Carceri. Orlando (Pd): no a controriforma Ansa, 23 giugno 2018 “È una scelta stupida. Tutte le statistiche dimostrano che laddove sono state introdotte pene alternative al carcere scende notevolmente la recidiva. Dove c’è meno recidiva c’è più sicurezza”. Così l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando (Pd) a Circo Massimo, su Radio Capital parlando della riscrittura della riforma carceraria. Critico anche per quanto riguarda le proposte di modifica alla legittima difesa: “Sanno benissimo - prosegue - che non possono scrivere una norma in cui si dice che puoi sparare a chi ti entra in casa. Ci sarebbero inviti a cena con omicidio. Non esiste in nessun paese del mondo”. Carcere duro. Il Garante: regole ancora non univoche di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 giugno 2018 Sono 731 le persone recluse al regime speciale. Il 41bis, nonostante che la nuova circolare emanata nell’ottobre scorso abbia, sulla carta, uniformato le regole, ancora presenta diverse criticità. Questo è dovuto anche da un dibattito esterno volto ad attaccare la circolare come eccessivamente aperta a una normalizzazione. Invece, come denuncia il Garante delle persone private della libertà Mauro Palma, alcuni elementi interpretativi - forniti successivamente alla Direzione di un Istituto e fatti circolare, seppure in maniera non formale e istituzionale, in tutti gli Istituti - hanno finito col determinare applicazioni ben più restrittive di quelle proposte nel complesso e lungo dibattito che ha accompagnato la sua redazione. Nella seconda relazione annuale del Garante tutto questo viene esposto nero su bianco. Il Garante ha visitato tutte le sezioni di tale circuito operanti nello scorso anno: Novara, Opera (Milano), Tolmezzo, Parma, Ascoli Piceno, Spoleto, Terni, Sassari, Viterbo, Roma “Raffaele Cinotti” (due distinte sezioni). Recentemente, a seguito di lavori nella sezione di Ascoli Piceno, resa temporaneamente indisponibile, è stata riaperta la sezione di Cuneo, visitata dal Garante nell’imminenza di questa relazione. Alla data del 26 aprile, risultano sottoposti a tale regime le persone recluse. Si legge nel rapporto che il punto di osservazione del Garante nazionale fa riferimento a più sentenze della Corte costituzionale volte a considerare la legittimità del regime stesso nell’ambito della finalità a esso assegnata. Più volte infatti il Garante, nel constatare la necessità attuale di tale previsione normativa, ha rivolto la sua analisi alle singole misure imposte per valutare se esse siano funzionali all’interruzione di collegamenti e comunicazioni interne ed esterne con le organizzazioni criminali o se invece possano rischiare di configurarsi come afflizione aggiuntiva non prevista dal nostro ordinamento. Lo stesso approccio emerge dai Rapporti del Comitato europeo anti tortura (Cpt) e dalla giurisprudenza della Corte Edu che, nel valutare l’esistenza o meno di violazione dell’articolo 3 della Convenzione, considera ogni specifica regola o restrizione alla luce della finalità complessiva per cui il regime è adottato. In questo contesto, il Garante ha osservato forti diversità nelle situazioni che di fatto si determinano nei diversi Istituti, pur in presenza di un regime che si vorrebbe unificante. La speranza di riportare a unità riposta nella nuova circolare emanata nell’ottobre scorso sta attualmente trovando scarso riscontro e spesso le parti di minore chiarezza vengono interpretate al minimo delle possibilità esposte. Quali? Il Garante evidenzia soprattutto l’interpretazione che è stata data alle ore da trascorrere all’aperto: di fatto, l’ora nella sala di socialità viene sottratta alle due ore da trascorrere all’aperto. Il Garante ritiene che la dizione “all’aperto” non possa essere ricondotta all’apertura della cella, ma che configuri l’accesso “all’aria aperta”, cioè in spazi a tal fine predisposti ove trascorrere quelle che comunemente sono definite “ore d’aria”. Ricorda, a tal fine, l’articolo 10 dell’ordinamento penitenziario e l’articolo 16 del Regolamento di esecuzione che limita tale possibilità a motivi eccezionali e che tale limitazione deve essere disposta con provvedimento motivato dal direttore dell’Istituto da comunicarsi al provveditore regionale e al magistrato di sorveglianza. Il Garante raccomanda di non trasformare la sospensione delle “normali regole di trattamento”, nella parallela sospensione dei diritti fondamentali della persona. Alla luce della lettura delle misure adottate in chiave di esclusione di questo scivolamento, il Garante ha ricordato che i luoghi di vita delle persone private della libertà devono essere configurati in maniera tale da “non comportare una ricaduta sulle capacità psico-fisiche, giacché altrimenti la pena detentiva rischierebbe di assumere la connotazione di “pena corporale”, ovviamente espunta dal nostro come da tutti gli ordinamenti democratici”. Vietato sostenere “ Nessuno tocchi Caino” e il Partito radicale se si è al 41bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 giugno 2018 Vietato al detenuto in 41bis di sostenere “Nessuno tocchi Caino” o il Partito Radicale attraverso una missiva indirizzata alla congiunta chiedendo di inviare 200 euro al proprio legale per l’iscrizione. La circostanza è stata ribadita - secondo quanto riporta l’Ansa - in un procedimento giudiziario, gestito dai tribunali del Piemonte, che riguarda Giuseppe Falsone, 48 anni, originario di Campobello di Licata, considerato dagli inquirenti uno dei capi di Cosa nostra nella provincia di Agrigento, arrestato a Marsiglia nel 2010. Falsone, rinchiuso a Novara, aveva chiesto a una congiunta di inviare 200 euro al proprio legale per l’iscrizione al Partito Radicale; “in realtà - si legge nelle carte del procedimento - era quasi certo che la somma fosse indirizzata a sostenere l’associazione “Nessuno tocchi Caino”, cosa che però è vietata da una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”. Il magistrato di sorveglianza della città piemontese aveva autorizzato il trattenimento della missiva con una decisione confermata dal tribunale di Torino nel 2017 e resa definitiva il 5 Aprile scorso dalla Cassazione. Il 19 giugno scorso la sentenza è stata depositata. La decisione dei magistrati di sorveglianza piemontesi, confermata dalla Suprema Corte sarebbe “dettata da ragioni di sicurezza e di ordine nelle carceri in aderenza a quanto permesso dall’ordina- mento penitenziario”. Per bloccare la corrispondenza - ha ribadito la Corte Suprema - “non è necessaria la prova della commissione di reati o della pericolosità della missiva, ma è sufficiente il ragionevole timore di un pericolo per l’ordine e la sicurezza degli istituti”. I giudici hanno fatto notare che “la circolare del Dap aveva vietato rapporti epistolari fra detenuti sottoposti al 41bis e un’associazione, al fine di evitare l’insorgere di proteste da parte della popolazione detenuta”. A questa disposizione i supremi giudici non hanno mosso rilievi perché, come appunto hanno ribadito, è “dettata da ragioni di sicurezza e di ordine nelle carceri in aderenza a quanto permesso dall’ordinamento penitenziario”. Su questa sentenza, Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, Presidente, Segretario e Tesoriera di Nessuno tocchi Caino, hanno dichiarato: “È una sentenza inaudita e senza precedenti, che dice l’opposto di quel che siamo e che nega tutto ciò che abbiamo fatto in questi anni. Non sappiamo a quali circolari i magistrati di sorveglianza piemontesi e i giudici della Cassazione facciano riferimento, quel che sappiamo è che, in questi anni, noi di “Nessuno tocchi Caino”, come Marco Pannella in tutta la sua vita, non abbiamo fatto altro che convertire ai connotati del Partito Radicale, alla nonviolenza, allo stato di diritto e alla legalità costituzionale le carceri e l’intera comunità penitenziaria”. I rappresentanti di “Nessuno tocchi Caino” sottolineano: “Se nelle carceri non vi sono più rivolte dei detenuti, ma sempre più scioperi della fame per far valere i propri diritti, è anche grazie al Partito Radicale e “Nessuno tocchi Caino”. Questa “radicalizzazione” nonviolenta, positiva e costruttiva continueremo a perseguirla, anche per aiutare lo Stato, l’amministrazione della giustizia e penitenziaria ad avere successo sugli imprenditori della paura che si illudono di poter risolvere le emergenze - sconfiggere la mafia, la violenza e il fanatismo - con la “terribilità”, contrapponendo al terrore