Il procuratore aggiunto di Potenza, Francesco Basentini, verso guida del Dap Agi, 21 giugno 2018 Il procuratore aggiunto di Potenza Francesco Basentini è in corsa per la guida del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha chiesto al Csm il collocamento fuori ruolo del magistrato, proprio per poterlo nominare a capo del Dap. Come vice di Basentini, il Guardasigilli ha intenzione di nominare Lina Di Domenico, magistrato di sorveglianza a Novara. Le richieste di collocamento fuori ruolo di Basentini e Di Domenico saranno ora all'esame della Terza Commissione di Palazzo dei Marescialli, che, acquisiti i pareri dei consigli giudiziari, presenterà le delibere al plenum che le dovrà approvare in via definitiva. Così il populismo ha cancellato il valore della parola giustizia di Francesco Petrelli* Il Foglio, 21 giugno 2018 Di tutti i poteri è il più fragile e il più spaventoso. Da bene collettivo e pacifico, principio fondante di ogni comunità civile progredita, si muta rapidamente in gogna, vendetta, purificazione. In quello straordinario film-documentario sulla crisi degli anni 70 che è “Prova d’orchestra”, Fellini fa dire ad uno dei musicanti chiusi a litigare in una stanza d’oratorio i cui muri vengono demoliti a colpi di caterpillar: “Dove va la musica quando noi finiamo di suonare?”. Ecco la domanda che oggi, nella crisi di passaggio verso la terza Repubblica, viene da porsi: “Dove vanno le parole quando noi abbiamo finito di pronunciarle?”. Si direbbe che oramai il parlare della politica non è più l’esercizio di una virtù pubblica ma una attività ginnica. Fra parola scritta e parola detta non vi è più alcuna differenza, entrambe si fanno volatili e reversibili. Entrambe rimuovono il senso anziché fondarlo. Sia l’una che l’altra assumono le fattezze di un sintomo narcisista, attività che servono solo ad esorcizzare il mondo, a tenerlo lontano dall’onta del pensiero, dai vezzi della ragione. Futili e veloci, taglienti e demolitrici, le parole vengono prodotte e assunte in dosi sempre maggiori per vincere il limite dell’assuefazione. Sono inebrianti come il loto. Dopo che l’hanno assaggiato è dura per i marinai di Ulisse tornare alla fatica dei remi. Tornare alla tessitura del pensiero, alla complessità dei nessi, alla sempre più ardua decifrazione della realtà quotidiana, alle sfide che l’eclissi della ragione ha lasciato aperte. Il mondo della giustizia è il primo a cadere sotto i colpi di questa destrutturazione della parola che si dà modestamente il nome di “populismo”, ma che attinge alle più evolute e sofisticate strategie del futuro governalismo tecnologico. La parola che non vale più niente, non solo apre infatti spazi enormi all’onda repressiva e autoritaria del potere, ma la fa apparire una risorsa, un bene collettivo. Il cittadino di questo nuovo stato ringrazia i governanti di averlo promosso a suddito plaudente. La giustizia cade per prima perché di tutti i poteri è il più fragile e il più spaventoso. Da bene collettivo e pacifico, principio fondante di ogni comunità civile progredita, si muta rapidamente in gogna, vendetta, purificazione, spettacolo osceno da tricoteuses 4.0. Come tutti i valori fragili l’idea stessa di giustizia risulta strumento formidabile, e a costo zero, per proiettare sull’altro ogni senso di colpa di una società incapace di indagare i propri limiti e la propria incultura. Il male per questo tipo di giustizia è sempre un “altrove”, un nemico da esorcizzare a colpi di certezza della pena, di giustizialismo, di emenda, di espiazione, di pene esemplari, di caccia al corrotto, di reati imprescrittibili per stanare il male, da qui all’eternità. Dire che il giustizialismo è cosa buona - come ha affermato Piercamillo Davigo - perché c’è dentro la parola “giustizia” significa giocare con le parole: anche nel nazionalsocialismo c’era la parola socialismo. S’è visto poi cosa fosse. L’impegno del pensiero pretende analisi più serie che facciano i conti con i nessi irrisolti della nostra democrazia che con la giustizia ha sempre avuto un miserrimo rapporto strumentale: clava da agitare contro l’avversario politico e contro il vicino di casa, mostro tentacolare quando se ne è disgraziatamente vittima. Chi in questi anni ha taciuto questa semplice verità oggi sembra schizzinosamente prendere la distanza dai vagheggiamento autoritario di questo nuovo “contratto sociale” che rivaluta il mito del “buon selvaggio”. Sebbene dovrebbe dirsi legittimato a tali giudizi solo chi ha praticato in questi anni l’autentico garantismo, difendendo dai soprusi allo stesso modo gli ultimi e i potenti, gli amici e i nemici, senza chiesa e senza partito, fra le alzate di spalle dei più e i sorrisetti di commiserazione, sono tutti i benvenuti. Insieme ai padri fondatori, ai democratici e ai liberali, a Turati e ai socialisti libertari, con Tortora e con Pannella. Questo programma sulla giustizia odora un poco di zolfo, ma non fa nulla, il ministro avvocato garantisce con la sua “storia personale”, assieme al capo del governo, a sua volta soi-disant “avvocato del popolo”. Le parole, scritte o alate che siano, non significano oramai più niente. Non costruiscono più né visioni né futuro. Mentre intanto, per restare nella metafora felliniana, i tribunali vengono giù a pezzi. *Segretario delle Camere Penali Il Csm ci prova: basta “inciuci” tra procure e media di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 21 giugno 2018 Magistrati e stampa: ecco le nuove regole. “Molto rumore per nulla”, potrebbe essere questo il sottotitolo delle “linee guida per la informazione giudiziaria” approvate dal Consiglio superiore della magistratura. Il titolo della commedia shakespeariana sintetizza bene lo sforzo del Csm per regolamentare un tema sensibile come quello della comunicazione giudiziaria: molte parole per non approdare ad una soluzione efficace che metta finalmente fine alle fughe di notizie. Indagine Consip docet. Chi si aspettava, infatti, regole puntuali per porre fine allo scambio di chiavette usb fra inquirenti e giornalisti sarà rimasto deluso. Ma forse non era questo lo scopo principale dell’Organo di autogoverno delle toghe. L’intento del Csm era quello di creare le basi per una comunicazione basata sulla “trasparenza e comprensibilità” dell’attività giurisdizionale, senza confliggere con il carattere segreto della funzione. Una corretta comunicazione “aumenta la fiducia dei cittadini nella giustizia, nello Stato di diritto rafforza l’Indipendenza della magistratura e l’autorevolezza delle Istituzioni”, si legge nella premessa alla circolare. In questa ottica il rapporto con i media diventa fondamentale. Sul punto, a dare manforte all’iniziativa del Csm, una raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa che prevede la creazione di posti di “portavoce giudiziario” affidati a professionisti della comunicazione. Anche se viene esclusa la possibilità di creare degli uffici stampa dedicati come accade in molti Paese europei. La Settima commissione, relatori i togati Nicola Clivio, Claudio Galoppi ed il laico Renato Balduzzi, si è avvalsa del contributo di giornalisti e scrittori di grido, come Francesco Giorgino e Gianrico Carofiglio, sotto la supervisione dell’ex presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio. Sono state effettuate audizioni con l’Ordine dei giornalisti, con il Consiglio nazionale forense e con l’Anm. Sono dunque indicate prassi uniformi su tutto il territorio nazionale che saranno oggetto di un costante monitoraggio e aggiornamento. La circolare diversifica l’attività per uffici requirenti, giudicanti, di merito. Le premesse sono essenzial- mente indicazioni di buon senso come evitare discriminazioni fra giornalisti e testate, creare canali comunicativi privilegiati, personalizzare l’ informazione, usare espressioni con giudizi di valore. La comunicazione deve poi essere di “effettivo interesse pubblico”. A tal riguardo sono previsti dei doveri nei confronti degli individui, come il rispetto della vita privata, dei minori, evitando vessazioni. E dei doveri di matrice processuale: rispetto del giusto processo, dei diritti della difesa, tutela della presunzione di non colpevolezza. Grande attenzione viene riposta ai termini da utilizzare. Si ribadisce la centralità del giudicato rispetto alla fase delle indagini preliminari ed il diritto dell’imputato a non apprendere dalla stampa quanto deve essergli comunicato in via riservata. Aspetto importante è la formazione dei magistrati alle nuove tecnologie e ai linguaggi media. Per gli uffici di Procura cambia molto poco. Il procuratore è e resta il responsabile dei rapporti con la stampa. Al procuratore- giornalista compete indicare la migliore strategia comunicativa, valutare rischi di una eccessiva mediatica, garantire una collaborazione efficace con i sostituti. L’informazione giudiziaria non deve poi interferire con le indagini. Alcune indicazioni paiono essere scontate come quella di non diffondere immagini di persone tradotte in manette o essere rispettosi del ruolo del giudice. Circa gli uffici giudicanti si pone attenzione alla valutazione delle prove, focalizzandosi sui casi di interesse economico, sociale, politico, tecnico e scientifico. Legittima difesa: la Lega presenta la legge di Giulia Merlo Il Dubbio, 21 giugno 2018 Il testo è stato depositato in Parlamento. “D’accordo anche Bonafede”. Matteo Salvini l’aveva annunciato per tutta la campagna elettorale, è ripetuto due giorni fa: “Con il