Dialogo aperto tra carcere e territorio: i circoli dell’Auser incontrano i detenuti Il Mattino di Padova, 26 giugno 2018 Un carcere aperto al territorio, agli studenti, alle parrocchie, alle persone della terza età è un carcere che aiuta a capire, e a fare prevenzione. Nella Casa di Reclusione di Padova, oltre a migliaia di studenti e molte comunità parrocchiali, entrano anche gruppi della terza età. La cooperativa sociale AltraCittà oltre che di lavoro (nella Casa di Reclusione circa 30 persone detenute impegnate) da sempre si occupa di tessere una relazione di reciproca conoscenza con il territorio e in particolare con i circoli Auser dell’Alta Padovana, Auser è un’associazione di volontariato e di promozione sociale, presente in tutto il territorio nazionale, impegnata nel favorire l’invecchiamento attivo degli anziani e valorizzare il loro ruolo nella società. La vita associativa è rivolta in maniera prioritaria agli anziani, ma è aperta alle relazioni di dialogo tra generazioni, nazionalità, culture diverse. Gli obiettivi sono: Aiuto alla persona e sostegno alle fragilità, contrasto alla solitudine (il Filo d’Argento, dotato di numero verde gratuito); Apprendimento permanente: le iniziative delle Università Popolari, dei circoli e dei centri culturali, per non smettere mai di conoscere; Turismo Sociale e Attività per il tempo libero, per una riappropriazione dei propri spazi di libertà, con il piacere di continuare a scoprire; Volontariato per la comunità, strumento quotidiano di cittadinanza attiva. La cooperativa AltraCittà prima incontra i circoli nel loro territorio e presenta la propria esperienza negli istituti penitenziari attraverso i propri operatori e la testimonianza di persone ex detenute ora soci lavoratori della coop. I membri dei circoli dialogano e pongono i loro quesiti in modo schietto, rivelando un forte desiderio di conoscere, e di mettere in discussione i luoghi comuni, che una informazione giornalistica spesso imprecisa e superficiale contribuisce a diffondere. A seguito di questo incontro, il circolo visita nella Casa di Reclusione i laboratori di lavoro della cooperativa e incontra le persone detenute. In questi anni AltraCittà ha tessuto relazioni di scambio e conoscenza con i circoli Auser di Piazzola sul Brenta, Campo San Martino e Curtarolo, Cittadella, Santa Giustina in Colle, Camposampiero, Villa del Conte, Tombolo. Il 7 giugno il circolo Auser di Vigodarzere ha visitato nella Casa di Reclusione di Padova i laboratori di AltraCittà e incontrato i detenuti di Ristretti Orizzonti. Si è trattato di un dialogo intenso in cui i soci Auser hanno chiesto di capire i percorsi che portano in carcere e aspetti della vita nei penitenziari e i detenuti hanno risposto mettendosi in gioco e raccontandosi, non solo in relazione al disagio del vivere in carcere, ma anche analizzando lucidamente gli errori che in carcere li hanno condotti. Quella che segue è la riflessione di un detenuto sull’incontro. Scontare una pena che abbia senso Ogni giorno nella Redazione di Ristretti Orizzonti si discute di come certa informazione molto spesso tenda a deviare il pensiero dei comuni cittadini dalla realtà dei fatti, questo è uno dei temi che noi detenuti abbiamo affrontato nel confronto con circa 25 signori e signore dell’AUSER, che ci hanno voluto incontrare conoscere e capire la vita detentiva, ascoltando non solo le istituzioni e i volontari che ogni giorno lavorano all’interno del carcere di Padova, ma anche i detenuti che vivono il carcere a 360° e più di chiunque altro possono esprimere la sofferenza, la solitudine e lo sconforto che persistono nei corridoi delle sezioni di un carcere. Questi signori/e avevano un’idea molto lontana dalla realtà, tanto da arrivare a dire che mai avrebbero pensato di avere un colloquio cosi umano e costruttivo con delle persone detenute, e di questo sono molto contento perché anche oggi abbiamo saputo dimostrare che non siamo quei “mostri” come tanto amano definirci molti politici, ma siamo persone che hanno sbagliato per scelte di vita non rispettose del pensiero comune di legalità e libertà, intraprendendo percorsi di vita disastrosi per noi stessi e soprattutto per gli altri. Ma quello che mi ha colpito di più di questo incontro è stata la domanda subito dopo la fine dell’incontro che mi ha rivolto uno di quei signori molto gentili: “Secondo te, se tornassi adesso libero, riusciresti a non fare gli stessi errori che hai fatto?”. Ho risposto di no, perché nonostante abbia passato molti anni dietro le sbarre di una squallida cella, buia e deprimente, non sono ancora cambiato in maniera tale da affrontare una vita “regolare”, dovrei essere ipocrita a dire il contrario anche se magari sarebbe più accettabile dalla società sentirsi dire “sono cambiato”, ma non sono un politico e non mi serve il consenso dei cittadini per guadagnare una poltrona, quindi non dirò mai quello che la gente vorrebbe sentirsi dire, ma dirò quello che alle persone può essere utile ascoltare, d’altronde chi vedendosi passare ogni singolo giorno di ogni singolo anno della propria gioventù in un luogo che tende ad annichilire la persona ed allontanarti dagli affetti più cari, contando i compleanni uno dopo l’altro dai ventuno anni fino ad oggi che sono a ridosso dei 30, chi non sarebbe arrabbiato? Oggi però sono riuscito a parlare e spiegare che questa mia affermazione doveva essere approfondita per capirne di più, ma per questioni di tempo non siamo riusciti a farlo, quindi cercherò di parlarne adesso mentre sono in questa squallida, buia e deprimente cella del carcere di Padova. Cambiare una mentalità testarda, ottusa, presuntuosa e tendenzialmente deviante come la mia non è facile e non si può pensare di farlo in pochi mesi, non è facile stravolgere il pensiero di un ragazzo cresciuto in ambienti, contesti e con persone prevaricatorie che ti istruiscono e ti formano in maniera granitica. Però per me oggi l’importante è essere riuscito ad iniziare un percorso diverso, e questo è già un passo abbastanza significativo che ho fatto e sono molto fiero di questo, perché penso che se non si inizia a fare qualcosa non si può mai finire, ed io ho iniziato questo percorso sperando di riuscire a finirlo ed essere una persona diversa da quella che sono stato fino adesso. Ma poi sorge un altro quesito: a cosa serve cambiare se devi passare tutta la vita dietro le sbarre? Questo è un altro tema che ha bisogno di essere approfondito, ma quello su cui voglio far riflettere è l’affermazione di un’altra signora: “Fuori dicono che voi detenuti venite pagati anche rimanendo in cella a non fare nulla”. È vero. Per i detenuti vengono spesi circa 3,50 euro al giorno cadauno per tre pasti quotidiani che l’amministrazione fornisce, colazione-pranzo-cena “gratis”, il costo di un panino al McDonald per tutti e tre i pasti, quindi immaginate la qualità e la quantità di cibo che viene distribuito, nei fatti se i familiari non hanno la possibilità di mantenerti (ed i miei lo fanno da otto anni) rischi di fare la fame e se per caso lavori a fine mese la prima cosa che devi pagare sono le spese di mantenimento che sono 108,50 euro al mese il totale di 31 pasti, quindi quello che l’opinione pubblica dovrebbe chiedersi è dove sono impiegati gli altri 251 euro che molti politici e altri personaggi dicono di stanziare per ogni singolo giorno per sostenere le spese di un detenuto, soldi che sicuramente non vanno nelle tasche dei ristretti. E infatti quella cifra comprende tutti i costi per gli stipendi del personale della Giustizia e per la gestione delle carceri. Quindi mi chiedo ancora se è giusto fare propaganda elettorale con quello che i cittadini vogliono sentire o se sarebbe più onesto dire quello che è utile per la società, cioè ricordare che un carcere umano e dignitoso è l’unico che può far uscire persone meno pericolose per la società stessa, ma il mio è il parere di un criminale, un rapinatore senza scrupoli che non ha mai rispettato le regole della vita civile, quindi non ha alcun peso né valore e la società si sente più sicura se rimarrò ancora in carcere per molto tempo, probabilmente fino all’ultimo dei miei giorni, ma sta di fatto che io credo dobbiate sapere che le persone possono cambiare non se “marciscono in galera”, ma se scontano una pena che abbia un senso e non risponda al male creando altrettanto male.. Giuliano Napoli “Con la scusa dell’art. 27”. Se la Costituzione è d’intralcio c’è da preoccuparsi camerepenali.it, 26 giugno 2018 Il venticello giustizialista e forcaiolo non trova più ostacoli e ormai soffia forte, travolgendo tutto e contagiando tutti. Anche la Costituzione deve farsi da parte. Principi fondamentali della democrazia, quali la “certezza della pena”, la “sicurezza dei cittadini”, i “diritti delle vittime”, vengono strumentalizzati e offerti distorti all’opinione pubblica, per un consenso corporativo che contribuisce ad allontanare la loro effettiva attuazione. Il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, in un documento diffuso per lamentare le carenza di organico e le difficoltà di lavoro all’interno del carcere di Taranto, si chiede chi siano i poliziotti e chi i detenuti asserendo che i diritti dei secondi sarebbero “iper-valutati” a dispetto di quelli dei primi. Noi penalisti vorremmo sapere, invece, in quella struttura carceraria e in tutte le altre, ormai “sovraffollate”, quali tra le tante persone detenute, sono gli arrestati, quali i “custoditi in attesa di processo” e quali i “detenuti” che scontano una pena definitiva, per conoscere quale trattamento “individualizzato” a costoro si applica, in ossequio al principio costituzionale, secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Ci tocca, invece, leggere che “con la scusa dell’art. 27 della Costituzione si allargano pericolosamente le maglie dei penitenziari”. Non si tratta di una svista. Il documento, al fine di attirare l’attenzione sulle condizioni degli agenti, afferma che si starebbero allargando le “maglie dei penitenziari”, dimenticando che è stato fatto fallire miseramente la riforma dell’ordinamento penitenziario, frutto del lavoro sinergico di tanti addetti ai lavori, che avrebbe potuto essere davvero una svolta in tema di sovraffollamento carcerario e di conseguenza ottenere l’obiettivo di carceri più adeguate per tutti (persone detenute e poliziotti) nel rispetto della Costituzione e delle leggi penitenziarie. Ma tant’è, questi sono i tempi ed il documento che si legge cerca di cavalcare quell’onda giustizialista che ormai pensa di “fare a meno della Costituzione” e in nome di una artefatta “urgenza” sotterrare principi costituzionali e prevedere sempre e comunque provvedimenti che soddisfino l’emotività popolare, ottenendo risultati opposti ai fini che si dice di voler perseguire. Ed allora, verrebbe da dire: Scusate se l’art. 3 prevede che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. Scusate se l’art. 24 prevede come inviolabile il diritto di difesa. Scusate se l’art. 27 affida alla rieducazione del condannato una funzione di recupero sociale idoneo ad assicurare, per davvero, la sicurezza dei cittadini attraverso la restituzione alla società di una persona migliore rispetto a quella che aveva sbagliato in precedenza. Quell’inciso “con la scusa dell’art. 27 della Costituzione” è un ulteriore campanello d’allarme di quanto dovremo aspettarci, perché a suonarlo è il Sindacato di coloro a cui è affidata una parte fondamentale dell’esecuzione della pena. Cosi scrivendo, infatti, non si comprende che con le misure alternative e la rieducazione del condannato si raggiungono più facilmente gli obiettivi della risposta sociale al delitto e della sicurezza dei cittadini; non