Per Davigo il sovraffollamento delle carceri è una fake news. Non è così di Ermes Antonucci Il Foglio, 24 giugno 2018 Negli ultimi mesi il numero di detenuti ha toccato le 58.569 unità, ben 8mila in più della capienza massima delle nostre strutture penitenziarie. Con il ritorno della calura estiva, gli organi di informazione tornano a occuparsi della grave situazione di sovraffollamento nelle carceri italiane. Si tratta di un tema che questo giornale ha sempre seguito con grande attenzione. Solo alcuni mesi fa, segnalavamo il preoccupante aumento del numero di persone recluse (e con esso del tasso di suicidi in cella), a dispetto delle parole di giubilo espresse nel 2016 dall’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando, di fronte all’archiviazione della procedura pilota aperta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per il sovraffollamento carcerario, che tanta vergogna ci procurò a livello internazionale. Negli ultimi mesi, però, il numero di detenuti ha continuato ad aumentare, toccando i 58.569 al 31 maggio scorso, oltre 6mila in più di quelli registrati a gennaio 2016. Il tutto, si badi, con una capienza regolamentare delle strutture penitenziarie rimasta ferma a 50.615 posti. In altre parole, nelle nostre carceri c’è un sovraffollamento di quasi 8mila detenuti. Un altro dato che ormai non fa più notizia è quello relativo al numero di detenuti oggetto di misure di custodia cautelare, anch’esso in aumento: oggi sono 19.740, cioè quasi il 34 per cento del totale. Ma su questo la vera - e inquietante - notizia è che il numero di persone arrestate preventivamente e ancora in attesa di una sentenza di primo grado ha sfondato quota 10mila, toccando 10.044. Sono dati che andrebbero tenuti bene a mente, soprattutto ora che il ministero di Via Arenula è passato sotto il “comando” del grillino Alfonso Bonafede, che con il suo Movimento 5 Stelle ha già prefigurato misure per combattere l’illegalità basate sulla ricetta più arresti, pene più alte, abolizione della prescrizione e annullamento sostanziale della presunzione di innocenza. Di fronte a questo scenario, appare più che mai opportuno anche smontare una delle tante fake news che circolano proprio sulle condizioni del nostro sistema penitenziario. Fake news diffusa non da una persona qualunque, ma da Piercamillo Davigo, ex pm di Mani pulite ed ex presidente dell’Anm, nonché candidato di punta alle prossime elezioni del Csm e consigliere “in ombra” del nuovo Guardasigilli. Intervistato alcune settimane fa da Marco Travaglio alla festa dell’house organ del giustizialismo italiano (il Fatto Quotidiano), Davigo ha infatti affermato che “la storia del sovraffollamento delle carceri è una balla”. Perché? “Siccome nessuna norma dice la metratura a cui avrebbe diritto il detenuto - ha spiegato - il legislatore ha applicato la metratura prevista per le case di civile abitazione: 9 metri quadrati per il primo occupante e 5 metri per gli occupanti successivi”. Poi, incoraggiato dalle risatine del pubblico e del suo intervistatore, Davigo ha concluso sbottando: “La media europea è di 3 metri quadrati a testa, siamo l’unico Paese europeo condannato per sovraffollamento penitenziario, perché abbiamo dei deficienti che forniscono questi dati”. Insomma, l’Italia sarebbe stata condannata dalla Corte di Strasburgo per il sovraffollamento carcerario solo perché il governo avrebbe comunicato dati sbagliati, basati su conteggi eccessivamente generosi degli spazi che dovrebbero essere riservati ai detenuti in cella. In realtà, l’unica balla vera di tutta questa storia è proprio quella di Davigo. La legge italiana (decreto ministeriale 5 luglio 1975) stabilisce che la superficie delle celle singole non può essere inferiore a 9 metri quadrati, più 5 metri quadrati per ciascun altro detenuto. In effetti, i parametri potrebbero apparire più favorevoli rispetto a quelli stabiliti dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e delle pene e trattamenti inumani o degradanti (CPT), che raccomanda celle da almeno 6 metri quadrati, più quattro per ogni altro detenuto. Il CPT, però, è organo del Consiglio d’Europa, non della Cedu, che peraltro nelle sue innumerevoli pronunce non ha mai indicato un valore numerico inderogabile per le dimensioni delle celle. I giudici di Strasburgo hanno infatti precisato che non è possibile quantificare in modo preciso e definitivo lo spazio personale che deve essere concesso a ciascun detenuto ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in quanto esso dipende da diversi fattori, come la durata della privazione della libertà personale, la possibilità di accesso alla passeggiata all’aria aperta nonché le condizioni mentali e fisiche del detenuto. L’unico parametro che la Cedu si è spinta a individuare è quello dei 3 metri quadrati: al di sotto di questa soglia vi è una presunzione assoluta di violazione dell’articolo 3 della Convenzione, per “trattamento disumano e degradante”, indipendentemente da tutte le altre condizioni di vita in carcere. Ciò non esclude, quindi, che al di sopra della soglia dei 3 metri quadrati uno Stato possa comunque incappare in una violazione della Convenzione. Affermando, quindi, che la media europea dello spazio concesso in cella ai detenuti è di tre metri quadrati, il magistrato Davigo dimostra di aver scambiato fischi per fiaschi. In primo luogo c’è da considerare che non esiste un dato riguardante la media europea perché non sono noti i parametri stabiliti da ciascuno Stato. Lo stesso Consiglio d’Europa nei suoi rapporti (come Space I) comunica di disporre di dati incompleti, che rendono impossibile il calcolo della media, e comunque segnala che diversi Stati europei riconoscono ai detenuti spazi pari o superiori a quelli stabiliti dall’Italia (in Slovenia lo spazio personale per ciascun detenuto deve essere di almeno 9 metri quadrati, in Danimarca da 7 a 12 metri, in Austria 10, in Islanda da 6 a 13 ecc.). Ma ciò che più sorprende è il modo con cui un presidente di sezione della Corte di Cassazione, come Davigo, possa affermare con estrema tranquillità (persino sorridendo) che negli Stati europei i detenuti godono in media in cella di tre metri quadrati, cioè della soglia che secondo la Cedu segnala un trattamento disumano e degradante. E’ la visione di chi crede che il carcere sia un luogo in cui rinchiudere le persone e trattarle come carne da macello. Pochi giorni fa, il presidente della Corte costituzionale, Giorgio Lattanzi, ha annunciato un’iniziativa senza precedenti, cioè visite dei giudici costituzionali nelle carceri italiane per parlare di diritti con i detenuti, perché “secondo la Costituzione, la legittima privazione della libertà personale non cancella la tutela dei diritti”. Probabilmente occorrerebbe estendere la partecipazione a queste conversazioni anche ad altri, inclusi magistrati. I giudici costituzionali e l’uscita dal palazzo di Elia Fiorillo Il Gazzettino, 24 giugno 2018 Tutti insieme, appassionatamente, in giro per le scuole ad incontrare 8000 studenti, disseminati in 36 scuole da Nord a Sud, per parlare di Costituzione. “I delinquenti vanno messi in carcere e la chiave va buttata”. Frasi del genere le abbiamo sentite pronunciare anche da politici di primo piano. La detenzione come scopo della rieducazione del condannato? “Una perdita di tempo, il malvivente è delinquente e basta”. Certi convincimenti nell’opinione pubblica sono radicati e vanno smontati con il ragionamento, con il confronto, con l’esempio. La Costituzione su queste tematiche è chiarissima: presunzione d’innocenza, divieto di pene inumane e degradanti e, in particolare, il basilare principio della “rieducazione” del condannato come scopo precipuo della detenzione. Chi pensa che il malavitoso è un soggetto che sarà sempre condizionato dal suo DNA non potrà mai accettare l’idea del recupero sociale. Siccome il dna non c’entra e i fattori che inducono alla delinquenza sono tanti, bisogna puntare ad eliminarli e combatterli, tra l’altro, con la formazione e l’informazione. Le congetture e i luoghi comuni, questi sì fanno aumentare i livelli di criminalità. E’ proprio un interessante inedito quello che ha visto i giudici della suprema Corte costituzionale in giro nelle scuole e nelle carceri del nostro Paese. Eravamo abituati a vedere, e considerare, i componenti la Consulta come dei vecchi signori “tutta testa e poche gambe”. Nel senso di soggetti dalla brillantissima carriera che “incollati” attorno ad un tavolo emanavano “sentenze” estreme. Nel senso che giudicavano la legittimità degli atti dello Stato e delle Regioni, dirimevano i conflitti tra i vari poteri istituzionali e tra questi e le Regioni, decidevano sugli atti di accusa nei confronti del Presidente della Repubblica e verificavano l’ammissibilità dei referendum abrogativi. Mica uno scherzo! Bella responsabilità hanno i 15 componenti - a regime completo - dell’Alta Corte. L’immaginavamo chiusi nel Palazzo della Consulta a studiare carte, a confrontarsi tra loro su mille questioni e cavilli, per poi scrivere sentenze decisive per l’ordinamento dello Stato. Insomma, le istituzioni certo presenti, ma di fatto lontane mille miglia dalla così detta società civile. Poi, d’improvviso, il colpo di scena. Tutti insieme, appassionatamente, in giro per le scuole ad incontrare 8.000 studenti, disseminati in 36 scuole da Nord a Sud, per parlare di Costituzione. E chi meglio dei