Le dichiarazioni di Salvini sui detenuti stranieri sono corrette? Agi, 22 giugno 2018 Secondo Matteo Salvini un detenuto su tre non è italiano e lo stato spende per lui 300 euro al giorno. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini, ospite il 20 giugno a Porta a Porta, ha detto che “non è possibile che, su 60mila detenuti in Italia, 20mila siano stranieri”. Il vicepresidente del Consiglio ha anche aggiunto che avrebbe poco senso “tenerli qua, pagandoli 300 euro al giorno”, e ha confermato che il governo si impegnerà per far loro scontare la pena nei Paesi di provenienza. Siamo andati a verificare i dati citati da Salvini e che cosa è possibile dire sull’idea di espatriare i detenuti stranieri. Quanti sono i detenuti stranieri in Italia - Partiamo dalle statistiche sulla popolazione carceraria. Secondo i dati più recenti del Ministero della Giustizia - aggiornati al 31 maggio 2018 - i detenuti presenti negli istituti penitenziari in Italia sono in totale 58.569 (su una capienza regolare di 50.615 posti), distribuiti in 190 strutture. I detenuti stranieri sono 19.929: il 34 per cento sul totale, quasi un terzo esatto. I cittadini italiani sono 38.640. Su questi numeri ci sono alcune osservazioni da fare. Innanzitutto, nei confronti degli stranieri si usa in misura maggiore la custodia cautelare, cioè il carcere prima della conclusione del processo. Tra i detenuti in attesa di giudizio, gli stranieri sono il 37,7 per cento (3.640 individui), mentre tra quelli condannati in via definitiva la percentuale scende al 31,6 per cento. Chi è straniero ha insomma maggiore difficoltà ad accedere a misure alternative al carcere. I dati del ministero della Giustizia, aggiornati al 2016, evidenziano che su un totale di 5.433 individui soggetti a misure di sicurezza non detentive, solo il 9,5 per cento è composto da stranieri, comunitari e non. Discorso analogo vale per le sanzioni sostitutive e quelle non detentive, in cui le percentuali di stranieri coinvolti è rispettivamente del 14,6 per cento e del 12,6 per cento. Secondo i dati del Ministero della giustizia - aggiornati al 31 maggio 2018 - le nazionalità presenti nelle carceri italiane sono 140. In percentuale, i primi in classifica sono i cittadini marocchini (il 18,5 per cento dei detenuti stranieri), seguiti dai rumeni (12,9 per cento), gli albanesi (12,7 per cento) e i tunisini (10,8 per cento). Paesi come Nigeria e Senegal raggiungono percentuali più basse, rispettivamente del 6,2 per cento e del 2,4 per cento. Quanto costa un detenuto allo Stato - I numeri sulla popolazione carceraria riportati da Salvini sono corretti. Ma è vero che lo Stato spende per ognuno di loro 300 euro al giorno? Nel suo rapporto 2018, l’Associazione Antigone ha calcolato che per l’anno in corso - sul budget preventivo di circa 2,9 miliardi di euro del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - il costo giornaliero per detenuto è previsto essere di 137,02 euro, praticamente stabile rispetto ai 137,34 euro del 2017. Di questo budget, l’80 per cento è comunque destinato alle spese del personale civile e di polizia penitenziaria. Secondo gli ultimi dati ufficiali del ministero della Giustizia, che sono aggiornati al 2013, lo Stato spende 9,26 euro al giorno per il mantenimento in senso stretto di ogni detenuto: un totale di 277,8 euro mensili. È possibile che Salvini, nel considerare il costo di un detenuto, volesse fare riferimento al costo mensile di mantenimento (circa 300 euro, appunto) e non a quello giornaliero. È possibile rimandare i detenuti stranieri nei loro paesi di origine? - Nell’intervista con Bruno Vespa, Salvini indica anche la volontà dell’esecutivo di rimpatriare i cittadini non italiani presenti negli istituti penitenziari, che va ad aggiungersi alla promessa del contratto di governo di aumentare il numero di irregolari espulsi. In questo caso, il primo problema è di natura giuridica. La questione del trasferimento dei detenuti stranieri è regolamentata dalla Convenzione di Strasburgo del 1983, entrata in vigore in Italia sei anni più tardi 1989. All’articolo 3, la Convenzione - sottoscritta solo da alcuni Paesi - afferma che una persona può essere trasferita solo in specifiche condizioni. Per esempio, la sentenza di condanna deve essere per almeno sei mesi di reclusione e definitiva, e il condannato deve acconsentire al trasferimento. Inoltre, la legge sull’introduzione del delitto di tortura del 14 luglio 2017 impedisce di estradare una persona quando ci sono motivi fondati di ritenere che essa rischia di essere sottoposta a tortura. Come sottolineato dal rapporto dell’Associazione Antigone, “almeno 806 detenuti non dovrebbero essere trasferiti nei loro Paesi di origine e hanno diritto a restare in Italia. 217 vengono dalla Libia, 37 dal Sudan e 642 dall’Egitto”. La seconda difficoltà nei rimpatri riguarda la necessità di trovare accordi con i Paesi di origine. Salvini è consapevole di questo limite, ma - sempre a Porta a Porta - ha dichiarato che “se si aggiungono un po’ di soldini”, Paesi come Albania e Romania sarebbero disponibili a riprendere nelle loro carceri i detenuti presenti in Italia. Se si guardano i precedenti, un sistema simile potrebbe però non essere efficace. Come abbiamo già verificato in passato, il Regno Unito ha stretto accordi con alcuni Paesi per “svuotare” le proprie carceri, con scarsi risultati. Per esempio, l’accordo con la Nigeria sottoscritto da Londra nel 2014 ha un impatto stimato di riduzione dell’1 per cento sulla popolazione carceraria straniera nel Regno Unito. Gli altri accordi britannici con Paesi extra-Ue non hanno dato esiti migliori: da inizio 2016 a settembre 2016, il totale dei detenuti trasferiti all’estero dal Regno Unito, nella cornice di accordi di trasferimento obbligatorio, ammontava a 18 individui. Di questi, diciassette sono stati rimandati in Albania e uno in Nigeria. Conclusione - Sul numero dei detenuti stranieri in Italia, Salvini cita statistiche corrette: nelle carceri italiane, un terzo della popolazione carceraria è composta da stranieri. Ma per comprendere meglio la questione, è fondamentale fare delle distinzioni, per esempio, tra stranieri residenti e quelli irregolari, e sottolineare il maggiore ricorso alle misure cautelari per chi non è cittadino italiano. Mentre il costo giornaliero per singolo detenuto è stimato in circa 137 euro - e non 300 euro come sostenuto dal ministro dell’Interno, la volontà di rimpatriare i detenuti stranieri e di “svuotare le carceri” si scontra almeno con due problemi. Uno giuridico, che potrebbe comportare la revisione di accordi internazionali e leggi nazionali; l’altro di efficacia. Il caso del Regno Unito, ad esempio, che ha preso alcune misure per effettuare rimpatri, non mostra risultati incoraggianti. Teatro in carcere: nuovo record per la quinta giornata nazionale di Teresa Valiani Redattore Sociale, 22 giugno 2018 Registrati 102 eventi fuori e dentro le mura, con il coinvolgimento di 56 istituti, 2 Rems, 16 regioni italiane e 58 tra università, scuole, Uepe, teatri ed enti locali. Migliaia i cittadini che hanno partecipato. Vito Minoia: “L’esperienza continua a crescere ma a un lavoro di qualità non corrisponde sempre una maggiore attenzione in termini di sostegno”. Sedici regioni italiane coinvolte, 102 eventi e iniziative promossi fuori e dentro il carcere, con 56 istituti penitenziari e 2 Rems a ospitare gli spettacoli e con la partecipazione di 58 tra università, istituzioni scolastiche, Uffici di esecuzione penale esterna, teatri, enti locali. E migliaia di cittadini impegnati in attività mirate a favorire il reinserimento sociale delle persone recluse attraverso iniziative che producono un sensibile abbassamento del rischio di recidiva. Si consolida, di anno in anno, l’esperienza dei palcoscenici ‘rinchiusi’: lo dicono i numeri della Quinta Giornata Nazionale del Teatro in Carcere, promossa dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, d’intesa con il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Un evento che, dal 2014, si svolge in concomitanza con il World Theatre Day (Giornata Mondiale del Teatro), giunto quest’anno alla 56 edizione, promosso dall’Iti Worldwide-Unesco (International Theatre Institute) e dal Centro italiano dell’Iti con la collaborazione della Rivista europea “Catarsi-Teatri delle diversità” e dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro. L’edizione 2018 della V Giornata Nazionale ha visto una diffusione su tutto il territorio nazionale con un nuovo record di partecipazione da nord a sud: un esito positivo che “conferma - si legge in una nota - la proficua e importante collaborazione tra il Ministero della Giustizia Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere, frutto del Protocollo d’Intesa sottoscritto nel 2013 e rinnovato nel 2016 con la partecipazione dell’Università RomaTre, integrato nel 2017 con un’Appendice operativa al Protocollo d’Intesa che ha registrato l’adesione anche da parte del Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità”. “Il successo dell’iniziativa - commenta il presidente del Coordinamento nazionale, Vito Minoia -, riconosciuta come buona pratica a livello internazionale (il presidente è stato recentemente invitato a relazionare sull’argomento a Segovia al 35mo Congresso dell’Istituto internazionale del Teatro dell’Unesco n.d.r.) sta nell’incessante lavoro di promozione di un qualitativamente alto intervento teatrale e culturale nelle carceri italiane che abbassa sensibilmente le soglie della recidiva. Abbiamo registrato parallelamente anche un incremento delle adesioni al Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere che attualmente conta sulla partecipazioni di 51 esperienze aderenti da 15 Regioni italiane e ci avviamo ad organizzare la Quinta Rassegna ‘Destini Incrociati’, il momento più alto di confronto del teatro in carcere italiano, un’eccellenza oggi resa visibile sul nostro sito (teatrocarcere.it) anche dalle belle immagini del documentario di Maria Celeste Taliani sull’ultima edizione dell’evento organizzato a novembre 2017 a Roma. Un Progetto di cooperazione, il nostro, che coordina e consorzia delle forze cercando di dare dignità a un sistema di teatro con finalità etiche ed estetiche allo stesso tempo e che si fa segno tangibile di un positivo cambiamento nell’universo penitenziario e in quello teatrale. Purtroppo a un lavoro di qualità non corrisponde sempre una maggiore attenzione in termini di sostegno: continuiamo ad assistere, in alcuni territori in particolare, alla fragilità di esperienze significative che ogni anno devono fare i conti con problemi di sopravvivenza e permangono a rischio di chiusura”. La litania dell’odio di Francesco Merlo La Repubblica, 22 giugno 2018 Ha agitato il manganello contro il più forte per spaventare i più deboli. Sembra dunque spavaldo, ma è invece vigliacco il sempre più protervo e sempre più potente Matteo Salvini che attacca l’inattaccabile per intimidire tutti gli altri. Minacciandolo di togliergli la scorta e dunque di esporlo alla violenza fisica dei camorristi che lo vogliono morto, il ministro degli Interni, che pure ha il dovere istituzionale di proteggere Roberto Saviano, ha svelato il metodo che, molto più del contratto, sta ispirando il suo governo: abusare delle istituzioni e del suo ruolo di ministro per piegare gli oppositori e spianarli come i campi rom. Insomma, per passare la ruspa sui “rompicoglioni”, come li chiamava Claudio Scajola, che infatti revocò la scorta al povero Marco Biagi, il giuslavorista che pretendeva di essere protetto dal suo ministro e mai si stancava di spiegare, scrivere, “rompere” appunto, come tutti i più illustri bersagli del terrorismo e della mafia, Aldo Moro e il generale Dalla Chiesa, Guido Rossa e Pippo Fava, Walter Tobagi e Piersanti Mattarella. È vero che, nell’immediato, il rozzo Salvini ha reso onore a Saviano e alla sua detestabilità di nemico numero uno del nuovo regime, ma se ha mirato al simbolo, se ha colpito l’uno, l’ha fatto per educare i cento che non hanno la sua forza morale né la sua storia. E c’è persino quel grottesco finale: “Gli mando un bacione”. Nel linguaggio dei baci, che Saviano ha raccontato in un libro, il bacione figurato in fondo all’avvertimento sfrontato non è solo l’accrescitivo della minaccia mafiosa. È la pacchianeria compiaciuta di sé, il gesto dell’ombrello come ghigno dell’impunito, le corna dal finestrino di chi corre e strombazza, ma sul carro armato del potere. Ecco dunque il metodo Salvini: si affida al fragore del lessico eversivo per preparare e anticipare un regime. Non è la smorfia implosa come lo starnuto cinematografico di Totò, e neppure il botto senza conseguenze, lo sparo di mille fesserie. Al contrario, il suo codice di violenza, i suoi roghi, le sue scomuniche, i suoi avvertimenti e i suoi manganelli sempre più foscamente lo portano fuori dalla civiltà della democrazia, e non per quello che subito ottiene - spesso si corregge, torna indietro, attenua la quotidiana sparata - ma per quello che promette, per il fango che immette nel ventilatore, per il nuovo pezzo di opinione pubblica che ogni giorno sottomette. E spiazza persino alcuni di noi, che vorrebbero silenziarlo per non cadere nelle mille trappole che ci rubano i pensieri e ci costringono a reazioni sempre più indignate e sempre meno ragionate. Salvini sa di non potere togliere la scorta a Saviano perché neppure questo nuovo governo, che si sta velocemente trasformando in strapotere, potrebbe sopportarne il peso davanti al mondo. Può toglierla però, tanto per fare un esempio facile, alla signora Fornero che ancora sotto casa a San Carlo Canavese trova a minacciarla gli energumeni leghisti. Può accanirsi con gli intellettuali e frenarne la tenacia del concetto, provocare l’alibi dell’indifferenza, impaurire, irretire e spegnere il coraggio. Persino il leghista Maroni, quando fu ministro dell’Interno, capì, con lodevole senso dello Stato, che era suo dovere proteggere, ancora più degli altri, proprio gli avversari e i nemici della Lega. Chissà Salvini invece dove arriverà nel perseguitare i Saviano e nello sporcare i giornalisti ancora critici, nell’usare lo Stato e tutti i suoi apparati per i suoi rancori da capobastone, e sto parlando della polizia, dei dossier segreti, della paura e della forza vere. Pensate alla sfrontatezza miserabile con cui ha buttato lì in tv, al mattino presto, l’idea limacciosa che la scorta non protegga Saviano ma gli renda omaggio, che non sia più dunque luogo e mezzo militare per “scorgere” il pericolo, ma ornamento e abbellimento di cortesia. Salvini non ha detto che gliela toglierà, ma “vedremo, valuteremo”, e poi “pare che Saviano passi molto tempo all’estero”. E ha evocato “i soldi degli italiani”, come se appunto quella scorta fosse uno spreco da casta, un privilegio faraonico e non la condanna a una lunga vita da recluso. Ci stiamo abituando a tutto. E non facciamo in tempo ad abituarci a un peggio che subito arriva un pessimo. Sino a ieri la volgarità ci sembrava il limite estremo della prepotenza politica. E però l’insulto, il turpiloquio, il rutto sono antagonismo non curato, becerume e cattivismo compiaciuto che non attenta agli assi portanti della democrazia, che poi sono quelli che garantiscono diritto di cittadinanza al becerume e al cattivismo stessi. Il cattivismo insomma è ancora dentro il rispetto dell’integrità fisica dell’avversario. Ma il ministro che, invece di proteggere, aggredisce l’eroe civile minacciato dalla mafia è un’orribile novità nella storia della Repubblica. Ecco: questi esercizi militari di Salvini, con gli anfibi e la tuta mimetica, mi spingono a una domanda, alla più pacificata delle domande: perché questa guapperia istituzionale e l’enormità di un ministro degli Interni bullo, razzista e squadrista, non vengono percepite e, non dico coraggiosamente combattute, ma almeno timidamente criticate dai galantuomini che - oso pensare - stanno accanto a Salvini, nonostante tutto? E parlo dell’avvocato presidente del Consiglio, degli economisti al governo, Tria e Savona e Alberto Bagnai, e un po’ più in là del professore Rinaldi e di Luca Zaia, e poi l’avvocato Giulia Bongiorno, lo stesso Giorgetti che ha studiato alla Bocconi, il professore Borghi, il manager Marano, e ancora Giulio Tremonti, lo scrittore di montagna Mauro Corona, che ricordo democratico solidale e antirazzista, e il giornalista Genny Sangiuliano che si dichiara “di schietta scuola crociana”... È mai possibile che in questa ganga di cervelloni scervellati non ce ne sia uno che fermi l’escalation di Salvini invece di seguire, tutti paperi paperi e passo dopo passo, il ministro dell’odio, delle parole terminali, della guerra civile? L’egemonia del populismo opportunità per i riformisti di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 22 giugno 2018 L’atteggiamento di Salvini su migranti e rom costituisce un’opportunità per i riformisti purché affrontino i problemi e si rimbocchino le maniche. Per paradossale che appaia, la sinistra riformista dovrebbe vivere come una grande opportunità di rigenerazione questa caotica stagione segnata dall’egemonia di Matteo Salvini. Se allineassimo i problemi nazionali su un foglio, come una lista della spesa, il bellicoso ministro leghista avrebbe la funzione di gigantesco evidenziatore di quelli ora più radicati nel senso comune popolare. E non perché, come la sinistra sostiene, crei lui stesso