si comprende che con un pena diversa dal carcere, con le misure alternative e un lavoro lecito, si rendono meno affollati gli istituti di pena (e quindi meno stressati gli agenti) e si fornisce una risposta seria al diritto delle vittime; non si comprende che stabilendo le diverse modalità di esecuzione delle pene adeguate alla persona del reo, si assicura una sanzione che ha effetto positivo sul condannato, ed effetti benefici sulla vittima e sulla collettività. E quel che è più grave è che tale assurdo capovolgimento arriva proprio da quegli “addetti ai lavori” che dovrebbero aver compreso, invece, meglio dei politici e dell’opinione pubblica, che la situazione - tragica per le persone detenute sottratte a qualsiasi garanzia di rieducazione ed indecente per agenti e poliziotti che si trovano ad operare nella continua emergenza dovuta al sovraffollamento - è proprio frutto di quel “carcere a tutti i costi” che si vuole assicurare sempre e comunque a imputati in attesa di giudizio e condannati, “ a dispetto dell’art. 27 della Costituzione”. La Giunta dell’Unione delle Camere Penali italiane L’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali italiane Quel patto di amore e di fiducia per aiutare il recupero dei detenuti di Veronica Manca* Il Dubbio, 26 giugno 2018 La testimonianza dell’ergastolano Carmelo Musumeci sull’importanza delle relazioni sociali. Il carcere va vissuto. Per poter scrivere e parlare di carcere, è indispensabile smuoversi dalle scrivanie ed entrarci: solo così si può avere una visione reale e consapevole di un mondo a se stante, una vera e propria comunità, scandita da regole, tempi e dinamiche, spesso impenetrabili e incomprensibili per i liberi; solo così si ha davvero l’occasione per vedere - con i propri occhi - la parte più oscura della società, quella che non vorresti mai conoscere, con cui non vorresti mai averci a che fare, se non nei film e in televisione. Questo comune sentire di avversione e rifiuto verso il carcere ha toccato anche me, la prima volta che ho varcato la soglia del carcere: e allora mi sono chiesta, cosa, invece, mi ha fatto tornare e mi fa tornare sempre con maggiore convinzione e determinatezza? La risposta è immediata e ruota attorno ad un unico e fondamentale concetto: la promessa d’amore verso i familiari delle persone detenute, patto che si rinnova, puntualmente ogni volta che tratto con il carcere e con le persone detenute. Dalla disperazione mista a confusione, sentimenti tipici di un bambino di appena due anni che si trovava in cella con la madre, inconsolabile, con un pianto pressoché ininterrotto, alla sofferenza di un padre di un figlio in carcere, orfano di madre, morta per una grave malattia degenerativa, con gli stessi sintomi iniziali, alla preoccupazione di una compagna per la situazione del proprio compagno in carcere, ridotto su una sedia a rotelle per la paralisi degli arti inferiori, allo strazio di un giovane ragazzo, fermamente convinto della propria innocenza al punto da tentare (per fortuna, con insuccesso) il suicidio in cella. A Carmelo Musemuci, noto ergastolano ora in semilibertà, autore di numerosi libri, con all’attivo molteplici collaborazioni: “Credo che la cosa che conta di più di tutto nella vita sia l’amore e che l’amore sia il metro per misurare tutte le cose. Penso che il desiderio d’amore è naturale e istintivo. E che l’affettività è da sempre considerata un diritto fondamentale. Per questo la pena dovrebbe privare le persone soltanto della loro libertà. Ormai sono tantissimi i Paesi nei quali sono permessi i colloqui intimi, persino paesi come l’Albania, considerato fanalino di coda dell’Europa. Credo che sia disumano il divieto di dare e ricevere una carezza o un bacio dalla persona che ami perché la mancanza di contatti intimi reca danni alla psiche e alla sfera emozionale”. Secondo Musemuci, il fulcro del suo cambiamento è da attribuirsi (oltre che alla sua grande forza di volontà) al contatto che è riuscito a mantenere nel corso della sua lunga pena con l’esterno e, in particolar modo, con la sua fedele compagna: “Ciò che mi ha migliorato e cambiato non è stato certo il carcere, ma l’amore della mia compagna, dei miei due figli, le relazioni sociali e umane che in tutti questi anni mi sono creato, insieme alla lettura di migliaia di libri di cui mi sono sempre circondato, anche nei momenti di privazione assoluta. Ed è proprio questo programma di auto-rieducazione che mi ha aperto una finestra per comprendere il male che avevo fatto e avere così una possibilità di riscatto. Molti non lo sanno, ma forse la cosa più terribile del carcere è accorgersi che si soffre per nulla. Ed è terribile comprendere che il nostro dolore non fa bene a nessuno, neppure alle vittime dei nostri reati. Spesso ho persino pensato che il carcere faccia più male alla società che agli stessi prigionieri perché, nella maggioranza dei casi, la prigione produce e modella nuovi criminali. Se a me questo non è accaduto è solo grazie all’amore della mia famiglia e di una parte della società”. La forza di tali sentimenti, così come la passione di tali persone sono la chiave di lettura che dovrebbe guidare l’operatore penitenziario, in senso lato inteso, nell’assistenza della persona detenuta (e dei suoi familiari): un patto di amore e di fiducia che involge, il detenuto con la famiglia, da un lato, e l’operatore sia con il detenuto sia con gli stessi familiari, per accompagnarli insieme dal punto di frattura (spesso insanabile, tra la persona detenuta e la famiglia oppure tra i familiari con la società esterna) al recupero di un equilibrio, improntato sulla correttezza, reciproca collaborazione, estrema pazienza e cautela, assenza di pregiudizi, nel rispetto delle regole della società (umana) civile, lungo un percorso di presa di coscienza delle proprie azioni, del passato, della situazione presente e delle prospettive reali future. La vicinanza (non solo territoriale) della famiglia - laddove c’è - è un punto centrale del percorso di reinserimento del detenuto nella società (in primis, nella sua piccola comunità familiare) e, per questo, i familiari spesso vanno seguiti più di quanto si possa fare giuridicamente con la persona detenuta: fondamentali, su questo fronte, sono le numerosissime (eppure, non ancora abbastanza note) iniziative delle associazioni di volontariato che aiutano le famiglie (soprattutto, se con minori) alla preparazione emotiva per il momento del colloquio con il membro della famiglia ristretto (volontariatogiustizia.it). Di fondale importanza risultava, quindi, l’approvazione definitiva della riforma penitenziaria, come prosecuzione di un percorso di cambiamento, suggerito anche dal Tavolo 6 “Mondo degli affetti e territorializzazione della pena”, degli Stati generali dell’esecuzione penale, che puntava all’introduzione di una nuova ipotesi di permesso, denominato “Permesso di affettività”. Con tale proposta, si intendeva introdurre gradualmente la possibilità che i detenuti potessero usufruire di permessi “speciali”, finalizzati al godimento della propria sfera affettiva, anche sessuale, con ciò dando un espresso riconoscimento al c. d. diritto sommerso della sessualità: per non ridurre, in ogni caso, l’importanza della riforma alla sola sfera sessuale, i lavori del gruppo di esperti miravano a potenziare la più ampia dimensione affettiva, la cui valutazione deve necessariamente contraddistinguere ogni singolo percorso trattamentale, variando, a seconda del caso, dalla situazione e dalla storia personale del detenuto. Di rilievo, perché in linea con le soluzioni già adottate in Europa, da Germania, Norvegia e Olanda. Di pregio, risultava, inoltre, la proposta di prevedere la possibilità che i colloqui - innanzitutto venissero effettuati sotto la mera “sorveglianza” e non a vista come oggi si prescrive - potessero essere svolti anche presso locali appositamente adibiti all’interno della struttura penitenziaria, senza il diretto controllo degli agenti della polizia penitenziaria. Sulla base, quindi, di tali modifiche si sarebbe potuto riscrivere una parte importante dell’ordinamento penitenziario direttamente funzionale a valorizzare la sfera affettiva nel processo di individualizzazione del trattamento penitenziario. La mancata attuazione della riforma rappresenta, dunque, un passo indietro rispetto a forme di garanzia che non avrebbero tutelato solo (e tanto) il detenuto, quanto i familiari e gli affetti (ovverosia la società dei liberi) a cui viene addebitata automaticamente ed irreversibilmente una colpa non propria. In galera per droga. Tossicodipendente un carcerato su quattro di Nadia Ferrigo La Stampa, 26 giugno 2018 Libro bianco sulle droghe delle associazioni Abele, Antigone e Coscioni “Boom di denunce, quadruplicano i minori sanzionati”. Sfiorano il raddoppio le segnalazioni per consumo di sostanze stupefacenti, quadruplicano i minori sanzionati. In otto casi su dieci per derivati dalla cannabis. Nella nona edizione del Libro bianco sulle droghe, presentato questa mattina a Roma e prodotto di un lavoro collettivo di diverse associazioni tra cui Luca Coscioni, Antigone e Gruppo Abele, i numeri raccontano come il consumo di droghe, soprattutto tra i più giovani, è in costante aumento. Dal 1990 sono state segnalate per possesso di sostanze stupefacenti a uso personale 1.214.180 persone, di queste 884.044 per derivati della cannabis. Su 38.613 segnalati al Prefetto per consumo di sostanze illecite nel 2017 - erano 27.718 nel 2015 - nell’80% dei casi si tratta di consumatori di cannabinoidi, a seguire di cocaina (14%) ed eroina (5%) e, con percentuali minime e frammentate, altre sostanze. Cresce anche il numero delle sanzioni - dalle 13.509 del 2015 alle 15.581 del 2017 - ma resta irrilevante la vocazione terapeutica della sanzione amministrativa: solo 86 persone sono state sollecitate a seguire un programma di trattamento socio sanitario. Classifiche e record - L’Italia è il terzo Paese in Europa dove si consuma più cannabis: si stima che il 33,1% della popolazione l’abbia usata almeno una volta nel corso della vita, una percentuale inferiore solo a Francia (41,4%) e Danimarca (38,4%). Se si considera la sola fascia d’età dai 15 ai 34 anni, l’Italia è al secondo posto: si stima che il 20,7% ne abbia fatto uso nei dodici mesi precedenti all’ultima indagine condotta in merito, nel 2017, contro il 21,5% della Francia. Secondo l’ultimo rapporto europeo pubblicato, l’Italia è il quarto paese per uso di cocaina tra quelli dell’Unione Europea, con il 6,8% delle persone con età compresa tra i 15 e i 34 anni che ne ha fatto uso almeno una volta, preceduta da Regno Unito, Spagna e Irlanda. Un quarto della popolazione detenuta - 14.706 su 57.608 persone - è tossicodipendente. Un aumento registrato dal Libro bianco dopo il picco nel 2007 con l’applicazione della legge Fini-Giovanardi (era al 27%) poi riassorbito a seguito di una serie di interventi legislativi. È record anche degli ingressi in carcere di persone con uso problematico di sostanze, che arriva al 34%. Su 48.144 ingressi, 14.139 sono stati causati da imputazioni per detenzione ai fini di spaccio, cioè per l’articolo 73 del Testo Unico sulle sostanze stupefacenti. Altri 4.981 in associazione con l’articolo 74, cioè finalizzata al traffico illecito, 976 esclusivamente per l’articolo 74. Aumentano cioè i possessori - con un più 8% - mentre restano stabili i dati relativi ai consorzi criminali. Come indicato dalle simulazioni, in assenza di detenuti per la violazione dell’articolo 73 non ci sarebbe il problema del sovraffollamento carcerario. Se poi si analizzano i numeri delle misure alternative dedicate, sul totale dei detenuti tossicodipendenti solo 3.146 sono ammessi all’affidamento in prova speciale per alcool e tossicodipendenza. Nessuna politica di riduzione - Nei dati ufficiali raccolti sono del tutto assenti le cosiddette politiche di riduzione del danno, come stanze del consumo e servizi di consulenza per un uso più sicuro, che invece rappresentano uno dei pilastri delle politiche pubbliche europee. Dal 2009 al 2013 il dipartimento Antidroga ha finanziato ricerche in campo farmacologico e neurobiologico per più di un milione e mezzo di euro, ma, denunciano le associazioni, “Nessuna ricerca psicosociale risulta essere stata portata avanti dallo stesso dipartimento, impedendo di studiare nuove politiche capaci di affrontare i nuovi modelli di consumo, sempre più graduati e complessi”. “Le comunità terapeutiche sono rimaste le stesse, nei decenni. Parlare di uso consapevole resta un’eresia. Nel Regno Unito, per esempio, nelle scuole si spiega quali sono le sostanze, quali sono gli effetti delle dosi e delle combinazioni. Ai nostri ragazzi non si parla mai di droghe, la volontà di informare è lasciata ad alcune associazioni”, denuncia Marco Perduca, membro dell’Associazione Luca Coscioni e coordinatore di legalizziamo.it. “C’è una legge che impone di organizzare una conferenza nazionale sull’uso delle droghe ogni tre anni, ma l’ultima è stata convocata nel 2009”. “Per questo chiediamo un sottosegretario con delega “alle droghe”, che possa concentrarsi su un tema così complesso” conclude Perduca. 