un terrore uguale e contrario, derogando ai principi fondamentali dello Stato di Diritto e di Diritti Umani”. Proseguono ancora Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti: “Se ci sarà ancora consentito, quest’opera di conversione alla nonviolenza la continueremo a svolgere, soprattutto, nei luoghi più bui e violenti del carcere come le sezioni del 41 bis e, in particolare, nei confronti dei condannati all’ergastolo, dai quali abbiamo avuto in questi anni le prove più significative di un cambiamento sempre possibile, come testimonia il docu-film “Spes contra Spem - Liberi dentro”, ideato da Nessuno tocchi Caino e realizzato da Ambrogio Crespi, con protagonisti uomini che - concludono i rappresentanti dell’associazione radicale - negata loro per legge la speranza, hanno deciso di incarnarla, di essere fonte di un processo attivo di cambiamento”. Il potere della paura di Piero Colaprico La Repubblica, 23 giugno 2018 I fatti, e cioè i reati, in Italia sono in calo, costantemente, e da anni. Lo dicono non solo tutti i rapporti di polizia, ma anche le cronache nere e giudiziarie dei quotidiani. Si passano intere settimane senza registrare un omicidio o una rapina. Ma, in questo stesso periodo, è aumentata e aumenta la nostra paura irrazionale di subire l’attacco di un predatore. Questa contraddizione fa impazzire questori e generali dei carabinieri, ma nemmeno loro sono riusciti a trovare una qualche soluzione al giallo della “sicurezza percepita”. Leonardo Sciascia, patrono di ogni scettico e di ogni candido, chiedeva di distinguere sempre tra i fatti e i fantasmi dei fatti. Impresa più facile a dirsi che a farsi. Nel sondaggio dell’Istat, su un campione abbastanza ampio, superiore a 50 mila persone, è emerso questo dato, di forte valenza drammatica: tra tutti noi italiani, uno su tre (33,9 per cento dei cittadini) è convinto di vivere in una zona dove il rischio di subire la criminalità sia alto (molto o abbastanza). Ed è un dato, rispetto alla rilevazione precedente, cresciuto di 11,9 punti. Molto. Forse troppo? La paura è un sentimento rispettabile. Chi la liquida come una fissazione dei ceti più deboli sbaglia. Lo si è visto alle elezioni. Ma - domanda - noi siamo e restiamo cittadini attenti a quello che ci circonda? Oppure siamo entrati in qualche modo nel ruolo di personaggi di un “noir” quotidiano che noi, ma soprattutto i “politici della paura”, andiamo scrivendo? Perché c’è una grande contraddizione nelle nostre lamentele. Tra le grandi città e i paesi, emerge che, nel concreto, sappiamo tutti di star meglio oggi che ieri. I dati che fanno riferimento al 2015-2016, rispetto alla precedente rilevazione nel biennio 2008-2009, indicano quanto sia calata la nostra preoccupazione. Sia di essere derubati dell’auto (meno 6,7 punti percentuali) sia di essere scippati o borseggiati (meno 6,3). Non temiamo troppo di subire aggressioni e rapine (meno 7,1) e soprattutto si avverte di meno l’incubo di affrontare una violenza sessuale (meno 14 per cento). C’è un solo dato che aumenta, e dello 0,9: quello di essere derubati in casa. Dato pienamente comprensibile, perché se molti reati calano, i furti invece si abbattono sui quartieri come una mareggiata. Forse è questa paura, in “casa nostra”, che ci rende così fragili. E una spiegazione dovrebbero trovarla al più presto, se ci riescono, carabinieri e polizia. Perché nel frattempo sono diventati loro i capri espiatori del giallo della sicurezza: il 46,4 per cento dei cittadini, rispetto al 38,4 della precedente rilevazione, ha meno fiducia nelle divise e pensa male del lavoro di controllo del territorio delle forze dell’ordine. Che, dicono i critici, dovrebbero transitare più spesso nelle strade (55,5 per cento) ed essere più numerose (44,2 per cento). Forse a qualcuno sembrerà di sentire gli slogan dei “politici della paura”: quelli che ora sono al governo, e dunque sono alla prova dei fatti. O dei fantasmi dei fatti? Meno reati, ma più paura. “Ci sentiamo in pericolo” di Flavia Amabile La Stampa, 23 giugno 2018 L’Istat: un italiano su tre pensa di vivere in zone a rischio criminalità. I crimini diminuiscono (nel 2017, rispetto al 2016, gli omicidi sono calati dell’ 11,2%, le rapine dell’8,7%, i furti del 7%), ma aumenta la paura degli italiani. Si ha più paura di uscire la sera, di rimanere in casa da soli, di poter subire aggressioni. E si ha sempre meno fiducia nella possibilità di un intervento delle forze dell’ordine. C’è l’Italia di oggi, quella su cui fa leva il ministro dell’Interno Matteo Salvini, nell’indagine “Sicurezza dei cittadini” realizzata dall’Istat. In base all’ultimo report, relativo agli anni 2015-2016, un italiano su 3 ritiene di vivere in una zona a rischio criminalità, una cifra in aumento dell’11,9% rispetto alla precedente rilevazione. E quasi uno su due dà un giudizio negativo sul controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine, in particolare in Lazio, Lombardia, Campania e Puglia. Cala il timore di scippi, rapine e furti d’auto e violenze sessuali, più della metà dei cittadini è molto o abbastanza preoccupato per i furti in casa. E una donna su tre non esce la sera da sola per paura. Il 27,6% degli italiani con più di 14 anni afferma di sentirsi poco o per niente sicuro a camminare per strada quando è buio ed è solo nella zona in cui vive (il 7,5% per niente), il 44,7% abbastanza sicuro e il 15,9% molto sicuro. Inoltre, al 23% dei cittadini capita, sempre o talvolta, di non uscire di sera per paura. La paura della criminalità condiziona (molto o abbastanza quasi 4 italiani su 10,) il 38,2%. Il timore è un sentimento così diffuso che il 14,8% degli italiani non si sentono sicuri nemmeno quando sono soli nella loro abitazione. In particolare se si tratta di donne: il 19,5% contro il 9,6% tra gli uomini, soprattutto anziane (28,8% tra le donne che hanno più di 75 anni). Il senso di insicurezza delle donne supera quello degli uomini in tutti gli aspetti presi in considerazione dalla ricerca. È quasi doppio per la paura di uscire da sole di sera (35,3% contro il 19,3%) ed è quadrupla la quota di donne che non esce di sera per paura (rispettivamente 36,6% contro l’8,5%). Le donne sono anche maggiormente influenzate dalla paura delle criminalità (46,2% contro il 29,4% degli uomini). Molti italiani temono un furto a casa (60,2%), uno scippo o un borseggio (41,9%), un’aggressione o una rapina (40,5%), di subire il furto dell’auto (37%) o temono (per sé o per i propri familiari) una violenza sessuale (28,7%). In calo la fiducia sul controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine: il 46,4% degli italiani dà una valutazione negativa, una sfiducia in aumento rispetto al 38,4% precedente. La fiducia è maggiore in chi vive nei centri di piccole dimensioni mentre si ha più paura nelle metropoli, in particolare nelle periferie e nelle zone dove maggiore è il pendolarismo. Tra le regioni nella quali paura e preoccupazione sul fronte della sicurezza sono più marcate ci sono Lazio, Lombardia, Campania e Puglia. Intercettazioni. Bonafede: “la riforma sarà bloccata” di Liana Milella La Repubblica, 23 giugno 2018 Il ministro della Giustizia partecipa a un convegno del Csm. Parla anche della riapertura dei piccoli tribunali, delle tende di Bari. Con i magistrati è ancora luna di miele. Due annunci che piacciono alle toghe, e che gli fruttano i primi due applausi della sua neo carriera di Guardasigilli. Il grillino Alfonso Bonafede affronta la sua prima platea di magistrati da ministro della Giustizia. Un mega convegno del Csm a Roma sulla circolare che sistematizzerà l’organizzazione degli uffici giudiziari. Ma i temi caldi, su cui Bonafede è atteso, sono altri tre. Le intercettazioni, i tribunalini, la tende di Bari. È ancora in “luna di miele”, come la definisce un magistrato di peso come l’ex procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi, ma i primi passi segnano il futuro. Nel quale c’è il definitivo stop alla legge sulle intercettazioni, approvata dal precedente governo il 22 dicembre 2017, ma che dovrebbe entrare in vigore il 12 luglio. Non sarà così. Bonafede - che da oppositore, nella precedente legislatura, ha fatto una dura battaglia contro la legge definita “un bavaglio - conferma che “il provvedimento di blocco è già cominciato e la prossima settimana si riunirà il gruppo di lavoro che dovrà verificare quanti soldi finora sono stati spesi e cosa si può salvare”. Arriva il primo applauso