quel senso comune (non solo, almeno) ma perché lo interpreta per ciò che è, un grido di dolore generato da disagi reali, senza addomesticarlo con le lenti della correttezza politica, a lui ignota. L’uso improprio della questione rom e i relativi eccessi lessicali hanno l’orrendo sapore della ricerca di un capro espiatorio, peraltro a scapito di un gruppo etnico finito nei lager assieme a ebrei e comunisti. Ma pongono un tema che esiste, eccome. Non solo per l’abbandono scolastico dei bimbi rom, arrivato all’80 per cento nei campi. Ma per i roghi tossici che da quei campi si levano nelle periferie di Roma, Napoli, Torino e Milano, con pregiudizio per la salute degli abitanti delle zone vicine e dei minori rom usati per accendere i roghi perché non perseguibili (dopo l’incendio di Torre Spaccata nel 2017 i valori della diossina rimasero per due giorni di 20 volte superiori alla soglia fissata dall’Organizzazione mondiale della sanità). Non il KKK ma la Commissione Jo Cox, voluta la scorsa legislatura da Laura Boldrini, ci ricorda che il 41 per cento dei minori che vivono in baraccopoli a Milano non è mai stato visitato da un medico e che il 75 per cento di chi abita nei campi “informali” non ha tessera sanitaria: censimento è parola oscena ma un’occhiatina là dentro saprebbe di riformismo più che di razzismo. Non siamo sottoposti a un’invasione di migranti, lo ammetta Salvini. Ma la percezione della gente comune sta in un esempio a tre cifre. La prima è nota: Roma ha circa 3 milioni di abitanti. Le altre due vengono dalla Commissione parlamentare sulle periferie: gli stranieri regolari a Roma e hinterland sono 360 mila (dunque diremmo che il rapporto romani/stranieri sia circa di 10 a 1); ma i romani che vivono in zone di disagio economico sono 950 mila. Domanda (retorica): in quali zone immaginiamo che vivano quei 360 mila stranieri? Conseguenza: è plausibile che il vero rapporto tra romani e stranieri (regolari) sia nelle zone di disagio tre a uno, senza aggiungere al conto gli stranieri irregolari. Questo spiega perché a Roma il Pd abbia stabilito le sue roccaforti in centro storico e ai Parioli. Sono 500 mila i migranti “smarriti” negli ultimi anni dal circuito dell’accoglienza. Il punto sfuggito alla sinistra nell’intreccio tra crisi economica e picco delle migrazioni (2014-2017) è questo. Ma basta affacciarsi in una periferia geografica o sociale per capirlo: sia la Bolognina o la Domiziana, siano i Caruggi o i sobborghi di Macerata. Salvini può essere utile a una sinistra che voglia tornare a competere, non scimmiottandolo ma superandolo, perché le impone di coniugare solidarietà con sicurezza (ciò che lui non fa e non saprebbe fare). È stato questo il breve tentativo di Marco Minniti, assai criticato dalla sua stessa parte politica. Per cattiva coscienza sulla sicurezza il Pd ha ritirato anche la sola proposta forte che aveva costruito sulla solidarietà, lo ius soli (meglio se declinato in ius culturae). Ma qui non si tratta di sottrarre, si tratta di aggiungere. Una plausibile proposta riformista dovrebbe tenere insieme magari i Cie (o come vogliamo chiamare luoghi sicuri e umani dove contenere i fantasmi che vagano nelle nostre città finché non avranno identità e destinazione) e lo ius soli o lo ius culturae; il taglio drastico dei tempi di decisione sulle domande d’asilo e i canali economici e diplomatici per nuovi accordi bilaterali che consentano i rimpatri; Sprar obbligatori (oggi solo un Comune su quattro vi aderisce) e programmi di investimento nelle periferie da un miliardo l’anno per dieci anni (come indicato dalla Commissione parlamentare), con una tassazione locale ad hoc (altro che condono) e una agenzia nazionale che coordini gli interventi. Occorre chiudere i campi rom. E la sinistra dovrebbe proporre qualcosa di meglio di una ruspa, smetterla di strillare all’Uomo nero e vergare una proposta seria che comprenda abitazioni, lavoro ma anche revoca della patria potestà per chi sfrutta i bambini ed espulsioni per chi non ha diritto di stare qui. È possibile che Salvini usi migranti e rom come armi (gratuite) di distrazione di massa di fronte a promesse elettorali in gran parte irrealizzabili. E questo sarà un punto su cui varrà la pena insistere soprattutto in autunno, quando i nodi dell’economia verranno tutti al pettine. Ma, intanto, dargli del fascista può indignare il 60 per cento degli italiani (un pd su tre) che ne condivide le scelte su Ong e flussi. Recriminare non serve: il populismo riempie i cuori lasciati vuoti dall’assenza di riformismo. Meglio, per ciò che resta della sinistra, rimboccarsi le maniche. L’inaccettabile avviso del ministro a Saviano di Andrea Colombo Il Manifesto, 22 giugno 2018 Possono esserci decine di buone ragioni per revocare una scorta, o anche solo per paventarne la revoca. Ma ce n’è una certamente sbagliata: l’aver criticato il ministro degli Interni. La minaccia di Matteo Salvini, forse resa ancora più grave dallo stile scelto, l’avvertimento implicito, non è faccenda che riguardi lo scrittore Roberto Saviano, sul quale ciascuno può pensare ciò che vuole. Attiene solo allo stile del ministro e vicepremier, e all’idea di potere che ne traspare. “Saranno le istituzioni competenti a valutare se corra qualche rischio, anche perché mi pare che passi molto tempo all’estero”, così il responsabile del Viminale, tra una dichiarazione di guerra alle Ong e l’altra, giusto all’indomani di una critica acuminata mossagli dallo scrittore napoletano. Decidere in materia non spetta al ministro, e lo sa anche lui. Come sapeva benissimo di non poter censire etnicamente nessuno. Ma è il suo stile e sarebbe un errore scambiare i ringhi in questione per pure boutade pubblicitarie. Sono segnali e in quanto tali pericolosi. A volte come e anche più delle stesse misure concrete. Un ministro che minaccia un nemico politico, che lascia capire di non gradirlo affatto, dà coraggio e forza a chi in un modo o nell’altro vorrebbe sbarazzarsene, proprio come un ministro che minaccia di censire i Rom legittima e autorizza chiunque non veda l’ora di sfogare frustrazioni e pregiudizi. La reazione è stata corale. La scorta di Roberto Saviano non verrà rimossa. Ma non era questo l’obiettivo di Salvini. Il segnale è arrivato comunque e non solo all’autore di Gomorra. Ora chiunque si senta troppo in vena di criticare, inclusi moltissimi meno visibili e dunque meno protetti di Saviano, sa che ciò non sfuggirà allo sguardo del nuovo alto loco, sente olezzo di editto bulgaro, registra il brutale invito a moderare i toni e a esercitare la debita autocensura. Prima che intervenga la censura vera e propria. Non è il cambiamento promesso, ma l’eterno ritorno dell’uguale, delle mire censorie, delle allusioni minacciose seguite spesso dagli interventi brutali, che nella politica italiana equivale spesso al peggio. Saviano: “Salvini alimenta l’odio per distrarre. I 5 Stelle? Una pena” di Marco Imarisio Corriere della Sera, 22 giugno 2018 Lo scrittore: “Chiudere i porti, togliere a me la scorta, come potrà mai migliorare la vita a milioni di italiani?” Roberto Saviano, come ci sente ad essere la seconda maggior preoccupazione del ministro dell’Interno? “In ottima compagnia, dato che la prima sono i migranti. Sono insieme alle persone per le quali vale la pena oggi ancora scrivere e parlare. E se io e i migranti per Matteo Salvini siamo degli obiettivi verso cui canalizzare le peggiori pulsioni, sbaglia chi si sente al riparo. Ieri i migranti, oggi io. Domani toccherà a voi”. Il ministro dell’Interno che attacca uno scrittore è una cosa normale? “In Italia sembra di sì. Altrove ancora fa scandalo. Ma Salvini mi attacca perché è a capo di un partito di ladri, quasi 50 milioni di euro di rimborsi elettorali rubati. Parla di tutto e se la prende con gli ultimi perché le persone non devono sapere che il suo partito ha rubato allo Stato. Parla alla rabbia di persone ignare del fatto che i primi obiettivi di quegli imbrogli sono loro”. Perché Salvini si occupa di lei proprio ora? “Salvini sta sparando tutte le sue cartucce che però sono solo parole, aria. Mi spiego: chiudere i porti alle Ong, rendere la vita impossibile agli immigrati che in Italia vivono e lavorano da anni, togliere la scorta a me, come potrà mai migliorare vita ai milioni di italiani di cui la politica continua a non occuparsi?”. Attaccare Saviano è un’arma di distrazione di massa? “Se io fossi ridotto al silenzio, se tutti i migranti e i rom, per ipotesi, fossero scaraventati sulla Luna, se sparissero gli immigrati con regolare permesso di soggiorno verso cui Salvini sta facendo montare un odio senza pari nella nostra storia, gli italiani veraci, quelli doc, che non hanno lavoro, che lo hanno perso, che usufruiscono di una assistenza sanitaria indecente, quale giovamento ne avrebbero? Gli ospedali di Napoli straripano di italiani. Non ci sono immigrati a occupare letti e italiani sulle barelle. Ma di cosa stiamo parlando?”. Ha ricevuto nuove minacce? “Le valutazioni sulla mia sicurezza non sono io a farle. La scorta non sono stato io a chiederla”. La “verifica” delle minacce nei suoi confronti rischia di aiutare la camorra, per cui, una volta entrati nel mirino, non se ne esce più? “Se Salvini vuole chiedere una valutazione di questo tipo, faccia pure. Del resto in un Paese che “vanta” le mafie più pericolose e potenti del mondo è del tutto “naturale” che il ministro dell’Interno invece di contrastare le mafie, voglia ridurre al silenzio chi le racconta”. Come vive oggi? “Da quasi 12 anni vivo così: se voglio uscire non posso semplicemente chiudermi la porta alle spalle, ma devo avvertire i carabinieri, devo dir loro con chi mi vedo e dove, perché facciano un sopralluogo. Non potrò mai dire a nessuno: “Aspettami, tra 10 minuti sono da te”, perché prima che io possa muovermi passano almeno due ore”. I viaggi? “Quelli in Italia vanno organizzati tempo prima, perché bisogna allertare le scorte locali. Durante i tour di presentazione dei libri, divento un pacco postale. Mi sposto da un’auto all’altra e conosco decine di carabinieri che mi prendono in consegna quando passo per le loro città. Quando vado all’estero devo comunicare per tempo i miei spostamenti, gli alberghi dove alloggerò, gli incontri pubblici che farò e i ristoranti in cui cenerò. Chi di voi sa esattamente cosa farà quando è in viaggio? Ecco, io devo saperlo. Qualcuno vuol far passare l’idea che tutto questo sia un privilegio. Non ho ancora compiuto 40 anni, vivo così da quando ne avevo 26. Vi assicuro che non c’è nulla di divertente in questa vita”. La sinistra ha sottovalutato la sensibilità delle persone sui migranti e fornito così un assist a Salvini? “La sinistra - ma quale sinistra poi? - ha piuttosto costruito l’autostrada su cui oggi si muove il carrarmato russo Salvini. La dottrina Minniti sui migranti è stata finale”. Cosa è cambiato dalle sue critiche al governo Berlusconi? “I tempi cambiano e, talvolta, peggiorano. Nel 2010 l’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni pretese uno spazio nella mia trasmissione per leggere l’elenco dei latitanti arrestati. E questo solo perché avevo parlato delle inchieste sulla ‘ndrangheta al Nord e della sua interlocuzione con la Lega, provata poi dall’arresto dell’ex tesoriere Francesco Belsito, dal sequestro dei conti della Lega e dalla truffa milionaria. Si raccolsero firme contro di me, che “davo del mafioso al Nord”. Questo per dire che le cose non peggiorano a caso, ma seguono una loro traiettoria”. Gli attacchi di Salvini sono un riflesso dell’onda social, dove lei raccoglie elogi, ma anche tante critiche? “I social vanno analizzati in maniera diversa, contro-intuitiva. Sui social contano i like e le condivisioni più che i commenti. Commenta chi ha rabbia”. La spaventa questo rigurgito di odio che emerge dai social? “Provo pena. Perché odiando si sta peggio, non meglio”. Brutto clima in Italia per gli intellettuali? “Fetido, direi. Dobbiamo però essere coesi, o altrimenti rassegnarci a vivere in un Paese dove i ladri hanno licenza di insultare i deboli e gli indifesi, dopo averli derubati. Un’ultima cosa: che pena il M5S, morto al grido di “onesta, onestà!”, e finito a far da stampella a questa banda di ladri”. La “contenzione” è sequestro di persona di Giuseppe Galzerano Il Manifesto, 22 giugno 2018 Sentenza storica sul caso di Francesco Mastrogiovanni. Il maestro elementare morì nel 2009 durante un Tso di 87 ore. Condanne per medici e infermieri dell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania, in provincia di Salerno. La contenzione dei pazienti negli ospedali e delle persone in altri luoghi è sequestro di persona e chi vi ricorre commette reato. È quanto ha stabilito la V Sezione della Corte di Cassazione, presieduta dal Consigliere Dr. Maurizio Fumo, il 20 giugno 2018 nella sentenza su sei medici e undici infermieri dell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania, in provincia di Salerno, responsabili della lunga e illegittima contenzione di Francesco Mastrogiovanni, il maestro elementare morto dopo aver subito incredibilmente 87 ore di illegittima contenzione, tenuto legato senza alcuna interruzione ai quattro arti in un luogo di cura, senza un sorso d’acqua e un pezzo di pane. La sentenza arriva dopo un giorno dal lungo dibattito in aula, nel corso del quale il Procuratore Generale, Luigi Orsi, nella sua lunga requisitoria di due ore, ha demolito l’impianto accusatorio, chiedendo l’annullamento senza rinvio della condanna degli infermieri e per i medici la conferma delle pene per falso ideologico e sequestro di persona, in quanto il reato di morte come conseguenza di altro reato (art. 586) era andato prescritto nel mese di marzo. Per i sei medici, la Cassazione rigetta i ricorsi e ridetermina le pene condannando Rocco Barone (responsabile di aver disposto la contenzione) e Raffaele Basso ad un anno e tre mesi; Amerigo Mazza e Anna Angela Ruberto a 10 mesi. La Ruberto era di servizio la notte in cui Mastrogiovanni muore e ne scopre la morte sei ore dopo ch’era avvenuta. Per Michele Di Genio - primario del reparto - è annullata la condanna per reato di falsità ideologica (art. 479 c.p.) in concorso, con rinvio per un nuovo esame alla Corte d’Appello di Napoli, ma è confermata la condanna per concorso di reato (art. 110) e sequestro di persona (art. 605) a un anno e un mese. Rigetta il ricorso (senza rinvio) di Michele Della Pepa e conferma la condanna ad un anno e un mese. Degli infermieri - assolti in primo grado, condannati dalla Corte d’Appello di Salerno il 15 novembre 2016 - è annullata la sentenza contro Antonio Luongo per avvenuta morte, mentre Giuseppe Forino, Alfredo Gaudio, Nicola Oricchio e Massimo Scarano sono condannati a 8 mesi; Antonio De Vita, Maria D’Agostino Cirillo, Maria Carmela Cortazzo, Massimo Minghetti, Raffaele Russo e Antonio Tardio a 7 mesi di reclusione. Per il risarcimento civile la sentenza della Cassazione rinvia alla decisione del giudice civile in Corte d’Appello. In primo grado i medici erano stati condannati a pene variabili da due a quattro anni di reclusione, pene ridotte alla metà dalla Corte d’Appello di Salerno, che aveva condannato gli infermieri. La sentenza della Cassazione ha colto di sorpresa i tanti difensori degli imputati che contavano sull’assoluzione dei loro clienti e hanno continuato a denigrare Mastrogiovanni definendolo - in maniera infondata - violento, drogato, asociale, abbandonato dalla famiglia (solo un avvocato lo ha sempre definito correttamente “il professore Mastrogiovanni”); arrivando finanche a chiedere nel processo di primo grado l’incriminazione dei familiari per lite temeraria e sostenendo che la contenzione è una pratica terapeutica. Francesco Mastrogiovanni il 31 luglio 2009 venne sottoposto ad un Tso (Trattamento Sanitario Obbligatorio) illegittimo e illegale ordinato non dai medici come prescrive la norma, ma dall’allora sindaco di Pollica, Angelo Vassallo, che per eseguirlo fece sconfinare i suoi vigili in un campeggio del comune di San Mauro Cilento, dove Mastrogiovanni trascorre tranquillamente le vacanze. La sera prima sarebbe entrato con la macchina nell’isola pedonale di Acciaroli e - secondo l’accusa, che si ha ragione di ritenere veritiera - ne sarebbe uscito a folle velocità, senza causare un graffio a nessuno. Inseguito e braccato alla stregua di una belva e di un pericoloso criminale, la mattina successiva entra nel mare di Acciaroli, che abbandona dopo due ore. Solo allora un medico, capovolgendo la norma, assecondando la richiesta del sindaco, chiede il Tso e una dottoressa, specializzata in medicina dello sport, lo conferma. Mastrogiovanni - come ha testimoniato Licia Musto, proprietaria del campeggio - prima di salire sull’ambulanza, supplica profetico: “Non mi fate portare all’ospedale di Vallo della Lucania, perché là mi ammazzano”, ma nessuno dà peso alle sue parole. All’ospedale, nonostante sia intestato a San Luca, comincia il suo tragico calvario. Anche se è tranquillo e saluta i medici, dopo mezz’ora viene - mentre dorme - contenuto contemporaneamente con lacci di plastica ai polsi delle mani e ai piedi. Resterà ininterrottamente legato per ottantotto ore. Per quattro lunghi e caldi giorni non gli danno né da mangiare né da bere. Anzi la contenzione supera la vita e da morto resta legato per altre sei ore, prima che la mattina del 4 agosto 2009 i medici si accorgano che il suo cuore - nell’indifferenza, nella