41bis, quel divieto d’iscrizione al Partito Radicale e a Nessuno tocchi Caino agenziaradicale.com, 26 giugno 2018 A quanto pare tra le misure restrittive previste per chi è in regime di carcere duro del 41 bis c’è anche il divieto di spedire lettere a congiunti con l’indicazione di sostenere a proprio nome un partito e/o un’associazione notoriamente impegnate per portare il sistema carcerario sui binari della civiltà, dello stato di diritto, della legalità. Secondo una sentenza della Corte Suprema di Cassazione, che conferma le decisioni, prima, del Magistrato di Sorveglianza di Novara, poi, del Tribunale di Sorveglianza di Torino, siffatta spregiudicata iniziativa sarebbe vietata da una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) per sedicenti motivi di sicurezza del carcere. La decisione ha riguardato Giuseppe Falsone, detenuto sottoposto al 41 bis, che si è visto bloccare per l’appunto una missiva nella quale chiedeva a una sua congiunta di inviare 200 euro per l’iscrizione al Partito Radicale e/o a Nessuno tocchi Caino. Come ricostruisce Il Dubbio, “per bloccare la corrispondenza - ha ribadito la Corte Suprema - “non è necessaria la prova della commissione di reati o della pericolosità della missiva, ma è sufficiente il ragionevole timore di un pericolo per l’ordine e la sicurezza degli istituti”. I giudici hanno fatto notare che “la circolare del Dap aveva vietato rapporti epistolari fra detenuti sottoposti al 41 bis e un’associazione, al fine di evitare l’insorgere di proteste da parte della popolazione detenuta”. A questa disposizione i supremi giudici non hanno mosso rilievi perché, come appunto hanno ribadito, è “dettata da ragioni di sicurezza e di ordine nelle carceri in aderenza a quanto permesso dall’ordinamento penitenziario”. Per Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti si tratta di una “sentenza inaudita e senza precedenti, che dice l’opposto di quel che siamo e che nega tutto ciò che abbiamo fatto in questi anni”. “Non sappiamo - affermano in un comunicato rispettivamente il Presidente, il Segretario e la Tesoriera di Nessuno tocchi Caino - a quali circolari i magistrati di sorveglianza piemontesi e i giudici della Cassazione facciano riferimento, quel che sappiamo è che, in questi anni, noi di Nessuno tocchi Caino, come Marco Pannella in tutta la sua vita, non abbiamo fatto altro che convertire ai connotati del Partito Radicale, alla nonviolenza, allo stato di diritto e alla legalità costituzionale le carceri e l’intera comunità penitenziaria. Se nelle carceri non vi sono più rivolte dei detenuti, ma sempre più scioperi della fame per far valere i propri diritti, è anche grazie al Partito Radicale e Nessuno tocchi Caino. Questa radicalizzazione nonviolenta, positiva e costruttiva continueremo a perseguirla, anche per aiutare lo Stato, l’amministrazione della giustizia e penitenziaria ad avere successo sugli imprenditori della paura che si illudono di poter risolvere le emergenze - sconfiggere la mafia, la violenza e il fanatismo - con la terribilità, contrapponendo al terrore un terrore uguale e contrario, derogando ai principi fondamentali dello Stato di Diritto e di Diritti Umani”. Giustizia? Parliamone sottovoce di Fausto Cerulli orvietonews.it, 26 giugno 2018 Nelle linee programmatiche del nuovo governo nessun accenno alla giustizia. Eppure la giustizia, o meglio talvolta, l’ingiustizia, resta uno dei problemi insoluti della nostra società. Ma è un problema che interessa poco e pochi, come i detenuti in detenzione preventiva, con buona pace del dettato costituzionale sulla presunzione d’innocenza, rovesciata in presunzione di colpevolezza, meritevole come tale di una carcerazione del tipo hai visto mai che lasciamo libero un delinquente, anche se nessun giudice ha stabilito trattarsi di un delinquente. E questa anomale situazione riguarda per lo più persone che non appartengono all’ Europa. Segno questo di razzismo anche nell’amministrazione della giustizia. I colletti bianchi seguitano a restare a piede libero anche se hanno derubato mezza Italia, e nella peggiore delle ipotesi, per loro, se ne stanno agli arresti domiciliari nelle loro ville con piscina e vista panoramica. Di questo anche noi avvocati poco ci occupiamo. Sia perché i colletti bianchi pagano bene con il denaro rubato ai cittadini onesti, sia perché, altro rovescio della medaglia, gli extracomunitari pagano poco o niente, e dunque a loro spetta un distratto avvocato d’ufficio, compensato comunque dallo Stato per non far niente e in qualche caso anche per far danno. Intanto qualche giudice, per passare il tempo, scrive libri per parlar male dei colleghi o per rovistare negli archivi della cronaca giudiziaria per fare rivelazioni importanti su processi di un secolo fa. Quando non decide che è meglio entrare nella Camera dei Deputati piuttosto che in camera di consiglio. Abbiamo un codice di procedura civile che consente di far durare i processi cinque anni solo in primo grado, dieci in appello, e quindici prima che si pronunci la Suprema. E un codice di procedura penale feroce con i deboli, e cauto con i benestanti, i cui delitti, quando vengono almeno perseguiti, finiscono in prescrizione. Alle itale genti poco importa della giustizia, almeno fino a quando non ne sono coinvolti. E questo non desta troppa meraviglia: quello che meraviglia, se ancora vale la pena di meravigliarsi, è la noncuranza della nostra classe politica, senza distinzione di colore, nei confronti di questo pur enorme problema. Qualche volta gli scioperi della fame e della sete di Pannella, riuscivano per qualche giorno a risvegliare le coscienze addormentate. Ora anche Pannella ha smesso di disturbare, e se qualcuno vuole sentir parlare di giustizia, di detenuti o di giudici, deve per forza o ver fortuna ascoltare Radio Radicale, che si permette, horribile dictu, di dare voce persino ai detenuti. Per il resto, silenzio assoluto. I grandi mezzi di comunicazione, occupati a scrivere o parlare di beghe politiche, non hanno tempo da sprecare per il problema giustizia. O lo fanno soltanto quando è in ballo q alche processo importante o semplicemente pruriginoso. Questa mancanza di interesse per la giustizia dovrebbe preoccupare anche e soprattutto la classe forense, se essa non fosse troppo spesso una lobby, una specie di casta riservata a pochi eletti da Dio. In queste condizioni della nostra giustizia, forse dovrebbe dire qualcosa di concreto Mattarella, se non altro perché dovrebbe presiedere il Consiglio Superiore della Magistratura, dovrebbe, perché in questa materia è Presidente del Csm soltanto nelle cerimonie ufficiali. E se qualche volta l’Europa sanziona il nostro Paese per lo stato pietoso della nostra giustizia, poco importa: le sanzioni le scontano i contribuenti. Giustizia. Rivoluzione Bonafede: esclude le correnti e decide sulle nomine di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 26 giugno 2018 Niente “consultazioni” con la magistratura associata. Nella scelta dei più stretti collaboratori, Alfonso Bonafede ha interrotto una “tradizione” che andava avanti da diversi decenni. Il Guardasigilli pentastellato ha, infatti, effettuato nei giorni scorsi le nomine apicali degli Uffici di diretta collaborazione e dei capi Dipartimento al Ministero senza consultazioni preventive con i vari vertici dei gruppi associativi della magistratura. Prima di lui, quando un nuovo ministro si insediava a via Arenula, la prassi era che le correnti, tramite i loro referenti, venissero consultate sul tema delle nomine. I capi corrente indicavano i loro desiderata. Le scelte finali si indirizzavamo su nomi di punta dell’associazionismo che avevano dato prova di stretta adesione alla corrente in altre funzioni di assoluto rilievo, oppure su una sorta di successione originata da una designazione per “facta concludentia”. Bonafede, in linea con l’indirizzo di cambiamento uscito dalle urne del 4 marzo, ha rotto questa consuetudine non scritta ma, tuttavia, vincolante. Si vocifera nei corridoi di via Arenula che siano stati valutati i curricula e siano stati interrogati personalmente dal ministro i vari candidati. Iter che non ha ignorato gli uscenti in odore di riconferma. Scopo delle domande anche quello di vagliare il livello di autonomia e indipendenza dell’aspirante rispetto all’associazionismo correntizio. La stessa nomina di Fulvio Baldi a capo di gabinetto ha, di fatto, spiazzato i vertici di Unicost. L’ex sostituto pg della Cassazione, pur aderente alla corrente di centro delle toghe, non ne rappresenta un esponente in prima linea. Lo screening ha premiato come vice capi di gabinetto Leonado Pucci, giudice del lavoro ad Arezzo, e Gianluca Massaro, giudice a Siena. Al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), ruolo chiave della politica del M5S sul carcere, è stato nominato Francesco Basentini, procuratore aggiunto a Potenza. Suo vice sarà Lina Di Domenico, magistrato di sorveglianza a Novara. Capo dell’Ispettorato sarà Andrea Nocera, attualmente al Massimario della Cassazione. Come vice avrà Liborio Fazi, giudice a Palmi. Come capo degli Affari di Giustizia, Giuseppe Corasaniti, sostituto pg in Cassazione. Vice sarà Marco Nassi, pm a Grosseto. Mauro Vitiello, altro sostituto pg in Cassazione è il nuovo capo dell’ Ufficio legislativo. Confermate Gemma Tuccillo e Barbara Fabbrini, rispettivamente al Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità e al Dipartimento per l’organizzazione del personale e dei servizi. Nessun incarico, al momento, per il pm antimafia Nino Di Matteo, da sempre apprezzato dai vertici del M5S che vedevano in lui il futuro Ministro della giustizia. “Non mi sento di criticare aprioristicamente le più recenti scelte del ministro Bonafede che mi riservo di valutare esclusivamente sulla base dei risultati. Peraltro conosco ed apprezzo taluni dei magistrati. Faccio rilevare che per la prima volta non viene garantito il tradizionale pluralismo di presenze rappresentative di tutte le anime della magistratura, discriminando in particolare quelle più liberali e garantiste”, ha scritto l’ex consigliere del Csm Pierantonio Zanettin e attuale parlamentare di Forza Italia. La nuova procedibilità a querela non blocca la