mio collega titolare della Giustizia, Alfonso Bonafede, faremo di tutto per rendere concrete entro quest’anno le novità sulla legittima difesa”, e oggi c’è la conferma ufficiale della proposta di legge a firma leghista. La proposta è siglata dal sottosegretario all’Interno di stretta osservanza salviniana, Nicola Molteni, il quale ha assicurato all’Huffington Post che “appena si insedieranno le commissioni partirà l’iter”, e ha confermato che gli alleati 5 Stelle sono in piena sintonia: “Con il ministro Bonafede c’è sempre stata grande intesa”. L’aveva detto due giorni fa a Telelombardia, Matteo Salvini: “Con il mio collega titolare della Giustizia, Alfonso Bonafede, faremo di tutto per rendere concrete entro quest’anno le novità sulla legittima difesa”, e oggi c’è la conferma ufficiale della proposta di legge a firma leghista. Dopo la stretta sui migranti, la svolta securitaria promossa dal ministro dell’Interno arriva alla fase due: il rafforzamento della legittima difesa. La proposta è firmata dal sottosegretario all’Interno di stretta osservanza salviniana, Nicola Molteni, il quale ha assicurato all’Huffington Post che “appena si insedieranno le commissioni partirà l’iter, con questo testo”, e ha confermato che gli alleati 5 Stelle sono in piena sintonia: “Con il ministro Bonafede c’è sempre stata grande intesa, per 5 anni abbiamo lavorato fianco a fianco in commissione”. Del resto, la legge era nel pacchetto di norme contenute nel “patto di governo”, quindi già concordate con i grillini. Quanto al merito della proposta di legge, l’iniziativa punta a stravolgere l’attuale impianto dell’articolo 52 del codice penale e mette mano anche alle norme che disciplinano il reato di furto in abitazione. Proporzionalità tra difesa e offesa - “La norma appare insufficiente a garantire una possibilità di difesa da aggressioni violente, soprattutto nella parte in cui richiede, affinché ricorra la legittima difesa, la proporzionalità tra difesa e offesa”, scrive Molteni nella sua proposta. Proprio il rapporto di proporzionalità, quindi, è il punto di diritto da modificare, perché “la norma si è nei fatti tradotta, anche attraverso la sua interpretazione giurisprudenziale, in una sostanziale inapplicabilità dell’esimente in esame”. La legittima difesa in salsa leghista prevede - richiamando il codice penale francese - la “presunzione di legittima difesa per gli atti diretti a respingere l’ingresso, mediante effrazione, di sconosciuti in un’abitazione privata ovvero presso un’attività commerciale professionale o imprenditoriale con violenza o minaccia di uso di armi”. Oggi, invece, l’articolo 52 del codice prevede che non sia punibile “chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. Quanto all’ipotesi di violazione di domicilio, il rapporto di proporzionalità si considera esistente nel caso in cui si utilizzi “un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo” al fine di difendere “la propria o altrui incolumità” o “i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione”. Furto in abitazione - La proposta di Molteni prevede anche la modifica dell’articolo 624- bis del codice penale, con l’aumento sia del minimo che del massimo della pena. Attualmente è prevista “la reclusione da tre a sei anni e la multa da 927 euro a 1.500 euro”, la Lega punta ad aumentare la reclusione “da un minimo di cinque anni a un massimo di otto anni e la multa da un minimo di 10mila euro a un massimo di 20mila euro”. Nel caso dell’ipotesi aggravata, si passerebbe da un minimo di quattro a un massimo di dieci anni e da una multa da 927 a 200 euro, a “un minimo edittale di sei anni di reclusione, mentre il massimo resta quello attualmente previsto, pari a dieci anni, e la multa da un minimo di 20.000 euro a un massimo di 30.000 euro”. Non solo, per il “nuovo” reato di furto in abitazione non sarà più consentito il giudizio di equivalenza tra aggravanti e attenuanti; la sospensione condizionale della pena per il reo sarà subordinata al pagamento integrale alla parte offesa del risarcimento del danno; il condannato sarà escluso dai benefici previsti dalla legge del 1975 sull’ordinamento penitenziario. Legittima difesa, le regole all’estero di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 giugno 2018 Si gioca sul confine sfumato della valutazione affidata ai magistrati il confronto in materia di legittima difesa tra i Paesi dell’Unione europea. È in Francia (articoli 122-5 e 122-6 del Codice penale) la soluzione più vicina alla nostra: si prevede infatti che non risponde penalmente la persona che, a fronte di un attacco ingiustificato contro di sé o un’altra persona, compie, nello stesso momento, un atto imposto dalla necessità della legittima difesa per se stesso o un’altra persona, a condizione che non ci sia sproporzione tra i mezzi impiegati per la difesa e la gravità dell’attacco. Non risponde penalmente la persona che, per interrompere l’esecuzione di un crimine o di un delitto contro un bene, commette un atto di difesa, diverso da un omicidio volontario, quando questo atto è strettamente necessario allo scopo perseguito, fin quando i mezzi sono proporzionati alla gravità dell’infrazione. In Germania la disciplina della legittima difesa è disciplinata ai paragrafi 32 e 33 del Codice penale. Secondo queste norme si definisce “legittima difesa” quella necessaria per respingere da sé o da altri un attacco presente. Non è punito chi eccede i limiti della difesa per turbamento, paura o panico. In base a tali norme, dunque, si richiede che l’aggressione sia presente e attuale; ciò significa che essa deve essere immediatamente imminente oppure che essa avvenga precisamente nel momento dell’atto di difesa o anche che essa può continuare nel tempo. Non si fa alcun riferimento alla proporzionalità fra difesa e offesa; d’altra parte, si prevede che non possa essere punito chi ha oltrepassato i confini della legittima difesa per turbamento, paura o panico. Nel Regno Unito, da ultimo, la nozione di legittima difesa è stata delimitata nel 2012 (Legal Aid, Sentencing and Punishment of the Offenders Act), che ha incluso, negli elementi costitutivi della fattispecie della legittima difesa, l’esimente generalmente riconosciuta dalla giurisprudenza penale per i comportamenti posti in essere a difesa dei propri beni. D’altra parte, tra le circostanze da considerare per l’applicazione dell’esimente, la legge fa esplicito riferimento al comportamento dell’aggressore in relazione alla sua fuga o desistenza. Nel 2013 l’ultimo intervento, per inserire tra le finalità legittime di un uso anche non proporzionato della forza anche la difesa del proprio luogo di residenza dall’intrusione non autorizzata di terzi. Legittima difesa. Ci salvino i giudici e il ricordo di Re Cecconi di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 21 giugno 2018 La proposta della Lega sulla legittima difesa è un atto di sfiducia nei confronti dello Stato, delle forze dell’ordine, dei giudici, di studiosi e giuristi. Essa significa abdicare alla funzione di controllo dell’ordine pubblico da parte delle polizie. Significa dare un messaggio per la proliferazione delle armi e del loro uso scriteriato, non fidarsi dei giudici e del loro sapiente lavoro di indagine e analisi dei fatti. La proposta, fortemente voluta dall’attuale sottosegretario leghista al ministero degli Interni Nicola Molteni, ripropone quella già presentata nella scorsa legislatura. Essa prevede, in modo contorto, una sorta di presunzione assoluta di legittima difesa nonché il solito aumento di pena per il furto in appartamento. Di aumento in aumento - è il terzo negli ultimi anni - puniremo il ladro quanto un terrorista dell’Isis. Un breve riassunto di quanto avvenuto negli ultimi anni spero aiuti il lettore di fronte a mille annunci di leggi salvifiche. L’articolo 52 del codice penale era stato già modificato nel febbraio del 2006, sul finire della legislatura berlusconiana, proprio per volontà della Lega. Fu introdotta la norma secondo cui comunque è consentito usare l’arma ogni qual volta c’è un’intrusione nella propria casa, negozio, ufficio o azienda. Per cui la proposta di Molteni va a modificare una legge voluta dalla Lega che a sua volta aveva cambiato una norma del codice fascista del 1931. Verrebbe da dire, da cittadino, ci si può mai fidare di costoro? Aveva ragione Vittorio Ferraresi, attuale sottosegretario alla Giustizia del M5S, che in sede di dibattito parlamentare, nel 2017, affermava che qualunque fosse la norma scritta l’indagine giudiziaria mai potrà essere evitata. L’indagine infatti è dovuta, qualunque sia la proposta di legge, di destra o di sinistra. L’indagine è una forma di tutela nei confronti di chi si è difeso, se lo ha fatto in modo legittimo, onesto, proporzionato. Se c’è stato un morto il giudice ha il dovere di indagare, comunque. D’altronde la persona uccisa potrebbe non essere un ladro, ma un vicino di casa, un poliziotto in borghese. Contro la proposta leghista vi sono argomenti giuridico-costituzionali (la vita non può mai essere posta sullo stesso piano della proprietà privata: la proporzionalità tra offesa e difesa salvaguarda la ragionevolezza) e di politica criminale (la percezione di poter usare liberamente le armi ne determinerà un uso improprio, pericoloso anche nei confronti di persone innocenti). L’opposizione nei confronti della proposta leghista è giusto che sia fatta nel nome del grande calciatore della Lazio Luciano Re Cecconi, ammazzato