componenti la Consulta poteva fare lezioni sulla suprema Carta? Si può immaginare l’interesse di quei studenti che hanno avuto la “fortuna” di poter recepire quegli insegnamenti. Non scorderanno mai quei maestri, ma soprattutto quello che hanno spiegato loro in merito alla Costituzione del nostro Paese. In un’intervista al Corriere della Sera il presidente della Corte, Giorgio Lattanzi, così motiva il “viaggio in Italia” dei giudici: “Un’esperienza nata dalla volontà di fare uscire la Corte dal palazzo, per incontrare i cittadini e farci conoscere non solo attraverso le sentenze, ma anche personalmente. E’ un modo per avvicinare l’istituzione al Paese reale e viceversa, molto utile anche a noi”. I giudici della suprema Corte non si sono limitati a parlare al “futuro” della nostra Italia. Hanno anche scelto un percorso più difficile e meno comprensibile da parte di quel pezzo d’opinione pubblica che considera i delinquenti irrecuperabili e il carcere uno strumento di punizione e basta. A tal proposito il presidente Lattanzi afferma che crede sia utile ed opportuno dialogare con i carcerati “non per discettare della Costituzione più bella del mondo bensì per ribadire che secondo quella Costituzione la legittima privazione della libertà personale non cancella la tutela dei diritti. Il messaggio è: la Costituzione e la Corte ci sono per tutti, anche per voi”. Va ricordato che la Consulta, con una “sentenza monito”, ha sollecitato il legislatore a risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri. Se non si dovesse trovare una soluzione ci potrebbero essere estreme conseguenze: bloccare l’ingresso dei condannati in quelle carceri ritenute invivibili. Parola dei giudici costituzionali! L’attuale governo ha annunciato la costruzione di nuove carceri con l’intento, ad avviso di chi scrive, non tanto di migliorare la vita dei condannati, ma per aumentare il numero degli “ospiti”. Un segno in tal senso viene dalle critiche del nuovo ministro della Giustizia al nuovo ordinamento penitenziario che, tra l’altro, prevede la possibile sospensione della pena ai condannati fino a 4 anni. Il giudice deve valutare, caso per caso, se sia opportuno il carcere o una sanzione alternativa. L’obiettivo dovrebbe essere sempre uno: la rieducazione o meglio la risocializzazione del condannato. Lo impone la Costituzione. Quanta corruzione c’è davvero in Italia di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 24 giugno 2018 La corruzione è un fenomeno criminale e sociale di notevoli dimensioni, che affligge in misura diversa i Paesi di ogni parte del globo. Essa è unanimemente riconosciuta come fatto negativo da prevenire e contrastare, sia sul piano legislativo e giudiziario, sia sul piano culturale. Ne deriva, tra l’altro, che l’indice di percezione della corruzione è assurto - a livello internazionale - a parametro di riferimento in ordine alla affidabilità dei Paesi e dei loro sistemi, sia giuridici che economici. Senonché, proprio la rilevanza degli effetti dell’indice pone il delicato problema degli indicatori percettivi del livello di corruzione, problema sollevato dal presidente di Eurispes, Gian Maria Fara, e ripreso il 21 aprile 2018 dal Corriere della Sera (“Le troppe idee sbagliate sulla corruzione in Italia” di Giovanni Belardelli). Tali indicatori muovono dal presupposto logico che, essendo il delitto di corruzione a schema chiuso/interno, vi sono difficoltà nella individuazione dei casi di devianza dell’esercizio del potere pubblico o dell’attività di impresa, volti a perseguire vantaggi, danaro o altra utilità. Posto che le fonti “interne” (corruttore e corrotto), per istinto di conservazione reputazionale e penale difficilmente denunceranno i fatti che li vedono protagonisti, sorge l’utilità di affiancare altri indici alla misurazione della corruzione basata su fonti “interne”, per avvicinarsi a un reale quadro della realtà. Ma il rischio è che certe misurazioni possano distorcere la comparazione tra ordinamenti. Vi sono indicatori percettivi con elementi di criticità il cui uso potrebbe addirittura sfociare in un effetto paradossale: conferire una patente migliore a sistemi che hanno una situazione deteriore. Questi problemi investono assai da vicino il nostro Paese. È noto infatti che nelle classifiche internazionali esso è relegato fra i più corrotti al mondo. Chiedersi se sia vero falso non è certo un esercizio di sciovinismo. Potremmo partire dalla constatazione (persino banale!) che se si pongono agli intervistati domande del tipo “secondo lei il Suo è un Paese corrotto ?, “ha mai avuto sentore che alcune decisioni amministrative o finanziarie siano state determinate dalla corruzione ?”, la risposta prevedibile -da noi -non sarà lusinghiera. È vero che, in attesa di adeguate riforme, la corruzione da noi appare ancora “conveniente” in base al calcolo costi/benefici, per cui il suo contrasto non riesce a funzionare bene (lo prova il numero dei “colletti bianchi” che finiscono in carcere per corruzione, infinitamente inferiore rispetto ad ogni altra democrazia occidentale). E tuttavia non si può dire che la corruzione non sia in qualche misura contrastata. E ciò anche in forza di tutta una serie di principi fondamentali o caratteristiche rilevanti che sono presenti nel nostro ordinamento a differenza di tantissimi altri. Ricorro, per spiegarmi meglio, a un’esperienza personale. Procuratore di Palermo, ero stato invitato a Vienna per un incontro con magistrati della Procura anticorruzione di quella città. Ricordo di averli trovati in un momento di grande euforia perché, se da un lato era stato confermato il principio che il ministro poteva loro ordinare se procedere o meno, nei confronti di chi o meno, fino a che punto in questo o quel caso, nello stesso tempo era stato introdotto un nuovo principio: che dell’ordine impartito (prima di allora soltanto verbale) doveva restare traccia scritta agli atti del fascicolo. Decisamente altra la situazione italiana. Obbligatorietà dell’azione penale, autonomia del pm (con l’interfaccia della non-separazione delle carriere) e assoluta indipendenza della magistratura in genere sono peculiarità del nostro sistema. Un arsenale costituzionale che pone i cittadini (almeno tendenzialmente) in una posizione di uguaglianza davanti alla legge. Pertanto in linea di principio non c’è spazio per valutazioni di opportunità sul procedere o meno per fatti di corruzione nei confronti di un pubblico funzionario fino alle più alte cariche dello Stato. Così come non c’è spazio, spesso usuale in altri ordinamenti, per la ricorrenza del cosiddetto interesse nazionale nel perseguire ad esempio una public company coinvolta in fatti di corruzione internazionale. Altra specificità del nostro Paese è l’assoluta libertà di stampa in ordine alla pubblicazione delle notizie di reato fin dalle prime battute dell’indagine che a sua volta determina una costante attenzione dell’opinione pubblica. E ancora, l’adozione di un nuovo ed efficace modello di compliance pubblica che ruota intorno all’Autorità Nazionale Anticorruzione. Un sistema nel suo complesso assai diverso da quello di altri Paesi. Paradossalmente, il risvolto della medaglia di tale diversità può essere una specie di inesorabile condanna ad occupare perennemente le ultime caselle nelle graduatorie sulla percezione della corruzione. Quanto detto postula la definizione di un più attendibile set di indicatori accurati e condivisi sul piano internazionale, in grado di sostenere una comparazione dei dati fra Paesi affidabile sul piano ontologico e utile sotto il profilo operativo. Insieme alle misurazioni soggettive si dovrebbero prevedere misurazioni oggettive: basate per esempio sulla comparazione “ragionata” delle statistiche giudiziarie; sulle dichiarazioni dirette di chi ha ricevuto la richiesta di una tangente (indagini di vittimizzazione); su rilevazioni fattuali di scostamenti tra costi e output ; o, infine, su audit condotti presso le amministrazioni pubbliche. Quando si mettono a confronto - per determinare la percezione della corruzione - ordinamenti diversi, è indispensabile tener conto delle caratteristiche istituzionali e processual-penali di ciascuno di essi. Altrimenti si rischia di fornire un quadro parziale, intrecciato con informazioni distorte che alterano o rendono difficili valutazioni realistiche nel tempo e nello spazio. In ogni caso, precondizione metodologica per l’adozione di indicatori affidabili e condivisi dovrebbe essere una definizione della corruzione, sul piano internazionale, in grado di rilevare il fenomeno in modo omogeneo e coerente. Per contro, il panorama giuridico attuale si presenta assai frammentato e le definizioni variano da ordinamento a ordinamento a seconda dei criteri adottati per individuare gli standard o gli interessi comuni, ma anche a seconda delle fattispecie penalmente perseguite. I Giudici di Pace: “fermare la riforma Orlando della magistratura onoraria” Ansa, 24 giugno 2018 Fra le tante criticità del sistema giudiziario italiano, l’unica alla quale il Ministro della Giustizia Bonafede non abbia sinora fatto neppure cenno è la gravissima questione delle condizioni di lavoro dei giudici di pace e dei magistrati onorari, malgrado sia elencata fra i punti essenziali dell’accordo di Governo. La Giustizia in Italia si fermerebbe senza i giudici di pace ed i magistrati onorari di Tribunale e Procure, magistrati precari che