prescrizione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 giugno 2018 Corte di cassazione, Sezioni unite penali, informazione provvisoria del 21 giugno 2018. Arrivano le prime indicazioni delle Sezioni unite penali sull’estensione della procedibilità a querela. Con dispositivo, reso noto solo attraverso informazione provvisoria, sono stati forniti due chiarimenti sulla disciplina della fase transitoria. Innanzitutto è stata data risposta negativa alla domanda sulla necessità di avvisare la persona offesa della necessità di presentare la querela anche quando il ricorso è stato giudicato inammissibile. E sempre con un no le Sezioni unite hanno risposto sulla sospensione della prescrizione durante i 90 giorni che trascorrono dall’avviso dato alla persona offesa per l’eventuale esercizio del diritto di querela. Nel primo caso, anche se le motivazioni saranno rese note solo tra qualche tempo, le Sezioni unite hanno evidentemente sposato la tesi dell’assenza di una valida costituzione del rapporto processuale. È vero che l’articolo 609 comma 2 del Codice di procedura penale ha ampliato lo spazio di cognizione del giudizio di Cassazione, rendendo possibile l’esame delle questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo, come per quanto riguarda le cause di non punibilità, ma, tuttavia, nell’ipotesi in cui l’impugnazione è inammissibile, deve essere questo elemento a prevalere, azzerando i poteri del giudice di rilevarle d’ufficio. Per quanto riguarda la prescrizione poi, si tratta di una questione che la stessa ordinanza di rinvio qualifica come di “particolare rilevanza”, visto che spesso la scadenza del termine massimo di prescrizione per i processi fissati è imminente rispetto all’udienza di trattazione. Per le Sezioni unite, non è possibile un’interpretazione estensiva della disciplina della sospensione al di fuori della tassatività delle ipotesi previste dall’articolo 159 del Codice di procedura penale. E questo malgrado la forte perplessità che traspare dall’ordinanza di rinvio, tutta tesa a sottolineare come l’autorità giudiziaria, nei 90 giorni a disposizione della persona offesa per presentare querela, viene a trovarsi in una situazione di stallo. “In questo periodo infatti l’azione penale resta sospesa in una sorta di limbo processuale e, con essa, lo snodarsi del relativo procedimento logico corollario di tale situazione dovrebbe consistere nella sospensione del tempo utile a prescrivere fino alla eliminazione di tale fattore di blocco”. Guida in stato di ebbrezza è aggravante dell’omicidio stradale. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 26 giugno 2018 Configurabile il reato complesso e non il concorso. Reati - Delitti contro la persona - Delitti contro la vita e l’incolumità individuale - Omicidio stradale - Lesioni personali stradali gravi o gravissime - Guida in stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psico-fisica per assunzione di stupefacenti - Qualificazione - Circostanze aggravanti - Contravvenzione di cui all’art. 186, comma 2 e 2-bis, C.d.s. - Concorso - Esclusione. La condotta di guida in stato di ebbrezza o di alterazione psico-fisica in seguito all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope, costituisce circostanza aggravante dei delitti di omicidio stradale e di lesioni personali stradali gravi o gravissime, introdotti dalla L. n. 41/2016, rispettivamente agli artt. 589-bise 590-bis c.p., dovendosi escludere, in applicazione della disciplina del reato complesso, che gli stessi possano concorrere con la contravvenzione di cui all’art. 186, comma 2 e 2-bis, Codice della strada. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 12 giugno 2018 n. 26857. Reati stradali - Artt. 589-bise 590-bis c.p. - Autonome figure di reato - Concorso di reati - Esclusione - Reato complesso - Configurabilità. In tema di reati stradali, nel caso in cui si contesti all’imputato di essersi, dopo il 25 marzo 2016 (data di entrata in vigore della legge n. 41 del 2016), posto alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza e di avere in tale stato cagionato, per colpa, la morte di una o più persone - ovvero lesioni gravi o gravissime alle stesse - dovrà prendersi atto che la condotta di guida in stato di ebbrezza alcolica viene a perdere la propria autonomia, in quanto circostanza aggravante dei reati di cui agli artt. 589-bis, comma 1, e 590-bis, comma 1, cod. pen., con conseguente necessaria applicazione della disciplina sul reato complesso ai sensi dell’art. 84, comma 1, cod. pen., ed esclusione invece dell’applicabilità di quella generale sul concorso di reati. Stessa soluzione nel caso di guida in stato di alterazione psico-fisica conseguente all’assunzione di sostanza stupefacente o psicotropa. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 12 giugno 2018 n. 26857. Omicidio - Stradale - Nuova disciplina - Attenuanti generiche, equivalenti all’aggravante di cui al previgente terzo comma dell’art. 589 c.p. - Applicabilità del comma 7° dell’art. 589 bis c.p.- Esclusione. Il reato di omicidio stradale, introdotto dall’art. 1, comma 1°, della legge 23 marzo 2016 n. 41, costituisce una figura autonoma di reato e non una fattispecie circostanziata del comune reato di omicidio colposo, la cui applicabilità come norma sopravvenuta più favorevole nel caso di cui al comma settimo (che prevede la riduzione fino alla metà della pena ordinaria della reclusione da due a sette anni “qualora l’evento non sia esclusiva conseguenza dell’azione o dell’omissione del colpevole”) non potrebbe tuttavia aver luogo nell’ipotesi che siano state riconosciute al colpevole le attenuanti generiche, valutate come equivalenti all’aggravante di cui all’allora vigente terzo comma dell’art. 589 c.p., giacché per effetto di tali attenuanti la pena minima applicabile sarebbe quella di mesi sei di reclusione, prevista per il reato non aggravato dal primo comma di detto ultimo articolo, mentre quella applicabile ai sensi del comma VII dell’art. 589 bisserebbe quella di mesi otto. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 14 giugno 2017 n. 29721. Circolazione stradale - Reati ex artt. 589bise590bis c.p. - Fattispecie autonome di reato. Le fattispecie di omicidio stradale e lesioni personali stradali gravi e gravissime, introdotte dall’art. 1 della legge 23 marzo 2016, n. 41, costituiscono fattispecie autonome e non ipotesi aggravate dei reati di omicidio colposo e lesioni colpose. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 14 giugno 2017 n. 29721. Circolazione stradale - Sinistro - Omicidio colposo - Lesioni personali - Guida in stato di ebbrezza - Circostanze aggravanti - Condanna - Presupposti - Legge n. 41 del 2016 - Criteri. Va ribadita la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale, ai sensi dell’articolo 589, comma 3, del C.p. vigente sotto la legge 24 luglio 2008, n. 125, in caso di omicidio colposo o di lesione colposa e di contemporanea violazione delle norme sulla circolazione stradale, non si configura un’ipotesi di reato complesso, ma un mero concorso tra il delitto e la contravvenzione, con conseguente inapplicabilità della disposizione di cui all’articolo 84 del codice penale. In caso di applicazione della nuova legge 23 marzo 2016 n. 41, invece, lo schema del reato complesso potrebbe emergere dalla nuova formula normativa, tanto per l’esplicita qualificazione in termini di circostanze aggravanti dei commi dell’articolo 589-bis del Cp successivi al primo, quanto per la più evidente (anche se non perfetta) coincidenza tra le ipotesi in questione e quelle previste dal codice della strada. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 18 gennaio 2017 n. 2403. Se la “certezza della pena” produce altra criminalità di Carmelo Musumeci liberarsi.net, 26 giugno 2018 Nuovo digiuno per l’abolizione dell’ergastolo, martedì 26 giugno 2018. Probabilmente le maggioranze politiche, e quella del Paese, sono contrarie all’abolizione dell’ergastolo, ma la storia è piena di maggioranze che sbagliano. Essere in molti non significa di per sé che si abbia ragione. (Associazione Liberarsi) L’Associazione Liberarsi ha sempre sostenuto la campagna contro il carcere a vita e per questo ha indetto il terzo giorno di digiuno nazionale per martedì 26 giugno 2018, data in cui l’ONU dedica una giornata alle vittime della tortura, quindi anche ai detenuti condannati alla pena dell’ergastolo. Ancora una volta stiamo cercando di coinvolgere il maggior numero di persone interessate, le associazioni di volontariato, i nuovi parlamentari e/o chi si occupa di politica attiva, i centri sociali, esponenti della magistratura, dell’università, delle camere penali, uomini e donne di tutte le chiese, fedi religiose e movimenti spirituali, intellettuali, personaggi del mondo dello spettacolo e dell’informazione. La campagna #campagnadigiunaperlavita#9999#noergastolo#26giugno2018 deve avere l’appoggio di tanti cittadini e cittadine, per diffondere il no contro il carcere a vita. È importante che i digiuni abbiano un ritmo, date precise, per non dimenticare, per scuotere le coscienze, per sensibilizzare l’opinione pubblica, per mettere in luce la situazione reale di tutti gli ergastolani. La pena dell’ergastolo ti toglie tutto, persino la possibilità di morire una volta sola, perché si muore un po’ tutti i giorni, e ti uccide più della pena di morte, lasciandoti in vita il corpo, ma ammazzandoti l’anima. Mi è capitato di leggere il contratto di governo M5S-Lega sulla giustizia e sono rimasto perplesso di fronte al programma di costruire nuovi istituti penitenziari, perché nei Paesi in cui ci sono pochi carceri ci sono anche meno delinquenti. Non citerò i dati sulla recidiva, ma per esperienza personale penso che il carcere in Italia non fermi né la piccola né la grande criminalità, piuttosto la produca. E questo probabilmente perché quando vivi intorno al male non puoi che farne parte. Penso che spesso non siano i reati commessi a far diventare una persona criminale, bensì i luoghi in cui è detenuta e gli anni di carcere che vengono inflitti. Si vuole assumere nuovo personale di Polizia, ma siamo il paese nel mondo che, in rapporto al numero di detenuti, ha più agenti penitenziari. Credo che sarebbe meglio se in carcere ci fossero più educatori, psicologhi, psichiatri, insegnanti o altre figure di sostegno. Si prospetta anche la revisione della ‘sorveglianza dinamicà e del regime penitenziario ‘aperto’, ma come si fa a migliorare stando chiusi in una cella, sdraiati in una branda guardando il soffitto 22 ore su 24? Credo che si dovrebbe stare molto attenti al trattamento delle persone in carcere, perché quando usciranno, molto probabilmente, saranno diventate più devianti e criminali di quando sono entrate. E odieranno la società e le istituzioni ancora di più, per averle fatte diventare dei “mostri”. Io penso che il carcere, così com’è oggi, non dia risposte, il carcere è una non risposta, il carcere è il male assoluto. Non si può educare una persona tenendola all’inferno. La si può solo punire, farla soffrire, distruggerla, e dopo di questo anche il peggiore assassino si sentirà innocente. Solo un carcere aperto e rispettoso della legalità può restituire alla società dei cittadini migliori. Si propone pure la rivisitazione delle linee guida sul carcere duro del “41-bis”. Sinceramente non credo che più di così si possa peggiorare questo terribile regime detentivo di tortura. Comunque, per sconfiggere la mafia non ci si dovrebbe accontentare solo di murare vivi i mafiosi ma, piuttosto, si dovrebbe voler migliorare i loro cuori e le loro menti. E per fare questo si hanno più possibilità di riuscita trattandoli con umanità. Seppellirli vivi non serve poi