nel 1977 da un gioielliere romano quando entrò nel suo negozio. Pare che scherzando Re Cecconi avesse simulato una rapina. Secondo un’altra ricostruzione non era avvenuto neanche quello. Re Cecconi, a 29 anni, fu ammazzato per legittima difesa. Infine poche parole sulla missione dei giuristi. Prendo in prestito le parole di papa Francesco: “In questo contesto, la missione dei giuristi non può essere altra che quella di limitare e di contenere tali tendenze. È un compito difficile, in tempi nei quali molti giudici e operatori del sistema penale devono svolgere la loro mansione sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società”. In quest’epoca la missione dei giuristi deve essere quella di smascherare e limitare le pericolose falsità del populismo penale. Ora i giudici frenano le espulsioni: serve il verdetto della Cassazione di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 21 giugno 2018 La decisione del Tribunale di Milano sui ricorsi contro il no all’asilo. Espellere i migranti prima che la Cassazione decida i ricorsi sulla protezione negata dai Tribunali? Per i giudici di Milano la norma contrasta con il diritto dell’Unione Europea. E interpellano la Corte Ue. La questione riguarda la sorte delle persone straniere che, avendo visto le proprie richieste di protezione bocciate in via amministrativa dalle Commissioni territoriali ministeriali, si siano rivolte ai giudici e però abbiano incassato un no anche dai Tribunali. L’anno scorso la legge Minniti-Orlando ha tolto (soltanto per i migranti) un grado di giudizio, l’Appello: sicché, dopo il no del Tribunale, allo straniero resta solo il ricorso in Cassazione. Ma mentre la bocciatura da parte della Commissione amministrativa non è immediatamente esecutiva e dunque il migrante può restare in Italia in attesa del Tribunale, dopo la bocciatura da parte del Tribunale e in attesa della Cassazione non c’è invece sospensiva, e dunque lo straniero non ha più titolo a restare in Italia, deve subito lasciarlo, e se non lo fa può essere espulso in ogni momento verso il Paese d’origine (salvo l’eccezione di “fondati motivi” ravvisati dal medesimo Tribunale). Ma questo assetto normativo - scrivono ieri il presidente della sezione immigrazione Patrizio Gattari, la giudice relatrice Martina Flamini e la collega Patrizia Ingrascì dopo non aver creduto alla discriminazione omosessuale narrata da un nigeriano - “non rispetta alcuni principi che rappresentano le “pietre angolari” del diritto dell’Unione Europea”. Tre. Il primo è che “viola il diritto ad un rimedio effettivo”: nel diritto di difesa c’è il diritto al contraddittorio, che comprende il diritto di confrontarsi con il proprio avvocato e di esporre sino alla fine all’autorità giudiziaria tutti gli elementi in proprio possesso, anche sopravvenuti: ma se lo straniero viene rispedito dall’altra parte del mondo, diventa non solo impossibile curare con il proprio avvocato il ricorso, ma anche “non è più garantita l’utilità della futura sentenza, con conseguente lesione dell’effettività della tutela”: la Corte Ue l’ha già detto nel 2007 nel caso Unibet tra in materia di giochi d’azzardo, un po’ meno importanti delle persone. Il secondo punto è un difetto di imparzialità del giudice, se a rigettare la domanda di protezione è lo stesso a cui spetta ravvisare i “fondati motivi” eccezionalmente pretesi dalla legge come unica chance dello straniero di restare in Italia in attesa. La terza ragione è l’irrazionalità della violazione del principio di equivalenza: in tutte le altre materie le norme italiane ammettono la possibilità di sospendere l’esecutività delle sentenze civili di primo grado di fronte a un “pericolo di danni gravi e irreparabili”, mentre solo nel caso dei migranti pretendono una prognosi di “fondati motivi” di accoglimento. Ma invece di arrogarsi la pretesa di disapplicare da soli la legge italiana (magari stravolgendola), i giudici milanesi scelgono di interpellare la Corte di Giustizia dell’Unione Europea in Lussemburgo, che esiste apposta per dire se le norme di un Paese siano compatibili con il diritto Ue. Si chiama “questione pregiudiziale”, e il Tribunale di Milano chiede che avvenga con “procedura d’urgenza”. Vuol dire che la risposta potrebbe arrivare in 7-8 mesi. Fino ad allora, come proprio ieri nel caso del nigeriano, il Tribunale di Milano concederà ai migranti la sospensione delle conseguenze dei propri rigetti e dunque la permanenza in Italia in attesa della Cassazione, pressoché in via automatica ad esclusione dei ricorsi palesemente campati per aria o minati da vizi di forma. La tenuità del fatto non rientra tra le cause di non punibilità che impediscono l'arresto di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 21 giugno 2018 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 20 giugno 2018 n. 28522. La particolare tenuità del fatto non rientra tra le cause di non punibilità che impedisco l'arresto. La polizia giudiziaria non può, infatti, fare nel momento dell'arresto in flagranza dello spacciatore una valutazione sulla non punibilità per particolare tenuità del fatto. La verifica della causa prevista dall'articolo 131-bis del Codice penale, presuppone un esame approfondito sulla sussistenza dei presupposti e un giudizio di merito che è riservato all'autorità giudiziaria. Condizioni del tutto incompatibili con la sommaria verifica che la Pg deve compiere al momento dell'arresto in flagranza. L'articolo 131-bis non rientra dunque tra le cause di non punibilità, che fanno scattare il divieto di arresto, che sono ravvisabili “a vista” e relative alle semplici circostanze di fatto previste dall'articolo 385 del Codice di rito penale. La Corte di cassazione, con la sentenza 28522, respinge dunque la tesi della difesa secondo la quale per il suo assistito - arrestato perché nel suo bagno era stato trovato un bilancino di precisione - sussisteva una causa di non punibilità, per particolare tenuità del fatto che doveva impedire l'arresto. Non passa neppure la carta dell'uso personale lo stesso incompatibile con l'arresto, previsto solo quando è ipotizzabile la cessione a terzi. E per la Cassazione questo era il caso, considerata la detenzione del bilancino di precisione e il peso lordo delle sostanze. L’evasore resta in carcere nonostante il sequestro degli immobili di Debora Alberici Italia Oggi, 21 giugno 2018 Cassazione: misura reale non è incompatibile con quella personale. Il presunto evasore fi scale resta in carcere nonostante gli siano già stati sequestrati gli immobili e i siti internet. La misura reale non è incompatibile con quella personale a maggior ragione quando l’imprenditore mostra una grande facilità nell’intrecciare rapporti per frodare il fisco. Lo ha sancito la Corte di cassazione con la sentenza n. 28515 del 20 giugno 2018. La terza sezione penale ha dunque respinto il ricorso di una manager accusata di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. La donna aveva tessuto una fitta rete internazionale, avvalendosi di società e siti internet, per sfuggire ai debiti con il fisco. Questo le era costato la custodia cautelare in carcere. Inutile la richiesta dei domiciliari presentata dalla difesa sul presupposto che il sequestro delle aziende, degli immobili e dei siti internet non le avrebbe più permesso di evadere le imposte. Sul punto la terza sezione penale ha infatti replicato che attesa la diversità ontologica tra le predette misure, personali e reali, e, soprattutto, la diversità finalità e il diverso bene giuridico che le predette misure incidono, non può ritenersi che il periculum attinente alla reiterazione del comportamento illecito alla cui esclusione è posta la misura in atto applicata venga meno solo per essere stato il sodalizio attinto da provvedimenti di natura cautelare reale incidente solo sull’aspetto patrimoniale. Infatti, ricordano ancora i Supremi giudici, le misure cautelari personali, vanno distinte da quelle reali. La natura e i limiti del diritto di critica. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 21 giugno 2018 Diritto di critica - Natura - Limiti - Diritto di cronaca - Differenza. Il diritto di critica non si concreta nella mera narrazione di fatti, ma si esprime in un giudizio avente carattere necessariamente soggettivo rispetto ai fatti stessi (che ha, per sua natura, carattere congetturale, che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica), con la precisazione che, per riconoscere efficacia esimente all'esercizio di tale diritto, occorre tuttavia che il fatto presupposto ed oggetto della critica corrisponda a verità, sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa per le fonti da cui proviene o per altre circostanze soggettive, non è invece necessario che tale fatto sia esposto con la completezza che si richiede quando si perseguono scopi esclusivamente informativi, quando, cioè, si esercita il diritto di cronaca. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 7 giugno 2018 n. 14727 Diritto di critica politica - Diffamazione a mezzo stampa - Giornalista - Soggetto candidato alle elezioni politiche - Diritto di cronaca e di critica - Contenuti - Limiti. Costituisce esercizio di critica politica l'esposizione di fatti in parte ormai storici, in parte aventi comunque già una pubblica diffusione e tali da incidere sulla reputazione pubblica di un soggetto avente ampie aspirazioni politiche (come tali di sicuro interesse pubblico), e di altri fatti dei quali la fonte di apprendimento sebbene non svelata sia comunque ricostruibile (in particolare, le copie dei verbali contenenti un interrogatorio), laddove l'articolo (nel caso di pecie un settimanale di riflessione sui principali accadimenti economici e politici sia interni che internazionali) non si limiti a rassegnare i fatti ma li utilizzi come elementi sulla base dei quali complessivamente considerati (per la loro pluralità, la loro gravità, per il fatto di non essere episodi isolati ma al contrario di caratterizzare tutto il percorso politico e pubblico della persona in questione) costruire una valutazione, tutta politica, di inadeguatezza del soggetto obiettivamente coinvolto a vario titolo in quella sequela di fatti a candidarsi alla guida di un paese. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 28 febbraio 2017 n. 5005. Integrale - Diffamazione a mezzo stampa - Risarcimento danni - Ricostruzioni di merito inammissibili in Cassazione - Diritto di cronaca e diritto di critica - Limite della continenza - Rigetto. Riguardo all'azione di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo della stampa, va tenuta ferma la distinzione tra il diritto di critica, con cui si manifesta la propria opinione, la quale non può pertanto pretendersi assolutamente obiettiva (e può essere esternata anche con l'uso di un linguaggio colorito e pungente), ed il diritto di cronaca, che è legittimamente esercitato purché sussista la continenza dei fatti narrati (intesa in senso sostanziale per cui i fatti debbono corrispondere alla verità, sia pure non assoluta, ma soggettiva - e formale, con l'esposizione in modo misurato); con la conseguenza che i fatti ed i comportamenti cui la critica è riferita devono essere veri, ma solo nel senso che non debbono essere inventati od alterati nel loro nucleo essenziale o interpretati arbitrariamente (in modo che l'opinione finisca per essere del tutto sganciata da quei fatti e comportamenti, così esorbitando da una critica legittima); non è invece necessario che siano esposti con la completezza che si richiede quando si perseguono scopi informativi. • Corte di Cassazione, sezione III, ordinanza 25 maggio 2017 n. 13152. Risarcimento del danno - Diritto di cronaca e di critica - Differenze. Il diritto di critica non si concreta, come quello di cronaca, nella narrazione di fatti, ma si esprime in un giudizio, o, più genericamente, in una opinione, la quale, come tale, non può che essere fondata su un'interpretazione dei fatti e dei comportamenti e quindi non può che essere soggettiva, cioè corrispondere al punto di vista di chi la manifesta, fermo restando che il fatto o comportamento presupposto ed oggetto della critica deve corrispondere a verità, sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa per le fonti da cui proviene o per altre circostanze oggettive, così come accade per il diritto di cronaca. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 6 aprile 2011 n. 7847. Emilia Romagna: relazione del Garante dei detenuti “raddoppiati i suicidi in carcere” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 giugno 2018 Centinaia tentativi di suicidio, più di mille atti di autolesionismo, sovraffollamento e altro ancora nelle carceri dell’Emilia Romagna. Questo è quello che è emerso dalla relazione del Garante regionale dei detenuti, Marcello Marighelli, che ha esposto la settimana scorsa in commissione per la Parità e per i diritti delle persone, presieduta da Roberta Mori, sull’attività del suo ufficio nel 2017. I principali impegni del suo mandato esposti durante la seduta sono quelli di favorire, anche attraverso l’ampliamento dell’area di osservazione, il recupero e il reinserimento nella società delle persone detenute, proseguendo, inoltre, con le visite agli istituti di pena della regione, oltre alle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) e agli altri luoghi di limitazione della libertà personale. Marighelli, nella sua relazione, ha poi affrontato il tema delle criticità nelle strutture della regione: “La condizione degli istituti penitenziari in Emilia-Romagna risente della mancanza di una adeguata programmazione della manutenzione ordinaria, inoltre Forlì e Ravenna richiederebbero interventi importanti di manutenzione straordinaria”. Un aspetto preoccupante nelle carceri della regione, ha poi evidenziato, “riguarda il manifestarsi di carenze di organico nel personale di custodia, ma ancor di più nel personale educativo e amministrativo, comprese le direzioni”. Il Garante regionale, nel solo 2017, ha eseguito 76 colloqui all’interno delle strutture carcerarie, 32 le visite (15 nei primi sei mesi del 2018). L’ufficio ha trattato complessivamente 220 pratiche. Pratiche che riguardano condizione detentiva, rapporti del ristretto con l’amministrazione penitenziaria e la magistratura, trasferimenti e relazioni con i familiari. L’ufficio di Marighelli ha programmato anche un’intensa attività di formazione rivolta agli operatori dell’amministrazione penitenziaria e ai volontari (87 gli operatori coinvolti), sui temi della residenza e documenti d’identità, permessi di soggiorno e rimpatrio volontario assistito, ricerca del lavoro, curriculum, valorizzazione delle esperienze lavorative e formative in carcere e misure alternative alla detenzione. L’organismo ha elaborato anche la mappatura di tutti i luoghi di restrizione (camere di sicurezza, luoghi dove si svolgono trattamenti sanitari obbligatori e strutture sanitarie terapeutiche residenziali accreditate per dipendenze patologiche). In Emilia- Romagna sono attive 10 strutture penitenziarie, con 3.488 detenuti (di cui 159 donne). Il tasso di sovraffollamento è aumentato di oltre 20 punti percentuali in tre anni, raggiungendo, nel dicembre 2017, il 124 per cento (10 per cento in più rispetto al dato nazionale). Anche la presenza degli stranieri in tre anni ha subito un aumento di circa 5 punti: rappresentano oltre il 50 per cento dei detenuti (1.770 presenze). La posizione giuridica dei detenuti, condannati definitivi e non, presenta valori in linea con i dati nazionali: 64,3 la percentuale dei detenuti con condanne definitive. Sono 3.006 le persone in esecuzione penale esterna, 680 in messe alla prova. Nel 2017 i casi di suicidio in strutture della regione sono stati otto, il doppio rispetto al 2016 (il 18 per cento sul totale nazionale). Mentre i tentativi di suicidio sono stati 125 e 1.383 gli atti di autolesionismo. A proposito dei suicidi, al livello nazionale siamo giunti a 24 dall’inizio dell’anno. L’ultimo, sabato notte scorso, riguarda un detenuto - in cella singola - nel carcere di Ivrea. Aveva in passato già fatto atti di autolesionismo. A seguito dell’episodio, nel pomeriggio, una cinquantina di detenuti dopo essere stati in cortile si sono rifiutati di rientrare in cella e 7 di loro, 2 italiani e 5 extracomunitari, si sono arrampicati sul muro del cortile passeggio lamentandosi delle condizioni in cui vivono e solo dopo oltre due ore di trattativa, sono rientrati. Infine, sempre nella giornata di sabato, i detenuti hanno continuato a protestare battendo le stoviglie contro le inferriate delle celle. Il ministro della giustizia Alfonso Bonafede, intervenendo alla scorsa relazione del Garante nazionale delle persone private delle libertà, ha detto che i suicidi sono inaccettabili per uno stato di diritto e ha promesso che potenzierà il piano nazionale per la prevenzione dei suicidi in carcere. Ariano Irpino (Av): un solo infermiere per circa 300 detenuti in carcere di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 21 giugno 2018 Un solo infermiere per circa 300 detenuti. È questa la vera emergenza di cui forse nessuno parla e affronta con determinazione nei tavoli istituzionali che contano, alla base anche degli ultimi e gravi episodi di violenza avvenuti all'interno del carcere Pasquale Campanello di Ariano Irpino. In totale ad operare sono sei camici bianchi, più due facenti parte di una cooperativa. Nessuna stabilizzazione per loro. Sono in pratica infermieri professionali a parcella, nessun diritto per quanto riguarda malattie e ferie. Costretti a svolgere turni massacranti, senza alcuna protezione e spesso a subire episodi di aggressioni come accaduto ad Avellino nel carcere di Bellizzi e nello stesso penitenziario arianese. Una situazione davvero drammatica e a dir poco disumana sulla quale al momento non si intravedono spiragli. Così Licia Morsa (Fp-Cgil): “La medicina penitenziaria è attualmente gestita dall'Asl di Avellino. Abbiamo una carenza di personale esagerato e le condizioni lavorative sono veramente precarie. Vi sono lavoratori a partita iva ormai da più di un decennio, l'Asl è inesistente e non risponde alle nostre richieste. Non vi è alcun confronto e una minima forma di collaborazione. Sono quattro gli istituti penitenziari irpini che vivono in queste condizioni. A Lauro in modo particolare manca l'Icam così definito, per le detenute madri con bambini fino a sei anni, la struttura è completamente sguarnita di polizia penitenziaria, c'è una sola unità in servizio, l'h24 che dovrebbe garantire l'Asl è inesistente. Tutto questo chiaramente influisce sui detenuti. Parliamo spesso e volentieri di persone con patologie particolari, che andrebbero seguiti in maniera diversa. Anche a Sant'Angelo dei Lombardi non abbiamo personale sanitario presente, per cui alla fine i detenuti sono costretti a restare negli istituti e ad essere gestiti dalla polizia penitenziaria, un compito