barbarie e nella disumanità - ha cessato di battere a causa di un edema polmonare, dal quale poteva essere salvato. Sua nipote, Grazia Serra, va a trovarlo, ma un medico non la fa entrare dicendole che lo zio si agiterebbe. La ragazza si meraviglia e torna a casa. La mattina dopo il sindaco di Castelnuovo Cilento, non l’ospedale, telefona alla sorella per dirle: “Franco non è più con noi”, e quando chiede se è scappato apprende che è deceduto. Prima l’ospedale aveva telefonato alla moglie di un altro paziente, Giuseppe Mancoletti, anch’egli legato ai polsi, per dirle di portare i panni perché il marito era morto. La tragica e incredibile morte di Mastrogiovanni è documentata in un lungo e inoppugnabile video disponibile su internet e nel documentario “87 ore” di Costanza Quattriglio trasmesso da Rai 3, che documentano minuto dopo minuto le atrocità alle quali è stato sottoposto. Mastrogiovanni, alto un metro e 94, era un maestro pacifico e non violento, anarchico e di grande umanità e sensibilità, e i suoi gli alunni lo avevano affettuosamente definito nei loro disegni “il maestro più alto del mondo”. Dopo questa importante e storica sentenza, dovuta al sacrificio di Francesco Mastrogiovanni, non sarà più possibile contenere i pazienti. Occorre infine sottolineare che nessuno dei medici coinvolti ha subito un giorno di carcere, né sono stati sospesi dal lavoro e uno di loro è indagato per altre due morte sospette sempre per Tso, avvenute recentemente nel reparto dell’ospedale dove lavora. (Alcune associazioni, tra cui il Comitato d’iniziativa Antipichiatrica di Messina, il Movimento per la Giustizia Robin Hood-Avvocati Senza Frontiere di Milano, Telefono Viola e Unisam di Roma, si erano costituite parte civile nel processo). Il detenuto in regime di 41bis non può scrivere a “Nessuno tocchi Caino” di Marcello Giordani La Stampa, 22 giugno 2018 La Cassazione ha respinto il ricorso: il regolamento dell’amministrazione penitenziaria vieta quel tipo di corrispondenza per ragioni di sicurezza. Niente obolo all’associazione “Nessuno tocchi Caino” o l’iscrizione a un partito politico. Il divieto è scattato per un detenuto del carcere di Novara, Giuseppe Falsone, 47 anni, di Campobello di Licata, rinchiuso nel carcere di via Sforzesca con il regime del 41 bis. Falsone aveva chiesto ad una conoscente di inviare al proprio legale 200 euro per l’iscrizione al Partito Radicale; secondo il magistrato di sorveglianza, che ha bloccato la missiva, era quasi certo che la somma fosse destinata all’associazione “Nessuno tocchi Caino”, che si batte per migliorare le condizioni dei detenuti. Secondo il magistrato il regolamento dell’amministrazione penitenziaria vieta ai detenuti del 41 bis questo tipo di corrispondenza perché può determinare un pericolo per la sicurezza del carcere. Falsone ha fatto ricorso in Cassazione, ma la richiesta è stata respinta. Bocciata anche la richiesta dello stesso detenuto di inviare una lettera ad un esponente dell’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia, già noto all’amministrazione carceraria per la sua azione di propaganda per l’abolizione dell’ergastolo ed a cui era stato proibito l’ingresso nelle carceri. Il Tribunale di Sorveglianza aveva dato torto a Falsone anche perché la lettera aveva un contenuto tale da ipotizzare che potesse contenere messaggi in codice per l’esterno. Anche la Cassazione ha confermato questa tesi e ha respinto il ricorso del detenuto. Falsone era stato arrestato nel 2010, considerato dagli inquirenti uno dei capi di Cosa nostra nella provincia di Agrigento. Sequestrabili i documenti dell’avvocato solo se rappresentano oggetto del reato di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2018 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 21 giugno 2018 n. 28721. Illegittimo il sequestro all’avvocato di carte o documenti relativi alla difesa, salvo che costituiscano corpo del reato. La Cassazione con la sentenza n. 28721/18 ha ritenuto così del tutto irregolare la procedura di sequestro di beni propri del legale quali una cartellina costituente fascicolo di studio relativo a un processo penale, agenda con annotazioni degli impegni processuali, computer e cellulari. La vicenda - Nel caso concreto il legale era indagato in merito al reato di bancarotta fraudolenta ma dai giudizi di merito non era emerso in alcun modo che atti e documenti avessero configurato il corpo del reato, nell’accezione propria dell’articolo 253, comma 2, cpp che si riferisce alle cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso, nonché alle cose che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo. Il Tribunale, pertanto, è incorso nel vizio di violazione di legge con riferimento all’articolo 103, comma 2, del cpp e conseguentemente, nel difetto assoluto di motivazione circa la sussistenza del presupposto contenuto nella norma disapplicata. I Supremi giudici hanno così chiarito che il provvedimento di perquisizione e sequestro non deve trasformarsi da strumento di ricerca della prova in strumento della notitia criminis. Di conseguenza in esso debbono essere individuati, almeno nelle linee essenziali, gli oggetti da sequestrare con riferimento a specifiche attività illecite, di modo che la perquisizione e il conseguente sequestro vengano eseguiti non già sulla base di semplici congetture, ma trovino giustificazione in concrete ipotesi di reato rinvenibili nei fatti addebitati e permettendo la verifica del nesso di pertinenzialità. Per concludere - si legge nella sentenza - che mentre è consentito il sequestro probatorio ai fini meramente esplorativi, volto ad acquisire la notitia criminis, è legittimo il sequestro fondato su fatti che lo giustificano sul piano razionale e rispetto ai quali è configurabile una notizia di reato, la cui effettiva sussistenza e consistenza può essere, tuttavia, definitivamente accertata solo attraverso atti invasivi. L’errore del Tribunale - Censurato quindi l’operato del Tribunale e conseguente rinvio dell’ordinanza annullata al Tribunale di Trento per quanto riguarda il sequestro di atti e documenti relativi all’attività professionale della ricorrente, in relazione alla motivazione totalmente omessa circa i presupposti legittimanti l’adozione di tale misura, e cioè la natura del corpo del reato come previsto dall’articolo 103, comma 2, del cpp. Il ministro Bonafede e la... certezza della pena di Beppe Battaglia Ristretti Orizzonti, 22 giugno 2018 Il nuovo ministro ha parlato! Tra i vari provvedimenti che annuncia per le carceri torna l’antico, pietroso ritornello della “certezza della pena”. Sono parecchi decenni che sento ripetere questo scioglilingua, puntualmente...incompleto. In realtà questi signori omettono astutamente di aggiungerci il resto. Infatti, essi intendono dire “certezza della pena in carcere”. Non riconoscono le modalità diverse dal carcere per l’esecuzione penale, pur essendo legislativamente normate e pur essendo ampiamente dimostrato che le misure alternative al carcere sono molto più efficaci che non il serraglio del carcere. Per loro l’ammissione al lavoro esterno al carcere, la semilibertà, l’affidamento a vario titolo, la condizionale, la messa alla prova sono misure riconducibili alla libertà. Si tratta di un inganno feroce e in...malafede! Naturalmente i...novelli missionari alla Bonafede (che è in buona compagnia) nulla sanno del carcere e neppure delle condizioni concrete delle misure alternative. Ripetono degli slogan...a lume di naso, per sentito dire, sperando di fare presa sulla pancia vendicativa del corpo sociale. Naturalmente sono pronti a giurare sul...rispetto della dignità umana, un altro slogan di cui ignorano i contenuti. Non comprendono, infatti, neppure l’abisso che contrappone la responsabilità (propria di una persona adulta che intende concretamente mettersi in discussione nel bene e nel male) all’ubbidienza (che infantilizza le persone adulte annientando ogni frammento di dignità!). Ma c’è di più. Quando l’ordine della “certezza della pena” viene assunta in proprio dall’istituzione apicale dello Stato preposta, tra l’altro, all’esecuzione penale (leggi il ministro della giustizia), esso assume una carica eversiva tutt’altro che latente. Sappiamo tutti, infatti, che l’amministrazione penitenziaria e soprattutto quella giudiziaria, fino ai singoli magistrati, sono istanze eterodirette e che perciò le parole del ministro contribuiscono al senso delle cose da fare (o da non fare). È chiaro a questo punto che le parole del ministro diventano pietre: istigano i giudici competenti a disattendere la legge che prevede le misure alternative al carcere. Un magistrato di sorveglianza che voglia fare carriera ascolterà le parole del ministro e si comporterà di conseguenza e dunque addio alle misure alternative che dal tribunale di sorveglianza dipendono. Ci raccontano che...i cittadini questo ci chiedono! È una bugia, ma quand’anche questa richiesta avesse, come ha, qualche fondamento, che significa? Forse che le istituzioni preposte alla riscossione delle tasse fanno un passo indietro di fronte alla corale (questa si!) richiesta dei cittadini di ridurre le tasse? La “certezza della pena” nasconde un messaggio neanche troppo dissimulato. Significa letteralmente “no alle misure alternative al carcere” (e chi ha orecchie da intendere intenda!) che pure sono state approvate dal parlamento della Repubblica Italiana. Alessandro Margara, che era un magistrato onesto e che aveva davvero a cuore gli interessi della comunità, circa un ventennio fa, al carcere di Secondigliano (Napoli) nel contesto di un convegno, mi disse che quelli che vogliono la “certezza della pena” altro non sono che “forcaioli che si vergognano”! Ministro Bonafede, non scomodi la Costituzione (nella quale, non a caso, non ricorre mai la parola carcere!). Il mio consiglio è semplice: si prenda due giorni da dedicare alle carceri della sua città (Sollicciano e Solliccianino), non per fare passerelle e conferenze stampa, ma per osservare cosa è il carcere, questo illustre sconosciuto! Ci passi una giornata intera a Sollicciano e una a Solliccianino, a girare nelle sezioni, si fermi a parlare coi detenuti (le assicuro che non mordono) senza la compresenza ravvicinata delle guardie. Anzi, riservi un paio d’ore del pomeriggio per fare dei colloqui riservati (senza la presenza uditiva delle guardie) coi detenuti che lo chiedono. Può fare lo stesso con tutto il personale. Le assicuro che dopo due giorni così lei potrà spendere farina del suo sacco lasciando alle ortiche gli slogan dei fannulloni di sempre. “Bisogna avere visto” diceva Piero Calamandrei a proposito delle carceri. Lui lo intendeva in modo diverso, ma anche così io penso che lei possa ricavarne grande profitto. Dovrà solo ascoltare e guardare e anche annusare e...niente conferenze stampa all’uscita! Più bello ancora sarebbe che una visita simile non fosse annunciata al direttore! Se pensa di farcela, dia un’occhiata alle cucine, alle celle di isolamento (a Sollicciano), alla sala colloqui, alle mense del personale. Dubito che dopo un’esperienza simile parlerà ancora di “certezza della pena”, altrimenti vorrà dire che...non c’è rimedio. Piemonte: il Garante dei detenuti “più attenzione per diritti e condizione carceri” torinoggi.it, 22 giugno 2018 Li chiede il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Bruno Mellano, che ieri ha relazionato in Consiglio regionale sulla sua attività. “Nella parte rimanente di questa decima legislatura si possono affrontare alcuni nodi salienti per le persone che vivono in condizione di privazione della libertà, sia per quanto riguarda le competenze dirette della Regione, sia per quanto concerne le relazioni inter-istituzionali che favoriscano un’esecuzione penale diversa o un maggior rispetto verso i diritti”. È l’auspicio del garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Bruno Mellano, che ha svolto la sua relazione annuale durante il Consiglio regionale di giovedì 21 giugno. Una sintesi che ha riguardato la situazione generale di garanzie, con un punto specifico sulla tanto attesa riforma dell’Ordinamento penitenziario a livello nazionale. Il numero totale dei detenuti in Piemonte è di 4.323, di cui 1.920 sono stranieri extra UE (44% del totale) contro una media nazionale che è del 34%. “Abbiamo un’esecuzione della pena che deve valutare le misure alternative e per questo abbiamo diffuso uno strumento che si chiama ‘recidiva zero’ che dimostra tutti i limiti della mera esecuzione carceraria. I numeri parlano del 68% di recidiva per chi sconta la pena totalmente in carcere, tra il 10 e 20% per chi usufruisce di progetti di pena alternativa. C’è inoltre un problema di capienza e numero di posti disponibili, che per il Piemonte è di 3972. Un dato, quello della qualità delle strutture, legato anche alla presenza di personale, polizia penitenziaria, educatori, interpreti, mediatori. Senza queste figure non potremo avere un carcere che guarda al recupero e reinserimento”, ha proseguito. L’intervento di Mellano è stato anche l’occasione per tracciare un quadro sulla collaborazione ai vari livelli di intervento e nei vari settori d’azione: l’esecuzione penale, la sicurezza, il controllo delle migrazioni, l’area sanitaria. Vista la contingenza politica ed istituzionale sul tema dell’immigrazione “appare oltremodo significativo l’intervento svolto su richiesta dell’Ufficio nazionale del Garante, in accordo con la Garante di Torino, sul monitoraggio dei rimpatri forzati in partenza dal Cpr di Torino. Una frontiera di impegno e di responsabilità onerosa ma qualificante, quanto mai attuale ed importante, a tutela di tutti i soggetti coinvolti: rimpatriandi, operatori, istituzioni”, ha sottolineato. Il passaggio di oggi è stato ancor più significativo perché recentemente il Collegio nazionale ha fatto la propria presentazione al Senato e lunedì 11 giugno la Garante di Torino l’ha svolta presso il carcere, di fronte alla competente commissione consiliare comunale. “Si tratta della dimostrazione palese del lavoro svolto da una rete di figure di garanzia che si è andata a definire in questi anni: Torino dal 2004, il Piemonte dal 2014, l’Italia dal 2016. Una rete a tutela dei diritti delle persone nella delicata situazione di privazione della libertà, anche a seguito delle condanne della Corte Europea dei diritti dell’uomo, sia in ambito penitenziario che in quello della gestione dei migranti”, ha concluso. Durante il dibattito sono intervenuti consiglieri di numerose forze politiche che si sono soffermati sugli aspetti più problematici sollevati dalla relazione, in particolare sulle condizioni fatiscenti delle strutture, sulle garanzie e i presidi sanitari per i detenuti e sui progetti per il reinserimento sociale e lavorativo. Bari: firmato il decreto sullo stop ai processi, addio tendopoli di Angela Balenzano Corriere del Mezzogiorno, 22 giugno 2018 Il provvedimento del governo. Avvocati in rivolta. Il governo corre ai ripari per dare una prima risposta all’emergenza del Palagiustizia di Bari, dichiarato inagibile per rischio crollo. Il Consiglio dei ministri ha approvato, su proposta del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, un decreto legge che mira a smantellare la tendopoli allestita per far fronte all’inagibilità del complesso di via Nazariantz e sotto la quale si sono celebrate molte udienze a partire da fine maggio. Il provvedimento urgente dispone la sospensione dei termini dei procedimenti fino al 30 settembre. Giustizia penale sospesa. Arriva lo stop ai processi fino al prossimo 30 settembre. Il ministro della Giustizia, Alfondo Bonafede, ieri al termine del Consiglio dei ministri ha dato il via libera al decreto legge per la sospensione delle udienze a Bari. Niente più “giustizia in tenda”, dunque. La tendopoli allestita davanti al tribunale di via Nazariantz (a rischio crollo) per consentire lo svolgimento delle udienze penali di rinvio, sarà smantellata. “Avevo promesso che ci avrei messo la faccia e oggi (ieri, ndr) abbiamo emanato un decreto d’urgenza che sospende tutti i processi e i termini processuali, inclusi quelli di prescrizione, da qui fino al 30 settembre - ha detto il ministro - a Bari non avranno bisogno di fare udienze nelle tende, una cosa inaccettabile per una Repubblica democratica. Basta vedere una giustizia costretta nel fango del dibattito politico, noi ci occupiamo finalmente dei cittadini. Le tende verranno smantellate - ha concluso Bonafede- avranno un po’ più di ossigeno per riorganizzarsi. Individueremo l’immobile che permetterà a Bari di fare le udienze come è giusto fare in uno stato di diritto che si rispetti”. In altre parole il decreto legge, così come spiega una nota del Ministero, sospende i processi penali in qualunque fase e grado. Il provvedimento ha decorrenza immediata e durata limitata: resterà in vigore fino al 30 settembre 2018. La sospensione non sarà applicata per i procedimenti che hanno carattere di urgenza (convalida di arresto, giudizio direttissimo, convalida sequestri) o che sono a carico di imputati in custodia cautelare. Ed ancora stabilisce che la sospensione non riguarderà i procedimenti per reati di criminalità organizzata e terrorismo. Sarà anche sospesa la prescrizione del reato che riprenderà nel momento in cui cesserà la causa della sospensione. Lo scorso 7 giugno il ministro era stato a Bari per visitare la “tendopoli” della giustizia e aveva promesso un “intervento