convinto da una sala in cui ci sono capi degli uffici e che poco prima ha già battuto le mani al presidente dell’Anm Francesco Minisci che ha definito quella delle intercettazioni una legge “non certo epocale, ma che crea distorsioni e danni ai diritti delle difese”. Una legge, ricordiamolo, che avrebbe imposto, sin dall’ascolto da parte della polizia giudiziaria, una prima selezione delle conversazioni irrilevanti, stabilendo che non andavano neppure trascritte, ma messe in un armadio riservato annotando solo ora e data. Una legge che tuttora magistrati di peso, come il procuratore di Torino Armando Spataro, difendono, ma che la gran parte ritiene dannosa. Del resto, lo stesso procuratore di Roma Giuseppe Pignatone aveva scritto una lunga nota alle passate commissioni Giustizia di Camera e Senato per segnalare la necessità di modifiche. Tra cui quella della selezione iniziale. Ma Bonafede risponde anche a un’altra sollecitazione che gli rivolge Rossi. Quella sulla necessità di fare un passo indietro sulla riforma della geografia giudiziaria, riaprendo piccoli tribunali che erano stati chiusi. Anche qui, riscuotendo un altro applauso, Bonafede fa una piccola marcia indietro rispetto al contratto di programma del governo, dove si parlava, appunto, di riapertura dei tribunalini. Dice adesso Bonafede: “Il contratto non dice che saranno ripristinati. Ma ci sono istanze, luoghi difficili da raggiunge, oppure zone ad alta criminalità, in cui il presidio di legalità ha un’importanza particolare. Faremo un’analisi più dettagliata sulle singole situazioni eccezionali”. Un capitolo è dedicato al rapporti tra passato e attuale governo. Il vice presidente del Csm Giovanni Legnini chiede esplicitamente che vi sia “continuità”, non solo nel rapporto con il Consiglio, ma anche rispetto alle cose fatte: “Il Guardasigilli Orlando ha finalmente ripreso ad assumere giovane personale di cancellerie e ha bandito i concorsi per un numero rilevante di uditori giudiziari. A lei rivolgo l’esortazione a proseguire e sviluppare sulla via intrapresa”. Non tutto deve essere buttato via. Come ricorda anche Rossi a proposito di una legge - la tenuità del fatto, per cui si può passare sopra e no fare il processo per un piccolo reato - varata dal governo Renzi. E su questo Bonafede apre una finestra ampia: “La continuità è un valore. Non intendo stravolgere quanto è stato fatto fino ad adesso. Sì al cambiamento, ma bisogna tenere quanto di buono è fatto prima. In via Arenula ho trovato un livello altissimo. Il mio faro sarà sempre la tutela dei diritti”. Quanto alla tenuità del fatto, la legge “in sé può andare bene, ma non funzionano tutti gli interventi, perché hanno solo uno scopo deflativo”. Torna il concetto che queste leggi sarebbero state fatte per svuotare carceri troppe piene. Quanto all’arretrato civile Bonafede riconosce che “c’è un trend positivo”, ma ha dei dubbi: “Non contano solo i numeri, bisogna capire le ragioni della diminuzione dei processi, perché se la giustizia è troppa cara e chi vorrebbe fare una causa non la fa, allora non vale”. Infine le tende di Bari e le risorse. Il Guardasigilli conferma che rifiuta l’ipotesi del commissario, “c’è il ministro, ci sono io, e sin dal mio insediamento ci ho messo la faccia”. Ovviamente alla giustizia servono soldi e, assicura Bonafede, “al tavolo del governo io li ho già chiesti”. Di Matteo al posto che fu di Falcone? Pressing di Bonafede di Salvo Palazzolo La Repubblica, 23 giugno 2018 In via Arenula, nel cuore della Roma di governo, il corteo blindato che scorta Nino Di Matteo non è passato inosservato. Si è fermato per ben due volte davanti al ministero della Giustizia, fra martedì e mercoledì. Il Guardasigilli Alfonso Bonafede vuole il pubblico ministero del processo “Trattativa Stato-mafia” nel posto che fu di Giovanni Falcone: la direzione degli Affari penali. E di questo devono avere parlato il ministro e l’attuale sostituto procuratore della direzione nazionale antimafia. Ma c’è una questione di non poco conto da risolvere, sempre che Di Matteo accetti l’incarico: la direzione della giustizia penale, come si chiama oggi, è stata già assegnata ad aprile; l’ex ministro Andrea Orlando ha firmato un contratto triennale con la magistrata Donatella Donati, che negli ultimi due anni è stata capo della segreteria di Gennaro Migliore, sottosegretario alla Giustizia. Insomma, il ministro vorrebbe, ma non può. E, allora, starebbe cercando un’altra collocazione per il pm palermitano. Anche se ormai tutti i posti chiave di via Arenula sono stati assegnati, Bonafede ha chiesto infatti al Csm la collocazione fuori ruolo di sette magistrati. E qui c’è un piccolo giallo: inizialmente, fra i possibili candidati al Dap, la direzione dell’amministrazione penitenziaria, c’era anche Di Matteo, che a lungo si è occupato di mafia e di carcere duro. Poi, invece, la scelta del ministro ricade su Francesco Basentini, attuale procuratore aggiunto a Potenza. Sono stati giorni di grande fermento in via Arenula. E anche nelle carceri c’era grande attesa per la nomina del nuovo direttore del Dap. Lo racconta una relazione del Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria. Alcuni ergastolani al 41 bis hanno commentato il tam tam insistente che dava Di Matteo al ministero con toni preoccupati: “Se viene questo, siamo consumati”. Ma il Dap, ormai è certo, non sarà guidato da Di Matteo, che continua ad essere il più desiderato e osannato dai Cinque Stelle, ma il meno coinvolto nell’azione concreta di governo. Avevano annunciato che doveva essere ministro, poi sottosegretario, poi qualcos’altro di importante al ministero della Giustizia. Ma non c’è ancora nessun incarico per Di Matteo. Che non vuole fare alcun commento sulla vicenda. Però, due giorni fa, al Tg1, ha bacchettato il ministro Salvini sul caso della scorta di Saviano, e ha detto: “Spero tanto che tutte le istituzioni e questo governo si rendano conto finalmente che la lotta alla mafia è e deve essere una delle questioni principali”. Ivera (To): suicida in carcere l’operaio astigiano che uccise la moglie a coltellate di Massimo Coppero La Stampa, 23 giugno 2018 Si è impiccato con un lenzuolo legato alle grate della finestra della cella nella quale era recluso, nel carcere di Ivrea. Rahal Fantasse, 43 anni, ex operaio astigiano di origine marocchina, la mattina del 14 settembre 2015 aveva ucciso a coltellate la moglie Anna Carlucci, 46, nell’abitazione della coppia in via Novello, nel quartiere Tanaro. Fantasse, dopo aver colpito a morte la donna si accanì anche sull’anziano suocero Rocco, intervenuto a difesa della figlia, ferendolo. Poi si barricò in casa fino all’arrivo dei carabinieri. Poche settimane fa era diventata definitiva la sentenza di condanna a 14 anni e 6 mesi di reclusione. Fantasse nel primo interrogatorio dopo l’arresto aveva sostenuto di aver ucciso perché la moglie lo tradiva ma le indagini smentirono la circostanza. All’uxoricida i giudici avevano riconosciuto la semi-infermità mentale accogliendo la tesi del medico legale e criminologo Gianluca Novellone, che in una consulenza per la difesa aveva individuato un “disturbo paranoide di personalità”: l’ossessione del tradimento coniugale. La pena, grazie alla concessione dell’attenuante, era scesa fino a giungere ai meno di 15 anni definitivi. Fantasse e la moglie lasciano un figlio, ancora minorenne e dopo il delitto affidato dai magistrati ai familiari della madre. L’uxoricida lascia anche alcuni parenti che vivono in Svizzera ai quali la notizia della morte è stata comunicata dall’avvocato difensore Aldo Mirate, avvertito dalla direzione del carcere eporediese. “È un suicidio che mi sorprende - dice il legale - era stata comminata una pena molto bassa e vi erano possibilità di reinserimento sociale”. Milano: 27enne nigeriano ritrovato morto in cella a di San Vittore verbano24.it, 23 giugno 2018 È morto il 21 maggio in una cella del carcere di San Vittore, ma la notizia ha raggiunto Verbania solo in questi giorni, portata agli avvocati che si occupano dei numerosi processi penali che ha in corso. Anthony Oliver Ibhas, 27 anni, cittadino nigeriano, era una delle centinaia di migliaia di persone giunte in Italia con un barcone, identificata allo sbarco e poi smistata sul territorio. La sua prima carta d’identità, quella con lo status di richiedente asilo, gliel’aveva rilasciata il comune di Arizzano nel momento in cui era stato assegnato al Centro di accoglienza di