La redazione di Ristretti Orizzonti di Voghera si “autointervista” Ristretti Orizzonti, 25 giugno 2018 In occasione della Terza giornata nazionale di digiuno per l’abolizione dell’ergastolo. Oggi in redazione ci siamo chiesti quale contributo potessimo dare in occasione della terza giornata nazionale di digiuno per l’abolizione dell’ergastolo in Italia. È nata una discussione animata e come al solito costruttiva, dalla quale è venuta fuori un’idea. Ci siamo detti: perché non fare un’intervista a noi stessi? Ecco quello che è venuto fuori. Redazione: Da quanto tempo sei detenuto? Antonio: Dall’agosto del 1990. R: Non sei mai uscito da allora? Antonio: No! R: Hai mai chiesto un beneficio, un permesso premio? Antonio: Da quando ho compiuto il 20° anno di espiazione chiedo, a cadenza annuale, un permesso per poter stare qualche ora con la mia anzianissima madre, fuori da queste mura, ma la richiesta mi viene sempre dichiarata inammissibile in quanto condannato all’ergastolo ostativo. R: Cos’è l’ergastolo ostativo? Francesco: Vedi, sento ripetere sempre più spesso (ormai è diventata una frase fatta) dal mondo dei media e da certi politici in particolare, più o meno in buona fede, che in Italia non v’è certezza della pena; che nessuno sconta fino in fondo la pena comminata. Non è così. Devi sapere che nella nostra civile Italia, culla del Diritto (Pannella diceva che a forza di stare in quella culla il Diritto si è addormentato), la certezza della pena esiste eccome. Non esiste la pena di morte, ma esiste la pena fino alla morte. Si chiama 4-bis O.P. ed “Ergastolo ostativo”. Il 4-bis è un articolo dell’Ordinamento Penitenziario introdotto nel 1991 che, in buona sostanza, esclude da ogni forma di beneficio o misura alternativa al carcere chi è condannato per reati connessi alla criminalità organizzata, a meno che non decida di collaborare utilmente con la giustizia, oppure nel caso in cui la richiesta di collaborazione risulti impossibile. Tutto ciò indipendentemente dall’eventuale percorso di recupero e sincero ravvedimento maturato dal detenuto nei decenni di detenzione. Ma se per chi ha una condanna con scadenza temporale la sua scarcerazione avverrà comunque a prescindere (giustamente!) dal divieto dei benefici, cosa diversa è per chi ha l’ergastolo. In questo caso tale pena diventa di Diritto e di fatto inderogabilmente a vita. Questa pena potrà estinguersi soltanto con l’estinguersi della vita del condannato. R: In Italia è da diverso tempo che si discute se abolire o no l’ergastolo. Credi che si giungerà prima o poi alla sua abrogazione? Paolo: Sono passati 70 anni dall’entrata in vigore della nostra Costituzione e fin dalla fase costituente si è discusso di tale materia. Per quanto mi riguarda, già dai primi mesi dal mio arresto fra noi detenuti ho sempre sentito parlare dell’eventuale abrogazione dell’ergastolo. Sono abbastanza grande da capire che in Italia non si arriverà mai ad una svolta di civiltà del genere, a meno che non ci venga sollecitata da organi sopranazionali (ad es. Corte europea dei diritti dell’uomo). Basta semplicemente soffermarsi a riflettere sulla misera fine fatta dall’ultimo tentativo di riforma penitenziaria per poter concludere amaramente e col pessimismo della ragione che c’è veramente poco da sperare. R: Come vedi oggi l’ergastolo senza speranza? Pasquale: È difficile esternare i sentimenti che travagliano il mio essere pensando alla mia pena. Cerco di non pensare all’ergastolo e vivere giorno per giorno le mie giornate cercando di cogliere il meglio di ciò che esse mi offrono nel quotidiano. R: Ad esempio? Pasquale: La lettura di un libro, la lettera di una persona cara, studiare, fare un po’ di ginnastica, organizzare una partita a calcio, cosa che diventa sempre più difficile per la pesantezza degli anni e per gli acciacchi da cui è sempre più arduo affrancarsi per il lento recupero del nostro fisico. Io mi aggrappo a queste cose, illudendomi di vivere una non vita di cui, purtroppo, sono consapevole. R: A cosa pensi quando la sera stai per addormentarti? Rocco: Quasi sempre mi appaiono immagini del mio passato. Anche se non vorrei che ciò accadesse, mi succede comunque. La mia razionalità mi dice che non si può continuare a vivere con la testa rivolta all’indietro. È contro natura, è contro la nostra naturale tendenza ad evolverci. R: Come vedi la tua vita? Rocco: Me la immagino come una lunga e tortuosa strada asfaltata dove io sono lì in piedi con lo sguardo all’indietro, nell’intento di camminare, ma segno il passo. È come un’immagine dipinta su una tela appesa alla parete. R: Ci pensi mai al senso di colpa? Felice: È un pensiero che mi tocca, certamente, ma sono talmente sotto l’enorme peso di questa pena che mi sento vittima io stesso. L’ergastolo ostativo è una pena in forte contraddizione con l’art. 27 della nostra Costituzione (“le pene devono tendere al recupero e al reinserimento del condannato”), non sono solo io a sostenerlo ma esimi giuristi ed intellettuali. Credo che uno stato Giusto debba egli stesso rispettare per primo le sue leggi fondamentali, solo allora avrà la piena legittimità di punire, cosicché il punito, non avendo nulla più da recriminare, avvertirà maggiormente il peso della sua colpa riconoscendo così la legittimità dello stato a sanzionarlo. R: Mi parli della contraddizione dell’ergastolo ostativo con l’art. 27 della Cost.? Pacifico: Il dibattito sull’ergastolo, se mantenerlo nel nostro Ordinamento o sancirne il suo superamento è questione annosa che risale fin dai tempi dei nostri padri costituenti. In sede di assemblea costituente, nel contesto della elaborazione dell’art. 27 della Cost., più precisamente sulla funzione delle pene, vennero presentate diverse formulazioni fra cui quella attinente ai relatori La Pira e Basso, che diceva così: “Le sanzioni penali devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti crudeli e disumani”. In seno all’adunanza plenaria della commissione per la costituente (Commissione dei 75) fu proposto e discusso un emendamento dei deputati Nobile e Terracini, particolarmente interessante in quanto quantificava in ragione di una afflittività crescente della pena detentiva, un limite massimo alla reclusione (15 anni) e secondo questo emendamento “ le pene e la loro esecuzione non possono essere lesive della dignità umana. Esse devono avere come fine precipuo la rieducazione del condannato allo scopo di farne un elemento utile alla società. Le pene restrittive della libertà personale non potranno superare un certo limite, se si vuole parlare seriamente di finalità rieducativa delle pene, altrimenti non soltanto cessa la finalità rieducativa, ma al contrario sono fonte di un processo di abbrutimento progressivo”. Questo sostenevano 70 anni fa i nostri padri costituzionali, sembra non essere cambiato nulla da allora, anzi pare peggiorata la situazione. Lasciare per tutta l’intera vita un condannato dentro le mura di una prigione, non è forse in forte contraddizione col fine nobile a cui le pene devono tendere? Tengo a precisare che l’emendamento di cui ho appena parlato non venne approvato, non tanto perché non lo si ritenne un principio condivisibile (l’art. 27 ne è l’attestazione), ma perché non venne ritenuto che il problema, pur di enorme peso, fosse materia di Costituzione. Fu così deciso, come anche per l’ergastolo, con un forte contributo anche da parte dell’on. Moro il quale così si è pronunciato: “Determinare fino a che punto la pena debba punire allo scopo di emendare è compito di dosaggio talmente delicato e legato a un tale complesso di elementi che si può dare soltanto un’indicazione di massima, lasciando al legislatore di valutare il problema”. Mi domando, trascorsi 70 anni da allora, il legislatore vorrà mai valutare il problema? Non è ormai giunto il tempo che si ponga mano ad una questione sospesa da ben 70 anni? Ha ancora senso continuare a tenere in vita un istituto ormai superato come è quello dell’ergastolo? R: Ma i cittadini si sentirebbero meno sicuri con l’abolizione dell’ergastolo? Paolo: Ecco l’altra menzogna. Tutti i dati statistici ci dicono che non funziona come deterrente. Il criminologo e narratore francese Gilbert Cesbron, nella sua opera “Storia della violenza” così ci dice: “il più elevato rigore di un sistema penale che ad esempio accresce il numero dei reati che contemplino la reclusione a vita non può rivestire, come dichiarato dai poteri che in quel momento esercitano la funzione legislativa, efficacia reale di deterrenza ma rappresenta invece un effetto placebo sulla collettività che si sentirà (a torto)più sicura”. R: Credi nel reinserimento sociale di una persona