urgente”. Dal 28 maggio scorso e fino a ieri mattina, le udienze penali di rinvio sono state celebrate in tre tende allestite nel parcheggio dell’inagibile Palagiustizia di via Nazariantz. Una decisione presa all’indomani di una relazione tecnica che evidenziava una criticità delle condizioni strutturali del tribunale. “Il decreto approvato serve a tamponare la necessità di svolgere le udienze all’interno delle tende che saranno smontate. Il percorso per arrivare a dare un assetto ordinato alla sede della giustizia è ancora lungo - ha detto il sindaco di Bari, Antonio Decaro - apprezzo molto l’impegno del ministro. Spero si individui nell’immediato una sede temporanea per il tribunale penale e che venga dato impulso alle attività previste nel protocollo per la realizzazione del nuovo Polo della giustizia”. Di diverso avviso il deputato e coordinatore di Forza Italia per Bari e provincia, Francesco Paolo Sisto. “Il decreto che avrebbe dovuto risolvere l’emergenza del Palagiustizia di Bari è in realtà un’ulteriore mortificazione dei diritti della difesa anziché soluzioni, dal governo arrivano sospensioni della giurisdizione, con il risultato di creare un limbo intollerabile” conclude. “Il ministro ha scelto di non adottare procedure di urgenza, decidendo quindi che la giustizia a Bari deve rimanere sospesa. Aspettiamo di poter esaminare nel dettaglio il testo del decreto e ci riserviamo di impugnarlo, perché ad un esame astratto appare incostituzionale” ha dichiarato l’avvocato Gaetano Sassanelli, presidente della Camera Penale di Bari. Trento: la Garante dei detenuti “più investimenti per lavoro, struttura e personale” di Antonio Girardi consiglio.provincia.tn.it, 22 giugno 2018 Su 315 detenuti presenti ora nella Casa circondariale di Spini di Gardolo (costruita a spese della Provincia nel 2010 e che secondo il Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, potrebbe ospitare al massimo 418 persone), si contano 21 donne e 220 stranieri - la maggior parte dei quali tunisini, seguiti da marocchini, albanesi, nigeriani e rumeni. La componente straniera, oscillante tra il 70 e il 73 per cento, è tra le più alte negli istituti penitenziari d’Italia. Rispetto al totale dei detenuti, 242 stanno scontando la pena definitiva, mentre gli altri sono in attesa del primo giudizio, dell’appello o ricorrenti. A fronte di questi numeri, fino al 4 novembre 2017 le unità di personale della Casa circondariale erano appena 150, delle quali però solo 121 (17 donne e 104 uomini) “utilmente impiegate nel servizio di istituto”, vale a dire 93 in meno del previsto (214). Considerata questa grave carenza e le difficoltà della polizia penitenziaria, la Provincia ha ottenuto dal ministero l’assegnazione di 30 nuove unità di personale, arrivate a fine 2017. A Spini mancano però anche operatori nell’area educativa: dovrebbero essere 6 (ne servirebbero almeno 5) più una figura di supporto, e invece sono 4. A fornire stamane questi e altri dati è stata la Garante dei diritti dei detenuti, Antonia Menghini, che ha presentato alla stampa la relazione delle attività 2017. Attività da lei avviate appena ricevuto l’incarico, nell’ottobre scorso, dal Consiglio provinciale che pochi mesi prima, in giugno, aveva introdotto con legge questa figura nell’ordinamento. Pur fresca di nomina, in teoria Menghini dovrebbe già concludere il suo compito a fine legislatura, in ottobre al pari del Difensore civico, senonché il Consiglio provinciale potrebbe prorogarle la fiducia avendo eccezionalmente previsto la rieleggibilità del Garante, tenuto conto della breve durata del primo mandato. Dorigatti: occorre costruire ponti tra chi sta dentro e chi sta fuori. “Non è stato facile approvare questa legge”, ha ricordato introducendo l’incontro il presidente del Consiglio provinciale Bruno Dorigatti. “Il primo tentativo risale alla passata legislatura, ma solo un anno fa siamo riusciti a condividere la norma proposta. Oggi - ha aggiunto - sono orgoglioso che incardinata nel Consiglio vi sia anche l’ufficio del Garante dei detenuti, perché sviluppare la difesa dei diritti è un segno di civiltà e un importante elemento di innovazione che qualifica la nostra autonomia”. Plaudendo alla passione dimostrata da Menghini per l’intenso lavoro promosso in pochi mesi e ben documentato dalla sua relazione, Dorigatti ha ricordato le iniziative che ancor prima di approvare la legge il Consiglio provinciale aveva dedicato ai detenuti: un loro spettacolo teatrale messo in scena anche in città nel 2016; e una mostra di pittura con le loro opere allestita a palazzo Trentini. “Oggi - ha osservato il presidente - al numero di detenuti di Spini non corrisponde l’assegnazione di un adeguato contingente di personale, e non solo di polizia penitenziaria ma anche dell’area educativa. Si tratta - ha concluso - di costruire ponti tra chi sta dentro e chi sta fuori, per favorire il futuro reinserimento sociale dei detenuti, valorizzandone le capacità positive con il concorso di tutti i soggetti che possono fare rete e contribuire a questo obiettivo”. Menghini: il lavoro è fondamentale per evitare la recidiva e per il reinserimento sociale. Dell’impegno profuso per “fare rete” con le istituzioni pubbliche e il privato sociale, il mondo della scuola e quello della sanità, acquisendo le collaborazioni necessarie all’affermazione concreta dei diritti dei detenuti, ha poi dato conto Antonia Menghini, evidenziando, da un lato, “la base di partenza” delle iniziative già esistenti da rafforzare e, dall’altro, le criticità da lei rilevate in questi mesi. Dopo aver ricordato le decine di visite alla struttura di Spini dove ha incontrato sia il personale sia i detenuti, dedicando a questi ultimi già più di 80 colloqui personali, Menghini ha ricordato che di positivo e da potenziare con altri investimenti vi sono le lavorative. “È dimostrato - ha osservato Menghini - che il lavoro incide positivamente sulle recidive e ha quindi un ritorno positivo per il territorio in termini di sicurezza”. Occorre comprendere che su questo fronte e in quello della formazione professionale, un impiego nel privato sociale durante il periodo della detenzione, poi per chi esce può tradursi in un’attività lavorativa esterna ed è un “viatico importante - ha insistito - per il reinserimento sociale”. Fondamentale è anche l’istruzione scolastica offerta ai detenuti, una parte dei quali frequenta corsi di alfabetizzazione e altri assimilati alle “medie” e al liceo Rosmini di Trento (54 iscritti). Molto utili e partecipati sono poi i corsi della scuola estiva, con 163 detenuti e di grande valore è la disponibilità di ore di lezione offerta per questo da insegnanti volontari. Necessarie più risorse per la manutenzione della struttura e la cura del disagio psichico. Sul versante delle problematicità, la Garante ha messo in luce che, oltre alla sproporzione tra il numero dei detenuti e quello del personale di polizia penitenziaria e dell’area educativa (il fatto che sole due ore alla settimana siano dedicate ad attività sportive dipende proprio dalla carenza di agenti), sono insufficienti le risorse messe a disposizione dallo Stato per garantire la manutenzione ordinaria una struttura moderna come quella della casa circondariale di Spini. Ne è un esempio negativo il secondo piano della sezione femminile che, inutilizzato, oggi è fortemente compromesso. Terza criticità: la poca attenzione prestata al disagio psichico e alle malattie psichiche dei detenuti, problema che può causare gravi conseguenze ma che risente anche della mancanza di un’apposita normativa. Menghini ha segnalato che soggetti simili a quelli ospitati nella Rems di Pergine - struttura detentiva nella quale sono accolte persone considerate pericolose per la sicurezza, con incapacità che si sono manifestate al momento dell’illecito - si trovano anche a Spini, dove però è in servizio per poche ore un solo psichiatra. “Urgente per i detenuti e il loro possibile reinserimento sociale - ha concluso la Garante - è quindi investire sull’istruzione, il lavoro, la formazione e il personale necessario perché possano impiegare in modo costruttivo il loro tempo”. Belluno: la sezione per detenuti con problemi psichiatrici sdarà chiusa Corriere delle Ali, 22 giugno 2018 La sezione “Articolazione per la tutela della salute mentale” del carcere di Baldenich sarà chiusa e i detenuti attualmente presenti verranno trasferiti a Padova. Lo ha assicurato Enrico Sbriglia, provveditore delle carceri del Triveneto, su sollecitazione del deputato bellunese di Fratelli d’Italia Luca De Carlo. “Con la visita di domenica 3 giugno al carcere di Belluno ho potuto rendermi conto di quanto la situazione della sezione Atsm sia drammatica”, ricorda De Carlo. “Una vera e propria “bomba a orologeria”. Ben 150 gli eventi critici da quando è stata aperta, nel marzo 2016. Come già annunciato, ho chiesto al provveditore di poterlo incontrare. Il colloquio è stato franco e diretto. E ho ottenuto rassicurazioni sul fatto che l’Atsm sarà chiusa e i detenuti trasferiti a Padova”. Il deputato di Fdi aveva deciso di recarsi a Baldenich dopo aver parlato con le sigle sindacali Cisl Fns, Cgil Fp, Uspp, Sappe, Osapp, Fsa Cnpp. “La sezione è inadeguata”, commenta, “e sono messe a rischio sia l’incolumità dei detenuti - il cui stato di salute mentale, in queste condizioni, anziché migliorare regredisce - che quella del personale di polizia penitenziaria. All’interno degli spazi i termosifoni sono stati divelti e il bagno distrutto. Docce e sala ricreativa sono inadeguate, in una cella sono presenti fili penzolanti. Le Atsm sono sorte a seguito della chiusura degli Opg (Ospedale psichiatrici giudiziari) e da allora sembra si faccia finta che i detenuti con problemi psichiatrici non esistano”. In sole due settimane i detenuti dell’Atsm sono passati da 5 a 7. “La situazione si rende sempre più difficile e ho fatto presente al dottor Sbriglia le difficoltà in cui operano gli agenti di polizia penitenziaria”, continua De Carlo. “Mentre a Reggio Emilia, da dove proviene il maggior numero di detenuti ora nella sezione di Baldenich, queste persone erano seguite 24 ore su 24, a Belluno lo stato di cose è diverso. E tutti ci rimettono: i detenuti, per cui non esistono percorsi terapeutici personalizzati e il personale di polizia penitenziaria, a cui non ci può chiedere di svolgere un compito che non gli è proprio”. Tra l’altro il carcere di Baldenich soffre di carenza di organico: gli agenti sono passati da 122 alle attuali 91 unità. “Ho fatto presente al provveditore anche quest’aspetto”, dice ancora il deputato bellunese, ricordando che una settimana fa le problematiche del carcere di Baldenich hanno trovato spazio nella trasmissione “Radio carcere” di Radio Radicale. “Ho già aggiornato la redazione, come promesso, sugli ultimi sviluppi”, conclude De Carlo. “Ora, ovviamente, la mia attenzione resta alta e terrò monitorata la situazione. Se tra un mese e mezzo-due mesi non verranno presi i provvedimenti assicurati dal provveditore, porterò il tema in Parlamento”. Ravenna: Radicali Italiani e Socialisti in visita al carcere ravennanotizie.it, 22 giugno 2018 Nella giornata in cui si celebra il 35° anniversario dell’arresto di Enzo Tortora, i Radicali Italiani hanno organizzato sull’intero territorio nazionale una serie di visite all’interno delle strutture carcerarie “per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di lottare, con le armi della determinazione e della non violenza, per una “giustizia giusta”, si legge nella nota che porta la firma di Davide Amadori e Cesare Sama (rappresentanti ravennati dei Radicali Italiani) e Lorenzo Corelli, storico esponente dei socialisti ravennati. I tre nei giorni scorsi hanno visitato la Casa Circondariale di Ravenna, una delle 40 carceri ispezionate ad oggi in 14 regioni, accolti con gentilezza e volontà collaborativa dalla direttrice Carmela Di Lorenzo e dal personale delle Fiamme Azzurre. La delegazione ha preso atto con piacere degli importanti e costanti miglioramenti che sono stati ottenuti negli ultimi anni. “Oggi la Casa Circondariale di Ravenna non è più quel “Non Luogo Infernale” dove sopravvivevano in condizioni vergognose per un paese civile - si legge nel comunicato inviato - 180 detenuti assieme alle guardie carcerarie. Oggi i detenuti sono 81 condannati in via definitiva a pene non superiori ai 5 anni oppure in attesa di giudizio. Più della metà della popolazione carceraria risulta essere tossicodipendente e proprio lo spaccio di droga assieme al furto e alla rapina risultano essere i reati più comuni. Anche se è difficile fare programmazioni a lungo termine in una Casa Circondariale dove continuo è il turn over dei detenuti, la dottoressa De Lorenzo ed il suo staff hanno cercato di organizzare molte attività all’interno della struttura - raccontano i tre esponenti - per permettere ai detenuti di avere una possibilità nella vita di tutti giorni dopo aver scontato la pena. Un approccio corretto per cercare di invertire il tragico dato che ricorda come in Italia la recidività nel commettere reati punibili con la carcerazione va ben oltre il 70% (il 70% di chi attualmente si trova in stato di detenzione, tornerà in carcere in un prossimo futuro)”. Nel raccontare gli esiti e le impressioni della loro visita al Carcere di Ravenna, Amadori, Sama e Corelli, sottolineano il fondamentale appoggio delle istituzioni e del volontariato ravennati, grazie alle quali “oggi nella casa circondariale di Ravenna esiste una biblioteca molto utilizzata, una piccola palestra, un campo da calcetto, un laboratorio di mosaico, un laboratorio per la panificazione, una scuola per ottenere la licenza media e per imparare l’italiano e le lingue straniere, la possibilità di partecipare a dei corsi certificati di formazione lavorativa. Grande importanza viene data alla cultura, al teatro, alla recitazione, all’arte. Non si può non ricordare a questo proposito l’iniziativa organizzata nell’ambito del settembre dantesco “Dante entra in Carcere”. Un impegno lodevole che va nell’ottica di “utilizzare la pena carceraria come metodo per far calare i reati e dare la possibilità a chi ha sbagliato di camminare sulla giusta via. La dottoressa De Lorenzo auspica una collaborazione sempre più forte e continuativa anche con la società civile - conclude la nota - per far sì che il percorso formativo del detenuto possa continuare anche una volta scontata la pena. Per la delegazione che ha visitato la Casa Circondariale una piacevole sorpresa”. Ferrara: ecco la rete di volontariato attiva nella Casa circondariale agiresociale.it, 22 giugno 2018 È una rete resiliente e determinata - tredici tra associazioni di terzo settore ed enti pubblici - accomunata dal lavoro sociale al fianco dei detenuti nella Casa Circondariale di Ferrara quella che opera, in ruoli e ambiti di attività diversi, per attivare percorsi di giustizia riparativa al fianco del detenuti in chiave rieducativa, alla scoperta delle proprie potenzialità e di opportunità di riscatto e riconciliazione. Almeno otto le realtà non profit presenti con continuità, che con il nostro coordinamento stanno accompagnando circa una ventina di nuovi volontari che si sono formati nell’ultimo corso organizzato a cavallo dei primi mesi dell’anno nell’ambito del progetto “Cittadini sempre 2017-18”. Attualmente i nuovi volontari stanno seguendo un percorso di accompagnamento alle attività che le associazioni portano avanti con i detenuti e, in vista di un prossimo corso info-formativo ancora in fase di programmazione, gli aspiranti volontari possono intanto candidarsi presso il nostro ufficio di segreteria o direttamente on line da questo sito. Il volontariato nella Casa circondariale ferrarese dura da più di venti anni e per mettersi in gioco in questa esperienza di solidarietà bisogna conoscere il contesto carcerario e adattarsi alle sue regole e tempi per l’autorizzazione e le visite. Il significato di ognuna di queste esperienza è riconducibile alla parola “relazione” intesa come portare, nella concatenazione tra i tempi che scandiscono la quotidianità del carcere, anche un altro tempo dell’incontro che alimenta reciprocamente, rigenera e può fare vedere un futuro, a volte con facilità, a volte con fatica. La novità sta nella dinamica di scambio che in questi anni si è innescata tra i gruppi di volontariato in carcere, che abbiamo facilitato nell’ottica di consolidare un movimento che, con pazienza e più obiettivi operativi, condivida però il concetto della “giustizia riparativa”. Ad oggi i percorsi di volontariato nel carcere ferrarese prevedono un nutrito campo di attività che vanno dall’arte all’agricoltura sociale, allo sport, alle opere assistenziali, all’animazione teatrale, la pittura, e altro ancora. Quest’anno la dimensione di rete che coinvolge le realtà non profit in carcere ha visto una grande vivacità organizzativa fatta di momenti interni di riunione a più livelli ma anche di tante idee nuove, per dare forma ad attività come il laboratorio di lettura, attualmente in fase di avvio, ed ad eventi di sensibilizzazione come il ciclo degli aperitivi per parlare dei progetti culturali in carcere, che si è tenuto la scorsa primavera in luoghi pubblici della città. Si è trattato di quattro incontri condotti dai volontari impegnati in carcere per condividere i progetti in corso, forti esperienze che hanno come comune denominatore la cultura. C’è la redazione del periodico