Cresseglio. A differenza della maggior parte delle persone con cui ha condiviso la stessa sorte, ce l’aveva fatta: le autorità gli avevano riconosciuto lo status di rifugiato politico In possesso di un permesso di soggiorno e regolare in Italia, aveva però perso vitto e alloggio. Poteva lavorare, ma è finito in un guaio dopo l’altro tra arresti, denunce e processi. Quando è partito dall’Africa, Ibhas si immaginava un futuro sicuramente diverso. Ma la sorte gli ha riservato altro. Trento: sproporzione tra detenuti e personale, mancano anche educatori e psichiatri ildolomiti.it, 23 giugno 2018 Nella prima relazione del Garante dei detenuti tra le criticità anche la mancanza di soldi da parte dello Stato per interventi di manutenzione alla struttura. Sono 315 i detenuti presenti e la componente straniera si attesta su circa il 70%. Per il carcere di Spini sono “necessarie più risorse per la manutenzione della struttura e la cura del disagio psichico”, queste alcune delle principali problematicità che il Garante dei diritti dei detenuti, Antonia Meneghini, ha evidenziato nella sua prima relazione dopo essere stata nominata alla fine dello scorso anno. Nella relazione viene piegato che oltre alla sproporzione tra il numero dei detenuti e quello del personale di polizia penitenziaria e dell’area educativa ad essere insufficienti sono anche le risorse messe a disposizione dallo Stato per garantire la manutenzione ordinaria una struttura moderna come quella della casa circondariale di Spini. Una situazione negativa viene evidenziata per quanto riguarda il secondo piano della sezione femminile che, inutilizzato, oggi è fortemente compromesso. Su 315 detenuti presenti ora nella Casa circondariale di Spini di Gardolo, che potrebbe ospitare al massimo 418 persone, si contano 21 donne e 220 stranieri - la maggior parte dei quali tunisini, seguiti da marocchini, albanesi, nigeriani e rumeni. La componente straniera, oscillante tra il 70 e il 73 per cento, è tra le più alte negli istituti penitenziari d’Italia. Rispetto al totale dei detenuti, 242 stanno scontando la pena definitiva, mentre gli altri sono in attesa del primo giudizio, dell’appello o ricorrenti. A fronte di questi numeri, fino al 4 novembre 2017 le unità di personale della Casa circondariale erano appena 150, delle quali però solo 121 (17 donne e 104 uomini) “utilmente impiegate nel servizio di istituto”, vale a dire 93 in meno del previsto (214). Considerata questa grave carenza e le difficoltà della polizia penitenziaria, la Provincia ha ottenuto dal ministero l’assegnazione di 30 nuove unità di personale, arrivate a fine 2017. A Spini mancano però anche operatori nell’area educativa: dovrebbero essere 6 (ne servirebbero almeno 5) più una figura di supporto, e invece sono 4. Da qui l’attenzione che deve essere implementata per il disagio psichico e alle malattie psichiche dei detenuti, problema che può causare gravi conseguenze ma che risente anche della mancanza di un’apposita normativa. “Soggetti simili a quelli ospitati nella Rems di Pergine - struttura detentiva nella quale sono accolte persone considerate pericolose per la sicurezza, con incapacità che si sono manifestate al momento dell’illecito - si trovano anche a Spini, dove però è in servizio per poche ore un solo psichiatra” ha spiegato Meneghini. “Urgente per i detenuti e il loro possibile reinserimento sociale - ha concluso la Garante - è quindi investire sull’istruzione, il lavoro, la formazione e il personale necessario perché possano impiegare in modo costruttivo il loro tempo”. Taranto: Radicali “i diritti di detenuti e detenenti non sono in contrapposizione” di Associazione Marco Pannella tarantinitime.it, 23 giugno 2018 Con sgomento raccogliamo le parole di Matteo Salvini ieri a Firenze “Lo Stato era più attento ai diritti dei carcerati che alle forze dell’ordine. I carcerati, per carità, devono stare bene, ma se stanno dentro significa che hanno fatto qualcosa”. Parole che non sorprendono essendo in linea con la politica carceraria e giustizialista storica del leader della Lega, e da questo punto di vista comune ai suoi compagni di governo 5 Stelle, ma pericolosa come le tante dette in questi primi giorni di governo da parte di un ministro dell’interno. E che fanno il paio con quelle dell’ex presidente dell’Anm Davigo “se uno è indagato qualcosa deve aver fatto”. Purtroppo un giro negli istituti penitenziari italiani basterebbe loro per verificare come nonostante le illuminate leggi degli ultimi governi atte ad attenuare la carcerazione preventiva, il potere totalmente discrezionale sull’arresto è nelle mani della magistratura e fa si che attualmente la metà dei detenuti in carcere è in custodia cautelare, e di questi la maggior parte verrà assolta. Questo è grave considerando che tutti i detenuti in attesa di giudizio non possono accedere alle misure rieducative e quindi scontano Una pena detentiva peggiore dei definitivi e che nella maggior parte dei casi si riveleranno innocenti. Ma proprio questa impostazione con rammarico sempre ieri ritroviamo nelle parole del sappe Taranto, soprattutto lì dove parlano di “sconti di pena e misure alternative al carcere quasi automatici a causa della carezza degli staff di educatori e assistenti sociali”. Proprio a Taranto che come abbiamo riscontrato nella visita ispettiva di una settimana fa, da quando è cambiato il magistrato di sorveglianza, i detenuti non riescono più ad accedere a misure alternative, anzi ci hanno parlato addirittura di obbligo di scorta presso il domicilio. Non ci addentriamo nello smentire tutti i punti del loro comunicato perché come sempre comprendiamo e lottiamo anche per la loro situazione di difficoltà di lavoro. Proprio uscendo dal carcere di Taranto riscontrando le difficilissime condizioni di tutti avevamo rilanciato l’urgenza a che il nuovo governo metta l’ultima firma alla riforma penitenziaria che grande respiro potrà dare alla comunità appunto sia di detenuti che di detenenti. Inoltre abbiamo sollecitato il consigliere regionale che ci ha accompagnato Francesca Franzoso, ad intervenire chiedendo, cosa che aveva già fatto a seguito di una precedente visita insieme, una audizione in commissione regionale. Cosa che il consigliere regionale Franzoso è riuscita ad ottenere e a far calendarizzare immediatamente per martedì prossimo. Solo Lottando tutti Insieme sul fronte dei diritti, con una visione unitaria e complessiva, si potranno risolvere le difficoltà gravi della comunità penitenziaria tutta, mai contrapponendo gli uni con gli altri, carcerieri contro carcerati. Soprattutto ora che le forze di governo lasciano presagire su questo fronte dopo anni di lotte e spiragli illuminati un ritorno ad un sistema medioevale della pena e della giustizia. Sassari: un Centro di accoglienza per ricominciare dopo il carcere La Nuova Sardegna, 23 giugno 2018 Inaugurato a San Giorgio il Centro di accoglienza per detenuti intitolato a don Graziano Muntoni. Una lezione sul perdono ha inaugurato il nuovo corso della Casa d’accoglienza per detenuti del Centro salesiano di San Giorgio a Sassari. L’hanno data Caterina Muntoni - sorella di don Graziano Muntoni assassinato il 24 dicembre del 1998 a Orgosolo - l’arcivescovo di Sassari Gian Franco Saba e il professor Alberto Merler. Il Centro, recentemente ristrutturato, si presenta a con un messaggio chiaro: chi è stato in carcere ha diritto al perdono e al reinserimento. E la scelta di intitolare la struttura alla memoria del sacerdote originario di Fonni va in questa direzione. Oltre centocinquanta persone hanno partecipato all’inaugurazione del servizio di accoglienza per detenuti in permesso premio, detenzione domiciliare, arresti domiciliari, affidamento al servizio sociale, detenuti scarcerati e senza dimora che hanno necessità di organizzarsi per rientrare nelle loro sedi di origine. La direzione è curata dal cappellano del carcere don Gaetano Galia, insieme a tre suore dell’Istituto delle Poverelle di Bergamo del Beato Luigi Palazzolo. “La comunità risponde alle esigenze di chi, non avendo un’abitazione o una famiglia di riferimento, ha necessità di ripartire dopo la detenzione - spiega don Gaetano. É stata voluta dalla Diocesi di Sassari, attraverso l’attività dell’ufficio diocesano per la Pastorale carceraria”. “L’obiettivo - prosegue don Gaetano - è rendere coscienti le persone ospitate che nulla viene regalato e che nella vita tutto si conquista con fatica e sacrificio. Inoltre