molto, se non a farli diventare agli occhi di qualcuno dei martiri o degli eroi. Lo so, la stragrande maggioranza dei politici è d’accordo solo su una cosa: riempire le carceri come delle scatole di sardine e usare l’emergenza criminalità per continuare a prendere voti. L’idea più terribile che ho letto in questo contratto di governo M5S-Lega è l’affermazione anticostituzionale di “Certezza della pena”. Molti non sanno che la nostra Carta Costituzionale, scritta soprattutto da partigiani che sono stati detenuti nelle carceri fasciste, prevede che la pena abbia principalmente lo scopo di tendere alla rieducazione, quindi qualsiasi pena detentiva non può e non deve essere certa quando ha esaurito la sua funzione rieducativa. In tutti i casi, la certezza della pena non è assolutamente un deterrente e non spaventa proprio nessuno: i terroristi continuerebbero a farsi saltare in aria, alcune persone ad uccidere moglie o figli, i mafiosi ad essere mafiosi e alcuni politici continuerebbero a rubare. Attualmente chi sconta la pena fino all’ultimo giorno esce arrabbiato e convinto di avere pagato il suo debito con la giustizia. Credo che i politici che per consenso elettorale invocano a gran voce la “certezza della pena” non facciano gli interessi di chi li ha eletti, ma facciano piuttosto, senza volerlo, gli interessi della criminalità, perché i suoi adepti in carcere non sono stimolati a cambiare. Verona: parlamentari in visita a Montorio “sovraffollamento e igiene prime criticità” di Enrico Presazzi Corriere di Verona, 26 giugno 2018 L’impegno dei deputati a sottoporre la questione alla Commissione Giustizia. “Un po’ deluso”. Il parlamentare vicentino della Lega Nord Germano Racchella varca il cancello del carcere di Montorio insieme alla collega trevigiana Marica Fantuz e al segretario regionale del sindacato di polizia penitenziaria Uilpa, Leonardo Angiulli, e commenta con queste parole la sua prima visita in un istituto detentivo. “Le criticità ormai sono note - ricorda il vice segretario regionale Uil-Pa Mauro Cirelli al fianco di Andrea Fraccascia della segreteria provinciale del sindacato. Gli agenti lavorano in un ambiente con scarse condizioni igieniche, con mezzi non revisionati e un’automatizzazione (si parla soprattutto dei cancelli) di fatto rimasta sulla carta. Qui a Montorio l’indice di affollamento si attesta al 160%: attualmente vi sono 505 detenuti, di cui 296 stranieri; a fronte di una capienza regolamentare di 336 ospiti”. I sindacalisti sono i primi a ricordare che vi sono stati periodi peggiori (“Si è arrivati a superare quota mille”), ma lanciano un grido d’allarme: “Le aggressioni ai danni del personale sono state 51 nel 2017 e già 27 dall’inizio dell’anno”. “L’agente deve fare anche da fratello, da confidente, da psicologo - riflette Fantuz. Dopo questa visita posso dire che non sono messi nelle condizioni di poter lavorare serenamente”. Per il sindacato, non si tratta di un problema di carenza di organico. E quando si domanda se vi siano stati problemi dovuti all’assenza dei colleghi che si sono candidati alle ultime elezioni amministrative godendo di 30 giorni di aspettativa retribuita, la risposta è netta: “I problemi arrivano adesso con il periodo delle ferie estive. I colleghi candidati hanno agito nel rispetto della legge”. Il segretario Angiulli ricorda il fallimento dell’introduzione del “regime aperto” per i detenuti successivo alla celebre sentenza-Torreggiani della Corte europea dei diritti dell’uomo: “Ha creato più problemi agli operatori e non ha risolto il problema del sovraffollamento”. La deputata Fantuz precisa: “Il rapporto è spesso quello di una guardia per circa 50 detenuti. È facile immaginare chi può avere la meglio nel caso in cui scoppi anche la minima discussione”. Già, ma che fare allora? Il sindacato è pronto a inviare una relazione al provveditorato regionale. Ma i parlamentari promettono l’impegno del nuovo governo: “Il contratto di governo prevede anche una risistemazione della giustizia e il sistema carcerario ne fa parte in toto. Parleremo presto con i nostri colleghi della commissione Giustizia per fare in modo di migliorare le cose”. Torino: alle donne vittime di violenza domestica un “kit di sopravvivenza” La Repubblica, 26 giugno 2018 Un borsone con accappatoio, asciugamani, canottiera, pigiama, pantofole, tre cambi di slip e di calze, e anche fazzoletti di carta e assorbenti: alle donne che hanno il coraggio di denunciare le violenze subite in famiglia sarà subito consegnato un kit di prima necessità con tutto l’occorrente per non tornare a casa. Succede a Torino e l’iniziativa è del club Soroptimist, che l’ha realizzata con il patrocinio del Consiglio regionale del Piemonte dove oggi è stato presentato il progetto. Nel kit c’è anche una trousse con l’occorrente per l’igiene, che contiene bagnoschiuma, shampoo e saponetta, spazzolino e dentifricio, cotton fioc e dischetti di cotone, spazzola, latte detergente, creme per il viso e per il corpo. Le borse saranno consegnate alle vittime di violenza nella stessa stanza dedicata ad accogliere le denunce al comando della Polizia municipale torinese, in via Bologna. Quando gli operatori, appositamente formati, capiranno che il rischio è alto, cercheranno di convincere la donna a non tornare a casa. In attesa dell’intervento dei servai sociali la vittima sarà ospitata in un albergo sicuro. La vicepresidente del Consiglio regionale, Angela Motta, ha sottolineato come nell’ambito della violenza di genere tanto sia stato fatto ma molto resti ancora da fare: “il kit - osserva - è un ulteriore messaggio positivo per contribuire a diffondere sempre più la cultura della denuncia, fondamentale per poter aiutare le vittime”. “Il progetto - aggiunge l’assessora regionale alle Pari opportunità, Monica Cerutti - si integra con tutto quello che in questo campo il Piemonte sta facendo da anni. Vorremmo azzerare i femminicidi e le violenze: ogni piccolo passo è utile, e soprattutto lo è il lavoro comune fra istituzioni e associazioni”. Il progetto, spiega la presidente del Soroptimist torinese, Angiola Maria Moschetti, “rientra in un percorso avviato nel 2013 con l’apertura della prima stanza per l’ascolto protetto delle denunce a Torino. Ora sono oltre 200 in Italia”. I vigili urbani torinesi, ha spiegato il dirigente Giovanni Acerbo, nel 2017 hanno registrato 81 casi di maltrattamenti, di cui 50 di genere, in 28 casi riguardanti donne italiane e in 22 straniere. Dall’inizio dell’anno le violenze di genere registrate sono 37. Genova: “Skills for freedom, dal carcere alla comunità”, incontro all’Albergo dei Poveri mentelocale.it, 26 giugno 2018 Martedì 26 giugno 2018, dalle ore 14.30 alle 17.30, presso l’Aula Magna di Scienze Politiche all’Albergo dei Poveri di Genova si terrà l’incontro “Skills for freedom: dal carcere alla comunità”. L’articolo 1 della nostra Costituzione recita L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Dovrebbe esserlo anche nelle carceri, per rendere efficace lo spirito riabilitativo della detenzione. Invece oggi, nei 28 paesi dell’Unione Europea, dei circa 650.000 detenuti, solo 1 su 5 è coinvolto in attività e solo il 3% sta lavorando per enti esterni: disoccupazione, mancanza di percorsi formativi su misura, perdita di identità e del senso di appartenenza alla comunità civile, determinano un elevato rischio di recidiva tra gli individui svantaggiati. Al termine di 3 anni di lavori condivisi con altri 9 partner in Europa, É.F.A. Équipe Formatori Associati, presenta a Genova i risultati del progetto “Skills for freedom” in cui si sono potute sperimentare nuove forme per potenziare le competenze delle persone detenute e nuovi canali di collegamento col mondo del lavoro. Il seminario, realizzato in collaborazione con l’Università degli Studi di Genova, vuole essere un’occasione aperta alla cittadinanza per scoprire e approfondire questi temi col contributo di relatori internazionali e con esperienze di valore già in atto nel nostro Paese. Ulteriori info contattando l’Albergo dei Poveri al numero 010.4805456. Milano: un campus al Beccaria. “Lo sport allena i ragazzi al futuro” di lucia tironi La Repubblica, 26 giugno 2018 Rugby, calcio, nuoto e ultimate: i detenuti si sfideranno nella 5 giorni importata in Italia dal supercampione Diego Dominguez. L’anno scorso al debutto del primo campus multi-sportivo all’interno del carcere minorile Beccaria, il primo del genere in Italia, era arrivata persino la benedizione di Papa Francesco. “Quando un carcerato, seguendo le regole del rugby, getta a terra un avversario più grosso di lui, nella sua testa si fa largo un’idea: “Io ce la posso fare”, aveva detto Bergoglio lodando l’idea importata dall’Argentina dal supercampione di rugby, Diego Dominguez, quinto miglior marcatore della storia di questo sport. Che aveva anche ricevuto una lettera dal pontefice che lo spronava a continuare. Ed ecco che quest’anno la cinque giorni di Sport Camp, sponsorizzata dal gruppo Mediobanca in collaborazione col Comune di Milano, replica (dal 25 al 29 giugno) organizzando all’interno dell’istituto minorile sfide multidisciplinari tra 40 ragazzi detenuti tra i 16 e i 21 anni. Quattro gli sport in cui devono cimentarsi ogni giorno dalle 9 alle 17: rugby, calcio, nuoto e ultimate, uno sport di squadra giocato con il frisbee, che prende il posto del basket a causa della palestra resa inagibile dai lavori di ristrutturazione. Anche quest’anno per ciascuna disciplina è prevista la presenza di alcuni campioni che guideranno i ragazzi. Per il nuoto ci sarà ancora il plurimedagliato, Federico Morlacchi (4 medaglie d’oro alle Paralimpiadi di Rio 2016) che venerdì sarà in piscina a dirigere due staffette e ricorda: “L’anno scorso finì che i ragazzi mi sfidarono in vasca. Non credevano che potessi nuotare così forte con il difetto congenito al femore. Ovviamente li battei tutti e dovettero alzare bandiera bianca”. Ma cinque giorni di sport possono davvero lasciare il segno? “Secondo me sì - dice Morlacchi - Bastano per mettere il seme dello sport che insegna valori fondamentali come lo spirito di squadra, la lealtà e la disciplina”. Tra le novità della seconda edizione dello Sport Camp anche la partecipazione straordinaria di due squadre di professionisti: la Primavera del Milan, diretta in campo dall’ex giocatore Daniele Massaro e la squadra di rugby del Cus Milano. “Volevo che i ragazzi si allenassero assieme a dei giocatori professionisti, loro coetanei, e vedessero quanto impegno serve. Perché questo contagia” dice Dominguez spiegando che alla fine professionisti e ragazzi del carcere si affronteranno in una partita conclusiva. A scendere in campo, altra novità, ci saranno anche 11 dipendenti delle società del gruppo bancario che non saranno più solo spettatori ma gareggeranno con i ragazzi del carcere a sottolineare ancora di più che lo scopo del progetto è “l’inclusione sociale” per coinvolgere non solo i detenuti ma anche il personale. Dominguez, ad esempio, già l’anno scorso aveva ottenuto dalla direzione del carcere di poter far fare attività a tutti i ragazzi contemporaneamente senza dividerli in gruppi separati come avviene di solito. Un successo non da poco se si pensa che al Beccaria quest’anno sono state diverse le aggressioni dei detenuti alle guardie e i tentativi di rivolta e disordini che hanno portato anche alla richiesta dell’intervento del neoministro della giustizia, Alfonso Bonafede. Dominguez è al corrente delle difficoltà e delle tensioni dei mesi scorsi ma è convinto di una cosa: “Lo sport serve sempre, perché ha una funzione educativa e può preparare i ragazzi al futuro, quando usciranno dal carcere. Il prossimo obiettivo di questo programma - continua il campione - sarà di trovare un lavoro al ragazzo che uscirà e che dimostrerà di aver avuto un comportamento esemplare”. Spoleto (Pg): progetto “Lib(e)ri dentro”, chiude il ciclo invernale tuttoggi.info, 26 giugno 2018 Il 6 e il 7 Luglio sarà presentato lo spettacolo “Victims” con la regia di Giorgio Flamini, aperto a tutti. “Ognuno porta qualcosa”, una cena di amicizia e di condivisione, ha concluso il ciclo invernale del “Progetto Lib(e)ri dentro” nel Carcere di reclusione di Maiano di Spoleto. L’avventura è iniziata il 7 febbraio 2017 a cura dell’Associazione culturale FulgineaMente. Gli incontri, con cadenza settimanale, sono proseguiti per tutto l’anno, anche durante l’estate e le vacanze natalizie. Le letture sono proposte dai volontari, ma a volte sono suggerite dagli stessi detenuti, comunque sono sempre condivise. Talvolta l’occasione dell’incontro con l’autore ha determinato la scelta del libro: è un incontro che richiede la preparazione e l’impegno di tutti. Tutti, volontari, detenuti, studenti, ne escono arricchiti e “liberi dentro”. Numerosi sono stati gli autori che hanno varcato le soglie del carcere, alcuni per la prima volta, ma sempre con un po’ di emozione: la giovane scrittrice e volontaria Alessandra Squarta con i protagonisti dei suoi libri, Lisena e Ludovisio, Sandro Bonvissuto, Tommaso Amato (detenuto), Giacomo Marinelli Andreoli, scrittore e giornalista, Roberto Moliterni, Vito Mancuso, scrittore e filosofo, Arianna Ciancaleoni. Tra i detenuti c’è chi preferisce i classici, chi la poesia, chi la Divina Commedia, chi l’attualità. I detenuti definiscono questa attività “un’ora d’aria in più”, ma lo è anche per i volontari che trovano una grande occasione di crescita nell’incontro con esperienze di vita lontanissima dalla loro. Anche gli scrittori vivono un’esperienza talvolta nuova ma sempre emozionante e arricchente. Gli studenti, dapprima sconvolti, capiscono di essere davanti ad una realtà molto diversa da quella del loro immaginario. In queste occasioni si incontrano mondi diversi molto lontani fra loro, mondi che non avrebbero opportunità di incrociarsi altrimenti; ed è un modo per far sentire a chi ha sbagliato e sta pagando che c’è sempre una seconda possibilità, anche attraverso la cultura e i libri che alcuni di loro hanno aperto, con questo progetto, per la prima volta. La riabilitazione, prevista dall’art. 27 della nostra Costituzione, per qualcuno passa anche attraverso le pagine di un libro. Non mancano i momenti di gioia: le lauree, gli spettacoli e, ogni tanto, la gioia per qualcuno che ha terminato la sua pena. Il 6 e il 7 Luglio sarà presentato lo spettacolo “Victims” con la regia di Giorgio Flamini, aperto a tutti. È necessaria la prenotazione tramite e-mail ufficiostampafestival.cr.spoleto@giustizia.it. I volontari sono: Rita Cerioni, magistrato, Luciana Speroni e Michela Mattiuzzo, grandi lettrici, Chiara Bordoni, Pietro Felici, medico, Luigino Moretti, Carlo Felice, Simona Sclippa, Lucia Vezzoni, insegnanti, Alessandra Squarta, studentessa, scrittrice, Ylenia Cariani. Responsabile Ivana Donati, presidente dell’Associazione. Benevento: la Gmc Onlus nel carcere minorile di Airola ottopagine.it, 26 giugno 2018 Dopo la pausa degli esami si riprende con le letture estive. Sabato 23 giugno scorso, presso il carcere minorile di Airola, la Gmc Onlus ha svolto cantici, testimonianze, diffuso la Parola di Dio annunciata e pregato con i giovani detenuti. La Gmc Onlus, attiva dal 2013 nello svolgere opere di solidarietà e nell’apportare aiuti materiali, morali, ma soprattutto spirituali ai detenuti e alle rispettive famiglie, ha promosso un evento Gospel nel carcere di Airola. Il penitenziario di Airola ha accolto la GMC offrendo collaborazione e partecipazione, allestendo un grande palco all’interno della sala teatro. All’iniziativa hanno partecipato circa 40 ragazzi accompagnati da guardie ed educatori. “Lodi al Signore” si sono elevate grazie alla partecipazione dei Controtempo band, gruppo musicale che da anni collabora con la Gmc Onlus nelle carceri di tutta Italia. La band ha esordito realizzando cantici e annunciando “la Parola di Dio, permettendo - spiegano dalla Onlus - ai tanti ragazzi presenti nel teatro del carcere di toccare con mano grandi benedizioni. Mediante la lode e l’adorazione, i ragazzi hanno partecipato mostrando interesse e gratitudine per l’ascolto della Parola annunciata. Durante il gospel si sono susseguiti interventi dove è stata centrale la testimonianza cristiana. L’obbiettivo è stato quello di condividere esperienze legate al progresso della propria condizione di vita, di mostrare una prospettiva di vita migliore non necessariamente condizionata dall’attuale situazione”. Al termine dell’evento, Domenico Turco, membro del direttivo Gmc Onlus, ha concluso con un incoraggiamento ed una preghiera per i ragazzi e per le loro famiglie. “Decine e decine di ragazzi hanno potuto ascoltare le lodi ed il messaggio dell’Evangelo e questo per noi è una gioia immensa”, ha sottolineato Maria Garofalo, presidentessa della Gmc Onlus. “Questi ragazzi - ha spiegato - hanno bisogno di essere incoraggiati e sostenuti, tanti di essi vengono da situazioni familiari e sociali disastrose e noi preghiamo il Signore, affinché ci possa utilizzare sempre come strumenti per portare un messaggio di pace e di speranza a quanti si ritrovano in questi luoghi tenebrosi”. L’evento si è concluso con l’invito a continuare a partecipare alle riunioni evangelistiche che ogni settimana Maria Borzillo, assistente spirituale della Gmc, tiene nel carcere. Il lavoro missionario nelle carceri, che ha visto il pastore Cesare Turco, uno dei pionieri della pastorale carceraria in Italia, per tantissimi anni coinvolto nell’annuncio dell’Evangelo ai detenuti, portando centinaia di reclusi ad arrendersi nelle mani di Dio, continua con l’impegno dell’associazione Gmc. Tante sono le date in cui la Gmc Onlus e il gruppo Contro Tempo visiteranno le carceri di svariate zone della nazione. Tanti pareri favorevoli da parte dei circondariali italiani che evidenzia come l’opera stia crescendo, raccogliendo successo sul piano dell’utilità sociale e reintegrativa dei detenuti. Roma: “Lo sport entra nelle carceri”, mercoledì 27 giugno a Rebibbia Maschile Il Velino, 26 giugno 2018 Si svolgerà mercoledì 27 giugno all’interno della Casa di reclusione Rebibbia Maschile, la festa finale del progetto Coni Lazio “Lo sport entra nelle carceri”. Oltre 100 detenuti, che durante l’anno sono stati coinvolti dai tecnici delle Federazioni sportive di riferimento nella pratica continuativa di alcune discipline sportive, parteciperanno alla giornata conclusiva. Dalle 9 alle 13, insieme ai loro istruttori e ai dirigenti federali delle discipline presenti, i detenuti si cimenteranno in tornei di bocce, bridge, biliardino, calcio, scacchi, tennis e tennis tavolo, vivendo un momento di aggregazione e condivisione sotto il segno della pratica sportiva. Insieme al Presidente Riccardo Viola, che darà il calcio d’inizio della partita di pallone con il Direttore Stefano Ricca, è prevista la presenza di alcuni testimonial sportivi che trascorreranno la mattinata a Rebibbia. Tra questi, l’ex tennista Vincenzo Santopadre, che già da alcuni anni ha abbracciato il progetto del Coni Lazio, affiancando il Comitato nelle sue iniziative di promozione sportiva e a carattere sociale. Nel corso del 2017 il progetto “Lo sport entra nelle carceri” ha fatto visita ai sei principali istituti penitenziari della regione, coinvolgendo oltre mille detenuti in 19 differenti discipline sportive. “È un momento importante e un appuntamento al quale siamo particolarmente legati. Il rapporto con Rebibbia, consolidato da anni - spiega il Presidente Riccardo Viola - risponde al principio dello sport diritto di tutti; ha motivazioni legate alla salute di chi vive in condizioni di restrizione e vuole regalare a queste persone qualche ora di ordinaria normalità e di scambi con il mondo fuori di qui”. Donne, stranieri e omosessuali: la mappa dell’intolleranza via Twitter di Emanuela Grigliè La Stampa, 26 giugno 2018 Si odia soprattutto a Milano, Napoli e Roma. Veri e propri picchi in concomitanza dell’8 marzo o di fatti di cronaca come femminicidi e scandali sessuali. Le donne le più saccagnate sui social. Meno tweet contro gli omosessuali, ma in compenso si moltiplicano quelli contro immigrati, musulmani ed ebrei. Anche se non in sensibile crescita (del resto sono già tantissimi), il maggior numero di cinguetti offensivi (326.040 nel periodo 2017/2018, il 59,6% di tutti i tweet negativi) restano di gran lunga quelli contro le donne, che sono la categoria più bersagliata dagli haters, con veri e propri picchi in concomitanza dell’8 marzo o di fatti di cronaca come femminicidi e scandali sessuali. Questa è la fotografia degli odiatori professionisti via social scattata da Vox-Osservatorio Italiano sui diritti che ha presentato lunedì a Milano la terza edizione della Mappa dell’Intolleranza. Progetto realizzato in collaborazione con l’università Statale di Milano, l’università di Bari, La Sapienza di Roma e il dipartimento di sociologia dell’università Cattolica di Milano analizzando i commenti online (è stato preso però in considerazione solo Twitter come social) su sei gruppi: donne, omosessuali, immigrati, diversamente abili, ebrei e musulmani. Più di 10 mesi di rilevazione e oltre 6milioni di tweet censiti. “Solo” 22.435 i cinguettii omofobi (“Un tale risultato non può che essere collegato alla storica approvazione della legge sulle unioni civili”, commenta Marilisa D’Amico, costituzionalista, co-fondatrice di Vox, ordinario di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Milano), 15mila contro gli ebrei, 64mila contro i musulmani, 73mila contro i migranti, anche qui con picchi legati all’attualità. Sommando i cluster che si riferiscono a xenofobia, islamofobia e antisemitismo, la percentuale dei post del disprezzo si attesta al 32,45% del totale nel 2017 e sale al 36, 93% nel 2018: un balzo di 4 punti negli ultimi mesi, periodo ad alto tasso di intolleranza. “Più di un italiano su 3 twitta il suo odio contro migranti, ebrei e musulmani”, spiega Silvia Brena, co-fondatrice di Vox, “oggi la rabbia si concentra contro le persone considerate diverse, per appartenenza a culture differenti dalla nostra. I tweet intolleranti diminuiscono dove è più alta la concentrazione di migranti, dimostrando quindi una correlazione inversa tra presenza sul territorio e insorgere di fenomeni xenofobi: come a dire, conoscersi promuove l’integrazione”. Da quest’anno infatti la mappatura consente anche la geocalizzazione dei tweet: si odia soprattutto a Milano, Napoli e Roma. Dalla Mappa vien fuori anche che stiamo assistendo a un’estremizzazione: più tweet ma meno twittatori, in grado però di rendere virale l’intolleranza. Migranti. Salvini sfida i 5 Stelle sui soccorsi, ma l’accordo con la Libia è lontano di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 26 giugno 2018 “Fermate la Guardia costiera”. Tripoli vuole l’autostrada promessa da Berlusconi. Unico interlocutore per gli italiani il premier Fayez Al Serraj, resta fuori il generale Khalifa Haftar, fuori anche i capi tribù. È una sfida alle Ong ma anche ai 5 Stelle quella che il ministro dell’Interno Matteo Salvini lancia sui salvataggi in mare. Perché quando dice che “Toninelli avrebbe tutto il mio appoggio se ordinasse alla Guardia costiera di non rispondere agli Sos” sembra voler mandare un segnale preciso rispetto a possibili cedimenti sulla linea di fermezza che ha imposto sin dall’arrivo al Viminale. I dubbi del titolare delle Infrastrutture Danilo Toninelli sulla chiusura totale