Astrolabio, un progetto editoriale che raggruppa detenuti e volontari per raccontare la vita della casa circondariale ma anche per fare informazione su questa realtà come una porta che si apre tra due contesti interno ed esterno. Il primo numero di Astrolabio ha visto la luce nel 2009 ed è diretto da Mauro Presini e curato dalla Cooperativa Integrazione Lavoro. Dai laboratori del Teatro Nucleo diretto da Horacio Cztertock, anima di questa forte esperienza del teatro in carcere che dal 2005 è presente dentro una rete regionale costituita da sette compagnie teatrali in altrettanti istituti penitenziari dell’Emilia Romagna, è nata una compagnia molto attiva dove il teatro diventa risorsa necessaria per mettere in discussione la propria storia e affrontare la sfida del cambiamento. E il cambiamento c’è, tanto che i detenuti che intraprendono un percorso teatrale professionale hanno recidive molto più ridotte. Da circa un anno l’Associazione Viale K collabora nella gestione di tre orti sociali, due interni e un terzo che percorre la cinta muraria più esterna del carcere, è il complesso del “galeorto” coltivato a frutta e verdura dai detenuti per il consumo interno, che è stato visitato da numerosi cittadini nella recente manifestazione “Interno Verde”, dedicata alla scoperta dei giardini più belli della città, iniziativa che ha contribuito a dare un importante segnale alla comunità. La scuola di pittura guidata con passione dal pittore Raimondo Imbrò, del Centro sociale “Il Quadrifoglio”, coinvolge i detenuti in un’esperienza artistica preziosa e ha prodotto opere originali che da qualche anno raggiungono la comunità e le scuole con diverse mostre itineranti. Altre esperienze maturate nella Casa circondariale di Ferrara sono poi il laboratorio di riparazione di cicli usati della Cooperativa sociale il Germoglio, l’emporio gestito dall’associazione Noi per Loro, i momenti di animazione e intrattenimento dei bambini dei detenuti in visita condotti dall’Agesci in collaborazione con il Centro per le Famiglie, i vari tipi di sport promossi dalla Uisp di Ferrara. Torino: “La Voce da dentro”, parte una rubrica dal carcere vocetempo.it, 22 giugno 2018 Il giornale inaugura questa settimana la rubrica “La Voce dentro” perché il 23 giugno la Chiesa ricorda, nella liturgia, san Giuseppe Cafasso, “il prete della forca”, come ricorda il monumento a lui dedicato al “rondò” di corso Regina, crocicchio delle opere dei santi sociali torinesi (don Bosco, Cottolengo, Murialdo, Giulia e Tancredi di Barolo…). Con queste pagine il nostro giornale desidera entrare “dentro” le carceri torinesi (“Lorusso e Cutugno” e “Ferrante Aporti”) e dare “Voce” a chi vive dietro le sbarre a diverso titolo. I detenuti innanzi tutto, ma anche gli agenti penitenziari, i volontari, gli educatori, i diversi operatori, i cappellani, l’amministrazione, la direzione: insomma tutto l’ambiente carcerario che più volte il nostro Arcivescovo e i suoi predecessori hanno indicato come “uno spicchio della nostra comunità diocesana” e, come tale, parte integrante delle nostre attenzioni pastorali. La nostra rubrica sarà aperta ai contributi di tutti coloro che hanno a cuore il reinserimento nella società dei ristretti - e, se credenti, il dettato evangelico “ero carcerato e siete venuti a trovarmi”. Vogliamo sottolineare questo collegamento con san Giuseppe Cafasso perché egli non fu soltanto un “cappellano dei carcerati” ma anche un maestro del clero, ispiratore di quelle idee e di quelle intuizioni a cui tutti i santi sociali, a cominciare da don Bosco, diedero attuazione. “Prete della forca” perché accompagnava al patibolo i condannati a morte confortandoli col messaggio di speranza del Vangelo; prete dei più disperati, i detenuti delle prigioni senatorie torinesi, con cui il Cafasso teologo “prete colto” e formatore di sacerdoti trascorreva gran parte delle sue giornate a confortare e, come scrivono i biografi, “trattenendosi fino a tarda notte a confessarli o ad asciugare le loro lacrime”. Per questo il 9 aprile1948 papa Pio XII proclamò Giuseppe Cafasso patrono dei carcerati. Dicevamo dell’influenza che san Cafasso ebbe nell’ispirare i santi sociali torinesi: fu lui che invitò don Bosco a frequentare “La Generala”, oggi il carcere minorile “Ferrante Aporti” dove il santo dei giovani maturò l’idea del “sistema preventivo”. E fu proprio il Cafasso il confessore della marchesa Giulia Falletti di Barolo che, insieme al marito Tancredi, poi sindaco di Torino, fece del loro Palazzo un centro di accoglienza e riscatto per “gli scarti della città”. Alla marchesa in particolare stavano a cuore i carcerati: narrano i biografi che era tormentata dalle urla delle prigioniere delle carceri senatorie, quelle frequentate dal Cafasso. Giulia si fa nominare Sovrintendente delle carceri delle Forzate, dove riunisce solo le donne, riuscendo a conquistare la loro fiducia, operando per il loro recupero. E di lì la sua opera a favore della dignità dei detenuti che versavano in condizioni penose non si fermò facendo diventare il Palazzo un punto di riferimento per il reinserimento delle recluse nella società. E proprio in questi giorni, dopo 150 anni, nello spirito di Giulia, l’Opera Barolo è rientrata in carcere: martedì 29 maggio. L’Arcivescovo, attuale presidente dell’Opera (che sulle orme dei marchesi continua ad operare per la promozione delle fasce più deboli della città), ha convocato per la prima volta nella sua storia il Consiglio di amministrazione presso la Casa circondariale “Lorusso e Cutugno”. “Il nostro progetto, fortemente voluto da mons. Nosiglia, è quello di collaborare con le istituzioni per accelerare i processi di reinserimento dei detenuti” spiega Tiziana Ciampolini, delegata del Distretto sociale dell’Opera Barolo (la “cittadella” fondata dai marchesi nel 1829 e che oggi opera in collaborazione con agenzie del Terzo Settore e con gli Enti locali) “per gli interventi nei penitenziari cittadini nella convinzione - come detta la Costituzione che il carcere, extrema ratio, deve essere luogo dove la pena ha funzione riabilitativa. Per questo abbiamo chiamato i nostri interventi ‘Progetto di giustizia di Comunità’ dove la comunità si attiva tra carità e giustizia. In sinergia con l’Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna) sperimenteremo collaborazioni con la rete del mondo del sociale di reinserimento lavorativo, aggregativo per far sentire i detenuti e le detenute una risorsa e non un peso”. “Sono lieto che l’Opera Barolo si sia attivata in questo campo così caro a Giulia che ha sorpreso i suoi amici e concittadini del suo tempo in quanto lei nobile e ricca frequentava le carceri soprattutto femminili subendo anche tante umiliazioni da quelle poverette che vivevano in un ambiente disumano” precisa mons. Nosiglia. “Il suo obiettivo che è anche oggi il nostro impegno è salvaguardare e promuovere la dignità della persona che, certo, ha sbagliato, ma ha il diritto di potersi riscattare, per ritrovare vie di cambiamento a servizio della comunità. L’impegno dell’Opera Barolo insieme alla Città, alla Caritas, ai cappellani del carcere e all’amministrazione penitenziaria sarà dunque quello di attivare misure alternative per l’esecuzione penale, con un proficuo accompagnamento dei detenuti per un reinserimento sociale, mediante disponibilità di alloggi e di lavoro. Ci auguriamo che le comunità cristiane e civili della città siano solidali con questo progetto accogliendo le persone con rispetto amore”. Parma: “Tito Andronico. La tragedia delle tragedie al penitenziario” parmapress24.it, 22 giugno 2018 Grande successo per l’esito del laboratorio teatrale realizzato con otto detenuti condotto da Franca Tragni e da Carlo Ferrari. Anche quest’anno presso l’Istituto Penitenziario di Parma, è stato presentato l’esito del laboratorio teatrale, condotto da Carlo Ferrari e Franca Tragni, di Progetti & Teatro, con un gruppo di detenuti del reparto Alta Sicurezza 3 che hanno avuto l’opportunità di seguire il progetto teatrale sostenuto ormai da quattordici anni dal Comune di Parma Assessorato al Welfare. “Questa esperienza rientra nelle azioni che abbiamo messo in atto per portare ad un miglioramento della qualità della vita dei detenuti. Il teatro è uno strumento per restituire un senso di normalità anche a una situazione estrema quale può essere la vita carceraria” - ha commentato l’assessore Laura Rossi. Lo spettacolo, replicato due volte per gli esterni, ha avuto un’anteprima per i soli detenuti che hanno potuto con entusiasmo e calorosa partecipazione apprezzare il lavoro svolto dai loro compagni. Lo spettacolo, Tito Andronico di William Shakespeare, portato in scena dagli otto detenuti coinvolti nel laboratorio teatrale, è frutto di un intenso lavoro laboratoriale sottolineato da un costante ricerca sulla verità, sulle emozioni, sulle intenzioni e sulle molteplici possibilità esplorative del grottesco e dei tempi comici. Il testo shakespeariano scelto, crudo, cinico e violento, dopo un’attenta analisi cinematografica, è stato oggetto di discussioni e di riflessioni insieme ai detenuti-attori. Il laboratorio è iniziato con un lavoro individuale sui personaggi, sulle relazioni, per poi andare a coinvolgere l’intero gruppo nell’utilizzo dello spazio scenico e nella gestione della sensibilità dello stare sul palco. Un lavoro coinvolgente, ricercato e curato nei minimi dettagli, grazie ormai all’impegno e alla professionalità dei partecipanti, alcuni dei quali da anni seguono in maniera costante l’attività teatrale. Siena: la musica in carcere, festa con il conservatorio La Nazione, 22 giugno 2018 La musica del Franci arriva all’interno della Casa Circondariale di Siena. Gli studenti del Conservatorio senese e i detenuti dell’istituto di pena hanno celebrato insieme oggi la Festa della Musica con un concerto sulle note di una delle più significative opere di Astor Piazzolla, L’Histoire du tango, suddivisa in quattro parti (Bordel 1900, Café 1930, Night-club 1960 e Concert d’aujourd’hui 1990), eseguita dagli studenti Maria Novella Menicacci, flauto e Leonardo Binazzi, chitarra, allievi dei professori Luciano Tristaino e Marco Del Greco. La festa è proseguita con la performance dei detenuti che hanno seguito il corso musicale organizzato dal Franci in carcere durante l’inverno. Una vera e propria festa di note che ha permesso ai detenuti, accompagnati alle percussioni da Cosimo Gragnoli, allievo del professore Federico Poli, di cimentarsi nella celebre Gianna di Rino Gaetano e in O’ Sarracino di Renato Carosone. “La musica - ha detto Lucia Goretti, vicedirettrice del Conservatorio Franci - con il suo linguaggio universale estremamente potente e diretto ha l’enorme capacità di arrivare dritta al cuore delle persone, dando conforto anche nei momenti più difficili. Il concerto e le esibizioni di oggi dimostrano, ancora una volta, come la musica sia capace di regalare enormi emozioni a tutti, ancor più se fatta insieme. Portare il Franci in carcere significa per noi contribuire inoltre alla crescita umana dei nostri studenti che oggi hanno avuto l’opportunità di esibirsi per gli ospiti della struttura penitenziaria, che sono stati protagonisti del laboratorio musicale tenuto da Leonardo Binazzi nei mesi scorsi”. “La Direzione della Casa Circondariale di Siena ha accolto con entusiasmo l’invito formulato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria affinché la Festa della Musica fosse celebrata anche in carcere - ha ricordato Sergio La Montagna, direttore del carcere di Santo Spirito - La musica non conosce né confini né barriere: il suo potere lenitivo e consolatorio si manifesta anche nei luoghi della detenzione, contribuendo ad alleviare il disagio dei reclusi. Del resto i numerosi laboratori e progetti avviati a beneficio delle persone detenute testimoniano la valenza positiva delle attività musicali nei percorsi trattamentali. In tal senso è motivo di vanto per la Direzione della Casa Circondariale di Siena poter contare sulla collaborazione di un’istituzione prestigiosa come il “Franci”, i cui allievi contribuiscono con sensibilità e umanità a diffondere tra i detenuti il messaggio della musica che, come diceva il maestro Abbado, “salva la vita” “Il clan dei ricciai”, quando il lavoro è l’ultima spiaggia per gli ex detenuti di Giulia Echites La Repubblica, 22 giugno 2018 Pietro Mereu porta al Biografilm Festival di Bologna la storia dell’ex boss Gesuino e dei suoi uomini addetti, a Cagliari, alla raccolta dei ricci: “Mi hanno dato regole precise: non entri a casa nostra, non parli con le nostre donne, hai dieci giorni per girare tutto”. Colonna sonora: le “canzoni della malavita” di Joe Perrino, vera e proria star in Sardegna. Gesuino è alto 1 metro e 60 e pesa 86 chili. È un boss. Ha scelto personalmente i membri del suo clan: Massimo è il suo braccio destro, ha scontato sei anni per associazione a delinquere. A Milano rubava Ferrari, Maserati, Porche e poi organizzava gare clandestine di auto. Andrea ha 58 anni, 14 li ha passati in carcere. Il suo corpo è completamente segnato dai tatuaggi fatti durante la detenzione e dai tagli che si è procurato con le lamette, sempre in cella. Poi c’è Bruno, che è suo cugino e Simone che è il più giovane di tutti, ma ha già scontato quattro mesi ai domiciliari. Per i loro interventi salgono su un gommone e indossano sempre una tuta nera e una maschera in viso che gli lascia scoperti solo gli occhi. Gesuino, Andrea, Massimo, Bruno e Simone fanno parte del clan dei ricciai: la loro missione, a Cagliari, dove vivono, è la pesca dei ricci. A raccontare la storia di questo gruppo di ex detenuti che cercano riscatto reinventandosi pescatori è il documentario diretto da Pietro Mereu, “Il clan dei ricciai”, presentato in anteprima a Bologna a Biografilm Festival (14-21 giugno). Gesuino Banchero ha 58 anni e da 38 fa questo lavoro (dopo aver scontato pure lui la sua pena), ha anche un chiosco per la vendita dei ricci e un banco al mercato di San Benedetto, a Cagliari. “Si è preso l’incarico di scegliere come lavoratori gente uscita dal carcere”, racconta il regista, Mereu. È “l’ultima spiaggia per chi ha avuto problemi con la legge”, dice Gesuino nel film. Ma la pesca dei ricci, in Sardegna, è un’attività antichissima che sono rimasti in pochi a praticare e questi pochi si spartiscono le zone di pesca con vere faide. Così, in una via di mezzo tra scontri tra pirati e battaglie western, non è raro che tra i clan delle province dell’isola finisca a botte. “Con gli oristanesi i cagliaritani si sono massacrati - continua Mereu, originario dell’Ogliastra - sparatorie, gommoni incendiati, ruote dei camion bruciate, scazzottate”. Oltre alle regole non scritte dei clan ci sono poi quelle ufficiali: “I quantitativi di ricci che è possibile pescare, il periodo in cui si possono prendere”. Molti pescatori, però, hanno barche con sottofondi e se il limite di ricci che si possono prendere è, ad esempio, mille loro ne pescano cinquemila. C’è poi chi riporta a galla datteri, cosa che è illegale, per non parlare di reperti romani. “Non è facile smettere di delinquere in certi ambienti”. Molti pescano con le bombe, Mereu avrebbe voluto riprendere quella scena. “L’ho proposto a uno dei personaggi - racconta - mi ha risposto che le bombe fanno colonne d’acqua di trenta metri, la capitaneria di porto sarebbe arrivata immediatamente”. Eppure alcuni ricciai ancora oggi fanno così, utilizzando la dinamite rubata nelle miniere. Joe Perrino è un altro protagonista del film, non è un ricciaio né un ex detenuto, anche se a sentirlo raccontare quelle storie della sua città, tantissimi pensano che lo sia. Joe non solo a Cagliari, in tutta la Sardegna è una star: è un cantante e le sue Canzoni di malavita sono state utilizzate per la colonna sonora de Il clan dei ricciai. “I miei pezzi sono un racconto romantico della malavita” dice Joe, capelli lunghi, barba incolta, occhi segnati con una matita nera, collana, bracciali e diversi anelli addosso. “Raccontano una malavita che non esiste più: non ci sono più regole o scale gerarchiche oggi”. Oggi, nel suo quartiere Castello, un tempo il cuore della malavita di Cagliari, “ci sono solo ragazzini imbottiti di droga”. I ricciai, invece, lui li conosce bene e pure quel lavoro: “I ricci si raccolgono nei mesi dell’anno che finiscono con -bre, da settembre a dicembre”. Quindi d’inverno, e immergersi in acqua, tutti i giorni in inverno, è un lavoro durissimo. “Finisci col vomitare catarro” dice Perrino. C’è però un’epica, tra i membri del clan c’è una sorta di fierezza nell’affrontare quel lavoro e poi a chi ha vissuto il carcere sembra tutto più sopportabile. Il film di Mereu è anche un film di denuncia: il racconto della pesca dei ricci si alterna a quello degli anni passati in carcere: parlando “su casanzinu”, il gergo del carcere cagliaritano, gli ex detenuti ricordano la violenza dei compagni di stanza e delle guardie, i codici di rispetto che oggi non si applicano più e mostrano il corpo coperto da tatuaggi, quelli fatti in cella a rendere indelebili certi desideri. E poi si concedono al racconto delle storie più private: Andrea, ad esempio, è autolesionista, usa le lamette per tagliarsi e vorrebbe solo riavere i figli dei quali gli è stata tolta la patria podestà. Massimo ci ha provato ad avere una vita normale, voleva diventare un carabiniere, ma non ci è mai riuscito a causa dei precedenti dei suoi genitori. Stessa storia quando ha