un elemento importante è che col volontariato ci si rende utili alla società, ripagando un danno sociale, fatto nel passato”. La comunità opera già da cinque anni. Il Centro può accogliere sino a 14 detenuti, uomini e donne. “La convinzione è che l’educazione mista sia sicuramente più complessa - conclude don Gaetano - ma la riteniamo più ricca e naturale. E nella vita le sfide sono alla base qualità del servizio educativo. La Comunità è aperta a persone di qualsiasi religione e nazionalità, è questo è un altro punto di forza molto importante”. Uno degli obiettivi graduali da raggiungere è l’inserimento lavorativo retribuito dei soggetti ospitati, elemento fondamentale per un vero recupero della persona. Oggi non è facile l’attività imprenditoriale, ma rimane un punto d’arrivo basilare. Milano: parte da Opera il progetto per la difesa dei diritti In evidenza Italpress.it, 23 giugno 2018 Raccogliere le richieste e le segnalazioni di disagi da parte dei detenuti; facilitare il loro rapporto con gli enti della PA (Inps, Aler, Agenzia delle Entrate) per il disbrigo delle pratiche su pensioni, invalidità, tasse; monitorare l’effettivo accesso ai servizi sanitari (prenotazioni esami clinici, somministrazione delle cure) e il regolare svolgimento di corsi e certificazioni scolastiche e professionali. Queste alcune delle competenze che verranno svolte dallo “Sportello del Garante”, aperto da oggi nel carcere di Opera (Mi) e che presto sarà replicato negli istituti penitenziari di Monza, Bollate e San Vittore. Un ufficio a disposizione dei detenuti e delle loro famiglie per consentire, anche a chi si trova in condizioni di restrizione della libertà personale, di accedere ai servizi previsti dalla legge, garantendo la reale fruizione dei diritti civili. L’iniziativa, illustrata dal Difensore regionale della Lombardia, Carlo Lio, che svolge anche le funzioni di Garante dei detenuti, è stata avviata grazie a un accordo con il Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria. “Obbiettivo di questo progetto è avvicinare i detenuti all’istituzione che li tutela - ha spiegato Carlo Lio -, aprendo sportelli direttamente accessibili all’interno del carcere. È un segnale di vicinanza e di attenzione da parte della Regione. Il mio intento è portare il lavoro che inizia oggi in tutte le carceri della Lombardia, avviando collaborazioni con gli uffici dei Garanti dei cittadini nei Comuni sedi di case di reclusione”. All’incontro, che si è tenuto ieri nella sala del teatro della casa di reclusione, hanno partecipato anche i consiglieri Fabio Pizzul (PD), delegato del Presidente Fermi, Michele Usuelli (+Europa), e il Sottosegretario ai Rapporti internazionali, Alan Christian Rizzi. Per il mondo carcerario erano presenti il Provveditore regionale per la Lombardia dell’Amministrazione penitenziaria, Luigi Pagano, i Direttori degli istituti penitenziari di Opera, Silvio Di Gregorio, Monza, Maria Pitaniello, Bollate, Massimo Parisi, e di San Vittore, Giacinto Siciliano, oltre a Simona Pesole, in rappresentanza della Prefettura di Milano, l’avvocato Eugenio Losco, della Camera Penale di Milano e Severina Panarello, Direttrice dell’Uiepe di Milano. Plauso all’iniziativa è stato espresso anche da Giovanna Di Rosa, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano. Ad ascoltare la presentazione del progetto erano presenti numerosi detenuti e i responsabili e rappresentanti della sanità penitenziaria Quella avviata dal Difensore regionale della Lombardia è una delle prime esperienze di sportello aperto da un’istituzione direttamente nel carcere. Molti Paesi europei prevedono una figura di garanzia dei diritti delle persone private della libertà. Scopo dell’Ombudsman è individuare eventuali criticità e, in un rapporto di collaborazione con le autorità responsabili, trovare soluzioni per risolverle, limitando quelle situazioni che generano occasioni di ostilità o che originano reclami da parte dalle persone ristrette. Firenze: dalla Regione dieci ventilatori per il carcere di Solliccianino gonews.it, 23 giugno 2018 Dieci ventilatori con piantana sono stati inviati stamani dalla Regione al carcere Mario Gozzini, conosciuto come “Solliccianino”. “L’invio dei ventilatori in carcere era un impegno che mi ero presa e che ho voluto rispettare - dice l’assessore al diritto alla salute e al sociale Stefania Saccardi - È arrivato il caldo e le alte temperature si fanno sentire anche tra le mura del carcere. Mi auguro che l’invio di questi ventilatori possa alleviare il disagio dei detenuti. Conosciamo le condizioni difficili in cui versano attualmente gli istituti penitenziari, non solo toscani ma italiani in genere, tra cui le carenze strutturali e le inadeguate condizioni micro-climatiche dei locali, il sovraffollamento e l’elevato turn-over delle persone detenute, con conseguente precaria vivibilità degli spazi disponibili, come viene evidenziato anche nei rapporti di vigilanza sanitaria dai Dipartimenti di prevenzione delle Asl competenti territorialmente e dalle segnalazioni dei referenti per la salute in carcere delle stesse aziende in seno all’osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria in Toscana”. “Per questo - prosegue Saccardi - abbiamo ritenuto di intervenire offrendo una fornitura di ventilatori all’Istituto Gozzini tramite Estar. Si tratta, oltre che di azioni finalizzate a garantire il benessere e quindi le condizioni di salute, specie per le persone maggiormente sofferenti, di misure minime di tutela del principio di umanizzazione e di dignità che deve essere riconosciuto alle persone ristrette negli Istituti. In continuità, quindi, con lo scorso anno, quando furono forniti 60 ventilatori all’Istituto di Sollicciano, la Regione conferma l’impegno a portare avanti ogni intervento volto a migliorare le condizioni di vita e di salute delle persone detenute nelle carceri toscane”. La Regione Toscana riconosce infatti il ‘diritto alla salutè come una delle principali finalità della propria azione di governo, in attuazione del principio costituzionale garantito alla collettività, diritto riconosciuto, al pari degli altri cittadini, anche ai detenuti e internati nelle carceri toscane. E attua quindi interventi finalizzati al miglioramento della qualità della vita dei detenuti, anche attraverso Intese con il Ministero della Giustizia, per definire ambiti di collaborazione istituzionale per la concreta risoluzione delle maggiori criticità esistenti. Augusta (Sr): “In viaggio con papà”, progetto curato da Nostos presentato al carcere webmarte.tv, 23 giugno 2018 In occasione della riapertura dell’area verde della casa di reclusione di Augusta che ha avuto luogo ieri, Nostos, Festival del viaggio e del viaggiatore, ideato e curato da Naxoslegge, ha presentato il progetto “In viaggio con papà: viaggi da fermi per conquistare il mondo”. I lavori della conferenza sono stati aperti dal direttore del carcere Antonio Gelardi il quale, ha sottolineato l’importanza che, all’interno di un penitenziario, assumono progetti di tale natura, che hanno lo scopo di mantenere vivo il legame tra il detenuto e la vita sociale oltre le mura di una cella, nel caso specifico del suddetto progetto, con i propri figli. Mariada Pansera, curatrice del progetto insieme alla docente Fulvia Toscano, direttore artistico di Naxoslegge, e ad Antonello Nicosia, pedagogista ed esperto in trattamento penitenziario, illustra “Nostos”(in greco antico “il viaggio”) che apre la sua terza edizione il 3 maggio scorso nel museo archeologico di Naxos con la presentazione del libro di Marinella Fiume e Paolo Romano “ Viaggio in Sicilia”. Trova spazio all’ interno del festival una nuova sezione “ Viaggi di un altro genere”, dedicata allo sguardo femminile sul viaggio e ai luoghi legati a figure femminili, sulle cui tracce Nostos invita il pubblico: sulle tracce di Adelasia del Vasto, a cui sarà intitolata la Biblioteca delle donne del comune di Barcellona; sulle tracce di Chiara Palazzolo, la talentuosa scrittrice, prematuramente scomparsa, di Floridia; sulle tracce di Macalda di Scaletta, nello splendido castello della cittadina della provincia di Messina, con la studiosa Dora Marchese che ha dedicato a Macalda il suo ultimo saggio. “Un appuntamento particolare - dice Pansera - proprio quello nel carcere di Brucoli, dove sarà avviato, il progetto “ In viaggio con papà” in cui la lettura gioca un ruolo fondamentale. Ai detenuti che prenderanno parte al