trattano circa il 60% del contenzioso civile e penale di primo grado senza diritti e tutele, con un trattamento giuridico indegno di un Paese civile e democratico. Tutte le organizzazioni rappresentative di categoria si sono rivolte, con lettera unitaria, al Ministro Bonafede senza ricevere, al momento, riscontro alcuno, neppure semplici parole di solidarietà e impegno. Percepiamo in queste prime settimane al Dicastero della Giustizia una linea di continuità con il Governo uscente e le sue riforme in larga parte inconcludenti, deleterie e incostituzionali, che ci pongono al penultimo posto in Europa in termini di efficienza della Giustizia, continuità che riscontriamo anche nella nuova composizione dei vertici dei dipartimenti e degli uffici di diretta collaborazione del Ministro, che segue apparentemente le solite logiche correntizie dell’Anm, l’Associazione Nazionale dei Magistrati. Il nuovo Governo deve prendere atto che senza la magistratura onoraria e di pace la Giustizia in Italia collasserebbe: occorre arrestare immediatamente l’attuazione della pessima riforma Orlando, che precarizza ancor più le condizioni di lavoro ed il ruolo dei giudici di pace e dei magistrati onorari e rischia di diventare irreversibile, rendendo a quel punto vano ogni proposito di buona riforma in ogni settore della Giustizia. La risoluzione della questione della magistratura onoraria e di pace deve diventare una priorità se davvero il Governo intende uscire dalle sabbie mobili nelle quali si trova impantanata la Giustizia italiana. Toscana: in arrivo nuovi direttori per le carceri della Regione telegranducato.it, 24 giugno 2018 Nel corso del prossimo mese, l’ufficio del Garante per i diritti dei detenuti della Toscana avrà il quadro dei nuovi direttori in tutte le carceri toscane. Ad annunciarlo è stato Franco Corleone, garante dei detenuti della regione Toscana, partecipando alla giornata di ieri “Carcere e terzo settore” a Firenze. “Ci confronteremo - ha spiegato Corleone - con i direttori che hanno davanti almeno tre anni di lavoro in una sede ben determinata. Questo sarà una garanzia per fare dei piani che non siano dei sogni e non rimangano sulla carta, ma che si realizzino”. Lunedi 25 giugno, ha ricordato ancora il garante, si svolgerà la riunione del consiglio dei detenuti, una “sorta di consiglio comunale composto da detenuti rappresentanti delle varie sezioni, e sarà quello un luogo fondamentale di confronto per ristabilire quel clima che è essenziale per la vita nel carcere”. Corleone ha ricordato infatti, ad esempio di come “Sollicciano non sia affollato come lo è stato in passato”, da 1.000 presenze siamo passati a 700, ma il problema “è che il clima all’interno è peggio oggi di allora”. A Livorno, a seguito dell’aggressione ad un assistente capo di polizia penitenziaria avvenuta lo scorso 15 giugno, il sindaco Nogarin ha convocato per il 2 luglio un incontro con la Uil Pa polizia penitenziaria, un invito chiesto vivamente dalla Uil. “La risposta di Nogarin all’appello, dopo la solidarietà che ha portato personalmente alla polizia penitenziaria - dice Mauro Barile, segretario provinciale della Uil-Pa polizia - è il secondo riflettore che si accende su uno dei tasselli del tessuto sociale livornese, che negli anni passati non ha riscosso la giusta e opportuna considerazione, iniziando proprio dalla stessa amministrazione penitenziaria”. Bari: i magistrati e Bonafede ai ferri corti sul Palagiustizia di Francesco Petruzzelli Corriere del Mezzogiorno, 24 giugno 2018 L’emergenza Sede unica, l’Anm chiede la procedura d’urgenza. Il ministro: “Processi fermi? Tutti sapevano”. Il decreto legge non convince. Lo dicono giudici e pm baresi e lo ripetono i colleghi arrivati da ogni parte d’Italia per la riunione dell’Associazione nazionale magistrati tenutasi, tra la mattinata e il primo pomeriggio di ieri, nel vecchio e decadente tribunale di piazza De Nicola. Nel documento finale è stato chiesto al governo che “il caso Bari venga affrontato adottando procedure d’urgenza e straordinarie con l’individuazione di un unico plesso”. Nessuna richiesta, invece, di commissariamento ad acta. Quanto alla sospensione dei processi fino al 30 settembre, non sono mancati spunti polemici nei riguardi del ministro Bonafede. Il quale però, con un post su Facebook, ha ricordato come “tutti sapessero che si sarebbe andati incontro a una paralisi. Forse preferivano fare le udienze in tenda”. Il decreto legge non convince. Lo dicono i magistrati baresi e lo ripetono i colleghi arrivati da ogni parte d’Italia. Tutti al capezzale di una giustizia morente che, se non in tenda, rischia di collassare altrove. “Perché qui è solo la punta dell’iceberg di una situazione diffusa. Come a Milano, a Nola e a Messina”, ripetono raccontando di tribunali colabrodo, di carenze strutturali e di sedi sparpagliate a mo’ di arcipelago. Allora che fare? Se per il caso Bari occorre “ adottare procedure d’urgenza e straordinarie con l’individuazione di un unico plesso”, su scala nazionale invece serve “un piano di interventi per l’edilizia giudiziaria”. Due punti essenziali recepiti dal documento finale e che scarta ogni iniziale ipotesi di chiedere la nomina ministeriale di un commissario straordinario. “Noi lavoriamo per i cittadini, siamo un servizio pubblico” ripete un magistrato mentre prende uno dei pasticciotti leccesi sistemati sul vassoio della mediazione barese. Si chiude così la riunione del Comitato direttivo centrale dell’Anm, arrivato nel tribunale di piazza De Nicola, peraltro non in ottima salute tra impalcature esterne e colme di rifiuti, spazi inadeguati e bagni talvolta fuori uso. Il parlamentino dell’Associazione nazionale magistrati non condivide il recente decreto del ministro Alfonso Bonafede, il provvedimento che congela fino al 30 settembre i termini processuali e di prescrizione, sospendendo i processi penali senza detenuti e smantellando di fatto le tende. “Ma noi non vogliamo sospendere i processi, vogliamo farli in una condizione di dignità. E in un’unica sede” dice il presidente Anm, Francesco Minisci. Anche i magistrati non accettano la soluzione tampone e spezzatino tra Bitonto, Modugno e via Brigata Regina, nelle more dell’analisi delle sei offerte per la ricerca di mercato post via Na- zariantz. Se per l’ex sezione distaccata di Modugno c’è spazio solo per tre sezioni penali, per l’immobile Inail di via Brigata Regina al Libertà, deputato ad ospitare Procura e uffici gip, la situazione invece è più complessa: ha posto per 11 magistrati sui 71 attualmente in servizio presso la Procura e per un giudice su quattro. Senza dimenticare i problemi su viabilità, carenza di parcheggi (le auto dei magistrati finirebbero in un garage condominiale) e sicurezza (da garantire con agenti h24 e installazioni di grate). “Ecco perché il decreto legge è una soluzione peggiore del problema. Siamo sull’orlo del baratro o addirittura ci siamo già dentro. I numeri sui procedimenti penali pendenti che per il Ministero sono tranquillizzanti, 9.701 dinnanzi al Tribunale, 26.397 dinanzi al gip, 36.652 della Procura, per noi sono allarmanti”, dice il presidente della giunta distrettuale di Bari dell’Anm, Giuseppe Battista. Di “decreto spot” parla il procuratore capo della Repubblica Giuseppe Volpe, sorpreso dal mancato coinvolgimento ministeriale nella scelta degli immobili emergenziali: “Per recuperare i tre mesi di sospensione dei processi ci vorranno tre anni. Le cancellerie saranno costrette a fare almeno 60 mila notifiche per convocare le nuove udienze e per i costi inutilmente sostenuti bisognerebbe informare la Corte dei Conti”. “La sospensione dei processi - sottolinea Domenico De Facendis, presidente del Tribunale di Bari - lascia Bari senza giurisdizione penale”. Con il ministro Bonafede che ha subito replicato su Facebook: “La paralisi dei processi? Tutti sapevano, la polemica non mi interessa”. Intanto, domani potrebbe iniziare lo smontaggio delle tende, mentre il giorno dopo gli avvocati penalisti di tutta Italia saranno in corteo a Bari nell’ambito della tre giorni di astensione dalle udienze. Bari: giustizia in tenda, il procuratore “sospendere i processi? Uno spot” Corriere del Mezzogiorno, 24 giugno 2018 “Non vogliamo sospendere i processi, vogliamo farli, ma in una condizione di dignità”. “Uno spot”. Così il procuratore della Repubblica di Bari, Giuseppe Volpe, ha giudicato il decreto legge che sospende fino al 30 settembre i termini processuali e di prescrizione e i processi penali senza detenuti. “Vorrei capire - dice - se siamo di fronte a trascuratezza, incompetenza o forse malafede”. “È la Giustizia che fallisce in pieno il suo compito”, ha detto il magistrato partecipando alla riunione straordinaria del Comitato direttivo dell’Anm con all’ordine del giorno la situazione di emergenza a Bari. Commentando i contenuti del decreto, Volpe sostiene che “per recuperare i tre mesi di sospensione dei processi ci vorranno tre anni. Le cancellerie saranno costrette a fare almeno 60mila notifiche per convocare le nuove udienze e per i costi inutilmente sostenuti”, come consulenze e intercettazioni per processi che non arriveranno a sentenza, “bisognerebbe informare la Procura della Corte dei Conti”. Sulla procedura in corso per l’individuazione di una sede, il procuratore ritiene “incredibile che secondo il Ministero i capi degli uffici non debbano dire la loro sulla scelta