dei porti sono ben noti, tanto che le dichiarazioni di ieri sera del vicepremier Luigi Di Maio sulla possibilità che la “Lifeline” alla fine approdi in Italia sono servite proprio a dargli sostegno. E tanto basta a comprendere che la questione all’interno del governo è ormai ufficialmente aperta. Anche perché Salvini non può non sapere che la Guardia costiera ha l’obbligo di dare seguito alle richieste di aiuto, come previsto dai trattati internazionali, ma anche dal codice penale. Le difficoltà libiche - Il viaggio lampo di Salvini a Tripoli ha mostrato quanti ostacoli ci sono per riuscire ad ottenere la collaborazione nella lotta ai trafficanti. Il “no” del vicepresidente Abdulsalam Ashour alla creazione di hotspot in Libia ha fatto comprendere che non basteranno le 20 motovedette promesse e soprattutto che sono molte le parti da soddisfare. Al momento l’unico interlocutore scelto dal titolare del Viminale “è quello riconosciuto a livello internazionale”, vale a dire il premier Fayez Al Serraj: resta fuori - almeno ufficialmente - il generale Khalifa Haftar, fuori anche i capi tribù. E questo certamente avrà un peso nelle trattative. In attesa delle nuove istanze - compresa l’autostrada promessa nel 2013 dall’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, che ieri sono tornati a mettere sul piatto del negoziato - il titolare del Viminale decide di alzare ulteriormente i toni sia contro le Ong, sia contro gli Stati europei che non collaborano, Francia in testa. Ma l’effetto finale è quello di creare una divisione sempre più ampia con gli alleati di governo. L’omissione di soccorso - Sulla scelta di far entrare a Pozzallo il mercantile Alexandre Maersk alla fine ha pesato il ruolo avuto dal centro di coordinamento di Roma per le operazioni di soccorso, ma anche il richiamo esplicito del garante per i detenuti Mauro Palma che in una lettera inviata all’ammiraglio Giovanni Pettorino, comandante della Guardia costiera, ha sottolineato come i 113 migranti a bordo “si trovano di fatto privati della libertà personale, pur non essendoci ovviamente alcun ordine in tal senso, impugnabile di fronte all’autorità giudiziaria, ai sensi dell’articolo 5 della Convenzione europea per i diritti umani”. E poi il fatto che non si trattasse di una Ong. Su questo Matteo Salvini continua a mantenere il punto con un intento chiaro: chi si trova in difficoltà in acque internazionali e chiede soccorso deve essere indirizzato a Tripoli, Tunisi o Malta, perché non deve essere il centro di Roma a coordinare le operazioni. Migranti. Salvini in Libia per istituire gli hotspot, ma da Tripoli arriva un no categorico di Francesca Paci La Stampa, 26 giugno 2018 “Il ministro francese è ignorante, nel senso che ignora la situazione di questa nave (la Lifeline) che ha agito ignorando le segnalazioni della guardia costiera italiana e libica: è una nave fuorilegge che va sequestrata”. Le parole del vice premier e ministro dell’Interno Matteo Salvini, di ritorno dalla sortita di 5 ore in Libia, non lasciano margini di ambiguità: campagna elettorale o meno, l’immigrazione resta la testa d’ariete del leader leghista e lo scontro con Parigi il suo punto di forza. E mentre sulla Lifeline ancorata al largo di Malta tramonta il quinto giorno di mare con il tempo che si guasta e i 234 migranti a bordo (tre volte tanto la capienza massima) che dormono spalla a spalla dividendosi le coperte termiche, lui promette di tornare a Tripoli entro l’estate per fornire una ventina di imbarcazioni agli amici della Guardia costiera libica e provoca i meno amici: “Mi stupisce la cattiveria dei francesi, sarebbe un bel gesto l’apertura del porto di Marsiglia a questa nave”. Nelle ultime ore, dopo il rifiuto italiano, maltese, olandese e tedesco, il capitano Claus Peter Reisch aveva pensato di fare rotta verso la Francia ma ha rinviato la manovra a causa delle condizioni meteo sfavorevoli. Intanto, oltre alla Lifeline, c’è il cargo danese Alexander Maersk che ieri sera, dopo tre notti in rada davanti a Pozzallo, è stato autorizzato dal Viminale a sbarcare il suo carico di 113 persone, tirate a bordo il 21 giugno scorso dopo aver ricevuto dalla sala operativa della Guardia costiera di Roma la richiesta di cambiare rotta per assistere l’operazione di salvataggio (Sar). Nel pomeriggio la ministra dell’immigrazione danese aveva scritto a Salvini chiedendo di ritirare il fermo del mercantile. Il Mare nostrum sembra sempre più un mare monstrum: tutti contro tutti, con la Guardia costiera italiana che volta le spalle al finora oliato coordinamento con le Ong presenti nel Mediterraneo, la Valletta in trincea, la Spagna sondata dalla Lifeline dopo la generosità con l’Aquarius ma incerta sul da farsi ora che si sta riaprendo la rotta andalusa e la Francia decisa ad isolare i sovranisti, costi quel che costi. L’Europa, attesa alla prova del vertice di giovedì, barcolla. La sfida è per chi mostri la faccia più feroce. “Se Spagna, Francia o Malta non aprono i porti alla Lifeline, la farà entrare l’Italia ma poi sarà sequestrata”, afferma in serata il ministro del Lavoro Luigi Di Maio, inseguendo la linea del collega dell’Interno che nel frattempo è tornato a Roma, ha dichiarato guerra al business dell’immigrazione clandestina, “che vede le Ong consapevolmente o inconsapevolmente complici e protagoniste”, e ha citato il centro di accoglienza e protezione appena visitato a Tripoli come esempio “contro la menzogna e la retorica per cui in Libia si tortura e si ledono i diritti civili”. Alle due navi delle Ong Aquarius e Open Arms, che ieri si erano rese disponibili a intervenire in zona Sar libica per soccorrere 7 gommoni alla deriva, la Guardia costiera italiana ha risposto picche: tocca ai libici, le cui motovedette hanno intercettato e riportato a riva almeno 948 migranti e 10 cadaveri nelle ultime 48 ore. Il piano dell’Italia è quello di una partnership forte con Tripoli, come Salvini ha illustrato durante la sua visita. Fonti diplomatiche sostengono che in una prima fase fosse stata proposta la creazione di hotspot nel Nord della Libia ma che di fronte al rifiuto “categorico” del vice premier Ahmed Maitig sia maturata la nuova iniziativa: centri di accoglienza e identificazione da costruire a sud della Libia nei Paesi del Sahel (Ciad, Niger, Mali). Entro agosto dovrebbero volare a Tripoli anche il ministro della Difesa Elisabetta Trenta e a breve potrebbe recarvisi anche Luigi Di Maio. A Bruxelles il premier Giuseppe Conte ha ottenuto il via libera per il rifinanziamento del Trust Fund Africa (in cambio l’Italia non porrà il veto per il simile Trust diretto alla Turchia). Migranti. Adesso Salvini vorrebbe fermare la Guardia costiera di Marina Della Croce Il Manifesto, 26 giugno 2018 Il ministro: “Sarei d’accordo se non rispondesse più alle richieste di aiuto”. E sui centri libici: “Basta con la retorica delle torture”. Ma arriva lo stop di Tripoli ai progetti del Viminale: “Qui niente hotspot per i migranti”. “Se il ministro Toninelli dovesse ordinare alla Guardia costiera di non rispondere più agli Sos dei migranti io sarei d’accordo” dice Matteo Salvini, che non contento bolla anche come “retoriche” le denunce di chi, come l’Onu, in passato ha condannato le torture subiite dai migranti nei centri di detenzione in Libia. “Ho chiesto di visitarne uno in costruzione, è all’avanguardia e può ospitare mille persone”, racconta soddisfatto. Sembrano proprio non avere fine né limiti le esternazioni del ministro degli Interni della Lega, deciso a conquistare tutti i giorni le prime pagine dei giornali. Ieri Salvini si è recato in Libia facendosi precedere dall’annuncio di voler allestire hotspot ai confini meridionali del Paese, centri nei quali selezionare e suddividere i migranti tra economici e richiedenti asilo. Un progetto al quale aveva pensato anche l’ex ministro Minniti che per questo aveva avviato trattative con le tribù del Fezzan e del quale il suo successore sembra parlare come se fosse ormai cosa fatta. Salvini è il primo esponente del governo gialloverde a recarsi nel Paese nordafricano, ma dimostra di non aver bene presente come funzionano le cose a Tripoli. La Libia non ha mai firmato la convenzione di Ginevra sui rifugiati e considera l’immigrazione, di qualunque tipo sia, un reato. Improponibile, quindi, aprire hotspot sul suo territorio. Ci pensa il vicepremier Ahmed Maitig a mettere i puntini sulle i: “Rifiutiamo categoricamente la presenza di qualsiasi campo per i migranti in Libia. Questo non è accettato dalle leggi libiche”, dice in una conferenza stampa convocata nella capitale libica proprio con il ministro italiano. Che una volta tornato a Roma cambia progetto e sposta gli hotspot un po’ più a sud, in “Niger, Mali, Ciad e Sudan”, Paesi con i quali starebbe pensando anche a una missione comune che però, almeno per quanto è dato sapere, non sarebbe ancora stata discussa con i diretti interessati. L’unico intervento in cantiere nell’area, quello in Niger avviato dal precedente governo Gentiloni e che sarebbe dovuto partire a giungo è ancora fermo in attesa di una richiesta di intervento ufficiale da parte del governo nigerino. La cosa non sembra però interessare Salvini, che sposta l’asticella delle guerra contro i migranti sempre più in alto. Creando non poco imbarazzo all’interno della maggioranza quando dichiara che non avrebbe niente in contrario se la Marina non rispondesse più alle richieste di aiuto in arrivo dai barconi che tentano di attraversare il Mediterraneo. Parole dure, che si scontrano con il primo dovere che prevede di intervenire in soccorso di chi si trova in difficoltà, ma soprattutto che macchiano l’operato di un corpo che, come aveva ricordato in mattinata proprio il ministro Toninelli, “ha messo in sicurezza circa 600 mila persone solo negli ultimi quattro anni”. Lo stesso corpo al quale - allargando il discorso al lavoro svolto da tutti i mezzi, sia militari che civili, impegnati nel Mediterraneo - il ministro della Difesa Elisabetta Trenta vorrebbe venisse assegnato il Nobel per la Pace. L’imbarazzo nel governo per le parole di Salvini è tale che a sera tocca all’altro vicepremier, Luigi Di Maio, intervenire provando in quale modo a rimediare alle affermazioni del leghista: “La nostra Guardia Costiera deve salvare chi sta affogando, ma una cosa è il salvataggio e altra cosa è il traghettamento di persone dalle coste africane a quelle europee”, spiega in televisione il capo politico dei grillini. Dopo il mini vertice di domenica e in vista del Consiglio europeo di giovedì. l’Unione europea cerca intanto di trovare una linea comune che la salvi dalla disfatta. Assodata l’impossibilità di trovare un accordo buono per tutti sulla riforma di Dublino, a questione è stata rimandata alla prossima presidenza di turno austriaca, scelta che significa archiviare definitivamente la questione. L’ultima bozza di quello che potrebbe essere il documento finale del vertice non aggiunge niente di nuovo a quanto già non si sappia, con la riproposizione di piattaforme regionali fuori dall’Unione e gestite da Unhcr e Oim dove convogliare i futuri sbarchi dei migranti e dove esaminare le richieste di asilo. L’unica novità importante riguarda il via libera al finanziamento di 6 miliardi di euro per interventi in Africa e di altri tre miliardi alla Turchia come previsto dall’accordo del 2016 sui migranti. Stati Uniti. Neocolonialismo e “crisi dei migranti” di Manlio Dinucci Il Manifesto, 26 giugno 2018 In un paese in cui circa la metà della popolazione vive in povertà, è aumentata la massa di coloro che cercano di entrare negli Stati uniti. Da qui il Muro lungo il confine col Messico, iniziato dal presidente democratico Bill Clinton quando