progetto saranno concesse ore di colloquio supplementari da trascorrere soli con i loro figli presso l’area verde messa a disposizione e, durante le quali, leggere un libro insieme ed insieme immaginare un loro viaggio da annotare su un cahier”. I libri proposti, precedentemente selezionati dai curatori in base all’età dei figli dei detenuti ed alla preparazione degli stessi, sono stati consegnati ieri prima della presentazione del progetto. Il libro diviene, quindi, strumento di evasione e condivisione al fine di recuperare la genitorialità negata e, nello stesso tempo, buona pratica per educare i figli alla lettura. Il progetto permette ai genitori di rimanere da soli con i propri figli, momento utile per il recupero del rapporto e dei ruoli. “La scelta di un laboratorio di lettura nasce da uno studio di ricerca sulla lettura in carcere - afferma Nicosia- attività che dura dal 2005 e che conferma ogni giorno quanto è utile al detenuto leggere, crescendo culturalmente; la lettura quale strumento di riflessione, di evasione mentale; la lettura come chiave rieducativa al fine di un reinserimento attraverso le pratiche culturali”. La presentazione del progetto si è conclusa con l’intervento dei detenuti che ne faranno parte i quali, dopo avere ringraziato il direttore, gli educatori e i curatori del progetto che li seguiranno durante il percorso, hanno riferito delle emozioni e del perché hanno deciso di aderire all’iniziativa. I “Cahier di viaggio” risultato di questo progetto saranno presentati durante un evento opportunamente organizzato in autunno. Milano: filatelia, tre carceri in mostra alle poste di Cordusio mi-lorenteggio.com, 23 giugno 2018 Frutto del Progetto filatelia nelle carceri, condiviso dai ministeri della Giustizia e dello Sviluppo economico, da Poste italiane e da alcune organizzazioni di settore, la rassegna propone alcuni elaborati realizzati all’interno delle singole carceri. Tre carceri milanesi riunite in un’unica mostra filatelico - artistica, aperta fino a metà luglio allo Spazio filatelica delle Poste centrali (via Cordusio 4). “Uno spazio sì di Poste Italiane, ma al tempo stesso uno spazio della città dove si susseguono incontri”, ha sottolineato Giovanni Accusani, responsabile del Nord Ovest dell’Azienda guidata da Matteo Del Fante. Frutto del Progetto filatelia nelle carceri, condiviso dai ministeri della Giustizia e dello Sviluppo economico, da Poste italiane e da alcune organizzazioni di settore, la rassegna propone alcuni elaborati realizzati all’interno delle singole carceri. Disegni su temi vari, compreso quello del bresciano Dario Trainini, riprodotto su una delle quattro cartoline per la Festa della Mamma edite da Poste Italiane, realizzati dal laboratorio Artemisia, diretto da Nadia Nespoli, attivo all’interno della Casa di reclusione di Bollate, dove nel 2007 ha preso le mosse il progetto pilota che ha portato alla firma, il 13 febbraio 2013, del protocollo per la promozione e lo sviluppo formativo denominato, appunto, “Filatelia nelle carceri”. Il “carcere - ricorda Matteo Nicolò Boe, da tempo tornato libero nella sua Sardegna, autore di un disegno con le sbarre spezzate da una farfalla, proposto attraverso la cartolina ricordo e l’annullo postale - è come una ragnatela che inaridisce l’anima. La farfalla, metafora dell’impegno in attività culturali, come la filatelia, capace di spezzare le sbarre, librandosi gaia e danzante nel cielo”. La casa circondariale di San Vittore è presente alla rassegna con la collezione, come le restanti esposte in vetrinette messe a disposizione dal Centro italiano di filatelia resistenza e storia contemporanea, che Franco Uggetti, anch’esso tornato libero dopo aver scontato la pena, realizzò durante la detenzione. Un viaggio attraverso la Lombardia. Luoghi, monumenti e personaggi della regione via via ricordati con francobolli e completati con coloratissimi disegni. Più corpose, e per certi versi impegnative, le proposte del “Gruppo filatelia” dell’alta sicurezza di Milano Opera, articolate in due collezioni, entrambe presentate (per ragioni di spazio) in selezione. La raccolta “Vangelo filatelico”, per la cui realizzazione Matteo Nicolò Boe, Vito Baglio, Antonio Albanese, Nicola Mocerino, Diego Rosmini e Luigi Di Martino, hanno attinto dai francobolli messi a disposizione da papa Francesco. Tenuta a battesimo, nella casa di reclusione di Milano Opera, dal cardinale Angelo Scola, l’elaborato è proposto per la prima volta al di fuori delle mura del carcere. Una primizia è invece rappresentata dalla collezione “Anniversari in uniforme”, firmata da Matteo Nicolò Boe, Vito Baglio e Diego Rosmini, che tratta dei corpi militari in generale e del duecentesimo anniversario, in particolare, della Polizia penitenziaria. Un azzardo. Per certi aspetti una “contraddizione in termini - come ammettono i tre autori - delegare a dei detenuti un racconto filatelico sui vari corpi militari, repressivi e, in particolare celebrativo del 200° anniversario dell’istituzione della Polizia penitenziaria”. Tuttavia, “la capacità di astrarsi da passioni, da pregiudizi stratificati e da un contingente tutt’ora conflittuale” ha finito col “favorire la realizzazione della collezione”. “Rimettere l’attenzione su Istituti di pena così da rendere più facile il reinserimento” dei reclusi una volta tornati liberi è per Poste Italiane - ha ribadito Giovanni Accusani - “motivo di orgoglio”. “Per chi ama la filatelia - ha a sua volta sottolineato Fabio Gregori, responsabile di Filatelia di Poste Italiane- questa mostra rappresenta un momento di emozione, perché attraverso di essa si riesce a comprendere come il francobollo e il mondo che ruota intorno al francobollo sia in grado di far crescere attenzione, di fra crescere interesse, di far crescere passione, di far crescere conoscenza. Perché il francobollo è un narratore dell’Italia, il francobollo è una voce fuori campo, un grillo parlante che è in grado di portare alla nostra attenzione le tante curiosità italiane, le tante eccellenze, le bellezze, le meraviglie, i grandi personaggi, i grandi italiani. Coloro che, da dietro le sbarre del carcere si sono avvicinati ai francobollo hanno prima scoperto e poi valorizzato la conoscenza della storia che proviene da ogni singolo esemplare, attraverso il quale sono riusciti a raccontare le loro sensazioni, a raccontare le curiosità che hanno scoperto con un francobollo. Bene - la conclusione di Fabio Gregori - secondo me la strada per riportare sotto i riflettori il francobollo è proprio questa: utilizzarlo come strumento di conoscenza”. “Questa mostra - non ha avuto difficoltà ad ammettere Catia Bianchi, la funzionaria giuridico-pedagogica nella Casa di reclusione di Bollate che nel 2007 ha fatto da “levatrice” al Progetto filatelia nelle carceri - è una risposta concreta alla domanda che molti si pongono e che suscita molta polemica è la dimostrazione plastica di quello che è e deve essere la certezza della pena. Cioè la certezza che quando uno entra in carcere e fa qualcosa di utile per se e per gli altri e produce risultati è perché dietro c’è qualcosa che funziona. Perché i risultati sono sempre fonte di processi che funzionano”. Dopo l’inaugurazione della mostra, Fabio Accusani ha incontrato, nella Casa di reclusione di Milano - Opera il direttore, Silvio di Gregorio e il “Gruppo filatelia” dell’Alta sicurezza. Le parole che Rodotà direbbe oggi di Simonetta Fiori La Repubblica, 23 giugno 2018 Un anno fa moriva il grande giurista. Gustavo Zagrebelsky e Gaetano Azzariti raccontano “la mancanza della sua voce, mentre si assiste alla frantumazione nazionalistica di quei diritti per cui lui aveva combattuto”. Che avrebbe detto oggi Stefano Rodotà? Come avrebbe reagito il giurista che teorizzava il diritto a protezione dei più deboli in un’Italia che fa la voce grossa con gli ultimi? Quale bussola morale ci avrebbe indicato al cospetto di un ministro dell’Interno che respinge i migranti, minaccia censimenti etnici, dileggia esseri umani devastati da guerre e miseria? Raramente un anniversario si rivela nella sua drammatica attualità: a un anno esatto dalla scomparsa, niente sembra più lontano dall’eredità civile e culturale di Rodotà del Paese sovranista che maltratta i più fragili. “La mancanza della sua voce ci appare ogni giorno più grave e pesante”, dice Gustavo Zagrebelsky, che gli è stato affianco in molte battaglie ideali. “Rodotà ha dedicato il suo impegno culturale a valori