che non spetta assolutamente a loro”. Sassari: carcere 2.0, il reinserimento è anche tecnologia di Antonio Meloni La Nuova Sardegna, 21 giugno 2018 Il Garante nazionale Palma cita l’esempio dei papà reclusi che fanno i compiti con i figli grazie a Skype. Recupero del detenuto e tecnologia vanno di pari passo, è impensabile programmare la riabilitazione sociale vietando l’accesso alle opportunità offerte dall’era digitale per conoscere il mondo. Ne è convinto Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti, intervenuto ieri al convegno organizzato dall’ateneo turritano nell’aula magna del rettorato. Un evento importante, pensato per fare il punto sul ruolo centrale dello studio nel momento delicato del reinserimento sociale. Durante i lavori del convegno, aperto con i saluti del rettore Massimo Carpinelli e del sindaco Nicola Sanna, è emerso che a Bancali, come in altri istituti, i carcerati non hanno accesso alle nuove tecnologie: “Mi chiedo - ha detto Palma - come si possa pensare al reinserimento quando il detenuto perde il collegamento con la realtà”. Il problema si pone in particolare per quei casi in qui la pena prevede lunghi periodi detentivi durante i quali il carcerato perde completamente il collegamento con l’esterno. Il recupero. “Il pieno recupero di un individuo privato della libertà personale - ha proseguito infatti il garante nazionale per i detenuti - passa attraverso il rispetto del diritto alla comprensione che non è solo quello di carattere linguistico, quando si tratta di reclusi stranieri, ma in senso più lato la capacità di saper interpretare una realtà che cambia a ritmi vertiginosi”. I figli. Nel carcere di Venezia, per esempio, uomini e donne, grazie a Skype, possono fare i compiti con i loro figli collegati da casa. Un sistema semplice, ma straordinario, per continuare a partecipare alla vita familiare e stabilire, al contempo, un collegamento con il mondo esterno in cui, prima o poi, si deve tornare. “Dovremmo declinare meglio il termine rieducazione - ha proseguito Mauro Palma - perché se non si danno strumenti capaci di diminuire la distanza si rischia di offrire l’idea di una realtà falsificata compensata da un insieme di attività che non preparano al ritorno alla vita reale”. Sovraffollamento. A margine dei lavori, il garante nazionale dei detenuti, reduce da una intensa settimana di incontri istituzionali, ha trattato anche il tema del sovraffollamento. In Italia, su circa 59 mila detenuti, sono 5400 quelli con sentenze inferiori a un anno di detenzione che salgono a novemila se sommati a quelli con pena residua inferiore ai dodici mesi. “Per questa e altre ragioni - ha concluso Palma - è opportuno pensare a pene alternative che permettano di ridurre quei numeri e preparino al ritorno alla normalità”. Al riguardo l’Università di Sassari, da 14 anni impegnata sul versante dell’inclusione, ha attivato da tempo un programma destinato agli studenti detenuti. Durante la mattinata, Emanuele Farris, delegato del rettore per il polo penitenziario, ha presentato i dati relativi a questa attività che consente a una quarantina di detenuti, ogni anno accademico, di studiare in 14 differenti corsi di laurea. Università e carcere. Per questo progetto, che nell’ultima sessione ha visto arrivare alla laurea 4 studenti, l’ateneo ha destinato 220 mila euro e nell’ultima seduta il senato accademico ha approvato il nuovo regolamento che ha un titolo specifico dedicato all’integrazione degli studenti con esigenze speciali. Che le esigenze siano speciali per i detenuti che decidono di cominciare o proseguire gli studi, non ci sono dubbi. Nell’ultimo periodo, infatti, le carceri sono luoghi sempre più internazionali, basta considerare il fatto che solo a Sassari circa il 35 per cento dei 470 detenuti reclusi a Bancali, è rappresentato da stranieri tra nigeriani, marocchini, tunisini e qualche senegalese. Poi ci sono gli europei tra i quali albanesi e rumeni costituiscono la componente più numerosa. “Il carcere - spiega infatti Mario Dossoni, garante per i detenuti del Comune di Sassari - ripropone la composizione della realtà esterna sempre più multietnica e questo è un fatto non più episodico, ma ormai sistemico, specchio ulteriore della realtà circostante”. Diversi gli interventi nel corso della mattinata, da Ilenia Troffa, funzionario giuridico-pedagogico del carcere di Bancali a Paola Sechi, docente di diritto penitenziario nell’università di Sassari. Ancora, Daniele Pulino dell’Osservatorio sociale sulla criminalità, Zena Orunesu, dell’Ordine forense, Francesco Sini del dipartimento di giurisprudenza e Franco Prina, delegato per il polo penitenziario nell’università di Torino. Gorgona (Li): c’è vita nel carcere, quel bianco oltre le sbarre di Laura Di Cosimo La Repubblica, 21 giugno 2018 Un vigneto tra mare e cielo, la sapienza degli enologi della Frescobaldi e l’impegno dei detenuti. Ecco come nasce il vino di Gorgona di cui oggi viene presentata la nuova annata. Che anticipiamo. Nessun uomo è un’isola” ha una straordinaria valenza contemporanea. Il viaggio a Gorgona, seguendo la scia di un vino prodotto sull’isola dall’azienda Marchesi Frescobaldi, porta in luce un progetto sociale che richiama anche questo. Gorgona appartiene al Parco Nazionale Arcipelago Toscano, si trova di fronte a Livorno, nel Mar Ligure. È una piccola isola ricca in vegetazione e fauna, con un porticciolo, un villaggio di poche case e tanta natura, ovunque. In contrasto con la mirabile bellezza naturale c’è la sua storia: è sede di una colonia penale, nata come succursale di Pianosa nel 1869. Operativa ancora oggi, è l’ultima isola-carcere italiana rimasta: “Qui i detenuti possono lavorare in un vigneto mentre scontano la loro pena detentiva, regolarmente retribuiti da noi” dice Lamberto Frescobaldi, presidente della nota galassia vitivinicola. La visita all’isola è con lui insieme all’enologo aziendale Federico Falossi e a Santina Savoca, dal 2015 direttrice del carcere di Gorgona e Livorno. Il progetto, dalla durata pluriennale (è partito nel 2012), è una collaborazione ideata dall’azienda vinicola toscana con la direzione penitenziaria dell’isola. Lo scopo primario è coltivare il vigneto con i detenuti, dando esperienza tecnica nella viticoltura, guidati da enologi e agronomi della Frescobaldi. Un’opportunità concreta per un reinserimento nella realtà lavorativa dopo fine pena, mentre l’importo dell’affitto del vigneto a carico della Frescobaldi aiuta a supportare le spese del carcere. “Quando siamo arrivati c’era un vigneto sperimentale con diversi vitigni, era stato realizzato dall’agenzia regionale Arsial. Trascurato per anni, al nostro arrivo è stato ripristinato. Attualmente le varietà a bacca bianca sono suddivise tra Vermentino e Ansonica, le uve utilizzate in percentuale paritaria nel vino bianco Gorgona. Sono stati lasciati alcuni filari di Sangiovese e Vermentino Nero per una piccola produzione di un vino rosso”. Attraverso il lavoro dei carcerati. (sempre retribuito) si sta procedendo alla ricostruzione di muretti a secco per un sistema di terrazzamenti, il più idoneo alla coltivazione per le pendenze dell’isola. “È difficoltoso soprattutto il trasporto del vino dall’isola alla terraferma - spiega l’enologo - le barrique (neutre) usate come contenitori devono scendere dalla cantina posizionata in cima all’isola attraverso pendii, impervie stradine e scalini ripidi fino al porticciolo. Abbiamo utilizzato carrelli, o una gru come negli ultimi anni, contando su mezzi e condizioni meteo variabili. Si deve studiare tutto ogni volta: siamo su una piccola isola in mezzo al mare”. La soluzione si trova sempre: salvaguardare il prodotto coinvolge anche il personale penitenziario, tutti vogliono portare a buon fine il frutto di un anno di lavoro. Le barrique con il vino sono trasportate da una nave, arrivate nel porto di Livorno vengono sottoposte a procedure doganali e poi trasferite nella cantina principale della Frescobaldi a Sieci, nel comune di Pontassieve, dove il vino continua l’affinamento per andare in bottiglia a fine di aprile. L’istituto penitenziario vuole sensibilizzare l’attenzione anche sulla problematica delle recidive: affrontata nella dignità del lavoro, indica una strada di recupero soprattutto ai detenuti di alta sicurezza. Come ribadisce più volte la direttrice, “arrivare all’isola di Gorgona è un premio dopo un percorso detentivo esemplare, ci sono regole ferree, è selezionato solo chi s’impegna. Ci arrivano molte richieste, ma ripeto, è un premio; chi sbaglia o non ha voglia di lavorare quando è qui lascia l’isola, perdendo lavoro e stipendio”. È quasi fine giornata, andata e ritorno sono su un’imbarcazione della penitenziaria. Lamberto Frescobaldi svela un forte legame con l’isola. E confida che “se qualcuno mi dice dopo aver assaggiato che è un buon vino, ci rimango male. Conoscendo l’unicità del progetto, sapendo gli sforzi fatti da tanti, vorrei sentire dire che buono questo Gorgona, nei profumi e nei sapori si sente l’essenza dell’isola”. Ravenna: i detenuti si trasformano in “pizzaioli” per la serata con i Lions club ravennatoday.it, 21 giugno 2018 Nell’ambito delle iniziative trattamentali volte al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione del carcere di Ravenna, si è tenuto nel pomeriggio di martedì nel cortile passeggio un incontro conviviale con rappresentanti dei Lion club di Ravenna-Cervia e tutte le massime autorità cittadine. L’evento nasce dall’esigenza di dare riconoscimento a chi con grande senso di solidarietà svolge opera di volontariato anche in favore della popolazione detenuta nel carcere di Ravenna. Dal 2014, infatti, vi è un accordo per la fornitura delle materie prime occorrenti per la realizzazione di corsi per pizzaioli che vengono svolti dal mese di ottobre fino a fine aprile di ogni anno con la guida dei volontari dell’Associazione “Il Paese”. La serata ha coinvolto tutta la popolazione detenuta con una grande “pizzata”. L’organizzazione dell’evento è resa possibile anche grazie all’intervento della Cooperativa Sociale La Pieve e del Comitato Cittadino Antidroga. Trani (Bat): “Del racconto, il film”, il cinema sbarca nel carcere Giornale di Trani, 21 giugno 2018 Domani proiezione di “Chi m'ha visto?”