dell’immobile”. Volpe ha inoltre annunciato di aver scritto al comitato di presidenza del Csm “per chiedere di aprire pratica a tutela dei magistrati baresi che in questo caos potrebbero incorrere in errori che in altri tempi e contesti sarebbero passibili di procedimenti disciplinari”. Per Domenico De Facendis, presidente del Tribunale di Bari, “si è detto da parte di taluni di essere orgogliosi del decreto perché per la prima volta si sta dalla parte dei cittadini”. “È esattamente il contrario: il decreto legge - ha spiegato - ha peggiorato le cose di parecchio, ha lacune vistosissime e non è dalla parte dei cittadini”. “La sospensione dei processi - ha concluso De Facendis - lascia Bari senza giurisdizione penale, questo è l’effetto concreto. Quella che viene prospettata come una situazione di mesi abbiamo il concreto rischio che sia una soluzione di anni”. L’Anm - “Siamo qui di nuovo dopo 15 giorni e dobbiamo fare i conti con una situazione che è rimasta uguale a quella che abbiamo lasciato. Chiedevamo che fosse ridata dignità alla giustizia barese che si era persa all’interno di quelle tende, chiedevamo lo stato di emergenza. Il decreto è solo una parte del tutto. La soluzione che guardasse soltanto alla celebrazione dei processi era una porzione del problema. La sospensione dei termini è un accessorio rispetto al tema principale. Chiediamo che il provvedimento si integri subito”. Così Francesco Minisci, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, intervenendo alla riunione straordinaria del parlamentino dell’Anm che si sta tenendo a Bari. Minisci fa riferimento al decreto legge adottato dal Consiglio dei Ministri e da ieri in vigore, che sospende i processi fino al 30 settembre. “Non vogliamo sospendere i processi, vogliamo farli, ma in una condizione di dignità, che consenta - ha aggiunto Minisci - una risposta adeguata ai cittadini. Dal primo ottobre avremo più problemi di quelli che avevamo fino al 25 maggio, ci troveremo in grande difficoltà se non si passa attraverso la contestuale individuazione di un unico plesso per l’allocamento di tutti gli uffici giudiziari penali baresi”. “È inaccettabile, inammissibile - continua Minisci - l’ipotesi di turnazione” dei magistrati e del personale amministrativo nelle sedi attualmente individuate per il trasferimento urgente di parte degli uffici. L’immobile di via Brigata, infatti, ha posto per 11 magistrati sui 71 attualmente in servizio presso la Procura di Bari (37 togati e 34 vice procuratori onorari) e per un giudice su quattro. Soluzione peggiore del problema - Il decreto legge è una “soluzione peggiore del problema”. Il presidente della Giunta distrettuale di Bari dell’Anm, Giuseppe Battista, commenta così il provvedimento del Governo e aggiunge: “Siamo sull’orlo del baratro, o addirittura ci siamo già dentro. Battista ricorda la ricerca di mercato avviata dal Ministero, non ancora conclusa, per l’individuazione di un immobile che possa accogliere tutti gli uffici penali. “Vorremmo conoscere i tempi e lo stato dell’arte in tempo reale. - dice il presidente dell’Anm di Bari. Chiediamo che la procedura sia quanto più possibile pubblica. Se entro luglio non ci sarà un’idea chiara per il trasferimento, chiederemo di nuovo con forza un intervento di carattere straordinario, iniziando a pensare a forme di protesta in caso ciò non avvenga”. Secondo Battista “siamo sull’orlo del baratro, o addirittura ci siamo già dentro. I numeri sui procedimenti penali pendenti che per il Ministero sono tranquillizzanti (9.701 dinanzi al Tribunale, 26.397 dinanzi al gip, 36.652 della Procura, ndr), per noi sono allarmanti”. “Constatiamo che la problematica barese non è stata risolta. Il decreto legge non risolve, anzi aggrava la situazione”. Lo ha detto il segretario dell’Anm, Alcide Maritati, aprendo a Bari i lavori della riunione straordinaria del Comitato direttivo dell’Associazione nazionale magistrati con all’ordine del giorno la situazione di emergenza dell’edilizia giudiziaria barese. Una situazione aggravata - Da ieri è in vigore il decreto adottato dal Consiglio dei Ministri che sospende fino al 30 settembre i termini processuali e di prescrizione, sospendendo i processi penali senza detenuti. Da lunedì, quindi, non sarà più necessario fare le udienze di rinvio e la tendopoli potrà essere smantellata. La nuova sede, tuttavia, non è stata ancora individuata, mentre è stato firmato il contratto di affitto per una trasferimento immediato nell’immobile di via Brigata Regina ed è in corso di definizione la convezione per l’utilizzo dell’ex sede giudiziaria distaccata di Modugno. Ancona: Coldiretti, i detenuti del Barcaglione a lezione di agricoltura anconatoday.it, 24 giugno 2018 Sono i detenuti del carcere di Barcaglione che hanno aderito al progetto “orto sociale in carcere” organizzato in collaborazione con i pensionati di Coldiretti Ancona”. Sono circa 40 e ogni anno producono 30 quintali di ortaggi. Sono i detenuti del carcere di Barcaglione che hanno aderito al progetto “orto sociale in carcere” organizzato in collaborazione con i pensionati di Coldiretti Ancona che insegnano la gestione della terra e supervisionano il lavoro. Ieri la presidente di Coldiretti Ancona, Maria Letizia Gardoni, insieme al direttore regionale Enzo Bottos, ha visitato la struttura per conoscere al meglio una realtà che, da tre anni a questa parte, è stata resa possibile grazie al lavoro congiunto del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e della Regione Marche. “L’agricoltura - commenta la Gardoni - raggiunge il suo apice di valore quando sfocia nel sociale. Con questo progetto, ormai consolidato, diamo la possibilità ai detenuti di ritrovare la fiducia in se stessi e la spinta motivazionale. Coldiretti Ancona continuerà su questo percorso perché tutto ciò che riguarda il benessere della persona è una nostra priorità”. In un terreno che dispone anche di serre riscaldate vengono prodotti pomodori, peperoni, zucchine ma anche cocomeri e meloni. C’è anche un uliveto. Tutti prodotti dell’orto che poi vengono consumati dagli stessi detenuti. Anche quelli che non lavorano. L’adesione al progetto è volontaria ma grazie al passaparola sono sempre di più quelli che si avvicinano al lavoro della terra. “Una volta - racconta Antonio Carletti, presidente di Federpensionati Coldiretti Ancona - un detenuto mi ha chiesto di insegnargli a coltivare un orto perché fuori dal carcere, se non avesse trovato lavoro, avrebbe potuto comunque aiutare la sua famiglia. Mi ha colpito molto e mi ha fatto comprendere in pieno il valore di questa iniziativa. A mio avviso andrebbe ulteriormente valorizzata con un attestato di partecipazione. Una soddisfazione in più per i detenuti”. Andria (Bat): la masseria San Vittore prende forma e sostanza di Sabino Liso andrialive.it, 24 giugno 2018 Il progetto di accoglienza residenziale e non per detenuti pronto ad essere avviato tra maggio e giugno dell’anno in corso. Il progetto “Senza Sbarre” prende forma e sostanza. L’antica masseria di contrada San Vittore, che un tempo ospitava la “Comunità Incontro” (per il recupero di tossicodipendenti), torna ad essere protagonista di un grande progetto pilota di inclusione sociale per detenuti ed ex detenuti nelle carceri di Puglia e Basilicata. Il progetto, finanziato dalla nostra Diocesi, con l’aiuto di tanti benefattori che negli anni non hanno fatto mancare il loro supporto economico, è coordinato da don Riccardo Agresti e don Vincenzo Giannelli che da anni ormai continuano a sostenere moralmente e spiritualmente, presso il carcere di Trani, coloro che hanno incontrato la devianza nel corso della propria vita, animati dallo spirito del Vangelo di Matteo che invita tutti a confrontarsi con il giudizio universale: “… Quando ti abbiamo visto affamato, assetato, in carcere … ogni volta che avete fatto questo a uno di miei fratelli, lo avete fatto a me” (Mt 25). L’esperienza pastorale parrocchiale svolta dai due sacerdoti in quartieri a rischio ha permesso di evidenziare una piaga nota: la micro e macro criminalità presente da decenni e le relative famiglie oppresse da scelte sbagliate e dal disagio che la detenzione provoca ad esse e alla comunità. Da qui la scelta di non tralasciare nessun delle persone affidate alla cura spirituale, invitando i fedeli a creare “ponti tra il carcere e il mondo”. L’iniziativa “Senza sbarre” si pone come obiettivo quello di concretizzare una rete di accoglienza residenziale e semiresidenziale per detenuti ed ex, nell’agro di San Vittore, ad Andria, tramite l’Associazione “Amici di San Vittore”. 