condannata all’ergastolo? Paolo: Ci credo fermamente. Non sono solo io a sostenerlo ma illustri Professori come ad esempio Umberto Veronesi, Giovanni Maria Flick e tanti altri ancora. Le persone cambiano nella loro essenza biologica nel corso degli anni. È scientificamente provato che le nostre cellule, i nostri tessuti cambiano e si rinnovano in continuazione. Il corpo di un uomo di quaranta anni non è più, biologicamente parlando, quello che era dieci anni prima. Le persone cambiano anche nel loro modo di pensare, nelle loro sensibilità. In carcere c’è chi riscopre lo studio, l’amore per la lettura, la partecipazione a corsi formativi a cui si ha la possibilità di accedere, la sofferenza, lo stacco coercitivo dalle persone amate, la riflessione sul proprio vissuto in gioventù, tutto questo insieme di sentimenti, conduce per forza ad un affinamento dello spirito e pertanto al cambiamento della persona. R: Come viene visto l’ergastolo senza speranza per chi un fine pena invece ce l’ha? Giovanni: È già angosciante per me che, seppur lunghissimo, un fine pena ce l’ho. Sinceramente non riesco a concepire l’idea di una pena che non finirà mai. La mia pena è di trent’anni e ricordo ancora come fosse ora la pronuncia del collegio giudicante allorquando uscì dalla camera di consiglio. Nel sentir pronunciare “Trent’anni” sentii il mondo crollarmi addosso. Il primo pensiero confuso e annebbiato dall’emozione del momento fu: “Morirò in carcere”. L’ergastolo senza speranza sinceramente non riesco proprio a immaginarlo. Credo che uccidere la speranza equivalga ad uccidere una seconda volta. Carmelo: Sono stato arrestato a ventisei anni e non avevo idea di cosa significasse la vita carceraria; la prima sensazione fu di vivere una non vita, una quotidianità distaccata dal mondo reale e ho conosciuto uomini del tutto annichiliti dai decenni passati in carcere, mi chiedevo: come è possibile vivere così disumanamente in questi luoghi? Eppure, sentivo parlare che in Italia non esistesse la certezza della pena ma ho dovuto “svegliarmi” da questa illusoria convinzione. Mi è difficile pensare ad una vita virtuale, come è quella dell’ergastolano, a volte tengo per me l’emozione di pensare ad un futuro per non urtare la sensibilità dei miei compagni che nonostante siano vivi non possono vivere la loro vita, visto che questa non gli appartiene più. Voghera, 22 giugno 2018 I redattori di “Ristretti Orizzonti”, Sede di Voghera (A cura di Grazia Paletta) (Fonti tratte dal libro “Contro l’ergastolo” di Stefano Anastasia e Franco Corleone) Carceri sempre più sovraffollate: capienza in deficit di 8mila posti di Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 25 giugno 2018 Le carceri italiane sono sempre più affollate e il divario fra presenze e posti disponibili si allarga. Dopo quattro anni di crescita ininterrotta, il numero di detenuti ha ormai oltrepassato le 58.500 unità (dati ministero della Giustizia al 31 maggio scorso) e si avvicina alla soglia dei 60mila, non più superata dal 2013, anno della sentenza Torreggiani con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) condannò l’Italia per i “trattamenti inumani e degradanti” causati dal sovraffollamento carcerario. Ad allargarsi è anche la forbice fra la capienza regolamentare (50.615 posti, contando 9 metri quadrati a persona) e gli occupanti effettivi (8mila in più). Solo nel 2015 lo scarto era intorno a quota 2.500. Le cause - Nel 2015, anche grazie agli interventi adottati dopo la condanna della Cedu, si toccò il limite minimo di 52.164 detenuti. Dopodiché le presenze hanno ricominciato a salire facendo segnare un aumento del 13% in tre anni. Le ragioni sono diverse: dal 2015 hanno ripreso ad aumentare (dopo sette anni) gli ingressi in carcere dallo stato di libertà, saliti in particolar modo nel 2016 (+5% nel biennio 2015-17). Ad aver inciso è inoltre la riduzione delle uscite anche per il venir meno, da gennaio 2016, della “liberazione anticipata speciale”, una misura svuota-carceri (Dl 146/2013) che aveva esteso da 45 a 75 giorni per semestre lo sconto di pena per chi partecipava a interventi di rieducazione. Alla base dell’incremento dei detenuti non c’è invece la presenza di stranieri, che è anzi scesa dal 37% del 2010 all’attuale 34 per cento. Misure alternative e lavoro in carcere - Nonostante le difficoltà, il ricorso alle misure alternative è comunque cresciuto e in otto anni il numero di chi sconta la pena al di fuori delle mura carcerarie è più che triplicato. Il merito è soprattutto dell’istituto della messa alla prova, introdotto nel 2014 e oggi utilizzato da oltre 13 mila persone, contro le 6.557 del 2015. Nato nel processo minorile, questo strumento permette agli adulti che hanno commesso reati lievi e ne fanno richiesta di evitare il processo e cancellare il reato, se svolgono svolgere attività e condotte riparative. “Le misure alternative potrebbero essere ancor più utilizzate - spiega Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti - ma la sempre più debole composizione sociale dei detenuti, spesso senza fissa dimora, ne limita il ricorso: in carcere oggi ci sono 8.198 persone con una pena residua inferiore a un anno. E questo nel 2017 ha pesato”. In crescita il numero di detenuti che svolge un’attività lavorativa, che resta comunque ben al di sotto della metà. A fine 2017 erano 18.404 (il 32%), in gran parte alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (soprattutto per lavori domestici) ma anche di imprese e cooperative che gestiscono lavorazioni all’interno delle strutture detentive. Le carceri? Sempre più piene. I detenuti sono oltre 58mila ma la capienza è 50mila di Giovanni Galli Italia Oggi, 25 giugno 2018 Sono 58.569 i detenuti nelle carceri italiane a fronte di una capienza regolamentare di 50.615 posti. È il dato, aggiornato al 31 maggio scorso, contenuto nella relazione al Parlamento del Garante dei detenuti, Mauro Palma, presentata il 15 giugno scorso, in cui si rileva che un anno prima (nel 2017) i reclusi nei 191 penitenziari del Paese erano 56.863, mentre nel 2016 53.495. “Numeri in aumento”, osserva il Garante, “seppur con un andamento di crescita negli ultimi mesi meno rapido, che descrivono una situazione che occorre tenere scrupolosamente sotto controllo, anche se certamente lontana da quella allarmante che aveva portato l’Italia a essere condannata per le condizioni delle sue carceri dalla Corte Edu nel 2013”. Gli stranieri sono “ormai presenti in modo consistente”, rileva ancora il Garante, con 20.856 presenze, pari al 35,6% della popolazione detenuta al 31 maggio scorso. Ecco gli spunti più interessanti emersi dalla relazione. Sono 23 le persone che si sono tolte la vita in carcere dall’inizio di quest’anno e “tantissimi” sono i casi di autolesionismo registrati. Per il Garante “il disagio psichico è un fenomeno in crescita all’interno degli istituti di pena”. Inoltre, il Garante mette in risalto la necessità di tutela per i “soggetti vulnerabili “, ossia quelle persone detenute o gruppi di detenuti che richiedono “maggiore attenzione e protezione”. Un’osservazione a parte, il Garante la dedica alle persone transessuali “attualmente censite in dieci sezioni specifiche con 58 presenze, tutte collocate in istituti maschili”: sarebbe “più congruo ospitare tali sezioni specifiche in istituti femminili”. Altro gruppo vulnerabile, oltre alla popolazione detenuta straniera (pari al 35,6% dei detenuti), è quello dei rom, sinti e camminanti. Il Garante evidenzia poi “l’assoluto vuoto trattamentale” in alcune sezioni dedicate alla detenzione femminile. Alla data del 31 maggio scorso, infine, risultano essere otto i bambini sotto i 3 anni che vivono in istituti di pena assieme alla madre detenuta. Risultano alti i numeri di bambini che entrano in carcere per far visita al genitore detenuto: una recente ricerca europea ha indicato che circa 2 milioni di bambini sono entrati almeno una volta in carcere nel corso del 2017. Le operazioni di rimpatrio forzato di cittadini stranieri irregolarmente presenti nel nostro Paese continuano a presentare forti “criticità”, alle quali va aggiunta “l’inerzia dimostrata dal ministero dell’Interno nel dare riscontro alle raccomandazioni inoltrate tramite i rapporti di monitoraggio”. Nel corso delle operazioni di rimpatrio forzato continuano a essere adottate pratiche “più volte stigmatizzate” e decisamente “non in linea con gli standard internazionali”. Il riferimento è, per esempio, “alla consuetudine, riscontrata nella gran parte delle operazioni monitorate (16 tra marzo 2017 e giugno 2018, ndr) di tenere anche per molte ore i polsi dei rimpatriandi legati tramite delle fascette in