirmi quello di cui ero accusato. A volte pensavo, ditemi quello di cui mi accusate così posso confessare e porre fine a questo dolore. La cosa peggiore è desiderare ogni giorno la morte e non trovarla”. I disegni mostrano un uomo appeso nudo dalle catene mentre viene torturato con la corrente elettrica, un altro detenuto sul pavimento circondato da cani che ringhiano mentre altre persone lo prendono a calci e altre raffigurazioni grafiche di stupro anale. “Nudo dopo le percosse”, dice una didascalia in arano. Libia. Non si può chiudere gli occhi sugli orrori delle torture di Maurizio Caprara Corriere della Sera, 27 giugno 2018 Un rapporto dell’Onu documenta le torture in Libia: si ha il dovere di non ignorarle. Il ministro dell’Interno della Repubblica italiana, vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini, ha definito “menzogne” quelle “di chi dice che in Libia si tortura e si ledono i diritti civili”. Sono parole in conflitto con una realtà denunciata da numerose fonti. E non si addicono a chi rappresenta il Paese di Cesare Beccaria, maestro (milanese) di civiltà nel XVIII secolo. Un disabile libico legato al soffitto con catene, percosso fino a fargli perdere conoscenza nel carcere di Mitiga. Uno straniero sospeso a un gancio in una posizione detta “del pollo arrosto” e picchiato con badile. A Nasser Forest un uomo appeso per le gambe, sottoposto a scosse, privato di cibo fino a impedirgli di camminare da solo. Sono alcuni dei casi descritti in un rapporto pubblicato in aprile dall’Ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni Unite sui diritti umani e dalla Missione Onu di appoggio in Libia. Tra una dichiarazione e l’altra il ministro trovi il tempo di leggerlo. Soltanto 41 pagine, in inglese. Si intitola Abuso dietro le sbarre: detenzione arbitraria e illegale in Libia. Un dipendente governativo arrestato senza imputazione nel 2011, e rilasciato nel 2016, ha affermato che le guardie “lo hanno violentato, frustato finché ha perso conoscenza, sospeso a testa in giù per ore e bruciato con un ferro rovente anche su schiena e genitali”. Risparmiamo il resto. È ancora più ripugnante. Nel 2017 si stimavano in 6.500 le persone detenute nelle prigioni ufficiali. Altre migliaia nelle mani di milizie. Il rapporto giudica l’uso della tortura usuale. Riferisce di confessioni fatte recitare ai prigionieri in tv esponendo a vendette le famiglie. Al precario embrione di governo che ha base a Tripoli non va negato appoggio. Ma sono orrori sui quali è un dovere non chiudere gli occhi. Né tacere. L’italiana fermata in Turchia: “Non sono libera, potrei restare in carcere sei mesi” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 27 giugno 2018 Il racconto al “Corriere” di Cristina Cattafesta, presidente della Ong Cisda: “Sono preoccupata, stanno per trasferirmi in un centro di deportazione”. Si complica la vicenda di Cristina Cattafesta, la presidente dell’Ong Cisda fermata domenica scorsa dalle autorità turche a Batman, nel sud est della Turchia, la regione a maggioranza curda. “Stanno per trasferirmi in un centro di deportazione a Gaziantep - dice al Corriere non appena avuta la notizia -. Sono di nuovo molto preoccupata, mi hanno detto che potrei rimanere lì per un’ora o per sei mesi. E tutto questo nonostante il giudice abbia deciso di non rinviarmi a giudizio per propaganda terroristica. Quindi sono innocente ma nonostante ciò non sono libera”. Cattafesta, 62 anni, era arrivata, insieme con il marito e altri due colleghi, a Diyarbakir, per osservare lo svolgimento delle elezioni presidenziali e parlamentari che si sono tenute domenica 24 giugno ma non aveva lo status per farlo. “In verità - ha spiegato l’avvocato Sirin Sen che è sempre stato pessimista sull’esito della vicenda - i quattro italiani sono entrati come turisti su invito del partito filo-curdo Hdp di Batman”. Durante una visita a un sito archeologico il gruppo era stato fermato dalla polizia per un controllo. A far scattare