8 ettari di terreno da sistemare e coltivare, spazi che saranno poi adibiti alla lavorazione di prodotti esclusivi a marchio “Senza Sbarre”, perché sia chiaro: il lavoro nobilita l’uomo e lo rende libero. Un work in progress in costante evoluzione finalizzato ad integrare e soprattutto dare una opportunità di lavoro e nuova vita a coloro che hanno sbagliato e che sono pronti a rimediare ai loro errori. “I luoghi di detenzione - commentano don Riccardo Agresti e don Vincenzo Giannelli - sono spazi di segregazione dalla società. La nostra Diocesi sta scommettendo su questo progetto. Ora si passa dalle parole ai fatti e tra Maggio e Giugno facciamo decollare questa nuova realtà in cui è presente anche la Caritas Nazionale. Daremo la possibilità a circa 10 persone di partecipare al progetto formativo e lavorativo”. Nei primi tempi ci sarà da lavorare la terra, sistemare i luoghi ma, come già accennato, è in serbo la possibilità di creare piccole nicchie di prodotti alimentari. Un percorso educativo complesso che si avvarrà ovviamente anche di una equipe socio-psico-pedagogica in un contesto paesaggistico dove la calma e la bellezza del territorio murgiano, con le sue varietà di flora e fauna, possono fare davvero la differenza. Il 20 Maggio intanto è in programma al palasport di viale Germania, ad Andria, il concerto di Al Bano. Nel giorno del suo 75esimo compleanno il cantante di Cellino San Marco ha deciso di cantare per agli ultimi, sposando la causa “Senza Sbarre” - il ricavato del concerto infatti servirà per sostenere le attività della masseria di San Vittore. Il costo del biglietto è di 30 euro parterre e di 15 gradinate. Si può acquistare il biglietto presso la parrocchia S.M. Addolorata alle Croci oppure presso Eredi Vincenzo Ernesto, in piazza Imbriani 12, ad Andria. Augusta (Sr): i Radicali italiani in visita alla Casa di reclusione augustanews.it, 24 giugno 2018 Ricordare Enzo Tortora 35 anni dopo. I Radicali italiani lo stanno facendo con un tour in 35 istituti di prevenzione e pena, per ricordare appunto la detenzione di Tortora e la sua vicenda. Nell’ambito di tale iniziativa, la “Società dei Radicali Elio Vittorini Primo Presidente” che aderisce al movimento politico di “Radicali Italiani”, con Enzo Pennone e Zelda Siria Raciti, ha effettuato la visita alla Casa di reclusione di Augusta/Brucoli. La visita ha posto in chiara evidenza le grandi contraddizioni del sistema carcerario del nostro Paese. “La Casa di Reclusione di Brucoli, diretta da Antonio Gelardi e dai suoi collaboratori - afferma Enzo Pennone -, e sorretta da un nucleo di agenti di polizia penitenziaria che interpreta il lavoro con una diligenza superiore, e da educatori con alta professionalità, con una vasta offerta di attività lavorative e ludiche per i detenuti, attività teatrali, pittoriche, di lettura, di artigianato, di informatica, sportive, resa possibile dalle strutture in dotazione - un teatro da 400 posti, vaste pareti per affreschi, una sala-computer, una sala lettura e biblioteca, una sala-barberia, una palestra perfettamente attrezzata, un campo di calcio e due campetti polivalenti - e dagli interventi di competenze anche esterne alla struttura, sconta pur tuttavia, e suo malgrado, le inefficienze complessive e antiche del “sistema carcerario Italia”, ancorato ad una burocrazia che penalizza la risoluzione di problemi anche minimi per il recluso, soprattutto in campo sanitario, e alla vacuità della politica italiana, indifferente tanto all’afflizione del detenuto quanto al logorio psicofisico del personale di custodia, che meriterebbe, a nostro avviso, non soltanto un pronto intervento ministeriale per superare il sottodimensionamento generalizzato, ma altresì una complessiva revisione del trattamento economico di una delle categorie di lavoratori più coraggiose e spremute nel nostro Paese”. Padova: se la festa della musica si fa strada in carcere di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 24 giugno 2018 Una mattinata molto inusuale con coro e band che si esibiscono nel campo sportivo per 200 detenuti. Decisamente inusuale. Un’intera mattinata di happening musicale dentro il carcere penale Due Palazzi. Circa 200 detenuti seduti sulle nuovissima gradinate del campo di calcio e, davanti, sull’erba, prima il coro “Canto libero” del Due Palazzi composto da detenuti e volontari dell’associazione Coristi per Caso con il supporto di alcuni componenti del coro Cantamilmondo di Rovigo diretto da Elida Bellon, tutti guidati da Giulia Prete. Un progetto che esiste da cinque anni con l’appoggio della scuola pubblica del Cpiia interna al carcere. E poi la musica coinvolgente dei bravi e pure belli del gruppo Joe Stray (leggasi giostrai) della scuola Gershwin, contrabbasso, tromba, sax e via col vento manouche. Ancora, assoli cantati da detenuti coristi scopertisi ottimi solisti, Arbi, Alì, Antonio che porta da Scampia le sue canzoni napoletane, Slaviza che prima di finire in carcere cantava e ha ritrovato voce e melodie slave. E la danza trascinante della fisarmonica tra le mani di un altro detenuto che quel suo strumento se lo tiene in cella, sempre accanto. Un po’ alla volta la musica e l’improvvisazione si sono intrecciate e hanno dato vita a ritmi fuori dalle righe, con i detenuti magrebini a suonare percussioni e tamburi assieme alla band e persino a qualche educatore del Due Palazzi; con i detenuti che scendevano in campo a ballare. Con qualche coppia di “esterni” a volteggiare un mezzo liscio a centrocampo. Qualcosa di strano e vitale ha attraversato quello spazio dove di solito le emozioni non respirano né si muovono. E’ stato il modo in cui il carcere ha celebrato, peraltro per la prima volta, la festa internazionale della musica, giovedì 21 giugno. Il ministero aveva sollecitato gli istituti di pena a organizzare qualcosa, il direttore del Due Palazzi Claudio Mazzeo, che per la musica ha una passione e progetta rapido e possibilmente in grande, ha aderito e mobilitato le risorse disponibili. Quasi quattro ore, tutti con i goccioloni di sudore per via del sole a piombo, casse di bottigliette di acqua, grande partecipazione dagli spalti e incitamenti da parte di diverse fette di pubblico detenuto a seconda dei connazionali che si esibivano. Presentissimi ma con grande discrezione, grondanti sotto le divise, gli agenti di custodia si sono fatti in quattro per la riuscita della anomala festa. “La musica unisce, la musica tira fuori passione e talenti che magari uno non sapeva di avere. E’ un’attività importante, come altre, in carcere, anche in funzione riabilitativa” dice Claudio Mazzeo che macina già altre idee in tema e vuole coinvolgere il Comune. Pur facendo una qualche fatica a trovare concreta collaborazione. E butta lì una nota a margine che non c’entra con la musica ma con le “scoasse”. Da mesi al Due Palazzi, paese di circa 8-900 persone, è stata avviata la raccolta differenziata, previa formazione dei detenuti. “Abbiamo faticato a far decollare questo progetto” spiega Mazzeo; “Il Comune ci aveva promesso la fornitura dei sacchetti e un piccolissimo contributo per i detenuti coinvolti. Sono passati mesi, non abbiamo visto nulla”. Intanto un coro spontaneo di detenuti intona Marina, Marina, Marina ti voglio al più presto sposar e tutti si buttano sul ritornello. Le ultime battute, poi gli applausi: la musica è finita, gli ospiti se ne vanno, si ritorna in cella. Paliano (Fr): giornata di festa in carcere con l’inaugurazione del nuovo campo di calcio agensir.it, 24 giugno 2018 “Nessuno di voi è estraneo alle parole e alle vicende riportate su questo libro. Non è un testo scritto solo dall’autore, ma da tutti voi”. Lo ha detto questa mattina mons. Dario Edoardo Viganò, assessore del Dicastero per la Comunicazione, presentando “Ora sono un uomo nuovo. La mia storia di camorrista pentito”. Il volume, edito dall’Ancora, è un’autobiografia di Bruno Buttone, attualmente detenuto nel carcere di Paliano (Frosinone), che ha voluto così raccontare la sua metamorfosi da capo clan a marito, padre di famiglia e, soprattutto, collaboratore di giustizia. “La camorra fa schifo e mi ha rovinato la vita. Anzi, ci ha rovinato la vita”, ha sottolineato Buttone nel raccontare la genesi del suo sforzo editoriale. Alla manifestazione hanno partecipato anche i volontari della Comunità di S. Egidio, che a Paliano si occupano di pastorale carceraria e propongono agli ospiti corsi di arte iconografica, alcuni rappresentanti dell’associazione Francescani nel Mondo, i Missionari Oblati di Maria Immacolata e le suore Canossiane. In rappresentanza dell’Ancora, padre Giovanni Castellaz. “Quando ho letto la bozza del testo di Buttone mi sono detto: questa è una manna dal cielo - ha raccontato. Il nostro fondatore, Lodovico Pavoni, ci ha insegnato proprio questo, stare accanto ai giovani, soprattutto a quelli che soffrono. Per questo abbiamo fatto nostro questo testo”. La giornata ha visto protagonista anche la sezione femminile che ha inaugurato un mercatino interno di prodotti artigianali da loro realizzati. Il ricavato andrà in beneficenza. Infine, l’inaugurazione del nuovo campo di calcio donato dall’imprenditore Walter Iacaccia. Taglio del nastro di mons. Viganò e calcio d’inizio delle attività da parte della direttrice, Nadia Cersosimo: “Partecipare alla vostra vita, vuol dire volervi bene. Quel bene che porta al cambiamento. Giornate come quella di oggi - ha continuato - ci rivelano che il carcere può essere un luogo educativo dove poter esprimere continuamente una personalità attiva sia verso l’universale - lo Stato - che verso il particolare - le persone e i gruppi sociali -. Un territorio di frontiera che oggi più che nel passato esige un surplus di progettualità per poter operare in favore della comunità. Non solo quella carcerari”. Siamo a un bivio di Massimo Cacciari L’Espresso, 24 giugno 2018 Che i “valori” della nostra civiltà di cui tante volte ci siamo retoricamente fregiati non costituiscano alcuno stabile fondamento, non traccino alcuna salda prospettiva per il nostro agire, ma piuttosto fragili idee regolative, sempre in pericolo, minacciate, sul punto di essere contraddette alla radice, la storia dovrebbe avercelo insegnato usque ad nauseam. Cristianesimo e Illuminismo, in