nel 1994 è entrato in vigore il Nafta, proseguito dal repubblicano George W. Bush, rafforzato dal democratico Obama, lo stesso che il repubblicano Trump vorrebbe ora completare su tutti i 3.000 km di confine. Dagli Stati uniti all’Europa, la “crisi dei migranti” suscita accese polemiche interne e internazionali sulle politiche da adottare riguardo ai flussi migratori. Ovunque però essi vengono rappresentati secondo un cliché che capovolge la realtà: quello dei “paesi ricchi” che sarebbero costretti a subire la crescente pressione migratoria dai “paesi poveri”. Si nasconde la causa di fondo: il sistema economico che nel mondo permette a una ristretta minoranza di accumulare ricchezza a spese della crescente maggioranza, impoverendola e provocando così l’emigrazione forzata. Riguardo ai flussi migratori verso gli Stati uniti, è attualissimo ed emblematico il caso del Messico. La sua produzione agricola è crollata quando, con il Nafta (l’accordo nordamericano di “libero” commercio), Usa e Canada hanno inondato il mercato messicano con prodotti agricoli a basso prezzo grazie alle proprie sovvenzioni statali. Milioni di contadini sono rimasti senza lavoro, ingrossando il bacino di manodopera reclutata nelle maquiladoras: migliaia di stabilimenti industriali lungo la linea di confine in territorio messicano, posseduti o controllati per lo più da società statunitensi, nei quali i salari sono molto bassi e i diritti sindacali inesistenti. In un paese in cui circa la metà della popolazione vive in povertà, è aumentata la massa di coloro che cercano di entrare negli Stati uniti. Da qui il Muro lungo il confine col Messico, iniziato dal presidente democratico Bill Clinton quando nel 1994 è entrato in vigore il Nafta, proseguito dal repubblicano George W. Bush, rafforzato dal democratico Obama, lo stesso che il repubblicano Trump vorrebbe ora completare su tutti i 3000 km di confine. Riguardo ai flussi migratori verso l’Europa, è emblematico il caso dell’Africa. Essa è ricchissima di materie prime: oro, platino, diamanti, uranio, coltan, rame, petrolio, gas naturale, legname pregiato, cacao, caffè e molte altre. Queste risorse, sfruttate dal vecchio colonialismo europeo con metodi di tipo schiavistico, vengono oggi sfruttate dal neocolonialismo europeo facendo leva su élite africane al potere, manodopera locale a basso costo e controllo dei mercati interni e internazionali. Oltre cento compagnie quotate alla Borsa di Londra, britanniche e altre, sfruttano in 37 paesi dell’Africa subsahariana risorse minerarie del valore di oltre 1000 miliardi di dollari. La Francia controlla il sistema monetario di 14 ex colonie africane attraverso il Franco CFA (in origine acronimo di “Colonie Francesi d’Africa”, riciclato in “Comunità Finanziaria Africana”): per mantenere la parità con l’euro, i 14 paesi africani devono versare al Tesoro francese metà delle loro riserve valutarie. Lo Stato libico, che voleva creare una moneta africana autonoma, è stato demolito con la guerra nel 2011. In Costa d’Avorio (area CFA), società francesi controllano il grosso della commercializzazione del cacao, di cui il paese è primo produttore mondiale: ai piccoli coltivatori resta appena il 5% del valore del prodotto finale, tanto che la maggior parte vive in povertà. Questi sono solo alcuni esempi dello sfruttamento neocoloniale del continente. L’Africa, presentata come dipendente dall’aiuto estero, fornisce all’estero un pagamento netto annuo di circa 58 miliardi di dollari. Le conseguenze sociali sono devastanti. Nell’Africa subsahariana, la cui popolazione supera il miliardo ed è composta per il 60% da bambini e giovani di età compresa tra 0 e 24 anni, circa i due terzi degli abitanti vivono in povertà e, tra questi, circa il 40% - cioè 400 milioni - in condizioni di povertà estrema. La “crisi dei migranti” è in realtà la crisi di un sistema economico e sociale insostenibile. Stati Uniti. La tolleranza zero e i suoi problemi “tecnici” di Luca Celada Il Manifesto, 26 giugno 2018 Con un ritmo di 1.500 arresti al giorno si va verso la creazione di campi di prigionia per i migranti illegali. Si vedrà se alle prossime elezioni parlamentari prevarrà l’indignazione popolare o se il trumpismo sulla questione identitaria è imbattibile. Più che generare chiarezza sulla questione dei migranti, la “retromarcia” di Trump sulla separazione di bambini e genitori ha semmai seminato ulteriore caos nella già convulsa situazione ai confini. Il ministro della giustizia Sessions, che nega ora di aver egli stesso istituito la normativa che fino a ieri propugnava, chiede alle corti federali il permesso di imprigionare le famiglie al completo. Dato che una precedente sentenza vieta la reclusione di migranti minori oltre i 20 giorni, l’amministrazione avrebbe infatti bisogno di una nuova sentenza che autorizzi l’incarceramento famigliare ad oltranza. Pur non essendo per ora pervenuta una chiara direttiva il ministero della salute ha formalmente chiesto al Pentagono di predisporre ospitalità per 20 mila “minori non accompagnati”. La tolleranza zero pone infatti il problema “tecnico” di rinchiudere migranti che vengono arrestati al ritmo di 1500 al giorno - un’operazione che sarà apparentemente militarizzata. La marina ha annunciato la requisizione di basi militari per ospitare 27 mila detenuti e il solo Camp Pendleton - enorme base di addestramento per marines fra Los Angeles e San Diego - si appresterebbe a internarne ben 47 mila. Al rialzo anche le quotazioni del settore delle prigioni private: aziende come Geo Group, Core Civic e Corrections Corporation of America - tutte forti sostenitrici di Trump - gestiscono già per il 60% il florido settore dei Cie grazie al recente stanziamento federale di 2 miliardi di dollari per gli appalti privati. Ai confini prosegue la processione di parlamentari, soprattutto democratici, in visita a centri di detenzione per incontrare madri affrante, senza più notizie dei figli a loro sottratti. Questi sarebbero ancora attorno ai 2 mila, sparsi in località non meglio precisate del paese, apparentemente senza documentazione sufficiente a rendere agevole le riunificazioni con genitori in alcuni casi già rimpatriati. Nella migliore delle ipotesi un processo che potrà impiegare molti mesi. Nel fine settimana ci sono state proteste e presidi davanti a molti centri di detenzione, da Otay Mesa, vicino al varco di Tijuana a Tornillo in Texas. Un gruppo denominato Occupy Ice ha iniziato un accampamento davanti all’edificio del servizio di immigrazione di Los Angeles. Sindaci di molte città come New York e Los Angeles hanno aperto indagini per trovare eventuali bambini migranti spediti nelle loro giurisdizioni. Domenica è stato rivelato che agenti di frontiera hanno promesso a migranti detenuti di restituire loro i figli se avessero firmato un “rimpatrio volontario”, usando i minori sostanzialmente come ostaggi. Ostaggi politici sono anche gli 800 mila studenti e giovani del “Daca”, portati nel paese da bambini, a cui Trump aveva revocato l’amnistia. Il presidente afferma che se i democratici non sosterranno il disegno di legge che autorizza il muro di confine, anche questi Americani a tutti gli effetti verrebbero deportati. La legge potrebbe andare al voto questa settimana con scarse possibilità di passare per l’opposizione democratica che ha indotto Trump a suggerire ai senatori repubblicani di “non perdere ulteriore tempo”. Come di consueto d’altronde il presidente sembra prestare più attenzione ad attizzare il contenzioso permanente su Twitter che a formulare una policy. Lo ha fatto anche con l’ennesima fuga in avanti, scrivendo: “Deportiamo tutti senza bisogno di magistrati!” un operazione di dubbia legittimità costituzionale che si presterebbe a sicuri abusi e che riporta la retorica ai livelli che il secolo scorso produsse campi di prigionia per giapponesi e deportazioni di massa per ispanici dalla California. È l’ultima provocazione nell’imperante teatro della crudeltà politica che mira soprattutto a fabbricare un emergenza per consolidare i consensi della base elettorale in vista delle elezioni mid term. Come ha affermato lo stesso presidente: “I democratici vogliono strumentalizzare la questione immigrati contro di me - a me va benissimo!”. Le prossime elezioni parlamentari dovranno dimostrare se, in America almeno, prevarrà l’indignazione popolare per i soprusi o se, come affermano Trump e Bannon, sulla questione identitaria il trumpismo è imbattibile. Tailandia. Oltre 60 reati prevedono la pena di morte di Fabio Polese occhidellaguerra.it, 26 giugno 2018 Il 18 giugno in Tailandia è stato giustiziato tramite iniezione letale il detenuto Theerasak Longji, 26 anni, condannato per l’uccisione di un giovane 17enne nella provincia meridionale di Trang. Nel 2012, per rubargli il cellulare, lo aveva pugnalato 24 volte. È stata la prima esecuzione nel Paese asiatico da quando, nel 2009, sono stati condannati a morte due trafficanti di droga. L’attuazione della pena, che è stata criticata dai gruppi per i diritti umani, ha riacceso i riflettori sull’argomento. Più di sessanta reati prevedono l’esecuzione - La pena capitale esiste da secoli in Tailandia e anche se per lunghi periodi non ci sono state uccisioni, sulla carta, per il governo di Bangkok, ci sono ancora oggi più di sessanta reati che la prevedono. Tra questi, troviamo l’omicidio e il traffico di stupefacenti. Negli anni, però, sono cambiati i metodi. Dal 1805, quando il Paese era conosciuto come l’antico Regno del Siam ed era ancora una monarchia assoluta, fino al 1932, quando è passato ad una monarchia costituzionale, un decreto chiamato “Legge dei Tre Sigilli” permetteva ventuno diverse forme di esecuzione. Alcune di queste erano molto crudeli. I condannati per tradimento, ad esempio, venivano avvolti in un panno imbevuto d’olio e dati alle fiamme. Successivamente, poi, dal 1938, la morte avveniva tramite fucilazione. L’ultimo boia della Tailandia - L’ultima esecuzione con arma da fuoco c’è stata l’11 dicembre 2002. Il boia si chiamava Chavoret Jaruboon, morto il 29 aprile 2012. In diciotto anni di “carriera” ha ucciso 55 prigionieri, per lo più nel carcere di massima sicurezza di Bang Kwang, conosciuto anche con il nome di “Bangkok Hilton”. Sulla storia di Jaruboon, nel 2014, è stato fatto anche un film: “The Last Executioner”. Prima di lunedì scorso, dal 2002 al 2009, sono state giustiziate sei persone. I detenuti condannati alla pena di morte in Tailandia, attualmente, sono oltre cinquecento. C’è anche un italiano tra loro: Denis Cavatassi, 50 anni. È rinchiuso nelle prigioni thailandesi con l’accusa di essere il mandante dell’omicidio del suo socio, Luciano Butti, ucciso nel marzo del 2011 a Pukhet, dove entrambi avevano un’attività di ristorazione. Cile. 26 stelle ricorderanno le vittime della tortura di Riccardo Noury Corriere della Sera, 26 giugno 2018 Il deserto di Atacama è il migliore luogo del mondo per vedere le stelle. Ma per molti cileni, è anche il luogo dove nel 1973 26 persone vennero torturate e assassinate dalle squadracce della “carovana della morte”. Lo ricordava nel 2010, in un film premiato da Amnesty International a Pesaro il regista Patricio Guzmán. Oggi, Giornata internazionale per le vittime della tortura, Amnesty International Cile e il Gruppo dei familiari delle vittime degli omicidi politici durante la dittatura di Augusto Pinochet, è il culmine della campagna “Costellazione dei caduti”. L’obiettivo della campagna è attribuire a 26 stelle ciascuno dei nomi dei 26 prigionieri politici trucidati nel deserto di Atacama. Un modo originale, romantico per ricordarli per sempre, e immaginare di vederli di notte nel cielo più luminoso del pianeta.