velcro, indiscriminatamente e in assenza di comportamenti apertamente non collaborativi”. Un’altra pratica bocciata dal Garante è quella di “non avvisare gli interessati per tempo dell’imminente rimpatrio, e cioè con un anticipo utile a verificare eventuali aggiornamenti della propria posizione giuridica, prepararsi non solo materialmente ma anche psicologicamente alla partenza e avvisare i familiari del proprio ritorno in patria”. Per i detenuti di sospetta o accertata appartenenza a organizzazioni terroristiche di matrice islamista, “devono essere promossi, con l’aiuto di competenze scientifiche specifiche, progetti e programmi che possano far avviare un percorso di deradicalizzazione delle persone che rispondono di o sono state condannate per reati aggravati dalla finalità di terrorismo di sedicente fondamentalismo religioso”. “Occorre adeguare le strategie di individuazione di soggetti potenzialmente volti al reclutamento di elementi vulnerabili”, afferma il Garante, “ponendo sotto specifica osservazione alcuni detenuti non già attraverso il mero riferimento a forme esteriori di adesione o di espressione verbale, bensì attraverso l’esame da parte di un gruppo multidisciplinare, che comprenda almeno una competenza linguistica adeguata, delle dinamiche relazionali che essi stabiliscono nella gestione della quotidianità detentiva”. Il Taser, la pistola elettrica di cui potrebbero essere presto dotate le forze dell’ordine, è “uno strumento che richiede molta più cautela di quanto la sua definizione di non letalità lasci presupporre”. Dopo aver ricordato che la sperimentazione è stata avviata dal Dipartimento della pubblica sicurezza nel marzo 2017 in un numero limitato di città, il Garante sottolinea che “il beneficio derivante da un minor utilizzo delle armi letali è controbilanciato da alcuni elementi negativi non trascurabili: i potenziali rischi di abuso; la sofferenza provocata dalla scarica elettrica alla quale è associato, oltre alla perdita di controllo del sistema muscolare, anche un dolore acuto; le ulteriori conseguenze di tipo fisico giacché la persona colpita dal Taser normalmente rovina a terra e quindi può provocarsi lesioni alla testa o a altre parti del corpo. Nei casi più gravi, infine, la morte per arresto cardiaco o conseguenze, per esempio, sulla salute del feto nel caso di donne incinte”. Tortura - Sia nel caso di maltrattamenti di due detenuti ad Asti nel 2004 che in quello inerente alle violenze avvenute a Bolzaneto nei giorni successivi al G8 di Genova del 2001, la Corte di Strasburgo, ricorda il Garante, “ha sottolineato che durante le indagini alle persone presuntivamente responsabili di maltrattamenti non è stata applicata alcuna forma cautelativa di sospensione, che al contrario hanno continuato le loro progressioni di carriera e soprattutto le loro funzioni anche di diretto contatto con persone private della libertà. Gli avanzamenti anche di persone coinvolte in tentativi di ostacolo alle indagini rendono ancora più problematica una situazione che con forza deve essere relegata alle culture del passato”. Le “espressioni di impegno a favore dell’assoluto rispetto dei diritti fondamentali sono rimaste dichiarazioni di principio, cui non hanno fatto seguito un effettivo miglioramento delle condizioni di vivibilità e/o una diversa impostazione organizzativa della struttura”. Tra i “nodi critici” il Garante sottolinea “scadenti condizioni materiali e igieniche delle strutture, assenza di attività, mancata apertura dei Centri alla società civile organizzata, scarsa trasparenza a partire dalla mancanza di un sistema di registrazione degli eventi critici e delle loro modalità di gestione, non considerazione delle differenti posizioni giuridiche delle persone trattenute e delle diverse esigenze e vulnerabilità individuali, difficoltà nell’accesso all’informazione, assenza di una procedura di reclamo per far valere violazioni dei diritti o rappresentare istanze”. Per questo, il Garante elaborerà un documento da inoltrare a tutti gli interlocutori istituzionali, nel quale saranno raccolti gli standard internazionali in materia di detenzione amministrativa. Bonafede: più prevenzione anti-suicidi “La riforma non mi trova d’accordo, così non può andare avanti. Ma si tratta di un vasto intervento e all’interno ci sono elementi che meritano attenzione, tra cui il lavoro penitenziario e la qualità della vita dei detenuti”. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede è intervenuto così alla presentazione della relazione del Garante dei detenuti Mauro Palma, illustrando il suo pensiero in tema di politica carceraria. “Intendo confrontarmi con il Garante per una nuova partenza”, ha affermato il Guardasigilli. Che poi ha spiegato la sua posizione sul 41bis: “Il regime di carcere duro è uno strumento irrinunciabile”; sui suicidi in carcere, “va rafforzato il piano nazionale per prevenire il fenomeno, perché in uno Stato di diritto è inaccettabile che un detenuto preferisca la morte alla detenzione”. In tema di corruzione, infine, Bonafede è stato netto: “È uno dei punti qualificanti del programma di governo. Alla condanna dei colletti bianchi corrotti”, ha sottolineato, “deve seguire una pena detentiva”. Stupefacenti: rapporto associativo tra fornitore e acquirente quando esiste un vincolo stabile di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 25 giugno 2018 Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 8 giugno 2018 n. 26280. In tema di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, ai fini della configurabilità del rapporto associativo tra fornitore e acquirente, al di là dei rapporti di cessione, è necessario che sia accertata l’esistenza di un vincolo stabile - riconducibile all’affectio societatis, e non il mero reciproco affidamento nelle operazioni di cambio: accertamento che può dirsi avvenuto solo se il giudicante verifica, attraverso l’esame delle circostanze di fatto, e, in particolare, della durata dell’accordo criminoso tra i soggetti, delle modalità di azione e collaborazione tra loro, del contenuto economico delle transazioni, della rilevanza obiettiva che il contraente riveste per il sodalizio criminale, che la volontà dei contraenti abbia superato la soglia del rapporto sinallagmatico contrattuale e sia stato realizzato un legame che riconduce la partecipazione del singolo al progetto associativo. Lo sostiene la sezione VI della Cassazione con la sentenza n. 26280 del 2018. È pacifico che il reato di partecipazione a un’associazione criminosa dedita al traffico di sostanze stupefacenti può ravvisarsi anche relativamente alla posizione dello stabile acquirente della sostanza stupefacente dall’associazione. In tal caso, infatti, la contrapposizione tra i soggetti tipica dello schema contrattuale sinallagmatico resta superata e assorbita nel rapporto associativo, per l’interesse preminente dei protagonisti dello scambio alla stabilità del rapporto, che assicura la certezza del contraente sia all’associazione, che trova la garanzia della disponibilità dell’acquirente della sostanza stupefacente commerciata, sia all’acquirente, che deriva dal rapporto associativo la certezza della fornitura. In conseguenza dell’accordo, quindi, i singoli atti di acquisto divengono altrettanti reati-fine dell’associazione, laddove, in assenza dell’accordo, essi rimangono singole illecite operazioni di natura sinallagmatica. In altri termini, non è di ostacolo alla costituzione del vincolo associativo e alla realizzazione del fine comune né la diversità degli scopi personali, né la diversità dell’utile, né il contrasto tra gli interessi economici che i singoli partecipi si propongono di ottenere dallo svolgimento dell’intera attività criminale. Nondimeno, precisa la Cassazione, il mutamento del rapporto tra fornitore e acquirente, da relazione di mero reciproco affidamento a vincolo stabile riconducibile all’affectio societatis, può ritenersi avvenuto solo se il giudicante verifica, attraverso l’esame delle circostanze di fatto, e, in particolare, della durata dell’accordo criminoso tra i soggetti, delle modalità di azione e collaborazione tra loro, del contenuto economico delle transazioni, della rilevanza obiettiva che il contraente riveste per il sodalizio criminale, che la volontà dei contraenti abbia superato la soglia del rapporto sinallagmatico contrattuale e sia stato realizzato un legame che riconduce la partecipazione del singolo al progetto associativo. Ne discende, quindi, che, allorquando si voglia ravvisare il ruolo partecipativo, il giudice è tenuto ad assolvere all’onere di motivazione con una particolare accuratezza e attenzione in considerazione