quali dignità, umanità, libertà, tolleranza, giustizia, solidarietà: tutti temi provvisti di una portata universale, che non si prestano a essere declinati per nazionalità. I diritti umani sono per tutti - italiani, senegalesi, rom - senza esclusioni. Oggi stiamo assistendo a una frantumazione nazionalistica di questi valori, che non vengono negati in sé ma parcellizzati, reclamati da alcuni a danno di altri. Una pretesa particolaristica che si traduce in compressione dei diritti altrui”. È la fine di un mondo, continua Zagrebelsky, il tramonto di principi sanciti dalla dichiarazione dei diritti universali, stelle polari conquistate dalla storia dopo le catastrofi del XX secolo. “Si blindano i confini esterni e se ne costruiscono di nuovi all’interno, al fine di separare quelli che stanno con noi ma non sono parte di noi: oggi migranti e nomadi, domani chissà chi altri”. Non si tratta di ignorare i problemi che possono derivare dalla presenza dei rom nelle grandi città, “ma il passaggio alle ruspe implica un salto culturale enorme”. E allora bisogna trovare soluzioni “senza violare quei principi che sono al centro della ricerca intellettuale di Rodotà”. Una sua parola chiave è “dignità”, il rispetto della persona nella sua integrità, termine a cui attribuiva maggiore immediatezza rispetto a parole storiche come “eguaglianza”, “libertà”, “fraternità” proprio perché più direttamente evocativa dell’umano. “Come tutti i classici, Rodotà ha anticipato le risposte alle domande ora più urgenti”, interviene Gaetano Azzariti, il costituzionalista che ne è stato allievo. “Un punto essenziale della sua costruzione teorica è l’antropologia dell’homo dignus, che considerava il grande lascito della Costituzione. Non è un caso che i primi articoli della Carta europea, a cui Stefano diede un contributo essenziale, siano dedicati alla dignità. È una chiave fondamentale per tutti i problemi di ordine politico, economico e sociale, inclusa la questione della sicurezza. La dignità non ha prezzo, come diceva Kant. E non si può barattare con niente. La dignità degli uomini viene prima di qualsiasi cosa. Questo vale per il lavoro, il mercato e l’impresa. O l’impresa è degna o non è. O al lavoratore si garantisce un’esistenza libera e dignitosa - l’articolo 36 della Costituzione che gli stava tanto a cuore - o quel lavoro non è degno. Tutte le grandi questioni si possono risolvere solo sulla base di principi quali dignità e solidarietà perché l’egoismo, ammoniva Rodotà, non può fornire la soluzione dei problemi del mondo”. Quello che ci ha lasciato è un’impalcatura teorica solida, oggi più che mai preziosa per una sinistra politica smarrita. Una costruzione fondata sul “diritto di avere diritti” - è il titolo mutuato da Hannah Arendt per un suo lavoro fondamentale -, sulla tutela dei diritti inviolabili dell’individuo, in un ampio raggio che spazia dal terreno dell’identità sessuale allo spazio virtuale. Sterminata era la sua capacità di studio, senza confini disciplinari. “Oggi Stefano sarebbe capace di comporre in un’unica cornice tutti gli elementi particolari che ci travolgono ogni giorno”, dice Zagrebelsky. “Saprebbe dare un significato generale a episodi apparentemente lontani: ieri la minaccia di chiudere le frontiere, oggi l’idea che la scorta di Saviano sia ingiustificata. Le grandi tragedie storiche nascono dalla sommatoria di tante piccole vicende di abusi, ingiustizie e pressioni. Io temo il momento in cui questi frammenti possano raccogliersi in un quadro preciso perché ci troveremo dinnanzi a una cosa che non vorremmo vedere. Stefano ci avrebbe aiutato a comprenderla per tempo”. Insieme hanno difeso il diritto dalle intromissioni della politica. Zagrebelsky ricorda una fotografia molto affettuosa a un convegno di Libertà e Giustizia. “Era un uomo tenero e al contempo rigoroso, con una faccia che sembrava scolpita nella corteccia”. La sua serietà scientifica rifletteva una serietà esistenziale. “Oggi reagirebbe a questo bollire a fuoco lento della nostra impotente indignazione. Si chiederebbe cosa si può e si deve fare. Non c’è più lui a mobilitare le coscienze. E molti di noi si domandano se ci sarà e chi sarà un nuovo Stefano Rodotà”. Sempre più rare sono le figure intellettuali capaci di coniugare rigore scientifico e lotta per i diritti, competenze e impegno civile. “Siamo in pochi e disgregati”, dice Zagrebelsky. “Mi colpisce che di fronte alle sortite del ministro dell’Interno l’associazione dei costituzionalisti non abbia detto una parola: come se la nostra Costituzione non ci indicasse una strada maestra nelle relazioni sociali”. Per uscire dalla confusione e dalla regressione di oggi, interviene Azzariti, si dovrebbe tornare al suo pensiero forte e sistematico. “È stato l’abbandono di queste bussole a determinare l’impoverimento della cultura critica e convintamente democratica”. Anche a sinistra, aggiunge l’allievo, Rodotà non è stato sempre compreso. È difficile coltivare grandi ideali senza essere intimamente liberi. Zagrebelsky ne sottolinea un aspetto rimasto finora nell’ombra. “Stefano non ha mai svolto attività professionale. Non ha mai messo la sua scienza di civilista al servizio di interessi estranei alla ricerca o all’impegno. Sicuramente uno come lui, con la sua dottrina, sarà stato sollecitato molte volte a prestare consulenza o a fornire pareri pro veritate nei processi i cui si muovono enormi interessi economici. Non l’ha mai fatto. E anche questa scelta indica quanto tenesse all’autonomia della sua professione”. Malta e Italia si rimpallano i migranti di Adriana Pollice Il Manifesto, 23 giugno 2018 I due Stati rifiutano di prendere le 239 persone a bordo della Lifeline. E si accusano a vicenda. Un nuovo scontro tra Italia e Malta, con entrambi i Paesi che rifiutano ancora di aprire i porti ai migranti. Dopo l’Aquarius, a provocare il caso diplomatico è stata la nave Lifeline, battente bandiera olandese, della Ong tedesca Mission Lifeline. L’imbarcazione di 32 metri, con una capienza di 50 persone, ha salvato 239 migranti rifiutandosi di consegnarli alla Guardia costiera libica. Il governo gialloverde giovedì ha messo in chiaro che non avrebbe autorizzato lo sbarco in Italia minacciando sequestro e inchieste. Ieri, intorno alle tredici, l’esecutivo ha fatto trapelare la notizia di aver ufficialmente chiesto a Malta di far attraccare la nave ma dall’altro lato è arrivata l’ennesima nota diplomatica dai toni ambigui: “La nave è al momento nella nostra area Search and rescue. Né la Lifeline né il coordinamento di Roma hanno trasmesso a Malta una richiesta formale. Il governo maltese continuerà ad agire in accordo con le leggi e convenzioni internazionali”. È il ministro ai trasporti Toninelli il primo ad attaccare: “Malta dice una falsità. Ha avuto una richiesta ufficiale da Frontex. La responsabilità di quelle vite grava sull’equipaggio dell’Ong e su Malta. La nave non ha le caratteristiche tecniche per il trasporto di così tanti richiedenti asilo. In questo caso la responsabilità di Malta è ancora più grande che con Aquarius perché quella era una nave mercantile molto grande”. Nella disputa si è inserita anche la Spagna: “Siamo in contatto con Malta - ha spiegato la portavoce del governo, Isabel Celaà - per procedere, se necessario, con i soccorsi umanitari e con Italia e Francia perché la Francia ha mostrato una grande solidarietà con la Spagna durante l’accoglienza dell’Aquarius”. Nel pomeriggio il no da La Valletta diventa ufficiale, come spiega Toninelli via facebook: “La disumanità di Malta è lo specchio dell’Europa. Il loro centro di coordinamento ha rifiutato qualsiasi tipo di intervento, se non il soccorso per pochi casi di prima emergenza. Per loro è un caso post Sar, dunque non di imminente pericolo. È l’Europa che deve intervenire. Anche in sede Ue, non accetteremo soluzioni a scapito dell’Italia”. Su un sito locale, il portavoce del governo maltese ha aggiunto: “I soccorsi sono stati gestiti dal Coordinamento italiano con le autorità della Libia. Malta non ha coordinato le operazioni di soccorso, né siamo l’autorità competente a farlo” specificando di “non assumersi nessuna responsabilità per le azioni irresponsabili della Ong”. Così i migranti restano nel Mediterraneo stipati gli uni su gli altri, anche se ieri sera una motovedetta della Guardia costiera era diretta verso la nave della ong. Giovedì Salvini ha contattato l’Olanda per chiedere una verifica sui documenti della