provato a entrare nei vigili del fuoco. Allora ha fatto lo scafista per anni, trasportando armi. Non è stato facile per Pietro Mereu conquistare la fiducia di questi uomini al punto che si aprissero a raccontare le loro vite: “Mi hanno dato delle regole precise - dice il regista - non entri a casa nostra e non parli con le nostre donne, le nostre famiglie. E poi ti diamo dieci giorni di tempo per fare tutto. Se vuoi girare il film queste sono le condizioni”. Mereu il film non solo l’ha voluto girare, ma sta già pensando allo spin off de Il clan dei ricciai, una serie tv su musica e malavita. Certo, impegni di Joe permettendo: “Ora sta per uscire il terzo disco di Canzoni di malavita e in progetto ho un altro album, Canzoni d’amore a mano armata: non vi fate ingannare dal titolo, saranno pezzi dolcissimi”. Migranti. L’intesa Ue resta lontana. Dai fondi alle frontiere, ecco tutte le divisioni di Gerardo Pelosi Corriere della Sera, 22 giugno 2018 Nessuna bozza preconfezionata sui migranti al vertice di domenica a Bruxelles ma una discussione informale dove l’Italia potrà far valere in pieno le sue tesi su finanziamento al Trust fund Africa, superamento di Dublino, centri di assistenza ai migranti nella sponda Sud, rimpatri volontari assistiti quantomeno da Libia e Niger. Come già era accaduto una settimana fa con la minaccia (poi rientrata) di far saltare il viaggio in Francia da Macron anche questa volta c’è stato un “chiarimento” tra il premier Giuseppe Conte e la cancelliera tedesca Angela Merkel. Quest’ultima si è rivelata così la vera regista (per superare i problemi con la Csu bavarese) dell’incontro di Bruxelles a dispetto delle ospitanti istituzioni comunitarie. Il premier italiano non diserterà quindi il vertice sui migranti il quale si concluderà solo con un “summary” sulle questioni poste dalle varie delegazioni. La tensione con i nostri partner Ue resta comunque molto alta perché con Parigi si sta aprendo una nuova polemica dopo la dichiarazione del presidente francese Macron che ha definito il populismo italiano “una lebbra”. È stato però lo stesso premier italiano in un post su facebook a chiudere l’incidente con la Germania rendendo noto di “avere ricevuto una telefonata dalla Cancelliera”. “Era preoccupata - ha scritto Conte - della possibilità che io potessi non partecipare al pre vertice di domenica sul tema immigrazione. Le ho confermato che per me sarebbe stato inaccettabile partecipare a questo vertice con un testo già preconfezionato. La Cancelliera ha chiarito che c’è stato un “misunderstanding”: la bozza di testo diffusa ieri verrà accantonata. Verrà presentata la proposta italiana e se ne discuterà insieme alle proposte di altri Paesi”. Non verrà discussa, quindi, la bozza contenente le misure volte a regolare i “movimenti secondari” dei migranti, che interessano al ministro dell’Interno tedesco Seerhofer per rispedire in Italia i richiedenti asilo oggi presenti in Germania ma sbarcati nel nostro Paese. Ciò non vuol dire che la strada per il nostro Paese sarà tutta in discesa anche perché se al vertice non saranno presenti i Paesi di Visegrad il cancelliere austrico Kurz ha posizioni non troppo lontane. Prima dei “movimenti secondari” Conte porrà il tema del maggiore controllo alle frontiere Schengen e di un cambio di prospettiva dalla “solidarietà alla responsabilità condivisa”. I tre punti centrali della proposta italiana si possono riassumere così: 1) condividere gli oneri finanziari e garantire che gli Stati membri coprano i circa 500 milioni di euro necessari a coprire 1,2 miliardi di euro necessari a far decollare il Trust Fund Africa per creare occasioni alternative al business dei trafficanti. Il linguaggio contenuto nella bozza finale del vertice del 28 è troppo debole al riguardo e il nostro ambasciatore a Bruxelles ha mantenuto ieri una “riserva” chiedendo impegni più forti. 2)Il regolamento di Dublino non va riformato ma superato. Il testo della presidenza bulgara è inadeguato. Nel frattempo Dublino, creato nel 1990 per regolare i flussi dalle frontiere terrestri da Est si dovrà applicare solo alle nostre frontiere di terra e non a quelle marittime Schengen. 3) Creare centri di assistenza ai migranti nei Paesi di transito da dove organizzare rimpatri assistiti volontari come i 28mila già realizzati in Libia in accordo con l’Oim e come quelli dal centro italiano di Agadez in Niger. L’Unhcr gestirà i i migranti in arrivo elegibili per lo status di rifugiati (tra il 5 e il 10% del totale arrivi) inviandoli in tutti i Paesi Ue e non più solo in Italia. Proposte in parte condivise dal commissario Ue alla Migrazione Dimitris Avramopoulos secondo il quale però “le misure unilaterali non sono la risposta alla migrazione”. Ma le posizioni dell’Italia sono nel frattempo prese a bersaglio dal presidente francese Emmanuel Macron che ieri si è difeso dalle accuse di inazione sull’accoglienza dei migranti per tuonare contro la “lebbra” populista in Europa. “Li vedete crescere come una lebbra, un po’ ovunque in Europa, in Paesi in cui credevamo fosse impossibile vederli riapparire. I nostri amici vicini dicono le cose peggiori e noi ci abituiamo! Fanno le peggiori provocazioni e nessuno si scandalizza di questo” ha dichiarato Macron. Pronta la reazione del ministro dell’Interno Matteo Salvini: “Macron ha detto che chi non accoglie è un populista lebbroso. Un signore, eh, caviale, champagne e signorilità. Ma io lezioni da un Paese che ha l’esercito alla frontiera italiana non ne prendo. Se la Francia si prende dieci barconi dalla Libia, ne riparliamo”. E ha aggiunto “Mi spiace solo che la Francia ai Mondiali stia battendo il Perù”. Intervista al Papa: “Accogliere i migranti, ma con prudenza. Ora un piano per l’Africa” di Paolo Rodari La Repubblica, 22 giugno 2018 Parla Francesco sul volo di ritorno dalla visita in Svizzera: “Un Paese deve accogliere tanti quanti può integrare, educare, dare lavoro. Il problema è il traffico di migranti: alcuni carceri in Libia sono come i lager nazisti”. Il Pontefice chiede una sorta di piano Marshall per l’Africa: “Non può essere sfruttata”. L’Italia “generosissima”. Interviene sui migranti per dire che i criteri sono quelli di sempre: “Accogliere, accompagnare, sistemare, integrare”. Ma che ogni governo “deve agire con la virtù della prudenza, perché un Paese deve accogliere tanti quanti può e quanti può integrare, istruire, dare lavoro”. Molto, dice, hanno fatto Italia e Grecia, ma anche Libano, Giordania, e Spagna. Tuttavia, ammonisce, un problema resta ed è quello del “traffico dei migranti” e delle “carceri libiche: mutilano, torturano e poi buttano nelle fosse comuni”. Per questo chiede una sorta di piano Marshall per l’Africa: “Un piano di emergenza per investire in quei Paesi e per dare lavoro e istruzione”. L’Africa non può essere “sfruttata”, occorre investire. Così Francesco, nella conferenza stampa sul volo di ritorno da Ginevra dove ha partecipato a una giornata ecumenica con altere confessioni cristiane. Santo Padre, abbiamo viste cosa è capitato con la nave Aquarius fra Italia e Spagna e la separazione delle famiglie negli Stati Uniti. Pensa che i governi strumentalizzino il dramma dei rifugiati? “Ho parlato tanto dei rifugiati e i criteri sono in quello che ho detto: accogliere, accompagnare, sistemare, integrare. Sono criteri per tutti i rifugiati. Poi ho detto che ogni Paese deve fare ciò con la virtù del governo che è la prudenza, perché un Paese deve accogliere tanti quanti può e quanti può integrare, educare, dare lavoro. Questo è il piano tranquillo, sereno sui rifugiati. Stiamo vivendo un’ondata di rifugiati che fuggono da guerre e fame. Guerre e fame in tanti Paesi dell’Africa, persecuzioni in Medio Oriente. Italia e Grecia sono state generosissime ad accogliere. Per il Medio Oriente, la Turchia e la Siria ne hanno ricevuti tanti, il Libano anche. Il Libano ha tanti siriani libanesi, anche la Spagna ha fatto tanto. C’è però un problema con il traffico dei migranti, e anche c’è il problema quando in alcuni casi i migranti devono tornare indietro per accordi (rimpatri, ndr). Ho visto le fotografie delle carceri dei trafficanti in Libia. I trafficanti subito separano le donne e i bambini dagli uomini. Le donne e i bambini vanno solo dove Dio sa. E le carceri per chi è tornato sono terribili: nei lager della Seconda guerra mondiale si vedevano queste cose. E anche mutilazioni, e poi li buttano nelle fosse comuni. Per questo i governi si preoccupano che non tornino e non cadano nelle mani di questa gente. C’è una preoccupazione mondiale. So che i governi parlano di questo e vogliono trovare un accordo, modificare quello di Dublino. In Spagna avete avuto il caso di questa nave che è arrivata a Valencia. Tutto questo è un disordine. Il problema delle guerre è difficile da risolvere; come il problema della persecuzione dei cristiani in Medio Oriente e in Nigeria. Tanti governi europei stanno pensando a un piano di emergenza per investire in quei Paesi per dare lavoro ed educazione. Dico una cosa che sembra offendere ma è la verità: nell’incosciente collettivo c’è un pensiero brutto. L’Africa va sfruttata. Sono considerati schiavi e questo deve cambiare con dei piani di investimenti, di educazione, per far crescere perché il popolo africano ha tante ricchezze culturali e ha un’intelligenza grande. Sono bambini intelligentissimi che possono con una buona educazione andare oltre. Questa sarà la strada a mezzo termine. Ma devono mettersi d’accordo i governi e andare avanti con questa emergenza. Negli Stati Uniti invece c’è un problema migratorio grande e anche in America Latina: il problema migratori interno. Gente che lascia la campagna perché non c’è lavoro e va nelle grandi città in baraccopoli e poi c’è una migrazione esterna. Concretamente, per quanto riguarda gli Stati Uniti, dico quello che dicono i vescovi locali. Mi schiero con loro”. Pensa sia il caso per la Chiesa cattolica di riunirsi alle chiese della pace e mettere da parte la cosiddetta “guerra giusta”? “Oggi a pranzo un pastore ha detto che il primo diritto umano è il diritto alla speranza e mi è piaciuta questa cosa. Abbiamo parlato sulla crisi dei diritti umani oggi. La crisi dei diritti umani si vede chiaramente. Si parla dei diritti umani, ma tanti gruppi prendono le distanze. Sì i diritti umani, ma poi non ci sono forza, entusiasmo, condizioni. E questo è grave perché dobbiamo vedere le cause, quali sono le cause per le quali siamo arrivati al fatto che oggi i diritti umani sono relativi. Anche il diritto alla pace è relativo. È la crisi dei diritti umani. Tutte le chiese che hanno questo spirito di pace devono riunirsi e lavorare insieme: l’unità per la pace. Questa terza guerra mondiale se si farà sappiamo con quali armi. Ma se ci fosse una quarta si farà coi bastoni perché l’umanità sarà distrutta. Se si pensa ai soldi che si spendono in armamenti… La pace è il mandato di Dio. Oggi i conflitti non si risolvono più col negoziato, la mediazione è in crisi, crisi di speranza, di diritti umani, di pace. Ci sono religioni di pace: ma ci sono religioni di guerra? Difficile capire questo. È difficile, ma certamente ci sono alcuni gruppi in quasi tutte le religioni, gruppi piccoli, di fondamentalisti: cercano le guerre. Anche noi cattolici ne abbiamo qualcuno. Cercano sempre la distruzione e questo è importante averlo sotto gli occhi”. Qual è stato il momento della giornata odierna più significativo per lei? “Incontro, è stata una giornata di incontri, variegati. La parola giusta della giornata è incontro. Quando uno incontra un’altra persona sente il piacere dell’incontro e questo tocca il cuore. Sono stati incontri positivi, iniziati col dialogo col presidente che è stato un dialogo di cortesia, un dialogo profondo su argomenti mondiali profondi e con una intelligenza tale che sono rimasto stupito. Poi incontri che non avete visto, a pranzo, che mi ha molto colpito per il modo con cui sono stati portati tanti argomenti. Forse l’argomento sul quale siamo rimasti più tempo a parlare è quello dei giovani. Tutte le confessioni sono preoccupate e il pre Sinodo che è stato fatto a Roma dal 19 marzo in poi ha attirato tanto l’attenzione perché c’erano 315 giovani anche agnostici provenienti da tutti i Paesi. Questo ha segnato un interesse speciale. La parola che mi dà la totalità del viaggio è incontro, è stato un viaggio dell’incontro, l’esperienza dell’incontro, nessuna scortesia, un incontro umano” Lei parla spesso di passi concreti nell’ecumenismo. Oggi ha nuovamente parlato in merito dicendo “vediamo ciò che è possibile fare concretamente piuttosto che scoraggiarsi per ciò che non lo è”. I vescovi tedeschi hanno deciso di fare un passo (sul tema della comunione nei matrimoni misti fra cattolici e protestanti, ndr). Come mai l’arcivescovo Luis Ladaria ha scritto una lettera che invece sembra fare un passo indietro? Dopo il 3 maggio è stato detto che vescovi dovevano trovare una soluzione all’unanimità. Quali i prossimi passi? Ci sarà un intervento del Vaticano? “Non è una novità perché nel codice di diritto canonico è previsto quello di cui i vescovi tedeschi parlano: la comunione nei casi speciali. Loro parlavano del problema dei matrimoni misti. Il codice dice che il vescovo della Chiesa particolare deve decidere, la cosa è nelle sue mani. Questo dice il codice. I vescovi tedeschi hanno studiato per più di un anno. Il documento uscito è stato fatto con spirito ecclesiale. E hanno proposto il documento alla Chiesa locale. Ma il codice prevede che il vescovo si esprima in merito e non la conferenza episcopale, perché una cosa approvata nella conferenza episcopale diventa universale e questa è stata la difficoltà riscontrata. Ci sono stati due o tre incontri di dialogo e Ladaria ha inviato la lettera ma col mio permesso, non l’ha fatto da solo. Io ho detto sì: è meglio dire che si deve studiare di più. C’è stata la riunione e studieranno la cosa per un nuovo documento. Credo che sarà un testo orientativo perché ognuno dei vescovi diocesani possa gestire quello che già il diritto canonico permette loro. Nessuna frenata, dunque, è piuttosto reggere la cosa perché vada per la buona strada. Quando ho visitato la Chiesa luterana di Roma ho risposto secondo il codice di diritto canonico che è lo spirito che loro cercano adesso. Una parola che voglio dire in conclusione è che oggi è stata è stata una giornata ecumenica. A pranzo abbiamo detto una bella cosa: nel movimento ecumenico dobbiamo togliere dal dizionario una parola: proselitismo. Non ci può essere ecumenismo con proselitismo. O si è con spirto ecumenico o un si è un “proselitista”. Cannabis light, il Consiglio superiore di sanità: “no alla libera vendita” Corriere della Sera, 22 giugno 2018 Secondo il Css “non può essere esclusa la pericolosità” e quindi “raccomanda che siano attivate nell’interesse della salute individuale e pubblica misure atte a non consentire la libera vendita”. Il Consiglio superiore di sanità (Css) ha detto “no” alla vendita di cannabis light. In un parere richiesto a febbraio dal segretariato generale del ministero della Salute - come comunica il sito di “Quotidiano sanità” e conferma anche l’agenzia Adnkronos - l’organo consultivo sottolinea che “non può essere esclusa la pericolosità dei prodotti contenenti o costituiti da infiorescenze di canapa” e quindi “raccomanda che siano attivate nell’interesse della salute individuale e pubblica misure atte a non consentire la libera vendita”. “La pericolosità non può essere esclusa” - Al Css sono stati posti due quesiti: se questi prodotti siano da considerarsi pericolosi per la salute umana, e se possano essere messi in commercio ed eventualmente a quali condizioni. Quindi, riguardo alla prima domanda, il Consiglio “ritiene che la pericolosità dei prodotti contenenti o costituiti da infiorescenze di canapa, in cui viene indicata in etichetta la presenza di ‘cannabis’ o ‘cannabis light’ o ‘cannabis leggerà, non può essere esclusa”. “La biodisponibilità di Thc anche a basse concentrazioni (0,2%-0,6%, le percentuali consentite dalla legge, Ndr) - si legge nel parere del Css - non è trascurabile, sulla base dei dati di letteratura; per le caratteristiche farmacocinetiche e chimico-fisiche, Thc e altri principi attivi inalati o assunti con le infiorescenze di cannabis sativa possono penetrare e accumularsi in alcuni tessuti, tra cui cervello e grasso, ben oltre le concentrazioni plasmatiche misurabili; tale consumo avviene al di fuori di ogni possibilità di monitoraggio e controllo della quantità effettivamente assunta e quindi degli effetti psicotropi che questa possa produrre, sia a breve che a lungo termine”. E ancora, al Css “non appare in particolare che sia stato valutato il rischio al consumo di tali prodotti in relazione a specifiche condizioni, quali ad esempio età, presenza di patologie concomitanti, stati di gravidanza/allattamento, interazioni con farmaci, effetti sullo stato di attenzione, così da evitare che l’assunzione inconsapevolmente percepita come ‘sicurà e ‘priva di effetti collaterali’ si traduca in un danno per se stessi o per altri (feto, neonato, guida in stato di alterazione)”. “Motivo di preoccupazione” - Quanto al secondo quesito posto dal segretariato generale del ministero della Salute, il Css ritiene che “tra le finalità della coltivazione della canapa industriale” previste dalla legge 242/2016 - quella che ha “aperto” al commercio, oggi fiorente, della