della peculiarità della posizione del soggetto che si trova “fisiologicamente” - in quanto controparte di un sinallagma contrattuale - a essere portatore di un interesse economico contrapposto rispetto a quello dell’organizzazione criminale: la ritenuta intraneità al gruppo postula che, nonostante il naturale conflitto di interessi, sia ravvisata e dunque argomentata la coscienza e volontà del singolo di assicurare, mediante la fornitura continuativa o l’approvvigionamento continuativo della sostanza, il proprio stabile contributo al gruppo, alla realizzazione degli scopi criminosi e, dunque, alla permanenza in vita della societas sceleris (in questo senso, efficacemente, sezione VI, 29 novembre 2017, Desiderato e altri). Qui la Cassazione, si è occupata del rapporto tra fornitore e acquirente, ma la giurisprudenza è costante nell’ammettere il vincolo associativo anche in presenza di (altri) soggetti che hanno motivazioni illecite diverse (acquirente, venditore, importatore, ecc.): vi è casistica, ad esempio, che ravvisa la configurabilità del vincolo associativo tra il fornitore “all’ingrosso” di droga e gli acquirenti “al dettaglio” che la ricevono stabilmente per poi reimmetterla sul mercato; ovvero, analogamente, tra colui che importa la droga per rifornire il mercato e la rete stabile dei rivenditori e piccoli spacciatori della sostanza che a questi si rivolgono per poi spacciarla al minuto ai tossicodipendenti. A supporto di tale soluzione interpretativa va in effetti considerato che l’elemento soggettivo del reato associativo de quo è integrato dal dolo specifico, il cui contenuto è rappresentato dalla coscienza e volontà di partecipare e di contribuire attivamente alla vita dell’associazione volta alla realizzazione del comune programma criminoso mirante alla commissione di una serie indeterminata di delitti in materia di stupefacenti. Il dolo del reato associativo non va però confuso con il “motivo” squisitamente soggettivo che possa avere determinato un soggetto a far parte del sodalizio criminoso, nei termini suesposti; cosicché è indifferente che il contributo causale volontariamente prestato all’associazione risulti motivato pure dalla concorrente esigenza di realizzare finalità di ordine personale, come, esemplificando, l’approvvigionamento dello stupefacente necessario per l’uso personale, o simili. Ne consegue che, ai fini dell’apprezzamento del dolo, non è neppure richiesto che tutti gli associati perse­guano gli stessi scopi o utilità, purché ovviamente tutti agiscano nella consapevolezza delle attività degli altri partecipi volte alla realizzazione del comune programma criminale. Ciò che va peraltro sottolineato con chiarezza, per evitare indebite estensioni della fattispecie associativa (e in tal senso si esprime anche la sentenza qui massimata), è che occorre pretendere un giusto rigore sulla valutazione dell’effettivo rapporto causale fornito dai diversi soggetti all’attività dell’associazione. È ovvio allora che il problema risiede nella dimostrazione - sotto il profilo oggettivo e, soprattutto, sotto quello soggettivo - del vincolo associativo: a tal fine, tanto per esemplificare, non basta, di per sé solo, l’apprezzamento di una serie, pur ripetuta con frequenza, di operazioni di compravendita di sostanze stupefacenti concluse tra le stesse persone, occorrendo un quid pluris, vale a dire la dimostrazione che tutti i compartecipi abbiano agito, sia pure per una finalità concorrente di profitto proprio, con la volontà e consapevolezza di operare quali aderenti a un’organizzazione criminosa e nell’interesse della stessa; solo in presenza di dette condizioni i singoli atti di compravendita divengono altrettanti reati-fine dell’associazione, giacché, in difetto, rimangono singole illecite operazioni sinallagmatiche (cfr., per riferimenti, tra le tante, sezione VI, 16 marzo 2004, Benevento e altri; sezione IV, 6 luglio 2007, Cuccaro e altri; sezione VI, 11 febbraio 2008, Oidih e altro; sezione VI, 10 gennaio 2012, Ambrosio e altri). Mandato d’arresto europeo: il motivo di rifiuto obbligatorio della consegna Il Sole 24 Ore, 25 giugno 2018 Mandato di arresto europeo (Mae) - Condizione ostativa alla consegna ex art. 18, lett. p), l. 69/2005 - Obbligo del rifiuto - Condizioni. In tema di mandato d’arresto europeo, per opporre il motivo di rifiuto obbligatorio alla consegna, previsto dall’art. 18, c. 1, lett. p), della legge 69/2005 occorre che esista, rispetto all’ordinamento interno, non un’astratta possibilità, un potenziale interesse ad affermare la giurisdizione, ma un elemento oggetto serio, verificabile, cioè una situazione concreta che manifesti la “presa in carico” e la volontà effettiva dello Stato ad affermare la propria giurisdizione sul fatto oggetto del m.a.e., commesso in parte sul suo territorio, dimostrata dalla presenza di indagini sul punto. (Nel caso di specie è stato escluso il carattere obbligatorio del rifiuto in assenza di elementi concreti e di deduzioni sul punto da parte del ricorrente). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 18 giugno 2018 n. 27992. Mandato di arresto europeo - MAE - Consegna per l’estero - Reati commessi in tutto o in parte nel territorio italiano - Motivo di rifiuto previsto dall’art. 18, comma 1, lett. p), Legge 69 del 2005 - Sussistenza - Condizioni. In tema di mandato di arresto europeo, il motivo di rifiuto della consegna previsto dalla L. 22 aprile 2005, n. 69, articolo 18, comma 1, lettera p), sussiste quando anche solo una parte della condotta obiettivamente apprezzabile, pur se priva dei requisiti di idoneità e inequivocità richiesti per il tentativo, si sia verificata in territorio italiano, a condizione che tale circostanza risulti con certezza, non potendosi ritenere sufficiente la mera ipotesi che il reato sia stato commesso in tutto o in parte in Italia. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 9 giugno 2017 n. 28990. Rapporti giurisdizionali con autorità straniere - Mandato d’arresto europeo - Consegna per l’estero - Reati commessi in tutto o in parte nel territorio italiano - Motivo di rifiuto previsto dall’art. 18, comma primo, lett. p), della l. n. 69 del 2005 - Configurabilità - Criteri - Indicazione. In tema di mandato d’arresto europeo, sussiste il motivo di rifiuto della consegna previsto dall’art. 18, comma primo, lett. p), della L. n. 69 del 2005, solo quando la consumazione dei reati oggetto del m.a.e. sia avvenuta in tutto o in parte nel territorio italiano, e le relative condotte, sufficientemente precisate nei loro estremi oggettivi con riferimento a fonti specifiche di prova, siano idonee a fondare una notizia di reato che consenta all’autorità giudiziaria italiana l’immediato e contestuale esercizio dell’azione penale per gli stessi fatti per i quali procede il giudice estero. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 28 febbraio 2011 n. 7580. Massima redazionale - Estradizione e mandato d’arresto europeo - Mandato d’arresto europeo - Motivi di rifiuto della consegna - Associazione per delinquere straniera - Reato fine commesso in parte nel territorio italiano - Rilevanza - Esclusione - Fattispecie. In tema di mandato d’arresto europeo, ai fini dell’applicazione del motivo di rifiuto di cui all’art. 18, c. 1, lett. p), L. 69/05, in caso di reato associativo, occorre verificare il luogo ove quest’ultimo si è consumato, rivestendo importanza secondaria il diverso territorio in cui si sono realizzate le singole condotte integranti i reati fine del programma criminoso (fattispecie relativa alla partecipazione del ricercato ad una associazione criminale dedita in Germania all’immigrazione di clandestini provenienti dall’estero con transito in Italia). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 27 dicembre 2010 n. 45524. Rapporti giurisdizionali con autorità straniere - Consegna per l’estero - Applicazione del motivo di rifiuto di cui all’art. 18, lett. p), legge n. 69 del 2005 - Condizioni - Indicazione - Fattispecie. In tema di mandato di arresto europeo, quando la richiesta di consegna presentata dall’autorità straniera riguardi fatti commessi in parte nel territorio dello Stato e in parte in territorio estero, la verifica della sussistenza del motivo di rifiuto previsto dall’art. 18, comma primo, lett. p), della legge n. 69/2005, deve essere coordinata con la disposizione contenuta nell’art. 31 della Decisione quadro 2002/584/GAI del 13 giugno 2002, che fa salvi eventuali accordi o intese bilaterali o multilaterali vigenti al momento della sua adozione, “nella misura in cui questi consentono di approfondire o di andare oltre gli obiettivi di quest’ultima e contribuiscono a semplificare o agevolare ulteriormente la consegna del ricercato”. (Nel caso di specie, relativo a un m.a.e. processuale emesso dall’autorità tedesca per reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina commessi sia in Germania che nel territorio italiano, la Suprema corte ha rigettato il ricorso, ritenendo applicabile l’art. II dell’Accordo bilaterale italo-tedesco del 24 ottobre 1979, ratificato con legge 11 dicembre 1984 n. 969, con il quale le parti hanno inteso facilitare l’applicazione della Convenzione europea di estradizione del 1957, nell’ipotesi in cui la domanda di consegna riguardi anche altri reati non soggetti alla giurisdizione dello Stato di rifugio e risulti opportuno far giudicare tutti i reati nello Stato richiedente). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 27 dicembre 2010 n. 45524. I dati inviati a fini penali con rogatoria sono utilizzabili per l’accertamento di Marcello Maria De Vito Il Sole 24 Ore, 25 giugno 2018 Ctr Emilia Romagna 1045/4/2018. Se uno Stato estero limita l’utilizzo di dati trasmessi solo a specifici fini penali, questi possono essere utilizzabili anche a fini tributari. Ciò perché l’osservanza delle convenzioni internazionali non costituisce diritto fondamentale di rango costituzionale e, quindi, la sua violazione non comporta la nullità della pretesa tributaria, mancando in tale campo una disposizione equiparabile all’articolo 191 del Codice di procedura penale. Sono questi i principi statuiti dalla Ctr Emilia Romagna con la sentenza 1045/4/2018 (presidente Gobbi, relatore Ziroldi). Il caso - L’agenzia delle Entrate contestava a un contribuente l’omessa indicazione nel quadro RW di investimenti finanziari detenuti a San Marino e l’omessa dichiarazione di redditi, per pari importo, in virtù della presunzione legale relativa secondo la quale le somme detenute in Paesi black list sono alimentate da redditi sottratti a imposizione. Il contribuente ricorreva deducendo, tra l’altro, l’inutilizzabilità dei dati ai fini tributari, essendo stati dichiarati, per espressa riserva delle autorità sanmarinesi, utilizzabili ai soli fini dell’accertamento dei reati contenuti nella rogatoria. La Ctp accoglieva il ricorso dichiarando la documentazione inutilizzabile, poiché la materia fiscale non rientrava tra quelle oggetto di rogatoria. L’Agenzia appellava la sentenza. La sentenza - Secondo la Ctr, non è controverso che le autorità sanmarinesi avessero limitato l’utilizzo dei dati per l’accertamento di reati di associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio e all’esercizio abusivo del credito bancario. Tuttavia, ricorda la Ctr, la Cassazione è ferma nel ritenere che una qualsiasi irrituale acquisizione di dati non comporta, di per sé, l’inutilizzabilità degli stessi. Non esiste, infatti, nell’ordinamento tributario, una disposizione equiparabile all’articolo 191 del Codice di procedura penale. La nullità va dichiarata anche in campo tributario, continua la Ctr, solo quando sono violati diritti fondamentali di rango costituzionale. Pertanto, mentre è indubbio che i dati siano inutilizzabili per altri fini penali, resta da stabilire se lo siano ai fini tributari. La Ctr, conscia dell’oscillante giurisprudenza di merito, ritiene di correlare l’inutilizzabilità solo alla violazione di un divieto attinente a diritti fondamentali di rango costituzionale, quali domicilio, libertà personale, libertà e segretezza delle comunicazioni. Nel caso di specie, secondo i giudici, la prova acquisita in violazione del divieto ha leso l’interesse all’osservanza delle convenzioni internazionali. Tale diritto, però, non è compreso tra i diritti fondamentali di rango costituzionale, non ricevendo tutela dall’articolo 10 della Costituzione. Infatti, la Consulta ha più volte affermato che il comma 1 dell’articolo 10 si riferisce alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute e non ai singoli impegni assunti in campo internazionale dallo Stato. Di conseguenza l’interesse all’osservanza delle convenzioni non può assumere valore preminente rispetto a quello dello Stato di assicurare l’acquisizione dei tributi secondo la capacità contributiva dei cittadini. Pertanto, la Ctr ha accolto l’appello dell’ufficio. L’anatema al legale è minaccia di Francesco Barresi Italia Oggi, 25 giugno 2018 Lanciare anatemi al condizionale contro l’avvocato della controparte è considerata una minaccia. La Cassazione, nella sentenza 23592/2018, ha esaminato un ricorso su frasi ingiuriose scagliate contro il legale della parte avversaria. Una donna in aula aveva accusato l’avvocatessa con diversi insulti, minacciando di chiamare i carabinieri con tuoni e fulmini, concludendo con un oscuro “Vedrai!” per “spaventare il legale urlando e gesticolando con le mani”, tale da provocare “la verificazione di un effettivo turbamento psichico del predetto legale” minacciando di ridurre la sua vita “a una sciacalla”. Da qui i motivi di ricorso, che sono stati rigettati dai tribunali di Brindisi, che però sono stati esibiti presso i giudici del Palazzaccio. Ma i porporati hanno ribaltato il quadro accusatorio accogliendo i motivi di doglianza. Questo perché “la minaccia, espressa con le parole “… vedrai …”, non può ritenersi condizionata ad alcunché se non alla volontà stessa del soggetto che le ha pronunciate. L’assenza di una condizione non sminuisce certamente la valenza intimidatoria”, spiegano i giudici, “che non è stata esaminata compiutamente dal giudice, in riferimento alla contestazione, contenuta nel capo di imputazione indicativa, per un verso, di ulteriori affermazioni”, bacchettando in sordina i giudici di primo e secondo grado sulla “motivazione del Tribunale che non ha dato contezza esauriente alle doglianze, mosse dalle appellanti, circa la riconducibilità del delitto di minaccia al comportamento aggressivo”. A questo si aggiunge “l’indeterminatezza del male ingiusto prospettato”, in cui i giudici “non tengono conto, per un verso, del tenore complessivo delle frasi, sopra riportate, coincidente, per l’appunto, con una prospettazione della riduzione della vita a “una sciacalla, con un evidente significato implicito, ricollegabile a un male ingiusto, oltre a non prendere in considerazione i singoli costituii testimoniali anzidetti, indicativi della situazione nel suo insieme”. Trento: il Polo giudiziario sarà pronto nel 2029, parte con 10 anni di ritardo Giornale del Trentino, 25 giugno 2018 Doveva essere inaugurato nel 2015. Addio al vecchio progetto: pubblicato il bando per la ristrutturazione dell’ex carcere. Ha 10 anni di ritardo il nuovo Polo Giudiziario di Trento. Doveva essere pronto nel 2015 ed è già costato 8 milioni di euro per un progetto frutto di un concorso internazionale ma che, commissionato prima della crisi economica, resterà per sempre in un cassetto. Ora si riparte. La Provincia infatti - che ha ridimensionato la portata dell’intervento, dimezzando di fatto i costi - ha pubblicato nei giorni scorsi il bando per la progettazione esecutiva di un primo lotto preliminare. Si tratta di una procedura europea per individuare il progettista (o il gruppo di progettazione) che si occuperà del progetto esecutivo della ristrutturazione dell’ex carcere. Questo intervento dovrebbe concludersi entro il 2023. Quindi dovrebbe partire la costruzione della nuova palazzina, prevista nell’area dell’ex carcere dove nei mesi scorsi sono stati demoliti i laboratori usati dai detenuti. In questo caso l’intervento, che prevede anche la realizzazione dei parcheggi interni alla struttura, dovrebbe concludersi entro il 2026. Solo a quel punto gli uffici giudiziari che ora sono ospitati nell’attuale palazzo di giustizia dovrebbero traslocare all’interno dell’ex carcere e nel nuovo edificio, per poter partire (finalmente) con la ristrutturazione del palazzo principale, cioè quello affacciato su largo Pigarelli, con inizio però dalla nuova ala (interna alla struttura) realizzata negli anni Sessanta. L’intero polo (che costerà circa 60 milioni di euro) dovrebbe essere terminato entro il 2029. Sassari: incendi e piani di rivolte, caos nella Guantánamo italiana di Simone Di Meo Il Giornale, 25 giugno 2018 Il penitenziario di Sassari custodisce 30 super terroristi islamici. Ormai diventati un problema di ordine pubblico. Fu quando un detenuto della sezione “Alta Sicurezza 2” si portò l’indice destro alla gola e fece il gesto di reciderla, guardando fisso negli occhi un agente, che divenne chiaro che nel carcere di Bancali, a Sassari, quello che avevano preconizzato i Servizi segreti e gli 007 del Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria stava già accadendo. I jihadisti della