. Ospite d'eccezione, Sabrina Impacciatore. Si sposta tra Altamura, Trani e Turi la nona edizione del Festival cinema & letteratura, “Del racconto, il film”, la rassegna organizzata dalla cooperativa sociale “I bambini di Truffaut”, sotto la direzione artistica del giornalista e scrittore Giancarlo Visitilli. Presentazioni di libri, proiezioni, incontri con attori, registi e scrittori arrivano in un contesto nuovo e particolare: il carcere. I quattro appuntamenti della rassegna sono, infatti, organizzati in collaborazione con Pietro Rossi, Garante regionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Ordine degli Avvocati di Bari e Apulia film commission. “Portare con questo festival il cinema nelle carceri - racconta Giancarlo Visitilli - non corrisponde a un progetto destinato ai detenuti, bensì è un modo per coinvolgere quello che noi consideriamo una fetta del pubblico del festival. Per questo gli spettacoli saranno aperti a tutti, ma proiettati nella casa circondariale. Quest’anno abbiamo scelto di aggiungere un altro essenziale tassello per accrescere le finalità del nostro festival: portare l’arte del cinema e la cultura nelle carceri pugliesi per raggiungere gli uomini e le donne che vivono reclusi. Sembra un ossimoro naturale quello di “carceri della Puglia”, in contrasto con una terra che fa della sua essenza la bellezza. Questo è il motivo che ci ha spinto ad oltrepassare quei muri per portare la bellezza nei luoghi dove questa manca, facendoci contaminare a nostra volta dall’esperienza dei detenuti”. A Trani, l’appuntamento è venerdì 22 giugno con la sezione del festival “Del racconto, la fama”, alle 15, con la proiezione di “Chi m’ha visto?”, commedia del 2017 di Alessandro Pondi con Pierfrancesco Favino e Giuseppe Fiorello. A presentare il film assieme al regista ci sarà anche l’attore Maurizio Lombardi, che interpreta il ruolo di un sacerdote della storia ambientata tra Ginosa, Mottola e Castellaneta. In esclusiva ci sarà Sabrina Impacciatore. L’attrice e imitatrice italiana venuta a conoscenza del progetto in carcere del festival ha chiesto di partecipare a questa tappa nella casa circondariale femminile di Trani. Nel film “Chi m’ha visto?”, Sabrina Impacciatore interpreta il ruolo della presentatrice di una trasmissione tv, dal titolo “Scomparsi”. A causa del limitato numero di posti, l’ingresso a tutti gli appuntamenti deve essere su prenotazione. Tutti gli incontri sono a ingresso gratuito con contributo libero. Il ricavato sarà destinato all’acquisto di un pulmino per la cooperativa sociale “I bambini di Truffaut”. “Del racconto, il film” si propone di unire all’offerta culturale anche la riflessione su una serie di temi e problematiche, selezionate e, in qualche modo, legate al territorio, locale e nazionale, con la possibilità anche di riflettere e confrontarsi con chi, a seconda degli ambiti, possa offrire una testimonianza significativa. Venti serate dedicate ai sentimenti dell’esistenza umana, alle paure dell’uomo contemporaneo, alla diversità, alla politica, agli incontri e alle separazioni. Venti appuntamenti per guardare il mondo attraverso gli occhi di registi e scrittori e condividere le proprie emozioni nelle piazze e castelli di Puglia sotto un cielo stellato estivo. Migranti. È scontro Italia-Ue. Cosa prevede la bozza europea sulle frontiere di Gerardo Pelosi Il Sole 24 Ore, 21 giugno 2018 In un’Europa sempre più divisa sulle politiche per i migranti con la cancelliera tedesca Angela Merkel che cerca di scongiurare la crisi con la Csu e la nuova Costituzione ungherese che vieta di accogliere i migranti economici, il premier italiano Giuseppe Conte dovrebbe presentare domenica a Bruxelles ai partner Ue (prima dovevano essere soltanto Francia, Germania e Spagna, ora sono diventati dieci) la sua proposta per frenare gli arrivi di migranti:?il condizionale è d’obbligo, vista l’escalation della tensione sulla bozza del vertice. È il frutto del lavoro congiunto di Palazzo Chigi, Viminale e Farnesina e, in buona sostanza, prevede di applicare il regolamento di Dublino solo alle frontiere terrestri. In sostanza se un migrante attraverserà il confine tra Slovenia e Italia sarà il nostro Paese ad esaminare la sua posizione ed eventualmente la domanda di asilo. Ma per quanto riguarda i salvataggi in mare nelle aree di competenza Sar (Search and Rescue) effettuati sulla base del diritto internazionale o, nel caso di Methis e Sophia, dietro un esplicito mandato europeo, dovrà scattare una responsabilità congiunta di tutta l’Unione, quindi nessun automatismo per sbarchi solo sulle coste italiane come avveniva fino ad oggi. Meno che mai per le navi di Ong che effettuano soccorsi direttamente nelle acque libiche. Il Governo italiano sollecita naturalmente una maggiore selezione a monte delle partenze. Si tratta delle cosiddette “piattaforme regionali per gli sbarchi” menzionate nella bozza di conclusioni del Consiglio Ue del 28 giugno da realizzarsi d’intesa tra Unhcr e Ue. Se alle porte di Tripoli, come ricorda il nostro ambasciatore in Libia, Giuseppe Perrone, l’Unhcr sta completando i lavori per la costruzione di un grande centro di identificazione molto più difficile appare la situazione per realizzare analoghe strutture in Tunisia ed Egitto. Il ministro degli Esteri tunisino, Khemaines Jhinaoui in un incontro ieri con il responsabile della Farnesina, Enzo Moavero pur dicendosi disposto a implementare gli accordi bilaterali di riammissione esistenti ha confermato quanto già aveva affermato il suo ambasciatore a Bruxelles, Tahar Chérif, secondo il quale la Tunisia “non ha né i mezzi né le condizioni né la capacità di creare questi centri”. Quanto all’Egitto il nostro ambasciatore al Cairo, Giampaolo Cantini ricorda che “il Paese ha da tempo sigillato le sue frontiere e già accoglie 5 milioni di rifugiati tra siriani, sudanesi ed eritrei”. La politica di Al Sisi è del resto molto attenta a possibili infiltrazioni fondamentaliste. Con queste premesse dire che per l’Italia a Bruxelles domenica e poi il 28 giugno la strada satrà tutta in salita è solo un eufemismo. Lo stesso Conte, dopo l’incontro di ieri con il presidente del Consiglio Ue Donald Tusk a Roma ha insistito sulla necessità di ridurre i “movimenti primari”. Ben sapendo che la bozza delle conclusioni del prossimo Consiglio Ue che sarà oggi all'esame dei rappresentanti permanenti a Bruxelles (per l’Italia Maurizio Massari) utilizza un linguaggio molto diverso. Oltre alla trasformazione di Frontex in una vera polizia di frontiera con uomini e mezzi vi si legge che occorre ridurre in modo significativo “i movimenti secondari, evitando attraversamenti illegali delle frontiere interne tra Stati membri di migranti e richiedenti asilo e assicurando procedure veloci per i trasferimenti verso il Paese competente”. Si sollecitano anche procedure “veloci per le riammissioni dei migranti” oltre a “controlli dei viaggi in uscita alle stazioni di treni, bus e aeroporti”. Una brutta aria dunque per le richieste italiane che lo stesso Salvini ha percepito tanto da minacciare di disertare il vertice: “Se andiamo lì per avere il compitino già preparato da francesi e tedeschi è giusto risparmiare i soldi del viaggio”, ha detto Salvini a Porta a Porta. Con la bozza che circola, ha aggiunto, “pensano di mandarci altri migranti invece di aiutarci ed in cambio faranno poi i centri di raccolta fuori dall'Europa, ma meglio un uovo oggi”. “Siamo il secondo Paese per contributi all’Europa - aveva già detto nel pomeriggio - secondi per migranti accolti, vogliamo essere ascoltati, non è possibile che dettino legge francesi e tedeschi, mentre l’Italia paga e accoglie e questo vale anche per pesca, turismo, banche”. Migranti. Due vertici contrapposti dividono l’Europa di Carlo Lania Il Manifesto, 21 giugno 2018 A Bruxelles e a Budapest. Intanto un documento parla di controlli alle stazioni degli autobus, dei treni e negli aeroporti. Il governo gialloverde italiano può essere soddisfatto. Molto probabilmente dal vertice dei capi di Stato e di governo del 28 giugno non uscirà una sola proposta utile all’Italia per la gestione dei migranti, ma in compenso le esternazioni urlate quotidianamente dal ministro degli Interni Salvini hanno contribuito a spaccare l’Unione europea come mai si era visto in precedenza. Il segno tangibile della crepa sempre più larga che sta dividendo i 28 sono i due prevertici convocati per domani e domenica da gruppi contrapposti di Paesi, ognuno dei quali è impegnato a elaborare proposte che, almeno sulla carta, dovrebbero rappresentare le nuove politiche europee sull’immigrazione. Al primo summit, fissato per domenica a Bruxelles dal presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker e al quale è prevista la partecipazione di dieci Paesi, si è aggiunto ieri quello deciso da Ungheria, Polonia, Cechia e Slovacchia, il gruppo di Visegrad che, con l’Austria, si vedrà oggi a Budapest. Il fronte anti-migranti propone una “rivoluzione copernicana” (copyright del premier austriaco Sebastian Kurz) nella gestione dei migranti. Intanto però, in serata sono uscite nuove anticipazioni di quello che potrebbe essere il documento finale del vertice ufficiale, quello di fine mese, e che oltre alla trasformazione di Frontex in una vera e propria polizia di frontiera, annunciano controlli sui migranti alle stazioni di autobus, treni e aeroporti di tutta Europa allo scopo di individuare e rispedire indietro i profughi che hanno abbandonato il Paese in cui hanno presentato la richiesta di asilo. Un modo per contrastare i cosiddetti movimenti secondari sui quali in Germania la cancelliera Merkel e il suo ministro degli interni Seehofer litigano fino a rischiare la caduta del governo, e che Bruxelles propone adesso di fermare penalizzando i Paesi di primo arrivo - tra i quali ovviamente l’Italia. E così il premier Giuseppe Conte, che ieri mattina ricevendo il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk a palazzo Chigi gli aveva detto di non voler neanche sentir parlare dei “secondary movements”, in serata se li è visti ripiombare pari pari sulla scrivania. La verità è che non bastano gli attacchi e le minacce di Salvini per aumentare l’autorevolezza dell’Italia in Europa. Anzi, proprio la vicenda dei movimenti secondari dimostra che se i leader europei devono sostenere un governo, la scelta cade su Berlino e non su Roma. Accantonata definitivamente ogni speranza di riformare Dublino, domenica a Bruxelles si discuterà quindi ancora della possibilità di esternalizzare le frontiere dell’Ue. Presenti, oltre all’Italia, anche Belgio, Germania, Olanda, Francia, Spagna, Malta, Grecia e Bulgaria, quest’ultima presidente uscente dell’Ue. L’idea, non nuova, è di creare in Nord Africa campi nei quali raccogliere i migranti dividendoli tra profughi ed economici, per poi raccogliere le richieste di asilo dei primi e rimpatriare i secondi. Un lavoro che dovrebbe svolgersi con il contributo dell’Unhcr e dell’Oim, e accompagnato da programmi per i rimpatri dei migrati irregolari, supporti finanziari e altri incentivi. Ma la cui realizzazione può richiedere tempi anche molto lunghi. Prima occorre infatti individuare i Paesi disponibili a essere trasformati in “piattaforme per gli sbarchi” (la Tunisia, indicata come uno di quelli possibili, ieri ha confermato di non essere disponibile) e poi stipulare gli accordi necessari a far sì che il piano non resti solo sulla carta. Nel frattempo non è che dall’altra parte, quella dei puri e duri di Visegrad più l’Austria, si brilli per fantasia. Salvo sorprese l’annunciata “rivoluzione copernicana” consisterebbe sempre nell’apertura fuori dall’Ue di campi dove raccogliere i migranti ma questa volta nei Balcani, magari facendo leva sulla voglia di questi Paesi di entrare a far parte dell’Unione. Potrebbe consistere in questo la riforma di Dublino annunciata da Salvini per “proteggere le frontiere esterne, senza dividere il problema tra i Paesi europei ma risolvendolo a monte”. Anche in questo caso, però, sembra che i conti siano stati fatti senza l’oste. La Macedonia ha infatti già detto di non volere campi profughi nel proprio territorio. Profughi ed Europa, miraggi e false soluzioni di Paolo Mieli Corriere della Sera, 21 giugno 2018 L’idea di creare Centri di accoglienza in territorio nordafricano dovrebbe far insospettire il premier Conte: ci sono buone ragioni per lasciarla cadere. Va bene tutto, ma non la presa in giro. Accade con una certa regolarità che nei colloqui internazionali con i capi di Stato e di governo d’Europa quando si giunge al delicato tema delle migrazioni il professor Conte sia intrattenuto dagli interlocutori con la prospettazione di una chimera. È successo con Emmanuel Macron, poi di nuovo con Angela Merkel che gli hanno lasciato intravedere, come soluzione del problema per noi più drammatico, il miraggio della creazione di cosiddetti hotspot (centri di accoglienza e identificazione dei migranti) in terra nordafricana. Un’idea suggestiva: i fuggitivi dall’Africa centrale verrebbero raccolti e accuditi da qualche parte della costa tunisina oppure egiziana sotto la protezione - si presume - di forze armate delle Nazioni Unite o di altri organismi internazionali. Militari e personale scelto di questi organismi si occuperebbero poi di dividere il 7 per cento composto da perseguitati politici (i calcoli sono fatti sulle percentuali di quelli sbarcati fin qui in Italia) i quali avrebbero l’opportunità entrare in Europa, dal 93 per cento, i cosiddetti “migranti economici”, che (secondo gli stessi calcoli) per le leggi internazionali non godrebbero di un identico diritto. E che, perciò, quegli stessi Paesi dovrebbero incaricarsi di rispedire - salvo qualche eccezione - alle loro terre d’origine. Il tutto nell’intento di risparmiare ai migranti il rischioso viaggio nel mar Mediterraneo e la successiva selezione nei punti d’approdo siciliani. La Libia - dove nei giorni scorsi le milizie di Ibrahim Jadran hanno messo in difficoltà quelle del presidente Fayez al Serraj costringendolo a chiudere temporaneamente i terminali petroliferi - verrebbe tendenzialmente esclusa dal progetto per l’evidente assenza di un potere centrale capace di sovrintendere all’ambizioso disegno e garantire la sicurezza di queste “piattaforme”. Laddove però gli hotspot libici già in funzione e adesso supervisionati dall’Unhcr continuerebbero a operare nel nuovo contesto. Messa così, la cosa appare assai suggestiva, tant’è che non si capisce perché non ci si sia pensato prima. Già, perché? Per il fatto che quando Angela Merkel, all’epoca in cui Conte era ancora un semplice docente universitario, prospettò per prima ai governanti di Egitto e Tunisia l’idea di costruire a casa loro un tal genere di centri di accoglienza, accompagnandola con un’offerta di denaro (mezzo miliardo di euro) altrettanto generosa di quella accettata dalla Turchia, la risposta fu un categorico no. Le fu spiegato che lì da loro la situazione non era quella di Istanbul, Ankara o delle zone di confine tra Turchia e Siria, e le furono elencati i convincenti motivi per i quali l’operazione era impossibile. Punto primo. Egitto e Tunisia sono Paesi a loro modo democratici (il secondo più del primo, come è noto). Sono comunque Paesi in cui si vota e dove esiste un’opinione pubblica che è in grado di condizionare - anche fuori dalle cabine elettorali - il corso degli eventi politici. In entrambi i Paesi tale opinione pubblica guarda a questi flussi migratori in direzione dell’Europa non come li si vede da noi, bensì alla stregua di “dolorosi percorsi verso la libertà e l’emancipazione”. Di conseguenza proprio la parte più aperta e progressista di Egitto e Tunisia accoglierebbe con ostilità la creazione di quelli che ai loro occhi sarebbero null’altro che “campi di costrizione e di rimpatrio forzato”. Va aggiunto che la sensibilità su questi temi è già adesso molto sviluppata: a Mdhila in marzo si sono avute manifestazioni conclusesi addirittura con assalti e incendio della stazione di polizia; pochi giorni fa è stato sostituito il ministro dell’Interno, Lotfi Braham, accusato di non aver fatto il possibile per salvare le 112 vittime di un naufragio di migranti in acque tunisine. Punto secondo. Da Egitto e Tunisia prendono il largo prevalentemente egiziani e tunisini decisi a espatriare, come i nostri emigranti di un secolo fa, in cerca di una vita migliore sotto il profilo economico. E lo fanno in misura irrisoria (qualche migliaio) se confrontata a quella (decine, centinaia di migliaia) di coloro che partono dalle coste libiche dove si concentrano esseri umani provenienti dall’Africa centrale. Il primo effetto dei nuovi hotspot internazionali in Egitto e Tunisia potrebbe essere perciò quello di creare in quei Paesi un cortocircuito interno che rischierebbe di aggravare il loro già travagliato iter verso la realizzazione di un pieno regime democratico. Punto terzo. Forse chi prospetta questa idea, pensa di portare negli hotspot egiziani e tunisini almeno una parte delle decine di migliaia di persone intercettate dopo che sono partite dalle coste libiche. In altre parole le imbarcazioni delle Ong, raccolti i profughi abbandonati in mare dai trafficanti, li dovrebbero trasferire su navi europee che li farebbero poi scendere nei porti egiziani e tunisini; da questi porti verrebbero quindi trasferiti nei campi di smistamento e di lì (nella misura, ripetiamo, all’incirca del 93%) rispediti ai Paesi di origine. Con conseguenze sull’ordine pubblico facili da immaginare. Punto quarto. Qualcuno (in Europa) ha immaginato che l’operazione potrebbe essere realizzata già a terra: le carovane organizzate dai trafficanti verrebbero intercettate in territorio libico per essere dirottate verso gli hotspot egiziani e tunisini. Va tenuto presente che il delicatissimo contesto è quello in cui già adesso un milione di egiziani lavorano in Libia. Il dirottamento delle carovane si configurerebbe perciò come un’operazione militare di evidente complessità al punto che probabilmente sarebbe più semplice concepire una nuova colonizzazione dell’intera Libia così da trasformarla in un gigantesco hotspot