nave. Dai Paesi Bassi è arrivata la nota in cui si spiega che non risulta iscritta nel registro mercantile. Così ieri via social la Lifeline, che non ha la stazza per essere inserita in quella categoria, ha pubblicato la foto della matricola del Maritime mobile service identity in cui si indica Amsterdam come porto di riferimento. “Dubito che il governo olandese non abbia fatto le dovute verifiche - la replica di Toninelli. Una volta sbarcati, riprenderà l’indagine della nostra Guardia costiera che porterà al sequestro di questa nave. L’eventuale arresto dell’equipaggio compete alle procure ma immagino che sarà aperto un procedimento penale”. Dalla nave Axel Steier ha commentato: “Seguiamo le leggi internazionali. La gente ha avuto coperte, cibo e assistenza medica. Speriamo che la situazione si risolva presto”. In Italia gli attacchi sono andati avanti per l’intera giornata. Salvini, in giro per i ballottaggi, ha picchiato duro via social e a ogni tappa elettorale: “La nave fuorilegge Lifeline (dell’Ong che mi diede del fascista) è a Malta col suo carico illegale. Per la sicurezza dei passeggeri abbiamo chiesto che aprano finalmente i loro porti. Quella nave dovrà essere sequestrata e il suo equipaggio fermato. Mai più in mare a trafficare, mai più in Italia”. E sul fronte Ue: “Lezioni di buona educazione dalla Francia non le prendiamo e spero che i prossimi barconi vadano in Francia. Macron, un signorino che eccede con lo champagne, a Ventimiglia schiera la polizia, non rompa le scatole all’Italia. Ora la Merkel telefona. Noi non possiamo prendere un migrante di più”. Stati Uniti. Adolescenti in un Centro di detenzione per migranti vittime di abusi di Siria Guerrieri La Repubblica, 23 giugno 2018 Ragazzi dai 13 ai 15 anni rinchiusi nella struttura in Virginia con l’accusa di aver passato illegalmente il confine o di essere parte di gang. La denuncia: picchiati e torturati dalle guardie. Dopo il caso dei bimbi strappati ai genitori e chiusi nelle gabbie dei centri di detenzione come “undocumented”, negli Stati Uniti sale alla ribalta la vicenda degli adolescenti picchiati e torturati all’interno di strutture di contenzione per migranti minorenni. Un gruppo di ragazzi tra i 14 e i 15 anni, catturati mentre tentavano di attraversare il confine non accompagnati o trovati senza documenti durante controlli casuali, ha denunciato di aver subito maltrattamenti, violenze, in molti casi vere torture. Abusi subiti tra il 2015 e il 2018, secondo quanto riporta l’Associated Press, mentre erano imprigionati nel centro di detenzione giovanile di Shenandoah, nei pressi di Charlottesville, in Virginia. Un centro costruito per migranti minorenni accusati di aver compiuto reati: per finire lì dentro, però, basta essere stati colti mentre si attraversa il confine, oppure trovati senza documenti durante un controllo casuale. I ragazzi hanno dato inizio a un’azione legale in tribunale, denunciando di essere stati picchiati mentre erano ammanettati, rinchiusi in isolamento per lunghi periodi, lasciati nudi e al freddo in celle di cemento. I loro racconti e le loro testimonianze, messe agli atti nel procedimento in corso, sono scioccanti: “Le guardie ci strappavano i vestiti e ci legavano alle sedie con borse sulla testa”, riferiscono. “Ci ammanettavano, ci gettavano a terra, ci picchiavano e colpivano con calci su tutto il corpo. Poi ci mettevano dei sacchi di plastica in testa, che avevano dei buchi in corrispondenza degli occhi da cui si poteva vedere. Ma ci sentivamo soffocare”, testimonia nella denuncia uno degli adolescenti, un ragazzo originario dell’Honduras rinchiuso a Shenandoah quando aveva 15 anni. I racconti dei giovanissimi detenuti sono confermati da una specialista dello sviluppo adolescenziale che aveva lavorato all’interno della struttura, che riferisce di aver riscontrato sui ragazzi durante il suo lavoro bruciature e ossa rotte, ad opera delle guardie. L’accusa con cui i ragazzi sono stati internati nella struttura è quella di aver attraversato illegalmente il confine tra Stati Uniti e Messico, e in alcuni casi di essere parte di gang di strada, come la temuta MS-13, spesso evocata da Donald Trump per giustificare la linea della tolleranza zero. Ma Kelsey Wong, direttrice del programma del centro di detenzione di Shenandoah, nel corso di un’audizione di fronte a una Commissione del Senato, il 26 aprile scorso, ha riferito che in molti casi i ragazzi non apparivano affatto essere membri di gang, ma soffrivano di problemi mentali dovuti ai traumi subiti nei paesi di origine. Il governatore della Virginia, il democratico Ralph Northam, ha annunciato ieri di aver ordinato un’indagine interna. L’Onu: la Corte Penale internazionale indaghi sul Venezuela di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 23 giugno 2018 L’Alto commissario per i Diritti umani delle Nazioni Unite vuole sapere che cosa è realmente accaduto nel Paese tra il 2015 e il 2017 di fronte ai “gravi abusi denunciati” dalle opposizioni, alle “esecuzioni extra-giudiziarie” e alla “impunità generalizzata” dovuta all’inattività dello Stato. L’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’Onu, Zeid Ra’ad al Hussein, ha chiesto alla Corte Penale Internazionale (CPI) dell’Aia di avviare un’indagine sul Venezuela. Vuole sapere che cosa è realmente accaduto nel paese tra il 2015 e il 2017 di fronte ai “gravi abusi denunciati” e alla “impunità generalizzata” dovuta all’inattività dello Stato. “Visto che lo Stato non sembra avere la capacità e la volontà di incriminare i responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani”, afferma Zeid Ra’ad al Hussein, “esistono solide ragioni per considerare un maggior coinvolgimento della CPI nella materia”. Le quattro ondate di scarcerazioni, i tentativi di riallacciare un dialogo impossibile con l’opposizione, gli inviti a una pacificazione generale, non sono serviti molto a Maduro. Non convince la comunità internazionale che lo ha isolato da un punto di vista economico e politico. Su tutto resta un problema di impunità, di passività da parte di un regime ad individuare e perseguire i responsabili di una mattanza che secondo la stessa Procura generale venezuelana ha provocato 505 morti da parte delle forze di sicurezza. Martedì scorso l’Organizzazione degli Stati Americani (OEA) aveva reso pubblico un rapporto nel quale i tre estensori ritenevano che “c’erano fondati motivi” per ritenere che gli attacchi alla popolazione civile venezuelana, dal febbraio 2014, costituivano “crimini di lesa umanità” conformi allo Statuto di Roma che guida l’azione della Corte Penale Internazionale. Il Segretario della OEA, Luis Almagro, aveva deciso di trasmettere il dossier all’Aia e ha sollecitato Luis Moreno Ocampo, primo giudice della Corte, ad avviare un’inchiesta. Il rapporto, sostenuto adesso dall’Alto Commissariato Onu, riteneva che gli interventi delle forze di sicurezza venezuelane avevano usato sempre lo stesso sistema: incursioni nei quartieri poveri con la scusa di arrestare “criminali”, senza provvedimenti emessi dalla magistratura e falsificando la scena del crimine, facendo credere che le vittime erano il frutto di scontri con le forze dell’ordine. Insomma, esecuzioni extra giudiziarie. La magistratura ha incriminato 373 agenti. Ma finora nessuno è stato rinviato a giudizio. Il rapporto riporta anche la morte di 43 detenuti in un carcere dell’Amazzonia, la regione orientale del paese. Dei 54 ordini di custodia cautelare emessi dalla ex Procuratrice generale Luisa Ortega Díaz, fuggita via mare dal Venezuela, solo uno è stato eseguito. Lo stesso dossier denuncia che almeno 280 persone sono state “arbitrariamente private della libertà per esprimere le proprie opinioni politiche, per esercitare i loro diritti e per essere considerate una minaccia al governo”. Ci sono infine 90 casi di persone detenute e sottoposte a “trattamenti crudeli, inumani e degradanti dal 2014 che possono essere considerate torture”. L’ambasciatore venezuelano presso l’Onu, Jorge Valero, ha rigettato il dossier e ha detto che l’Alto Commissariato per i Diritti Umani produce “unilateralmente e senza alcun mandato delle informazioni illegali”. Il documento, secondo Valero, “manca totalmente di rigore scientifico” perché si basa su dati e informazioni raccolte a distanza. Per ovviare a questo dubbio basterebbe accettare l’ingresso di una Commissione internazionale. Una verifica sul posto. Maduro non la vuole. Troppo pericolosa.