struttura penitenziaria sarda sono diventati un problema di ordine pubblico nella piccola monarchia che regola la vita dietro le sbarre. Sono circa una trentina, i terroristi “AS2”, e vivono più reclusi dei reclusi: non possono pregare assieme e non hanno modo di fare socialità con i detenuti comuni, musulmani o meno che siano. “C’è da evitare il virus del proselitismo che è molto più forte con chi è in una situazione di debolezza psicologica”, dice un investigatore al Giornale. Appena qualche giorno fa, un sospetto jihadista (a Bancali e a Rossano Calabro sono destinati quasi tutti gli indagati e i condannati per fatti di terrorismo di matrice islamica avvenuti in Italia) ha cercato di distruggere gli interni della cella, e solo per mancanza di tempo non è stato in grado di completare l’opera. Il vandalismo è la forma di aggressione più comune in situazioni del genere: non potendo sgozzare le persone, sgozzano le cose. Porte divelte e materassi smembrati sono danni collaterali quasi calcolati, da queste parti. Ci sono stati anche due tentativi di incendi domati dall’arrivo degli agenti, e qualcuno giura che ogni tanto risuonino inni di guerra santa lungo i corridoi. Il rischio Isis nelle carceri è ben noto all’intelligence e al Dipartimento, e non solo per il caso di Bancali. Alcuni terroristi sono stati intercettati, con i microspie nelle celle, mentre discutono di rivolte da organizzare e di lame da affilare per accoltellare gli uomini in divisa. Le conversazioni sono state trascritte in diverse informative. Gli unici ad aver intuito il potenziale esplosivo di Bancali sono i sindacati di categoria che tempestano di segnalazioni il ministero della Giustizia. Una delle ultime riguarda un imam che ha sfondato a mani nude l’area di pernottamento. “Il Dipartimento deve andare ad integrare quanto prima le figure di comando iniziando da commissari con provata esperienza - denuncia il delegato nazionale Sappe Antonio Cannas. Ci sono tre ispettori e appena sei sovrintendenti, peraltro tutti i giorni impiegati nelle videoconferenze dei detenuti a regime del 41bis”. Il risultato è che l’intero istituto è lasciato alla responsabilità degli assistenti capo. C’è poi un’altra grana che concorre a rendere tutto meno fluido nella gestione delle criticità. È ancora Cannas a parlare: “Serve un direttore che si occupi solamente di Bancali e non, come avviene adesso, pure della complessa casa circondariale di Nuoro”. La guerra al terrorismo non può essere part-time. Porto Azzurro (Li): Cooking for Freedom, aperitivo in carcere quinewselba.it, 25 giugno 2018 A Forte San Giacomo si conclude il percorso del progetto europeo che ha coinvolto partner dalla Turchia, dalla Lituania e dal Portogallo. Arriva a conclusione il progetto Europeo Cooking for Freedom, un percorso nato nel cuore dell’isola d’Elba che ha coinvolto partner dalla Turchia, dalla Lituania e dal Portogallo. Grazie alla collaborazione tra la casa di reclusione di Porto Azzurro, la cooperativa Beniamino e l’Istituto Alberghiero e della ristorazione “Brignetti”, sull’isola è stato attivato un corso di formazione cui hanno preso parte alcuni detenuti e alcuni studenti dell’Istituto di Portoferraio. Il progetto ha proposto la sperimentazione di un mini-curriculum formativo europeo, strettamente collegato con le realtà produttive locali, con l’obiettivo di aumentare la collaborazione tra territorio e casa di reclusione di Porto Azzurro e fornire esperienze d’integrazione reale alle persone recluse. Martedì 26 alle 12.00 nei giardini di Forte San Giacomo, si terrà la cerimonia di chiusura del percorso, in cui, alla presenza dei rappresentanti di tutti i paesi partner, saranno consegnati i diplomi agli studenti e si potranno assaggiare i piatti preparati dai detenuti che hanno preso parte a C4F. Larino (Cb): teatro in carcere, i detenuti portano in scena “La gatta Cenerentola” primonumero.it, 25 giugno 2018 Una delle redazioni più note della fiaba di Cenerentola, racconto popolare che è stato tramandato sin dall’antichità in centinaia di versioni. Ma a rendere tutto ciò ancora più interessante saranno i protagonisti-attori, i detenuti del carcere di Larino. “C’era una volta un principe vedovo, il quale aveva una figlia a lui tanto cara. Ma, essendosi il padre riammogliato di fresco e avendo preso una rabbiosa, malvagia e indiavolata femmina, questa maledetta cominciò ad avere in odio la figliastra, facendole cere brusche, visi torti, occhiate di cipiglio, da darle il soprassalto per la paura.” Così prende vita il testo di Giambattista Basile, La gatta Cenerentola, che verrà rappresentato venerdì 29 giugno, sabato 30 giugno e domenica 1 luglio alle 20,30 nella Casa circondariale di Larino. Lo spettacolo che andrà in scena è frutto del laboratorio teatrale guidato da Giandomenico Sale e Gisela Fantacuzzi che vede come protagonisti i detenuti del carcere frentano. Spettacolo e buffet avranno un costo di 15 euro. Gli organizzatori invitano tutti coloro che fossero interessati a non mancare. Per info e prenotazioni: 347 0603551. Milano: “Disequilibri circensi”, i detenuti di Opera scendono in pista di Livia Grossi Corriere della Sera, 25 giugno 2018 Il controllo dei passaporti, l’addio di una figlia al padre e quella nave dove tutti ammassati raccontano il motivo della propria partenza. Si riflette sulle migrazioni fisiche ed emotive con “Disequilibri circensi”, il nuovo spettacolo degli attori detenuti ed ex reclusi del carcere di Opera. In scena una grande pista da circo dove tra animali più o meno addomesticati va in scena la vita, una drammaturgia collettiva e multilingue diretta da Ivana Trettel (al Castello Sforzesco, piazza delle Armi ore 21, 12 euro. Prenotazioni: operaliquidaorganizzazione@gmail.com tel. 329.137.90.18). “La nostra compagnia Opera Liquida, è composta da un gruppo di persone di diversa provenienza, albanesi, romeni, sud americani, filippini, ascoltare le loro storie è stato il motore dello spettacolo”, dice la regista. “Un lavoro poetico dove ognuno si confronta con la propria migrazione e i personali spostamenti dell’anima misurando la differenza che c’è tra un mondo e l’altro, ma anche quella lontananza che si può sentire stando vicini”. Sul palco dunque, o meglio in quel grande cerchio dove tutto accade, protagonisti gli acrobati e giocolieri della vita, attori detenuti ed ex che in abiti circensi e naso rosso raccontano le distanze tra la “pista” e la realtà, “nessuno avrà vergogna di ciò che fa vergogna, nessuno avrà pietà di ciò che fa pietà”. La storia che ci lega all’Europa di Sabino Cassese Corriere della Sera, 25 giugno 2018 È bene che l’Italia faccia sentire la sua opinione a Bruxelles. Ma è sbagliato assumere toni guerreschi. Sono molte le decisioni importanti, di breve periodo e di lungo periodo, che vanno prese a Bruxelles. Quelle che riguardano le migrazioni, dal pagamento promesso alla Turchia ai respingimenti, dal meccanismo di solidarietà alle rilocalizzazioni. Quelle riguardanti il bilancio europeo, la trasformazione del Meccanismo europeo di stabilità in un Fondo in grado di intervenire in situazioni di crisi dei debiti sovrani, il rispetto da parte italiana degli obblighi di bilancio assunti per la partecipazione all’eurozona. Quelle attinenti al completamento dell’Unione bancaria. Su tutti questi temi è bene che l’Italia faccia sentire la sua opinione, ma è sbagliato assumere toni guerreschi, come se l’Unione fosse un nemico dal quale difendersi o da tenere sotto controllo. Fare proposte e tenere una linea dura può servire, ma non serve mettere l’Unione in stato di accusa. Si corre il pericolo di delegittimare l’Unione proprio nel momento in cui è utile restare uniti per essere ascoltati dall’Onu, dall’organizzazione dei rifugiati, dall’organizzazione internazionale per le migrazioni, perché il fenomeno migratorio riguarda tutti i continenti, è problema mondiale e non può essere affrontato dalla sola Unione Europea. A questo si aggiunge che noi abbiamo bisogno dell’Unione Europea. Essa ha assicurato sessanta anni di pace dopo due guerre mondiali che hanno prodotto immense distruzioni e circa 60 milioni di morti, e può ancora evitare che rinascano i demoni delle divisioni che provocarono quelle distruzioni e quei morti. Ha consentito a piccole nazioni, come quella italiana, di avere un posto nel mondo, dove sarebbe rimasta inascoltata da potenze demograficamente, economicamente e militarmente tanto più grandi. Ha anche agevolato l’introduzione di leggi moderne, come quella ambientale, che non saremmo riusciti, da soli, ad adottare in breve tempo. Il fatto che l’Europa conviene non vuol dire che dobbiamo accettare passivamente