forme antagonistiche e tuttavia inseparabili, hanno certo forgiato aspetti fondamentali della nostra vita, e tuttavia nei momenti in cui un ordine politico e sociale “catastrofizza” ed è difficile anche intravvedere la stessa possibilità di un nuovo ordine, ecco che essi tendono a scomparire, a uscire dal nostro “cono di luce”. La stessa “missione” che alcuni dei suoi grandi interpreti, scienziati, filosofi e politici, hanno considerata propria dello spirito europeo, e cioè ricondurre ogni forma di vita a razionale coerenza, liberandola da ogni dogmatismo e da ogni ossequio verso Autorità che dall’esterno si impongano alla coscienza della persona - questa stessa “missione” sembra ogni volta venire sopraffatta dalle gelide passioni della paura, dell’egoismo, dell’avarizia e dell’invidia quando entriamo in un passaggio d’epoca. È quello che oggi sta avvenendo, e in tale quadro andrebbe considerata anche la cronaca di questi giorni. Magari si trattasse soltanto dell’ignorante bullismo di qualche ministro pro tempore! E tuttavia sembrava più di una speranza quella su cui l’Europa uscita dalla Guerra aveva iniziato a pensare e a costruire la propria unità politica. Come avrebbe mai potuto, infatti, l’Europa imperdonabile, l’Europa che aveva condotto l’intera umanità alla più immane tragedia della sua storia, dimenticare di nuovo l’imperativo categorico di federarsi insieme, di essere solidali gli uni con gli altri, di volere il bene del prossimo nella razionale coscienza che esso è, alla lunga, anche il nostro? La nuova Europa non poteva non aver compreso la propria responsabilità: combattere sul nascere ogni forma di demagogia nazionalista e revanscista, ogni retorica volta a vedere in altre forme di vita o civiltà minacce o nemici. Cosi si ragionava. Fu un’illusione? Forse no, ma la sua idea si fondava su due condizioni venute meno nel tempo. La prima: la memoria ancora viva di quale mondo avesse portato alla catastrofe mondiale, quali idee, quali comportamenti collettivi. La seconda: che l’Europa unita praticasse davvero quei valori di solidarietà, uguaglianza di diritti e accoglienza che si predicavano nelle cerimonie, negli anniversari delle tragedie, nei mea culpa sulle origini dei totalitarismi del Novecento. La memoria della Guerra e delle sue cause vale ormai per i nostri politici come quella di Cesare nelle Gallie e l’idea stessa di un’Europa politicamente e culturalmente unita si va dissolvendo sotto i nostri occhi. Resterà magari l’euro, resterà uno spazio commerciale europeo. Il dominio della shakespeariana universale bagascia non verrà messo in discussione da nessuno. Ma sparirà l’Europa. L’Europa cessa di esistere se diviene indifferente nei confronti del male. L’Europa esce dalla Guerra cosciente che, se vuole spiritualmente e politicamente rinascere, ha il dovere di combattere il male in qualsiasi forma esso si manifesti. Ingiustizia, sofferenza, sopraffazione. Ma il male non è soltanto quello volontariamente perpetrato. Male è anche quello che eseguiamo obbedendo a un ordine. Male è anche quello cui ci rendiamo complici perché non sappiamo ribellarci a chi, cosciente o meno, lo compie. Tuttavia, la sua forma fondamentale, quella più ardua da riconoscere e combattere, quella che può dilagare come un’epidemia senza che quasi la si avverta, è proprio l’anonima indifferenza nei suoi confronti. Banalità del male, diceva Hannah Arendt. Il male si diffonde alla superficie delle nostre vite, le imbeve di sé, diviene qualcosa di quotidiano. Non fa più scandalo. Che vi sia chi soffre atrocemente non è più uno scandalo per la nostra coscienza. Basta tenerlo lontano, non vederlo, che non anneghi nei pressi delle nostre spiagge. Non sono questo male, e la nostra impotenza ad I affrontarlo, il problema, ma come ridurne gli effetti sulle nostre vite, come renderlo, appunto, indifferente per noi. La “cura” consiste tutta nel rimuoverlo, o nel riuscire a passarci accanto come i buoni giudei della parabola del samaritano. Da casa, al più, possiamo sopportare di vederne solo il fumo. Un’Europa in cui si lascia dilagare l’indifferenza per il male, in cui manca ogni volontà politica di contrastarne la mascherata violenza, è un’Europa che tradisce il “giuramento”, non scritto, ma realissimo, che ne aveva unito le nazioni dopo la Guerra. Ed è un’Europa tragicamente miope sui propri stessi destini, all’inseguimento di compromessi a brevissimo termine tra i propri stati e staterelli che si presumono “sovrani”, mentre il mondo si ricostruisce su equilibri tra grandi spazi imperiali, per i quali quei “Valori” di cui l’Europa avrebbe dovuto essere operante testimonianza non contano più neppure nelle retoriche politiche. È un’Europa che dopo avere per secoli “trasgredito” con ogni mezzo ogni confine e fatto esodo per tutti i continenti, si richiude in se stessa, si difende da quegli stessi che mai nella sua storia aveva “lasciato in pace”. Un’Europa che chiede soltanto di sopravvivere conservando quello stato economico che le era stato garantito in condizioni geo-politiche del tutto differenti dalle attuali e assolutamente irripetibili. Macroscopica contraddizione. Intanto, nell’impotenza dei nostri pseudo- leader a riconoscerla e superarla, scarichiamo gli uni sugli altri la responsabilità per il male, fattosi banale, quotidiana, superficiale notizia. Colpevoli tutti, tutti innocenti - da sempre il motto delle anime morte. Una sovranità europea per la politica migratoria di Piero Fassino* Corriere della Sera, 24 giugno 2018 Bisogna smettere di demonizzare ogni giorno l’Ue salvo poi pretendere che faccia quel che gli Stati nazionali da soli non sono in grado o non vogliono fare. Caro direttore, la tormentata e sconcertante vicenda dell’Aquarius ha riproposto la questione di come debbano essere gestiti i flussi migratori che attraversano il Mediterraneo. Il ministro Salvini ha scelto la strada brutale del respingimento, costringendo 600 profughi e migranti ad una odissea che solo la responsabilità del governo spagnolo ha evitato precipitasse in tragedia. Una scelta che - stando agli annunci del Ministro degli interni - si vuole replicare (in queste ore con la nave Lifeline). E ciò nonostante la costante diminuzione degli sbarchi: 181.000 nel 2016, 119.000 nel 2017, 17.000 nei primi sei mesi del 2018, a conferma che i flussi possono essere ridotti senza aggressive esibizioni di muscoli giocate sulla pelle di povera gente. Certo, Salvini può vantare il consenso che raccoglie nell’opinione pubblica. Ma è assai dubbio che una continua spirale di provocazioni e conflitti possa consentire all’Italia di ottenere risultati a Bruxelles. Quel che serve oggi, invece, è avanzare proposte serie su cui esigere che l’Unione Europea e i suoi Stati membri assumano responsabilità e concreti impegni. Naturalmente qualsiasi strategia non può che muovere dal presupposto che quei profughi e quei migranti sbarcano in Italia, ma in realtà hanno per meta l’Europa. Formalmente l’Unione Europea lo ha riconosciuto, con il Migration compact e un piano di redistribuzione dei migranti su tutti i Paesi dell’Unione. La realtà e’ molto diversa. I programmi di ricollocazione sono stati in gran parte disattesi per il prevalere di egoismi, pregiudizi, interessi elettorali e cosí l’Italia - come, tardivamente, hanno riconosciuto Macron, Juncker, Merkel - è stata lasciata spesso sola. Ma forse è tempo di riconoscere che la sola redistribuzione dei migranti è obiettivo debole se non è parte di una effettiva strategia comune. Se si vuole avere una “strategia europea” servono scelte più impegnative. Serve prima di tutto che si adotti la proposta di radicale revisione del Regolamento di Dublino, approvata a larga maggioranza dal Parlamento Europeo e ampiamente corrispondente alle richieste dell’Italia, a partire dal superamento della norma che fa carico al Paese di primo approdo a gestire i migranti. Serve poi una gestione comune delle frontiere esterne dell’Unione con un netto rafforzamento di Frontex e delle sue funzioni, tanto più in un’Europa che ha abolito le frontiere interne. Serve un diritto di asilo europeo - che oggi non c’è - superando la frammentazione e la disomogeneità di normative nazionali. Serve superare la asimmetria contributiva che vede assegnati 6 miliardi di euro alla Turchia per contenere la rotta balcanica e solo alcune centinaia di milioni di aiuti ai paesi africani per contenere i flussi sulla rotta mediterranea. Serve un piano di Accordi bilaterali tra Ue e Paesi di origine, sia per dimensionare i flussi alla effettiva capacità di accoglienza dei diversi paesi europei, sia per sottrarre i migranti dalle mani dei trafficanti, sia per concordare la apertura in loco di centri di accoglienza gestiti con il concorso dell’Unchr e dell’Ue. Serve estendere l’esperienza dei “corridoi umanitari” per quanti fuggono da teatri di conflitto. E serve sollecitare ogni Paese europeo a promuovere programmi di affidi familiari per dare un focolare e una vita sicura ai tanti minori non accompagnati, estendendo su scala europea anche la positiva esperienza italiana dei tutori volontari. Insomma serve una “nuova politica migratoria europea” ed è questo obiettivo che l’Italia deve proporre e perseguire a partire dal Consiglio Europeo del prossimo 28 giugno, uscendo finalmente dalla mitologia sovranista che ogni giorno demonizza l’Unione Europea salvo poi pretendere che faccia quel che gli Stati