africano. Operazione sconsigliabile innanzitutto per motivi d’ordine politico e morale ma anche perché destinata, a ogni evidenza, a creare molti più problemi di quanti intenderebbe risolvere. Per queste ragioni, quando i capi di Stato europei gli fanno intravedere una soluzione del genere, il professor Conte dovrebbe insospettirsi. E domandarsi perché non gli propongano la prosecuzione delle politiche già sperimentate dal predecessore di Matteo Salvini (l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti) che negli ultimi dieci mesi avevano dato importanti risultati. E non stiamo parlando adesso della pur clamorosa riduzione degli sbarchi su suolo italiano che comunque dopo un’estate da record, anche tra gennaio e aprile scorsi sono scesi del 75% rispetto a quelli del primo quadrimestre del 2017. Qui ci interessa di più far rilevare come nei campi di accoglienza già esistenti in Libia - alcuni dei quali erano stati fino a poco tempo fa veri e propri lager - proprio in questi mesi il clima è cambiato in virtù dell’intervento di personale delle Nazioni Unite e di alcune Organizzazioni non governative. Da quei campi si è cominciato (attenzione: cominciato) a sperimentare un “corridoio umanitario” attraverso il quale, a fine dicembre scorso, è stato possibile portare in Italia - con l’aiuto della Conferenza episcopale italiana - qualche centinaio di migranti. E si è iniziato a ritrasferire nei Paesi d’origine, tramite “rimpatri volontari assistiti”, venticinquemila migranti i quali hanno accettato di “tornare a casa” muniti di una “dote” con cui rifarsi una vita in Gambia, Guinea, Nigeria. Senza contare i centri accoglienza in Niger o sulla frontiera meridionale della Libia che hanno consentito di interrompere questi viaggi della speranza già a metà tragitto. E di conferire a Paesi africani e nordafricani la forza per combattere la vera guerra di cui nessuno si occupa: quella contro i trafficanti. Il tutto, ripetiamo, sotto le bandiere delle Nazioni Unite e con il concorso di Ong. Strano che adesso i capi di Stato europei nell’accogliere il nuovo presidente del Consiglio italiano cerchino di convincerlo della bontà dell’idea di hotspot egiziani, tunisini, magari libici, qualcuno dice perfino in Albania o in Kosovo. Fossimo in lui, lasceremmo cadere ogni discorso che anche solo alluda a questa prospettiva. E cercheremmo di evitare che se ne faccia menzione sia nella riunione ristretta di domenica sia nei comunicati conclusivi del Consiglio europeo che si terrà il 28 e 29 giugno. Dal momento che quella menzione - come ammette sottovoce perfino il commissario europeo all’immigrazione Dimitris Avramopulos - non è altro che fumo negli occhi. Ungheria. Stop ai migranti economici nella Costituzione, un anno di carcere a chi li aiuta di Maria Serena Natale Corriere della Sera, 21 giugno 2018 L’aveva promesso nella campagna elettorale che lo ha portato al trionfo dello scorso aprile e al terzo mandato consecutivo, ieri il premier nazionalista Viktor Orbán ha realizzato l’ennesima stretta sull’immigrazione con un pacchetto che criminalizza l’azione delle Ong e blinda di fatto i confini ungheresi. Un emendamento costituzionale e una normativa ribattezzata “Stop Soros” dal nome dell’imprenditore e filantropo di origini magiare definito da Budapest il principale promotore dell’”invasione” islamica che minaccia l’Europa. Così il governo Orbán si rilancia come capofila del blocco schierato a difesa della frontiera orientale e delle radici di una Ue cristiana e culturalmente omogenea. Una partita identitaria e politica che raccoglie sempre più consensi, dalla Baviera tedesca all’Austria all’Italia. La nuova legislazione, votata da 160 parlamentari su 199 con la saldatura tra la destra orbaniana di Fidesz e l’ultradestra di Jobbik all’opposizione, introduce il reato di agevolazione dell’immigrazione illegale e prevede fino a un anno di carcere per chiunque aiuti o faccia campagna a favore di migranti e richiedenti asilo. D’ora in avanti si violerà la legge anche solo distribuendo materiale informativo o organizzando attività di monitoraggio ai confini. Parallelamente, grazie alla super maggioranza dei due terzi, è stato inserito nella Carta fondamentale l’esplicito “divieto di collocare cittadini stranieri sul territorio del Paese, salva l’autorizzazione del Parlamento”. Da parte ungherese vuole essere la parola definitiva contro qualsiasi tentativo di mediazione sul sistema di quote per redistribuire i profughi tra i Paesi Ue. Eppure, ricordano allarmati giuristi e associazioni, il diritto internazionale prevale su quello nazionale anche in presenza di modifiche alla Costituzione. L’emendamento, approvato con 159 sì e 5 voti contrari, rende molto più difficile ottenere il riconoscimento del diritto d’asilo: saranno respinte le domande dei profughi arrivati in Ungheria attraversando Paesi dove non sussiste il rischio di persecuzione. Chiara la volontà di alzare una barriera normativa, dopo quella di acciaio e filo spinato della crisi migratoria del 2015, sulla rotta balcanica dei siriani che tentano di entrare in Ungheria dalla Serbia. È la via chiusa con l’accordo tra Ue e Turchia che però, avvertono da Budapest, oggi vede nuovi percorsi tra Grecia, Montenegro e Balcani settentrionali. La modifica costituzionale impone inoltre l’obbligo di “difendere la cristianità”, limita il diritto di manifestazione e istituisce tribunali amministrativi speciali con giudici di nomina governativa. Oggi a Budapest si ritrovano i leader dei Quattro di Visegrád - Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca. Ospite il cancelliere austriaco Sebastian Kurz, che dal primo luglio raccoglierà la presidenza di turno Ue e che domenica prossima sarà al vertice straordinario sull'immigrazione a Bruxelles. Stati Uniti. Lo sdegno del mondo piega Trump “mai più bambini in gabbia” di Federico Rampini La Repubblica, 21 giugno 2018 L’amministrazione Trump può decidere di uscire dal consiglio Onu sui diritti umani, ma non riesce a isolarsi completamente dal giudizio mondiale. Lo sdegno provocato dai bambini migranti, separati dai genitori e rinchiusi in appositi centri di detenzione, ha finito per piegare il presidente di America First. Dal Papa all’opinione pubblica internazionale, il coro di condanne per quei metodi crudeli ha rafforzato l’ampio fronte contrario all’interno degli Stati Uniti: non solo la sinistra ma tanti leader repubblicani, inclusa l’ex First Lady Laura Bush, hanno espresso disgusto. Uno slogan ha unito gli oppositori interni di ogni credo politico e religioso: questa non è l’America, non è la nazione in cui ci riconosciamo noi. Alla fine Trump ha pasticciato una retromarcia. Prima ha chiesto al Congresso di varargli una legge che renda possibile tenere unite le famiglie dei migranti o profughi arrestati alla frontiera col Messico. Ma il Congresso c’entra poco, questa politica di separazione forzata dei minori è la conseguenza di direttive interne all’Amministrazione Trump, diramate dal superministero della Homeland Security alla polizia di frontiera delle Border Patrol e ai funzionari dell’Immigration and Custom Enforcement. Il presidente, che non ama i dettagli, alla fine ha dovuto arrendersi e firmare un decreto esecutivo per “riunire le famiglie”, che lui stesso aveva separato in modo arbitrario. Va ricordato che metodi alternativi per perseguire l’immigrazione clandestina esistono, e furono applicati dalle amministrazioni precedenti sia di colore democratico (Obama) che repubblicano (Bush). Rifiutarsi di infierire con crudeltà sui bambini, traumatizzati dalle separazioni forzate, non significa per forza abbracciare lassismo e permissivismo su un tema delicato come l’ingresso illegale nel paese. È raro che Trump faccia retromarcia, e in questo caso bisogna rallegrarsene. Cercherà comunque di rivalersi altrove, su un terreno di battaglia che gli ha procurato molti voti. Tra i suoi elettori la “tolleranza zero” sull’immigrazione clandestina è popolare, è uno slogan vincente: la perdita del controllo sulle frontiere nazionali li angoscia, la considerano una minaccia per l’ordine e per l’identità del paese. Il fatto è che tutte le ricette sperimentate, dai metodi più soft a quelli militareschi, sono poco efficaci. Il vero regista della “tolleranza zero contro i bambini”, è quel generale John Kelly che aveva studiato il problema sul terreno, quando era capo del Southern Command e quindi presiedeva tutte le Forze armate Usa proiettate verso il Sud, dal Messico in giù. In America centrale Kelly aveva esaminato la tratta umana, il business di chi organizza i viaggi della speranza verso il confine Usa. Aveva avuto conoscenza diretta degli abusi e delle sofferenze inflitti a chi tenta quelle traversate: ivi compresi i tanti rapimenti di minori da parte delle gang che li schiavizzano. Kelly si era convinto che bisognasse mandare dei messaggi duri alla partenza, per dissuadere le famiglie dal lanciarsi in un’avventura così atroce. Una volta scelto da Trump come capo della Homeland Security, poi come Chief of Staff della Casa Bianca, ha dato via libera all’operazione “bambini separati”, coinvolgendo il Pentagono nella gestione dei centri di detenzione dei minori. A parte l’obbrobrio nazionale e internazionale suscitato dai 2.300 bambini strappati alle braccia dei genitori, il dato che inchioda l’esperimento- Kelly è questo: gli arrivi illegali di famiglie intere dal confine Sud non sono cessati. Non sono neppure diminuiti.