le decisioni europee. Dobbiamo far valere l’interesse nazionale, ma senza dimenticare che c’è un interesse comune più importante, che non va perduto di vista. Anche perché l’Unione è andata molto più avanti di quel che i suoi fondatori speravano e si trova ora a un tornante importante nel quale non deve mancare la capacità di diagnosi e di progettazione dei Paesi fondatori, come l’Italia. Far la voce grossa a Bruxelles, con un occhio all’elettorato italiano, cercando di suscitare o di alimentare paure o di far rivivere orgogli nazionalisti è miope, specialmente se i crociati della guerra all’Europa chiedono a essa quella solidarietà verso l’Italia che essi stessi, su territorio italiano, hanno negato alle regioni del Sud, promuovendo e sostenendo i due referendum, quello lombardo e quello veneto, con i quali chiedevano di assegnare a quelle regioni quello che esse hanno dato, così pareggiando i conti. Negoziamo, dunque, proponendo, piuttosto che alzando la voce e promuovendo sfiducia, e ricordando che è nell’interesse nazionale che l’Unione progredisca, divenga “sempre più unita”, come è scritto all’inizio del Trattato sull’Unione Europea. Vertice Ue sui migranti finito senza un’intesa di Alberto D’argenio La Repubblica, 25 giugno 2018 Il presidente del Consiglio Conte si è presentato al mini vertice con un piano in dieci punti: “Responsabilità comune sui naufraghi”. Palazzo Chigi chiede campi in Niger e Libia dove accogliere i migranti e scremarli tra rifugiati da portare in Europa e gli altri da rimpatriare e poi centri di accoglienza in più Paesi Ue per chi dovesse comunque oltrepassare il mare. Macron: “Soluzione a 28 o tra gruppi di Stati”. Concordanza sul rifinanziamento del trust fund per l’Africa. Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte è arrivato a Bruxelles dopo una settimana di duelli furibondi con mezza Europa. E ha portato sul tavolo del vertice informale di sedici Stati membri - che precede il Consiglio europeo del 28 e 29 giugno - un progetto per risolvere l’emergenza immigrazione. “Siamo qui per presentare una proposta italiana completamente nuova - sostiene il premier, accompagnato dal portavoce Rocco Casalino - basata su un nuovo paradigma di risoluzione dei problemi della migrazione”. La riunione si è conclusa. “La proposta di Conte? La studieremo”, è stata la prima reazione del premier spagnolo Pedro Sanchez. Ecco la proposta di mediazione italiana in dieci punti che Giuseppe Conte ha portato al minivertice europeo di Bruxelles che lo stesso premier ha ribattezzato European Multilevel Strategy for Migration. I punti principali per sbloccare la trattativa con i partner Ue: da un lato Roma chiede un “responsabilità comune tra Stati sui naufraghi in mare”, dunque punta a far sbarcare in tutti i paesi rivieraschi i migranti salvati nel Canale di Sicilia. Bisogna scindere - questa la posizione italiana - tra porto sicuro di sbarco e Stato competente a esaminare le richieste di asilo. “L’obbligo di salvataggio non può diventare obbligo di processare domande per conto di tutti”. In cambio il governo italiano accetterebbe gli accordi sui movimenti secondari richiesti da Merkel per salvare il suo governo, ovvero intese per impedire ai migranti registrati in un Paese di riversarsi negli altri. Infine Palazzo Chigi chiede campi in Niger e Libia dove accogliere i migranti e scremarli tra rifugiati da portare in Europa e illegali da rimpatriare. A questo scopo l’Ue dovrebbe lavorare con l’Unhcr e l’Oim. Chi - nonostante i centri in Africa - dovesse comunque attraversare il Mediterraneo, secondo Roma andrebbe suddiviso in più paesi dell’Unione. Il vertice di Bruxelles è iniziato intorno alle 15,30 alla presenza di sedici leader, tra cui oltre a Conte anche Merkel, Macron e Sanchez, per avvicinare le posizioni in vista del cruciale Consiglio europeo di giovedì e venerdì prossimo. Secondo fonti di Palazzo Chigi Conte ha parlato per primo presentando la sua proposta ai partner. E ha ribadito il no alla proposta franco-spagnola, in particolare per quanto riguarda gli hotspot nei Paesi europei (Italia, Spagna e Grecia non possono diventare il campo profughi d’Europa, questa la posizione italiana). L’idea si fonda sulla necessità di considerare europee le frontiere, indipendentemente dal Paese di arrivo dei migranti. E, di conseguenza, ripartire per quote prestabilite tutti i migranti, che abbiano o meno diritto all’asilo, che siano o meno destinati al rimpatrio. “Vogliamo superare completamente il regolamento di Dublino, basato su una logica emergenziale. Noi vogliamo affrontare il problema in modo strutturale. Le nostre opinioni pubbliche ce lo chiedono”. Secondo il capo del governo, che ancora ieri ha visto i suoi vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio lottare a colpi di tweet e dichiarazioni pubbliche contro il Presidente francese Emmanuel Macron, la proposta italiana si fonderà sulla European Multilevel Strategy for Migration. È articolata in sei premesse e dieci obiettivi ed è mirata a proporre una puntuale politica di regolazione e di gestione dei flussi migratori, che sia realmente efficace e sostenibile”. L’obiettivo è superare le resistenze franco-tedesche e ottenere una modifica nella gestione dei movimenti primari dei migranti. Soltanto ottenuto questo obiettivo Roma è disposta a venire incontro alle richieste di Macron e Merkel sui movimenti secondari. Risponde a distanza Angela Merkel. “Oggi è un incontro molto importante” per trovare “accordi bilaterali e trilaterali” sul tema della migrazione, ha precisato la cancelliera tedesca. “L’aspettativa è che si possa trovare una soluzione comune in questi giorni”, in vista del vertice europeo di giovedì. “Sappiamo che non esiste ancora una soluzione europea - ha poi ammesso - quindi si tratta di trovare accordi bilaterali, di come possiamo aiutarci a vicenda e trattarci reciprocamente in modo equo e onesto”. Sulla stessa linea Emmanuel Macron. “Dobbiamo trovare una soluzione europea sui migranti - ha dichiarato il presidente francese - e si costruirà solo attraverso la cooperazione dei Paesi dell’Ue, che si tratti di una collaborazione a 28 o tra più Stati che decidono di andare avanti assieme. Questo richiede la responsabilità di ciascuno e spirito di solidarietà per condividere il peso che alcuni Paesi conoscono”. “Adesso non è il momento di puntare il dito contro qualcuno, ma credo che si debbano trovare soluzioni, non è un gioco allo scaricabarile”, ha detto il premier maltese Joseph Muscat, ha detto il premier maltese Muscat, anche lui protagonista di un braccio di ferro con il governo di Roma negli ultimi giorni. Su una cosa però pare si sia giunti a un’intesa: il rifinanziamento del Trust Fund per l’Africa, a cui tiene moltissimo l’Italia in funzione libica. Conte ha riferito della telefonata avuta con il premier Al Serraj, che a sua volta ha confermato l’impegno di Tripoli nella gestione dei flussi. Egitto. Giulio Regeni, dopo 29 mesi la verità non c’è ancora di Riccardo Noury Corriere della Sera, 25 giugno 2018 Ventinove mesi fa Giulio Regeni veniva visto per l’ultima volta nelle strade del Cairo, prima che venisse inghiottito nel sistema repressivo dello stato egiziano. Quel giorno nel lunghissimo elenco di scomparsi, torturati e assassinati dell’era al-Sisi, compariva il nome di un cittadino italiano. Nei due anni e cinque mesi successivi, le autorità egiziane hanno depistato, preso tempo, ritardato. Hanno fatto muro, trincerandosi dietro l’omertà e l’impunità tipiche di quei regimi in cui basta un’ammissione perché crolli tutta la catena di comando e vengano fuori i nomi. Basti pensare che ci sono voluti 28 mesi per ricevere una minuscola porzione delle immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza del Cairo. Chissà mai cosa potrà esserci rimasto impresso, dopo così tanto tempo. Se lo stato che deve fornire la verità collabora poco, è altrettanto poco quanto ha fatto in tutto questo periodo lo stato che quella verità dovrebbe pretenderla. Dei due ultimi governi, ricorderemo un solo gesto “inimichevole” nei confronti dell’Egitto: il ritiro provvisorio dell’ambasciatore al Cairo, deciso nell’aprile 2016 e annullato “a furor di politica” il 14 agosto 2017, col conseguente ripristino delle normali relazioni diplomatiche lo stesso giorno del mese successivo. Le autorità egiziane e la stampa governativa (aggettivo superfluo, dato che di quella indipendente - tra arresti di giornalisti e chiusure di portali - è rimasto ben poco) hanno festeggiato alla grande, interpretando il ritorno dell’ambasciatore come un segnale di resa nei confronti di un paese “partner ineludibile” guidato da “un