nazionali da soli non sono in grado o non vogliono fare. Se si vuole che l’Unione assuma delle responsabilità è indispensabile riconoscerne la necessità e conferirle gli ambiti di sovranità necessari. Tutto ciò è indispensabile per governare i flussi migratori, ma non sufficiente per aggredire la questione di fondo. L’Africa vedrà crescere la sua popolazione dagli attuali 1.2 miliardo a 2.5 miliardi nel 2050 e a 4 miliardi a fine secolo (su 11 totali della popolazione mondiale!): quelle cifre dicono che non si può affidare solo alle migrazioni il destino di quell’immensa moltitudine di persone, a cui invece occorre offrire una diversa prospettiva di vita lì dove sono nati e vivono. Va in questa direzione l’Africa Plan elaborato dalla Commissione europea, che tuttavia dispone di una dotazione finanziaria limitata e insufficiente a promuovere politiche di investimento adeguate. Anche qui è necessario un cambio di passo. Il destino del pianeta sarà determinato in buona misura da quel che accadrà in Africa, il cui futuro non può essere affidato solo ai governi africani, ma sollecita direttamente la responsabilità dell’occidente e in primo luogo dell’Europa, chiamata non a semplici atti di solidarietà, ma a mettere in campo il suo potenziale finanziario, produttivo, tecnologico, sociale a sostegno di uno sviluppo dell’Africa che corrisponda alla stabilità, alla sicurezza e alla prosperità del continente, del Mediterraneo e dell’Europa, sempre di più legati da un destino comune. *Vicepresidente della Commissione Esteri della Camera dei Deputati Immigrazione, in una folle giostra di paure e minacce non c’è nessun progetto europeo di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 24 giugno 2018 Non è prevista nessuna dichiarazione finale alla riunione informale che ha luogo oggi a Bruxelles per sminare il terreno sul dossier immigrazione prima del Consiglio europeo del 28-29 giugno. Un buon risultato, si ammette nella Commissione, sarebbe di arrivare almeno a una condivisione dell’analisi delle questioni (evitando escalation di insulti, come è stato negli ultimi giorni tra Italia e Francia), a partire dal significato che viene dato ai termini utilizzati. La riunione è boicottata dai paesi dell’est, assenti per far valere posizioni di chiusura totale verso l’accoglienza, rinnegando il principio di base della costruzione europea, il binomio responsabilità-solidarietà. In tutto, dovrebbero essere presenti una quindicina di paesi, il fronte sud della Ue (l’Italia, tentata dal gran rifiuto, ha poi cambiato idea), Bulgaria e Romania, poi il gruppo Francia, Germania, Benelux, Austria, i nordici, che sono implicati soprattutto per la questione degli “ingressi secondari”, migranti in provenienza da altri paesi Ue. Angela Merkel arriva indebolita per gli ultimatum del suo ministro degli Interni, “crazy Horst” Seehofer, che vuole una soluzione anche bilaterale al problema dei “movimenti secondari”. Ieri mattina, Pedro Sanchez è stato ricevuto all’Eliseo da Emmanuel Macron: di fronte al primo ministro spagnolo, che ricevendo l’Aquarius ha mostrato un volto umano dell’Europa, il presidente francese ha potuto migliorare la sua immagine, un po’ ammaccata, su questo fronte, difendendo la creazione di “centri” per migranti sul suolo europeo (che dovrebbero rispettare gli standard Onu). La Ue è di fronte a una tensione politica più che migratoria, è la versione dell’Eliseo, dove spiegano che le cifre delle entrate sul suolo europeo sono in netto calo: rispetto alle vette del 2015 si è tornati a una situazione pre-crisi. Ma sono in crescita i governi in Europa che sfruttano le paure. Nella questione migratoria c’è un approccio “esterno”, cioè le relazioni con i paesi d’origine o di transito. Alcuni paesi, la Danimarca ma anche l’Austria che dal 1° luglio prende la presidenza semestrale del Consiglio Ue, propongono l’apertura di centri per esaminare le richieste d’asilo in paesi terzi, fuori dalla Ue (sono stati evocati i Balcani, Kosovo e Albania - su cui alcuni pensano di poter fare pressione perché sono candidati ad entrare nella Ue - poi anche i paesi della sponda sud del Mediterraneo, ma Tunisia, Algeria e Marocco hanno già detto no). La Francia e Angela Merkel sottolineano che prima di tutto deve essere rispettato il diritto internazionale e quello europeo: al massimo le domande di asilo possono essere esaminate nei paesi d’origine, come succede in Niger e in Ciad per quanto riguarda la Francia (in base a un accordo con l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, della durata di due anni, Macron si è impegnato ad analizzare le richieste di 10mila persone). Ma non è contemplata l’ipotesi di aprire degli hotspot (cioè centri mascherati di detenzione), di respingere le navi di salvataggio in queste zone, creando una o più Ellis Island al di fuori dei confini della Ue. I paesi Ue sono tutti d’accordo invece sul rafforzamento delle frontiere esterne, ci sarà più Frontex, con aumento dei guardiacoste e più mezzi hi-tech. Francia e Germania chiedono anche maggiori poteri per l’ufficio europeo dell’asilo, in attesa di un accordo, su cui molti frenano (a cominciare dall’Italia) su regole comuni per un asilo europeo. Il disaccordo più importante è quello sulla riforma di Dublino 3 per quello che riguarda i cosiddetti “movimenti secondari”, cioè su chi ricade la responsabilità di occuparsi dell’asilante. Oggi, i paesi Ue fanno a gara nello scaricarsi a vicenda il “fardello” - paesi di “primo ingresso” o di “movimenti secondari” - e alcuni sono tentati da accordi bilaterali, per bypassare la necessaria riforma di Dublino. Una corsa verso il disastro, che potrebbe portare ad affossare gli accordi di Schengen sulla libera circolazione (6 paesi hanno sospeso temporaneamente gli accordi, per ragioni di sicurezza). Sulle tensioni Francia-Italia e lo scaricabarile sui migranti, Parigi ha precisato ieri che tra i due paesi esiste, oltre a Dublino, anche il trattato di Chambéry, che stabilisce un “controllo rafforzato” e comune alla frontiera e che ricopre tutto quello che succede da Ventimiglia a Modane, un’intesa per evitare un “richiamo” di nuovi migranti. Per ribattere agli insulti di Salvini, Parigi ricorda che nel primo semestre del 2018 la Francia ha avuto più richieste d’asilo dell’Italia. Corte europea. La sentenza sul killer di Utoya: il buon diritto e la giusta pena di Mario Chiavario Avvenire, 24 giugno 2018 Fjotolf Hansen? È difficile che il nome dica qualcosa, qui in Italia. Va perciò chiarito che quella non è altro se non la nuova identità assunta da Anders Behring Breivik, il responsabile di due orrende stragi che il 22 luglio 2011 provocarono la morte di 77 persone, 69 delle quali erano giovani membri del partito laburista norvegese, riuniti in un pacifico meeting sull’isola di Utoya, vicino a Oslo. Per quel crimine sta scontando una pena fissata originariamente in 21 anni di prigione, ma la cui durata potrà essere prolungata se al termine di questo periodo il condannato sarà giudicato ancora pericoloso (in Norvegia non esiste l’ergastolo). Era tornato sotto i riflettori della cronaca due anni or sono perché un tribunale del suo Paese aveva sentenziato che le condizioni della detenzione cui era stato sottoposto - un regime di massima sicurezza, con isolamento da contatti con altri reclusi - avrebbero violato l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani, dove, insieme alla tortura, sono vietate le pene “inumane o degradanti”. Sull’appello del Governo, la Corte suprema del Paese scandinavo aveva però rovesciato questa conclusione, escludendo che, nella specie, fosse stata violata una norma di tutela di un diritto fondamentale. Qualche giorno fa è stata depositata una decisione della Corte europea di Strasburgo, alla quale Hansen-Breivik aveva fatto ricorso per cercare di ribaltare il giudizio emesso sulla questione dal massimo organo di giustizia del suo Paese. E pure qui il verdetto, unanime, non lascia spazio a dubbi: manifesta infondatezza delle doglianze da lui avanzate chiamando in causa, anche in quella sede, l’art. 3 oltre all’art. 8 della stessa Convenzione (sotto il profilo della tutela della sua vita privata). Non si creda però che la Corte europea abbia liquidato il ‘caso’ nel modo apparentemente più semplice: quasi, cioè, che l’enorme gravità del crimine giustificasse qualsiasi modalità di esecuzione - fosse pure la più spietata - della pena (secondo la logica del ‘devono marcire senza pietà’, che in tutto il mondo, e anche in Italia, sta tornando tanto di moda, magari con applicazioni diversificate a seconda della maggiore o minore vicinanza ideologica, politica o etnica tra chi formula auspici del genere e chi ne è oggetto). No: la pronuncia ribadisce invece che “anche nelle circostanze più difficili, come quando si tratta di lottare contro il terrorismo [...], la Convenzione proibisce in termini assoluti la tortura e i trattamenti o le punizioni inumane o degradanti”, fermo restando, tuttavia, che per essere considerata inumana la condizione del recluso deve “raggiungere un livello minimo di severità”. Ma quali erano, in concreto, le condizioni detentive che Breivik definiva ‘inumane’? Le ricaviamo dall’accurata descrizione che ne fa la stessa Corte europea. Innegabile, certo, il parziale isolamento: e - è sempre la Corte ad ammonire - una situazione del genere non potrebbe prolungarsi indefinitamente senza controlli