cannabis light - “non è inclusa la produzione delle infiorescenze né la libera vendita al pubblico; pertanto la vendita dei prodotti contenenti o costituiti da infiorescenze di canapa, in cui viene indicata in etichetta la presenza di cannabis o cannabis light o cannabis leggera, in forza del parere espresso sulla loro pericolosità, qualunque ne sia il contenuto di Thc, pone certamente motivo di preoccupazione”. Sulla base delle opinioni espresse dal Css, sempre a quanto apprende l’Adnkronos Salute, il ministero della Salute ha anche richiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che non sarebbe ancora arrivato La cannabis legale - Con l’approvazione della legge numero 242 del 2 dicembre 2016 dal titolo “Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa” che ha disciplinato il comparto con lo scopo di rilanciare l’industria di settore. Con la nuova norma non è, infatti, più necessaria alcuna autorizzazione per la semina di varietà di canapa certificate con contenuto di Thc al massimo dello 0,2%, fatto salvo l’obbligo di conservare per almeno dodici mesi i cartellini delle sementi utilizzate. La percentuale di Thc nelle piante analizzate può inoltre oscillare dallo 0,2% allo 0,6% senza comportare alcun problema per l’agricoltore. In Italia oltre 4mila ettari coltivati, circa 2mila piccoli produttori e un giro d’affari potenziale da 40 milioni di euro. Blitz a Macerata - Intanto a Macerata la polizia ha chiuso due esercizi commerciali specializzati proprio nella vendita di prodotti a base di cannabis light. Indagato il titolare dell’attività per spaccio di sostanze stupefacenti: dalle analisi, infatti, è emerso che quella venduta era “vera e propria” sostanza stupefacente, nella fattispecie marijuana, con principio attivo di 0,60%. Cannabis light store, l’ultima frontiera del proibizionismo di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 giugno 2018 Il ministro della famiglia (unica) Lorenzo Fontana possibile nuovo delegato alle droghe. Silvio Garattini, membro del Consiglio superiore di sanità boccia i nuovi negozi. Oggi 4mila ettari di campagne italiane coltivate a canapa con basso Thc (400 nel 2013). “Noi a rischio chiusura? - dice la ragazza dietro al bancone di un negozio romano - Non so, forse con Salvini può essere, ma al governo c’è anche il Movimento 5 Stelle, loro sostenevano addirittura la legalizzazione della marijuana. Non questa roba, quella vera”. Eppure da ieri mattina l’inquietudine è tangibile, nella miriade di Cannabis light store nati nell’ultimo anno come funghi in ogni città italiana, soprattutto se a improvvisarsi venditore di saponette, cosmetici, infusi rilassanti, biscottini o caramelle aromatizzati alla marijuana c’è qualche giovane che ha riposto le sue speranze di cambiamento nell’urna delle ultime elezioni, abbandonando i vecchi partiti di sinistra e aprendosi al nuovo che avanza. Peccato che ieri mattina - mentre i rumors del Dipartimento nazionale anti-droghe davano per nuovo delegato alle droghe proprio il più cattolico dei ministri, il titolare della famiglia (unica) Lorenzo Fontana che il 27 giugno prossimo sarà in Parlamento per la presentazione della relazione annuale - il discusso farmacologo Silvio Garattini, noto per le sue posizioni proibizioniste, membro del Consiglio superiore di sanità, faceva trapelare una notizia vecchia di qualche mese ma utile al nuovo corso: la sua personale stroncatura dei cannabis light store contenuta in una lettera inviata al Ministero della salute. L’allora ministra Lorenzin, durante la passata legislatura, aveva infatti chiesto al Css di rispondere a due domande in particolare che riguardavano i nuovi cannabis store. Con una lettera “non ufficiale” datata 10 aprile ma inviata dal Css, Garattini, direttore scientifico dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, aveva risposto bollando come “potenzialmente pericolosi” i prodotti contenenti infiorescenze di canapa sativa, sia pure se con contenuto di Thc inferiore allo 0,6% (come previsto dalla legge 242/2016 che, promuovendo la coltivazione e la filiera agroindustriale della canapa non psicotropa, ha permesso l’apertura di questo tipo di negozi). Garattini inoltre raccomandava al ministero “che siano attivate, nell’interesse della salute individuale e pubblica e in applicazione del principio di precauzione, misure atte a non consentire la libera vendita dei suddetti prodotti”. Presa un po’ in contropiede dal can-can sollevato da Garattini, l’attuale ministra della Salute, la pentastellata Giulia Grillo, ha fatto sapere in una nota di aver “investito della questione l’Avvocatura generale dello Stato per un parere anche sulla base degli elementi da raccogliere dalle altre amministrazioni competenti (Presidenza del Consiglio e ministeri dell’Interno, Economia, Sviluppo economico, Agricoltura, Infrastrutture e trasporti). Non appena riceverò tali indicazioni - conclude la ministra Grillo - assumerò le decisioni necessarie, d’intesa con gli altri ministri”. In molti, come il direttore di Fuoriluogo.it, Leonardo Fiorentini o l’Associazione Luca Coscioni per la ricerca scientifica fanno notare che l’Oms a Ginevra ha appena avviato, per la prima volta nella storia, “una revisione delle proprietà terapeutiche della cannabis con probabile declassificazione della sua pericolosità nelle tabelle internazionali”. Senza parlare del fatto che anche il Canada, con la recente legalizzazione della marijuana per uso ricreativo, ha abbandonato la vecchia e inefficace via del proibizionismo per abbracciare quella delle evidenze scientifiche, sconosciute ormai solo ai sostenitori delle scie chimiche o del finto sbarco sulla luna. Eppure, opporsi alla vendita di prodotti che hanno l’effetto psicotropo della camomilla (le infiorescenze della canapa sativa per uso stupefacente ha un contenuto minimo di Thc che va dal 6 al 10%, e può arrivare a percentuali molto alte) è davvero il volto più evidente della propaganda proibizionista, che demonizza il mercato legale per far crescere quello illegale. Qualsiasi decisione voglia prendere in merito il governo giallo-verde, dovrà però fare i conti con una filiera che nel giro di pochi mesi o anni ha conosciuto un exploit davvero notevole. Basti pensare che la Coldiretti stima 4000 ettari di campagne italiane coltivate a canapa sativa nel 2018, mentre erano 400 ettari nel 2013. Si noti che con la nuova legge non è necessaria l’autorizzazione per coltivare canapa con Thc inferiore allo 0,2%. Per la coltivazione e la vendita di piante, fiori e semi con Thc compreso tra lo 0,2% e lo 0,6%, invece, la Coldiretti stima “un giro d’affari potenziale di oltre 40 milioni di euro”. Il gioco pericoloso dell’Italia in Europa Lucia Abellún e Daniel Verdú Internazionale, 22 giugno 2018 Il governo guidato dalla Lega e dai Cinque Stelle sembra voler cambiare le alleanze di Roma nell’Unione. L’Italia si muove. E il suo riallineamento incide sul precario equilibrio dell’Unione europea. Il nuovo governo populista, formato dalla Lega e dal Movimento 5 stelle, ma di fatto guidato dal ministro dell’interno leghista Matteo Salvini, ha sconvolto nelle ultime settimane il tradizionale schema di alleanze in Europa. La crisi migratoria (politica, non di cifre) riaccesa dal caso Aquarius sta spingendo il governo di Roma a cercare nuovi alleati sullo scacchiere comunitario. Anche certe dissonanze in politica estera minacciano tempesta. Le prossime settimane saranno decisive per capire la portata del riassestamento italiano nell’ambito dell’Unione europea. Il presidente del consiglio italiano Giuseppe Conte ha debuttato al G7 che si è tenuto l’8 giugno in Canada. È apparso spiazzato, distaccato dai partner internazionali. Al momento di prendere posizione ha espresso vicinanza al presidente degli Stati Uniti Donald Trump e apertura nei confronti della Russia di Vladimir Putin, due punti del contratto di governo tra la Lega e i Cinque Stelle. L’apertura verso Mosca era scontata. Già in passato i Cinque Stelle e la Lega avevano stabilito delle alleanze con il governo di Putin. Per giustificare l’opposizione alle sanzioni economiche che dal 2014 l’Unione europea applica alla Russia in seguito all’annessione della Crimea, la Lega sostiene che questa operazione è già costata all’Italia circa cinque miliardi di euro. In realtà, come ammettono fonti interne al partito, l’obiettivo è cercare un alleato potente, più che attenuare gli effetti delle sanzioni sull’economia: “Non è una novità. Silvio Berlusconi ha già avuto un canale diretto con Putin e ha funzionato”. Il 18 giugno, il Consiglio europeo ha rinnovato per altri dodici mesi le sanzioni contro la Russia, ma non era questo il capitolo che più preoccupava Bruxelles. La tensione legata alla questione migratoria è più urgente. Il fatto che l’Italia non si faccia più scrupoli sull’immigrazione e abbia rifiutato l’attracco nei suoi porti a una nave che trasportava più di seicento migranti, ha aperto la strada alle posizioni più radicali. “La cosa curiosa è che questo aumento di tensione arriva in un momento in cui le cifre sugli arrivi dei migranti sono più basse rispetto agli anni scorsi, una dimostrazione del fatto che le soluzioni europee funzionano”, dicono fonti diplomatiche di uno dei grandi paesi dell’Unione europea. Concludere il prossimo vertice europeo uniti di fronte a un mondo sempre più turbolento è l’obiettivo principale delle istituzioni comunitarie. Il presidente del consiglio europeo Donald Tusk, in viaggio in diverse capitali europee, tra cui Roma, Madrid, Budapest, Vienna e Berlino, ha invitato gli stati a trovare entro giugno un accordo sul sistema d’asilo. Tusk cercherà di strappare almeno un impegno minimo sull’immigrazione. Lo spera anche la cancelliera tedesca Angela Merkel, assediata dai suoi alleati bavaresi dell’Unione cristiano-sociale Csu), con richieste più vicine all’Italia di Salvini che all’ortodossia tedesca. “La posizione italiana crea inquietudine e disagio nell’Unione europea, soprattutto considerando il contesto: Trump negli Stati Uniti, la Brexit e la presidenza austriaca dell’Unione alle porte. La cosa peggiore è che l’Italia oggi è imprevedibile”, sintetizza un’altra fonte diplomatica. Il cambiamento di posizione dell’Italia non dovrebbe sorprendere. Ma fino a che punto il paese può cambiare le sue alleanze? Emma Bonino, ex ministra degli esteri e attuale senatrice di +Europa, non è sicura che la minaccia sia reale. “Lo vedremo nei prossimi mesi. Non ho ancora capito se questi siano messaggi reali o solo le ultime battute della campagna elettorale. La Lega prende a modello i sistemi di governo di Putin e di Orban. Se ci fosse un cambiamento in questo senso sarebbe un errore politico enorme. L’obiettivo dev’essere consolidare l’Europa e i valori occidentali dell’Unione europea”, dice in un’intervista telefonica. Le linea dura sull’immigrazione, condivisa dai ministri dell’interno tedesco, austriaco e ungherese è una novità per l’Italia. Federico Niglia, che insegna storia delle relazioni internazionali alla Luiss, crede che sia molto pericoloso. “I governi precedenti sono stati molto cauti. Berlusconi ha fatto molte cose, ma non ha mai puntato su queste alleanze. Nessuno ha oltrepassato la linea rossa. Il rischio è isolare l’Italia. Il dialogo con paesi come Ungheria e Polonia, che hanno inclinazioni antirusse, potrebbe mettere a rischio i rapporti con Putin. Prima o poi questa incoerenza verrà fuori. Gli interessi dell’Italia sono in Francia e in Germania. Il futuro dell’industria della difesa europea e gli affari che ne derivano passano da lì. Soprattutto dopo la Brexit”. Le turbolenze italiane toccano altri settori dell’Unione europea, come i trattati di libero scambio. Gian Marco Centinaio, ministro dell’agricoltura, della Lega, ha detto che chiederà di non ratificare l’Accordo economico e commerciale globale (Ceta), il trattato di libero scambio con il Canada che ha destato molti sospetti in diverse capitali europee. “I dubbi sono gli stessi di altri colleghi europei. Non è solo la posizione della Lega”, dice. Una mossa nata dalla pressione di alcuni produttori italiani, ma sempre più lontana dalla visione degli alleati tradizionali dell’Italia. Stati Uniti. Guantánamo dei bambini, la vergogna rinnegata di Federico Rampini La Repubblica, 22 giugno 2018 È qui che la tolleranza zero di Donald Trump sugli immigrati clandestini ha subito la sua prima disfatta. Gli avversari l’hanno chiamata la sua Guantánamo dei bambini. Oppure la Katrina di Trump, nel ricordo dell’uragano che devastò la Louisiana, la vergogna che macchiò l’Amministrazione Bush per la sua indifferenza di fronte alla tragedia. A queste tende “invisibili” che imprigionano bambini tuttora separati dai genitori, si arriva viaggiando lungo il confine Texas-Messico, quaranta minuti di autostrada da El Paso. Si costeggia quella recinzione fortificata a perdita d’occhio che è già una barriera insormontabile, ancor prima che Trump ci costruisca (se mai ci riuscirà) il Muro dei suoi sogni. Si lascia l’autostrada I-10 all’ultimo MacDonald con hamburger al guacamole, si esce a Fabens, si raggiunge Turnillo dove c’è uno dei ponti internazionali di passaggio verso Ciudad Juarez in Messico. Le bandiere a stelle e strisce qui sono affiancate dall’orgoglioso vessillo texano, la stella unica, Lone Star. La temperatura oggi tocca i 42 gradi all’ombra. Siamo praticamente nel deserto. Se volevano nascondere il campo dei bambini, hanno scelto bene. In quest’area desolata e sperduta ora lo scandalo ha attratto il mondo dei media, incontro altri reporter e fotografi venuti da Miami, dal New Mexico, dalla Germania. Ma le tende della vergogna restano comunque inaccessibili, centinaia di metri di deserto e tante barriere recintate ci separano. Gli agenti della Border Patrol hanno ordini severi, ci circondano e ripetono inflessibili: “Non potete avvicinarvi, niente foto né video da qui”. Di rincalzo agli agenti federali ogni tanto veniamo avvicinati da vigilantes privati con strane divise - il business della lotta all’immigrazione clandestina ha la sua galassia dei subappalti - anche loro impegnati a sorvegliarci. I colleghi delle ricche tv americane hanno rubato immagini aeree grazie a elicotteri e droni (720 dollari di affitto per mezz’ora di ripresa). È solo sfuggendo nei cieli alla Border Patrol che si sono ottenute dall’alto le foto di quei bimbi in fila, all’ingresso dalle tende. Poi un visitatore segreto ha registrato e passato alla ong ProPublica i pianti e i singhiozzi, per la separazione brutale dai genitori arrestati e deportati altrove. L’attenzione dei media ha aiutato almeno Rubén García, fondatore e direttore dell’Annunciation House. La sede di questa istituzione la visito nel centro di El Paso, è una decrepita palazzina di mattoni rossi, un piccolo porto di transito dove incontro migranti dal Sudamerica, dall’Asia e dall’Africa: salvo i bambini, tutti hanno il braccialetto elettronico ai polsi o alle caviglie. Arriva perfino - scortato da un’altra polizia privata dalla sigla misteriosa - un gruppo di brasiliani del Minas Gerais, nel loro lungo e tortuoso itinerario hanno scelto di tentare la fortuna con una domanda di asilo qui al confine di El Paso. Annunciation House fu creata nel 1976 da cattolici ispanici, ammiratori di Martin Luther King. Offre assistenza e consulenza legale ai migranti, li ospita mentre sono in transito verso tribunali e centri d’accoglienza, mantiene fitti rapporti con associazioni umanitarie dei paesi d’origine. Oggi Rubén García accompagna due famiglie di migranti nella traversata del ponte da Ciudad Juarez a El Paso, scortato dai giornalisti e ripreso dalle telecamere. I genitori portano dei cartelli. “Siamo richiedenti asilo. Fuggiamo dal nostro Paese per la paura e il pericolo”. “Così è trasparente - dice García - stanno seguendo le regole, rispettano la legge degli Stati Uniti, vogliono entrare secondo le procedure per l’esame delle richieste d’asilo”. Fino a pochi giorni fa, prima dello scandalo, prima dell’arrivo dei media, non c’erano garanzie di sfuggire all’arresto, né di evitare la separazione tra genitori e figli. “Non avevo mai visto nulla di simile - dice García - in quarant’anni e sotto Amministrazioni di ogni colore, erano state tutte un po’ migliori di questa”. Ora non si respira affatto un’atmosfera di vittoria, malgrado la clamorosa retromarcia di Trump. Qui sul terreno, nel punto di transito Messico-Usa più controverso per via delle tende dei bambini, nessuno sembra sicuro che ci sia stata una vera svolta. Certo il presidente è stato sorpreso e sopraffatto dalla forza delle condanne, in America e nel mondo. Ha dovuto rinnegare se stesso, ha firmato un decreto esecutivo che impone di tenere unite le famiglie anche in caso di arresto. Ma la formulazione dell’editto è piena di ambiguità, che non sfuggono agli esperti di diritto né ai volontari dell’assistenza umanitaria. Trump ribadisce tolleranza zero, quindi l’arresto senza eccezioni per l’immigrazione clandestina. Promette di non separare più genitori e figli, ma non dice quale sarà il destino dei 2.300 minori già strappati dai genitori e reclusi in centri di detenzione come le tende di Turnillo. Trump non ha affatto promesso che non metterà più i bambini in gabbia: ha solo annunciato che in futuro saranno nelle stesse gabbie dei genitori. Ma esistono poche carceri attrezzate per ospitare famiglie intere. E la legge - finché non viene riformata dal Congresso - stabilisce che i minori non possano essere trattenuti oltre i primi 20 giorni. Dove finiranno, se l’esame preliminare sui genitori dura più a lungo? Il clima politico qui a El Paso - isola democratica dentro un Texas repubblicano - non è quello di New York o Los Angeles. Ieri sono venuti a manifestare sindaci progressisti da tante città americane, incluso il newyorchese Bill de Blasio. Anche loro tenuti a debita distanza dalla Border Patrol, con divieto di avvicinarsi alle tende dei bambini. Ma la “progressista” El Paso ha bocciato in un referendum la costruzione di un nuovo ponte verso il Messico, perché pensa che ce ne siano già fin troppi. La mia autista Uber, Belinda, è ispanica ma da 23 anni non osa varcare la frontiera “perché di là c’è troppa violenza, hanno dovuto perfino chiudere il Luna Park di Ciudad Juarez per le sparatorie”. Sul tema dei minori strappati ai genitori alterna l’affetto (“me ne prenderei qualcuno io”) e la diffidenza: “Se non vogliono che i loro figli finiscano in un carcere americano, non devono attraversare la frontiera illegalmente, punto e basta”. Di certo la tolleranza zero non ha avuto il risultato principale che sperava Trump, quello su cui puntavano i suoi collaboratori John Kelly (Chief of Staff), Jeff Sessions (ministro della Giustizia), Kirstjen Nielsen (capa della Homeland Security). Doveva esserci secondo loro un potente effetto-annuncio: il messaggio da far pervenire ai Paesi d’origine, per dissuadere chi vuole tentare il viaggio della speranza. Gli ultimi dati dell’Onu sono usciti proprio ieri: gli Stati Uniti tra il 2016 e il 2017 cioè in piena Amministrazione Trump hanno visto aumentare del 27% le richieste di asilo. Con 331.700 richiedenti, sono di gran lunga il paese numero uno, molto davanti alla Germania (198.300). E se fin qui a El Paso sono arrivati perfino dei brasiliani dal Minas Gerais, vuol dire che le filiere sono ben organizzate. Il ruolo delle ong umanitarie sembra impallidire di fronte a gruppi privati che sul business dell’accoglienza hanno creato dei piccoli imperi. La Southwest Key di Juan Sánchez domina gli appalti per i centri di accoglienza, grazie agli ottimi rapporti con la destra repubblicana che governa il Texas. Il giro d’affari di tutti questi business privati è stato stimato a 1,5 miliardi l’anno. Vi rientra anche il centro di accoglienza per minorenni Shiloh Residential Treatment a Manvel, Texas, oggetto di una dettagliata denuncia per l’abuso di psicofarmaci, imposti ad alcuni minori senza assistenza medica. La denuncia è stata presentata ad aprile ma i fatti cominciano nel periodo 2011-2014, durante l’Amministrazione Obama. Stati Uniti. La linea dura di Trump nel caos: alt ai fermi di famiglie migranti di Marina Catucci Il Manifesto, 22 giugno 2018 Mentre la Camera cerca ancora di trovare una soluzione legale che mantenga la promessa della tolleranza zero per la protezione dei confini, ma senza separare i bambini dai genitori, per il Washington Post gli agenti delle pattuglie di frontiera sono già stati istruiti per interrompere la pratica di mandare i migranti illegali con figli davanti ai tribunali federali, e di smettere di perseguirli. “Stiamo sospendendo le azioni penali sugli adulti membri di nuclei familiari - ha detto un alto funzionario dell’immigrazione al Wp - fino a quando l’Ice (Dipartimento immigrazione e dogana) non avrà risorse per accogliere in custodia tutti i soggetti”. L’ennesimo dietrofront arriva il giorno dopo la firma di Trump dell’ordine esecutivo che impedisce la separazione dei bambini dai genitori che cercano di entrare illegalmente in Usa; questo decreto, però, non sembra tener conto delle leggi che proibiscono la detenzione di minori per più di 20 giorni, rendendolo di difficile applicazione, per cui, per evitare di dover scrivere un fuoco di fila di ordini esecutivi, la soluzione a cui si è arrivati è stata quella di smettere di perseguire gli illegali con figli a seguito. Si è passati, in pochi giorni, dalla posizione più dura e inumana mai vista dal governo Usa, ad una anche più permissiva di quella originaria, di certo lontana anni luce dalle intenzioni di Trump che ha appreso questa notizia con rabbia subito riversata in una serie di tweet e nella riunione di Gabinetto, dove ha subito attaccato gli “estremisti democratici fautori delle frontiere aperte”. Trump ha nominato espressamente la leader della minoranza democratica alla Camera, Nancy Pelosi, e il senatore Schumer, leader democratico in senato, ed ha continuato dicendo che “la gente sta soffrendo a causa dei democratici”, per poi parlare dei trafficanti di esseri umani che sfruttano quelle che ha definito “scappatoie democratiche”. Poi Trump ha detto di non volere separare i bambini dai loro genitori, ma che la soluzione per salvare capre e cavoli la deve trovare il Congresso, mantenendo la tolleranza zero “senza la quale i nostri confini sarebbero invasi”. Per fare questo, ha aggiunto Trump, c’é però bisogno della collaborazione dell’opposizione, ed ha chiesto ai democratici che poco prima aveva additato come l’originale di tutti i mali, di collaborare: “Possiamo fare qualcosa di storico - ha detto - ma abbiamo bisogno dei voti dei democratici o nessuna legge potrà passare”, ed ha invitato proprio Pelosi e Schumer a parlare con lui. La Camera sta in effetti cercando di trovare una soluzione ma, come ha detto il corrispondente dalla Casa Bianca per il portale di notizie online The Hill, la parola del giorno è “confusione”. Sembra impossibile riuscire ad implementare una politica rigida come quella auspicata da Trump senza infrangere almeno una dozzina di leggi preesistenti e mantenere un livello etico minimo. Nel frattempo sindaci e governatori si stanno organizzando in una cordata di resistenza: Keisha Lance Bottoms, sindaco di Atlanta, ha firmato un ordine esecutivo che impedisce di accogliere nelle prigioni della sua città, nuovi detenuti da parte dell’Ice; la lega di US Mayor, sindaci americani, a cui hanno aderito tra gli altri due figure diversissime tra loro, come il sindaco di New York Bill De Blasio e quello di Chicago, Rahm Emanuel, sono andati a Tornillo, in Texas, per entrare in una tendopoli costruita dal governo federale dove sono tenuti i bambini. La narrativa scaturita dalla visita dei sindaci e quella di Melania Trump, anche lei in visita ai bambini separati dai genitori, non sono sembrate combaciare: mentre i sindaci hanno parlato di bambini traumatizzati, con punture di bedbugs sul corpo e in stato di chock, la first lady, pur dicendosi contraria alla pratica delle separazioni familiari non sembra aver visto le condizioni in cui vengono tenuti questi bambini. Ungheria. Amnesty contro il governo “resisteremo alle leggi anti-Ong” La Repubblica, 22 giugno 2018 Il Parlamento magiaro ha approvato la cosiddetta legge “Stop Soros” che punirà come reato penale ogni aiuto ai migranti illegali fornito da Ong o da qualsiasi organizzazione umanitaria. “Il parlamento di Budapest ha approvato un pacchetto di leggi che criminalizza una serie di legittime attività in favore dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati protette dal diritto internazionale dei diritti umani e dalle leggi dell’Unione europea. Coloro che violano la nuova normativa rischiano fino a un anno di carcere”. Inizia così il comunicato che annuncia la presa di distanza dell’ong Amnesty dal governo ungherese che continua con la politica del pugno di ferro nei confronti di immigrazione e terzo settore. Contro chi aiuta. Tra le norme approvate c’è il cosiddetto “VII emendamento” alla Costituzione che infligge un altro colpo ai diritti umani e allo stato di diritto. Il testo proibisce il reinsediamento di popolazioni straniere in territorio ungherese, limita lo svolgimento di proteste pacifiche, pregiudica l’indipendenza del potere giudiziario, introduce il reato di assenza di fissa dimora e chiede alle autorità dello stato di proteggere la “cultura cristiana” dell’Ungheria. Il rapporto. “In occasione del voto odierno - si legge sul sito - abbiamo pubblicato il report intitolato “Ungheria: le nuove leggi che violano i diritti umani, minacciano la società civile e compromettono lo stato di diritto devono essere accantonate”“. Da anni, la società civile in Ungheria è esposta a una campagna di diffamazione da parte delle autorità. Gli ultimi attacchi hanno riguardato circa 200 attivisti, accademici, avvocati, giornalisti e altre figure che hanno criticato il governo. Nel giorno dei rifugiati. “Notiamo con amara ironia che, proprio durante la Giornata mondiale del rifugiato, l’Ungheria ha approvato una legge che prende di mira le persone e le organizzazioni che stanno dalla parte dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati”, ha detto la direttrice di Amnesty International per l’Europa Gauri van Gulik. Un governo contro. Il 29 maggio, con la maggioranza assoluta detenuta dalla Fidesz (il partito di Orbán, membro dei Popolari europei) allo Orszagház, il Parlamento magiaro ha approvato la cosiddetta legge “Stop Soros” che punirà come reato penale ogni aiuto ai migranti illegali fornito da Ong o da qualsiasi organizzazione umanitaria. Secondo la legge, qualsiasi organizzazione e singolo cittadino che si renda colpevole di aiuto a entrare e restare in Ungheria a persone che non hanno i titoli per chiedere asilo politico sarà passibile di pene detentive. Gli alieni. Una seconda legge, sempre promossa dalla maggioranza, afferma che sarà necessario introdurre un emendamento nella Costituzione ungherese per affermare esplicitamente che sarà vietato a qualsiasi popolazione aliena (cioè in sostanza non conforme con valori occidentali e cristiani del paese magiaro) insediarsi o essere aiutata a insediarsi in Ungheria. Oltre 22mila persone provenienti da più di 50 paesi hanno inviato messaggi di amore e solidarietà alla società civile ungherese, invitando i politici a votare contro questa proposta dannosa. Dall’Italia 37 milioni di armi al Camerun di Fabrizio Floris Il Manifesto, 22 giugno 2018 La relazione del Senato. Export clamoroso, nel 2017, verso un paese in preda a una escalation militare. Ogni anno il Senato pubblica una piccola relazione sulle autorizzazioni concesse in base alla legge 185 del 1990 ad esportare armi verso paesi stranieri (Relazione governativa al Parlamento sull’export italiano di armamenti). Un documento un po’ criptico e pieno di lacune perché indica solo le cifre e non che tipo di armamento è stato venduto, da cui tuttavia si può ricavare qualche informazione. In particolare colpisce la cifra di 35 milioni attribuita a vendite verso il Camerun nel 2017 (negli anni precedenti era zero): una sola autorizzazione per armi automatiche, siluri, bombe, razzi, missili e apparecchiature elettroniche. Verso un Paese dove è in corso un’escalation militare che contrappone il governo centrale e alcuni gruppi separatisti nel sudovest anglofono ribattezzato Ambazonia lo scorso ottobre. I leader sono tutti in carcere, si susseguono violenze e attentati con decine di morti (34 solo lo scorso 26 maggio) e migliaia di sfollati e rifugiati che trovano riparo nella vicina Nigeria. Secondo l’ultimo rapporto sul paese pubblicato da Amnesty International, lo scorso 11 giugno le forze armate camerunesi sono responsabili di “arresti arbitrari, torture, uccisioni illegali e distruzione di proprietà”. Tutte falsità secondo il ministro e portavoce del governo Issa Tchiroma Bakary che chiede alla comunità nazionale e internazionale di non farsi influenzare da queste manovre di disinformazione. Da parte sua Amnesty ha dichiarato che le sue conclusioni si basano su interviste approfondite con oltre 150 vittime e testimoni oculari delle violenze perpetrate nelle regioni anglofone negli ultimi mesi. Il rapporto documenta le violenze sia dell’esercito che dei separatisti e sostiene che il giro di vite del governo si è gradualmente trasformato in un conflitto armato, lasciando la popolazione schiacciata tra due violenze contrapposte, ma sulla loro pelle convergenti. Tutti fattori che in base alla legge italiana negherebbero ogni tipo di export militare. Per cui ci si chiede qual è la verifica che viene fatta dal parlamento se come indicato dalla legge è vietata “l’esportazione ed il transito di materiali di armamento quando siano in contrasto con la Costituzione (…) quando sono dirette verso i Paesi in stato di conflitto armato (…) verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani”. Yemen. Detenuti torturati e violentati da militari degli Emirati Arabi nena-news.it, 22 giugno 2018 Secondo l’agenzia statunitense Ap, i prigionieri, in cella senza accuse, sono stati sodomizzati, violentati, torturati da militari degli Emirati in almeno cinque carceri yemenite. Militari degli Emirati, alleati di quelli sauditi nella sanguinosa campagna militare contro i ribelli sciiti Houthi in Yemen, hanno abusato sessualmente e compiuto altre violenze sui nemici fatti prigionieri e su altri detenuti. Lo riferisce l’agenzia statunitense Associated Press (Ap) citando vittime e testimoni. Secondo la Ap, i prigionieri, in cella senza accuse, sono stati sodomizzati, violentati, torturati in almeno cinque prigioni. In quella di Beir Ahmed ad Aden, a marzo, centinaia di detenuti hanno subito abusi sessuali gravissimi. “Ti spogliano nudi, poi ti legano le mani a un palo d’acciaio da destra e da sinistra, quindi inizia la sodomizzazione”, ha detto un detenuto aggiungendo di non aver mai saputo di cosa fosse accusato. “Le guardie ci avevano detto che cercavano telefoni cellulari nascosti nei retti dei detenuti. È oltre ogni immaginazione…”, ha commentato il prigioniero. La AP ha anche ottenuto disegni fatti nella prigione raffiguranti gli abusi. “I disegni mostrano un uomo appeso nudo mentre viene colpito da scariche elettriche, un altro detenuto sul pavimento circondato da cani ringhianti mentre diverse persone lo prendono a calci e raffigurazioni grafiche di uno stupro anale”, ha scritto l’agenzia. L’anno scorso Human Rights Watch aveva accusato le forze armate degli Emirati di aver arrestato e fatto sparire arbitrariamente diversi yemeniti e di aver trasferito “detenuti al di fuori del paese”, compresa una base in Eritrea. Gli attivisti yemeniti dei diritti umani, che hanno rivelato e denunciato questi abusi, sono stati minacciati, molestati, detenuti, in alcuni casi sono scomparsi senza lasciare traccia”, aveva scritto Hrw lo scorso gennaio. Più di 10.000 persone sono state uccise da quando l’Arabia Saudita, gli Emirati e altri Paesi hanno lanciato la campagna di bombardamenti contro i ribelli Houthi. Campagna ha anche causato un’epidemia di colera e portato lo Yemen già impoverito sull’orlo della carestia. Gli Stati Uniti, che appoggiano gli Emirati Arabi Uniti e la coalizione a guida saudita dello Yemen, hanno negato di essere a conoscenza delle torture sessuali. Il portavoce del Pentagono, il maggiore Adrian Rankine-Galloway, ha dichiarato che Washington “non ha ricevuto accuse credibili” di abusi. Norvegia. La Corte Ue dei diritti umani respinge il ricorso di Breivik di Monica Perosino La Stampa, 22 giugno 2018 Nel 2011 aveva ucciso, uno dopo l’altro, con un incredibile sangue freddo, 69 adolescenti sull’isola di Utøya, in Norvegia. Un’ora prima erano state 8 le vittime delle sue bombe a Oslo. Nel 2016 Anders Behring Breivik, scontento per il “regime inumano di carcerazione”, aveva fatto ricorso alla Corte europea di Strasburgo. Ieri il suo ricorso è stato respinto: “manifestamente infondato”. Nell’istanza inviata alla Corte per i diritti umani, usando il nome Fjotolf Hansen, l’autore della strage di Utøya ha affermato che lo Stato norvegese “viola i suoi diritti a non essere sottoposto a maltrattamenti e alla privacy sottoponendolo all’isolamento, a perquisizioni, al controllo della corrispondenza e non curando la sua vulnerabilità mentale”. Ma i giudici della Cedu hanno determinato che non vi è stata alcuna violazione dei suoi diritti rispetto a tutti i punti sollevati. In particolare i togati di Strasburgo affermano che il regime di isolamento imposto a Breivik non supera la soglia necessaria per essere ritenuto un trattamento inumano o degradante, confermando così le conclusioni a cui erano arrivati i tribunali norvegesi. La Corte afferma che l’isolamento dell’uomo, necessario per garantire la sicurezza ma anche la salute di Breivik, non è totale e che le autorità hanno preso diverse misure affinché non lo fosse. Oltre ai contatti quotidiani con le guardie carcerarie, le autorità hanno offerto all’uomo la possibilità di avere contatti con un prete, infermiere, un visitatore volontario alla prigione, e con uno psicologo. La sequenza di denunce - Già due anni fa l’autore della strage di Utøya aveva minacciato lo sciopero della fame dichiarando di essere “pronto a morire” per protestare contro la sua condizione nel carcere di Skien, dove sta scontando una pena di 21 anni. Nel febbraio 2014 denunciava di essere vicino alla morte e chiedeva una nuova Playstation e più soldi. Poi decise di andare oltre: l’assassino di Utøya fece causa alle autorità norvegesi sostenendo di essere vittima di “detenzione inumana” e violazione dei diritti umani a causa del regime di isolamento. Aveva perso anche allora perché il tribunale aveva sottolineato che nel carcere modello il detenuto era “libero di muoversi, con accesso quotidiano ad uno spazio per fare ginnastica, guardare la tv e una console per i videogiochi”.