interlocutore appassionato nella ricerca della verità” (entrambe le citazioni sono dell’ex ministro degli Esteri Angelino Alfano). Con non minore soddisfazione sono state accolte al Cairo le parole del vicepremier e ministro degli Interni dell’attuale governo, Matteo Salvini, per il quale quello che sotto Renzi e Gentiloni era il “caso Regeni”, è diventato il “problema Regeni”. Un “problema” privato, una questione di famiglia che deve cedere il passo di fronte all’esigenza di avere “buoni rapporti” con l’Egitto. Sono bastate poche settimane per capire che l’espressione “Prima gli italiani” è seguita da un asterisco che rimanda a una lunga, sempre più lunga serie di eccezioni. Tra le eccezioni c’è Giulio Regeni. Vittima di una delle numerosissime violazioni dei diritti umani in Egitto che, in nome dei buoni rapporti bilaterali, può essere derubricata a un dramma privato. Di privato non c’è proprio nulla nella storia di Giulio. Ci sono le responsabilità di funzionari dello stato egiziano (alle generalità dei quali è giunta la procura di Roma nel corso delle indagini). C’è l’attenzione di un po’ di parlamentari europei, di qualche senatore e deputato italiano e del presidente della Camera Roberto Fico). Ci sono gli 250 comuni italiani che espongono lo striscione “Verità per Giulio Regeni” (le ultime due adesioni sono arrivate il 22 giugno dai comuni di Lucca e Capannori), le decine di migliaia di persone che ogni giorno sui social media seguono e rilanciano le notizie provenienti dall’Egitto, le centinaia e centinaia di aderenti allo sciopero della fame a staffetta promosso per chiedere la scarcerazione di Amal Fathy - moglie del dirigente della principale Ong egiziana per i diritti umani - dall’avvocata della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini, e dai genitori di Giulio. Soprattutto ci solo loro, Paola e Claudio Regeni. “Noi di sicuro non molliamo”, ha detto Claudio Regeni pochi giorni fa al congresso nazionale dell’Usigrai. Noi, nemmeno. Turchia. Erdogan vince al primo turno e accresce il proprio potere personale di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 25 giugno 2018 All’uomo che governa il Paese da 16 anni è andato più del 52% dei voti. Fermata una volontaria italiana: “Propaganda terrorista”. La sconfitta è amarissima per l’opposizione turca. Il piano del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che aveva convocato elezioni anticipate per assumere poteri visti raramente in uno Stato democratico, è riuscito. Nonostante la caduta della lira e l’inflazione galoppante, i turchi hanno scelto ancora una volta lui. Dei 59 milioni di cittadini chiamati alle urne ha votato quasi l’87%, un’affluenza altissima anche per la Turchia. All’uomo che governa il Paese da 16 anni è andato più del 52% dei voti. Il suo principale rivale, il socialdemocratico Muharrem Ince ha superato il 30%, un risultato insperato soltanto due mesi fa quando l’ex professore di fisica era poco conosciuto ma che non è abbastanza per arrivare al secondo turno. “La competizione non è stata equa, ma accetto che Erdogan ha vinto”. ha dichiarato Ince. Ieri sera Erdogan, 64 anni, è apparso in televisione con il volto stanco, segnato dalle occhiaie, per rivendicare “la vittoria della democrazia”. “Il popolo ha parlato e ci ha chiesto di portare avanti la riforma presidenziale - ha detto. Spero che nessuno ora voglia gettare ombre sui risultati e danneggiare la democrazia per nascondere il proprio fallimento”. Un chiaro monito ai socialdemocratici del Chp che ha subito parlato di “manipolazioni del voto”. In molte città i sostenitori dell’Akp sono scesi in piazza suonando i clacson senza sosta per festeggiare la vittoria. “Da domani i prezzi di patate e cipolle torneranno alla normalità - ha detto sicuro Habib, 32 anni. Questo è stato solo un complotto contro Erdogan per farlo perdere”. È d’accordo con questa tesi Sadrettin, 62 anni: “Ma quale crisi economica! Il destino è nelle nostre mani”. Di certo da oggi la Turchia ha ancora di più un solo uomo al comando. La riforma costituzionale concentra il potere esecutivo nelle mani del capo dello Stato. Sarà lui a nominare i membri del governo e i vicepresidenti senza dover ricorrere alla fiducia parlamentare. Ma non solo: Erdogan sceglierà anche diversi alti funzionari dello Stato, molti dei giudici più importanti, diplomatici e rettori universitari. In particolare, potrà scegliere 12 dei 15 componenti della Corte costituzionale e 6 sui 13 del Csm. Le aspettative di chi voleva rovesciare il regno del Sultano sono state deluse anche in Parlamento dove l’alleanza del Popolo, che comprende l’Akp e i nazionalisti dell’Mhp, ha raggiunto la maggioranza assoluta con oltre il 52% ma il partito di Erdogan non ha ottenuto i 301 seggi necessari per governare senza scendere a compromessi con il compagno di cordata Devlet Bahceli che in diverse occasioni si è mostrato critico verso alcune decisioni dell’esecutivo. Per quanto riguarda l’opposizione il socialdemocratico Chp ha avuto il 22% e, nell’alleanza con il partito Buono di Meral Aksener e l’islamista Saadet, raggiunge il 34%. L’unico neo nei progetti del presidente è l’affermazione dell’Hdp, il partito filo curdo, che riesce a superare la mostruosa soglia di sbarramento del 10% ed entrare in Parlamento con 66 deputati. Il suo leader Selahattin Demirtas, che dal carcere si era candidato alla presidenza, ha ottenuto quasi l’8%. Una bella affermazione data la totale impossibilità a fare campagna elettorale. Ma per lui il futuro non appare roseo. Erdogan chiede da tempo una sua condanna esemplare. Stati Uniti. Il caos dei bimbi detenuti italiastarmagazine.it, 25 giugno 2018 I 2.300 bambini strappati alle famiglie dei migranti sono stati smistati in oltre 100 strutture di 17 stati diversi degli Usa. E rintracciarli uno per uno non è un’operazione semplice. Se possibile, la firma di Donald Trump sul ricongiungimento dei bambini separati a forza dai genitori migranti, ha creato un’enorme confusione e un grande imbarazzo nel Congresso americano. Una decisione presa sulla spinta dell’indignazione mondiale e della discesa in campo di Melania e Ivanka, moglie e figlia del presidente, che hanno convinto Trump ad una marcia indietro necessaria, pena passare alla storia come uno dei peggiori despoti dell’umanità. Ma il rischio, in mancanza di direttive e piani d’azione, è l’aumento esponenziale di azioni legali, anche perché a fronte del decreto di riunificazione dei nuclei familiari, il numero uno della Casa Bianca continua a sbandierare la “tolleranza zero”. I primi problemi sono stati sollevati da Kevin K. McAleenan, responsabile della “Customs and Border Protection”: secondo una legge del 1997, non è possibile detenere adulti e minori oltre i 20 giorni, e pattugliare, arrestare e rinchiudere i migranti che premono alle frontiere meridionali significa un impegno di forze straordinario, con creazione di centri e potenziamento delle forze sul campo. Ma la nota dolente è un’altra: i 2.300 bimbi strappati alle famiglie sono stati smistati nelle oltre 100 strutture della “Health and Human Services Department” di 17 stati diversi. E il ricongiungimento deve partire dall’individuazione esatta del minore, cosa niente affatto semplice che ancora una volta richiede un’organizzazione capillare da creare in fretta e furia per placare le polemiche mondiali. Tantissime sono le famiglie di migranti che hanno chiesto la tutela di legali, trovandosi di fronte alla più sconsolata delle risposte: nessuno sa con esattezza dove siano i loro figli. Pochissimi, al momento, coloro che sono riusciti a mettersi in contatto con i loro bimbi. Minori strappati alle braccia di mamma e papà che vanno ad aggiungersi alle migliaia di altri ragazzini che nel tempo hanno tentato di superare il confine da soli, senza alcun adulto ad accompagnarli: per la legge vanno arrestati, smistati nei centri e custoditi fino alla maggiore età, quando sono espulsi. Casi che riguardano l’81% dei minori custoditi attualmente, secondo i dati dello Health and Human Services Department, e di questi il 79% ha dai 13 anni in su. C’è poi un altro caso pronto ad esplodere: sui media, le storie di bambini calmati a forza con sedativi si moltiplicano, come le strutture in cui sono ospitati, a volte gestiti da organizzazioni religiose, altre con standard sanitari allarmanti. In Congresso, a cui Trump ha chiesto di velocizzare la nuova legge sull’immigrazione, è nel caos: gli stessi repubblicani sono spaccati a metà fra chi sposa la linea dell’intransigenza e coloro che al contrario preferirebbero una linea più morbida, temendo ripercussioni nelle elezioni di “midterm” del prossimo novembre.