dell’autorità giudiziaria, che peraltro risultano esserci stati. Innegabili, altresì, le perquisizioni e le ispezioni più volte effettuate sulla persona del detenuto, così come le limitazioni alla libertà di corrispondenza e di conversazione telefonica, attuate mediante strumenti di monitoraggio: misure, a loro volta, ampiamente motivate dalla persistenza del detenuto stesso nel perseguire propositi in linea con il programma ispirato alla mistica nazista e al mito di Odino, e purtroppo già tradotto concretamente nelle stragi perpetrate. Tutta una serie di attenuazioni della durezza di quella condizione risultano per contro essere state adottate: il condannato fruiva di tre distinti locali, avendo a disposizione, tra l’altro, oltre al necessario per l’igiene personale, un frigorifero, un apparecchio televisivo e un giornale quotidiano, un’attrezzatura per esercizi ginnici, una console per videogiochi... Fuori luogo qualunque commento ironico da parte di chi goda comunque della normale libertà (forse più amari, i commenti di detenuti in qualche carcere nostrano, ‘ordinario’ o ‘speciale’...). Ma quella descrizione non evidenzia soltanto lo scrupolo dimostrato, per l’occasione, dalla Corte europea nel prendere seriamente in considerazione il ‘caso’, sottolineando l’adeguatezza del bilanciamento di esigenze operato dalle autorità norvegesi. Getta anche un fascio di gelida luce sulle allucinanti contraddizioni che possono albergare in un animo imbevuto di una megalomania che, dopo aver armato la mano pluriomicida in nome di un razzismo spregiatore degli ‘inferiori’, pretende per sé un’applicazione particolarmente favorevole di quei diritti fondamentali, negati, disprezzati e irrisi nella loro universalità. Stati Uniti. 700mila immigrati in carcere per anni in attesa di espulsione di Roberto Festa Il Fatto Quotidiano, 24 giugno 2018 I 2.300 bimbi separati dalle famiglie? Sparpagliati in 17 Stati. L’ordine esecutivo del presidente Trump placa momentaneamente le polemiche, ma resta lontano dal cuore del problema: dalle detenzioni senza limite (quando la legge consente un massimo di 20 giorni) alle separazioni forzate di bambini sotto l’anno di vita, fino al proliferare di strutture private ignote alle autorità locali e prive di standard condivisi. Confusione. Mancanza di direttive certe. Rischi di nuove azioni legali. La questione migranti negli Stati Uniti sta diventando un problema di difficilissima gestione per l’amministrazione Usa. L’ordine esecutivo emesso da Donald Trump mercoledì scorso ha forse disinnescato parte delle polemiche, ma non ha fatto quasi nulla per risolvere la crisi dei migranti. Fonti della Casa Bianca descrivono un presidente al tempo stesso confuso e sprezzante. Trump avrebbe più volte cambiato idea sulla necessità e sulla forma dell’ordine esecutivo. A un certo punto, i suoi avvocati gli avrebbero dovuto spiegare che l’ordine esecutivo non poteva cambiare la legge sull’immigrazione Usa (come invece Trump voleva). Al tempo stesso, nonostante la scelta di riunificare le famiglie, la Casa Bianca continua a rivendicare la “tolleranza zero”. “Non possiamo consentire che il nostro Paese sia retto da migranti illegali, mentre i democratici raccontano le loro storie farlocche di tristezza e dolore”, ha scritto Trump in un tweet. In realtà, la situazione è molto più complessa di quanto le stesse autorità dell’amministrazione pensassero in un primo tempo. Ci sono anzitutto i problemi legali. Venerdì Kevin K. McAleenan, responsabile della Customs and Border Protection, è arrivato alla Casa Bianca e ha messo sul tavolo il problema più urgente. Come detenere adulti e minori indefinitamente - secondo le disposizioni del Dipartimento alla Giustizia - quando una legge del 1997 obbliga a rilasciare i minori dopo 20 giorni? Cosa succederà dopo quei 20 giorni? Le famiglie verranno di nuovo separate? I minori dove verranno mandati? C’è poi il tema della gestione della macchina della “tolleranza zero”. L’arrivo dei migranti dal confine meridionale e la loro detenzione, senza eccezioni, richiede un enorme impiego di forze. Il mese scorso il Dipartimento alla Giustizia ha inviato 35 nuovi procuratori per gestire i casi di immigrazione illegale al confine sud-ovest. Il Dipartimento alla Difesa ha aggiunto altri 21 avvocati. Ma le cause si accumulano a una velocità impressionante e i tribunali non riescono a starci dietro. Secondo la Syracuse University, a maggio c’erano 700mila procedimenti da evadere. Un migrante accusato di entrata illegale negli Stati Uniti dovrà attendere anche fino al 2021 prima che il suo caso venga considerato. Questo significa, tra l’altro, dotarsi di campi sempre più numerosi e vasti per detenere gli illegali e i loro figli. Un portavoce del Pentagono ha spiegato che l’esercito si prepara a ospitare almeno 20mila minori in quattro strutture: a Little Rock, El Paso, San Angelo e Abilene. Non si sa però se gli adulti, famiglie e genitori, saranno ospitati nelle stesse strutture. C’è poi l’altra, enorme questione dei ricongiungimenti. L’ordine esecutivo di mercoledì ha imposto di mettere fine alla separazione tra adulti e minori (sono circa 2.300 i bambini strappati alle famiglie al momento dell’entrata negli Stati Uniti e inviati in strutture gestite dallo Health and Human Services Department). Funzionari dell’amministrazione spiegano che si sta finalizzando il processo per far sapere alle famiglie dove sono stati inviati i bambini. Il problema è che il processo non sembra funzionare al meglio. Sono pochissimi i casi di minori già ricongiunti alle famiglie. I bambini - alcuni di questi hanno solo nove mesi - sono stati inviati in centri lontani dal confine: in Michigan, New York, South Carolina. Le strutture sono molte, oltre cento, distribuite in diciassette stati. Secondo avvocati e gruppi per i diritti civili, le autorità dell’amministrazione non starebbero facendo molto per favorire i ricongiungimenti. Jodi Goodwin, un’avvocata di Garlingen, Texas, ha spiegato che soltanto due tra i suoi clienti, su venticinque, hanno potuto contattare i figli. Nessuno comunque sa dove i minori siano ospitati. “Ho clienti che sono detenuti da due settimane e mezzo e non sanno esattamente dove si trovino i figli”. Ai migranti detenuti non viene fornito un numero di telefono da chiamare per avere le informazioni necessarie. Il risultato è che molti minori vengono ospitati chissà dove e il loro ritorno con le famiglie rimandato indefinitamente. Altro problema. Ci sono città che non sapevano neppure di ospitare strutture detentive per i minori. E’ per esempio il caso di New York. Qui sono stati aperti centri - per esempio il Cayuga Center di Harlem - senza che le autorità federali informassero il sindaco Bill De Blasio. Ci sono centinaia di minori detenuti in città. Non si tratta soltanto di quelli separati dalle famiglie nei due mesi appena trascorsi. Si tratta di centinaia di minori, che hanno attraversato il confine da soli e che ora sono qui raccolti. Le cifre dello Health and Human Services Department dicono che l’81 per cento dei minori che attraversano il confine lo fa non accompagnato. Il 79 per cento di questi ha dai 13 anni in su. Sono ragazzi e ragazze che vengono arrestati, condotti nei centri, dove però possono restare fino al compimento del diciottesimo anno, per essere eventualmente espulsi. Si deve dunque provvedere per anni al loro sostentamento, alla loro educazione. In queste settimane si sono diffuse storie di bambini arrestati, ammanettati, trattati con calmanti e sedativi spacciati per vitamine. Molti dei centri che li ospitano sono a gestione privata, retti spesso da organizzazioni religiose. Non sempre gli standard sanitari sono all’altezza. Cimici e pidocchi infestano aule e dormitori. Frequenti i casi di bambini affetti da depressione e altre patologie legate alla salute mentale. Il sindaco di New York, De Blasio, ha espresso tutta la sua frustrazione con una frase: “Ora diciamo basta a questa politica fallimentare e inumana”. Questi sono solo alcuni dei problemi più urgenti che la “tolleranza zero” e una politica quasi unicamente fondata sulla repressione e criminalizzazione dell’immigrazione hanno provocato. Ce ne sarebbero molti altri. Per esempio, c’è il fenomeno delle famiglie che al momento dell’espulsione decidono di lasciare negli Stati Uniti i figli minori. Meglio essere ospitati nelle strutture del governo Usa, dove comunque vengono forniti educazione e sostentamento, piuttosto che tornare nei Paesi d’origine. Per questi bambini si apre un futuro incerto. Forse l’espulsione, al compimento del diciottesimo anno d’età, forse la concessione del diritto d’asilo. In ogni caso, migliaia di nuove storie iniziano il loro percorso lento e incerto nel sistema giudiziario e nella società americana. Il Dipartimento alla Giustizia spiega che “non c’è alcun cambiamento alla linea sin qui seguita”; in realtà il sistema appare in forte sofferenza, poco capace di reggere l’urto degli arrivi e degli arresti. In tutto questo, Trump ha di nuovo cambiato posizione. Dopo avere, per mesi, chiesto al Congresso una nuova legge sull’immigrazione, ha ora ingiunto ai repubblicani di “non perdere tempo” e di rimandare la sua approvazione dopo “l’ondata rossa”, la vittoria del suo partito alle elezioni di midterm. Se la vittoria, a novembre, non pare certa, è invece certo il caos in cui la questione migranti sta sempre più affondando.