il fermo della donna è stata una foto pubblicata su Facebook di una manifestazione in cui sventolavano bandiere del Pkk, il Partito del Lavoratori del Kurdistan che è considerato un’organizzazione terrorista anche dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti. Di qui l’accusa di propaganda. Ieri Cattafesta aveva parlato brevemente con Radio Capital dopo la decisione del procuratore di non rinviarla a giudizio: “Sono libera - aveva detto - me la sono cavata con poco: una notte in carcere, dove sono stata trattata benissimo”. Una speranza che oggi è andata delusa: “Sono tre giorni che non mi lavo i denti non mi cambio le mutande e non ho accesso a nulla di mio. Non so cosa ne sarà di me” dice al Corriere. Il precedente del fotografo - Il caso di Cristina Cattafesta ricorda quello del fotografo francese Mathias Depardon che, lo scorso anno, è stato detenuto per un mese nel centro di deportazione di Gaziantep, lo stesso in cui sarà trattenuta la nostra connazionale. Per il suo rilascio dovette intervenire il presidente francese Emmanuel Macron. Sudan. Cancellata la condanna a morte per Noura Hussein, la sposa bambina di Marta Serafini Corriere della Sera, 27 giugno 2018 “Non volevo quell’uomo, io volevo solo studiare”. Non sarà impiccata Noura Hussein, la 19enne sudanese condannata a morte per aver ucciso il marito, cui era stata data in sposa contro il suo volere all’età di 16 anni a un cugino del padre. Noura era riuscita a sottrarsi scappando dalla zia. Poi, finita la scuola, l’inganno ordito dal padre e quelle nozze, durante le quali Noura piange per tutto il tempo. Mentre è seduta dal parrucchiere pensa al suicidio. “Io non volevo sposarmi, volevo continuare a studiare. Così dopo il matrimonio mi sono chiusa in camera, non mangiavo e non bevevo, non volevo che mi toccasse”, ha raccontato lei stessa. Di notte Noura prova a scappare ma il marito ha chiuso a chiave tutte le porte. Dopo nove giorni l’uomo chiama i rinforzi. “Sono arrivati tre suoi parenti. Mi hanno trascinato in camera da letto, mi tenevano per le gambe e la braccia mentre lui mi violentava”. Il giorno dopo l’uomo ci riprova, questa volta da solo. Ma Noura è decisa a resistere. Sotto il cuscino ha nascosto un coltello. “Mi sono difesa e l’ho colpito. Poi sono scappata dalla mia famiglia”. Noura corre dai genitori, arriva a casa sconvolta con ancora il coltello in mano. Invece di soccorrerla il padre la porta alla polizia e l’intera famiglia la disconosce. Nel maggio 2017 il tribunale della Sharia di Kharthoum applica una legge del 1991 e la condanna a morte per impiccagione. Per mesi lei rimane lì nel carcere di Omdurman, abbandonata da tutti. A consolarla le altre donne. Fino a quando il mondo si mobilita per lei. Appelli, firme, raccolte fondi. Anche le attrici di Hollywood scendono in campo. Il fenomeno dei matrimoni infantili è una piaga che secondo gli ultimi dati riguarda 12 milioni di ragazze ogni anno e che secondo il dossier InDifesa di Terre des Hommes vede il Sudan all’ottavo posto nel mondo per incidenza di matrimoni precoci. Fino ad oggi, quando da Khartoum arriva la bella notizia. L’incubo di Noura però non è finito. Ora rischia di scontare comunque 5 anni di carcere e di dover pagare una multa di oltre 337 mila dollari sudanesi, pari a 10 mila dollari Usa. “Gli avvocati hanno deciso di ricorrere in appello”, fa sapere al Corriere Sodfa Daaji della Gender Equality Committee e coordinatrice per il Nord Africa dell’Afrika Youth Movement. Sodfa ha 25 anni e viene dalla Tunisia. “Anche se Noura dovesse uscire non potrà sicuramente rimanere in Sudan, a causa delle vendette che potrebbe subire, ecco perché continueremo a seguire questo caso”, fa sapere. Noura dal carcere per il momento non ha commentato la notizia. Di lei resta la testimonianza raccolta dalla Cnn, in cui ad un certo punto, dopo aver narrato l’abuso tremendo cui è stata sottoposta, dice: “Io non volevo sposarmi, volevo studiare legge per fare il giudice”.