Ritornano i Tribunalini, esplodono la spesa e la giustizia di Bruno Tinti Italia Oggi, 20 giugno 2018 I grillo-leghisti sono pieni di buone intenzioni. È per questo che andranno all’inferno che, come è noto, di buone intenzioni è lastricato. Non sarebbe poi male, non fosse che, in attesa di completare il lastricato infernale, contagiano milioni di persone; che dunque finiranno all’inferno pure loro. L’ultima “buona intenzione” è la contro-riforma delle circoscrizioni giudiziarie: avviciniamo la giustizia alla gente, creiamo i “Tribunali di prossimità”, insomma ripristiniamo i piccoli Tribunali che (alcuni) con tanta fatica si era riusciti a sopprimere. Il problema è che - al solito - i grillo-leghisti sono ignoranti; sicché non sanno quello che fanno. E sono anche spregiudicati perché - in realtà - delle conseguenze di quello che fanno gliene cale punto: quello che conta è il consenso. E 250mila avvocati, un paio di migliaia di giudici, molte migliaia di cancellieri, segretari, uscieri e autisti, un centinaio di amministrazioni comunali e diverse migliaia di commercianti e proprietari di immobili, di consenso li inonderanno: sono lavoro e soldi che l’abolizione dei Tribunalini gli aveva tolto e che adesso rientreranno nelle loro tasche. Lo Stato ne spenderà molti di più, la Giustizia andrà a… ramengo ancora più di quanto non ci va ora; ma i voti cresceranno. Partiamo dalla fine. Il ripristino dei Tribunalini giova in primo luogo agli avvocati. I piccoli centri ne contano un certo numero che monopolizzano le difese del territorio (gli avvocati delle città grandi non pescano nei paesi vicini): è lavoro garantito. Inoltre l’abolizione dei Tribunali piccoli è stato un problema grosso per questi avvocati: difficile rifarsi una clientela nelle città vicine, dominate dagli avvocati che ci lavorano da anni. Anche i giudici che lavoravano in questi Tribunali di paese saranno contenti: si moltiplicano i posti di Presidente e di Procuratore Capo, vanno o tornano a lavorare in uffici tranquilli, senza affanno, con orario umano. Lo stesso dicasi per il personale amministrativo: moltiplicazione dei posti di dirigente e vita tranquilla. Per non parlare del prestigio che si accompagna alle cariche: buongiorno signor Giudice, certo le lavo la macchina per stasera, non si preoccupi la spesa gliela porto a casa io, spero voglia intervenire alla sagra del carciofo; e via così. Per tutta questa gente, la controriforma sarà una pacchia. Allora il problema dove sta? È questo che i grillo-leghisti non sanno; e anche a spiegarglielo non lo capiscono. Appena le cose si fanno complicate gli viene il mal di testa. Già arrivare a capire che più strutture piccole che gestiscono N processi costano N volte di più di una struttura unica che gestisce lo stesso numero di processi, per loro è molto complicato. E sì che di questa cosa il mondo della produzione ha fatto una legge universale. Quando poi si scende nel tecnico, cioè nei meandri della procedura penale, i nostri vanno in confusione. D’altra parte cosa ci si può aspettare? I grillo-leghisti non sanno cosa significa “incompatibilità” nel mondo giudiziario. Non sanno che la giustizia penale è amministrata dai Pm, dai Gip, dai Gup, dai Giudici di Tribunale. Non sanno che i Pm lavorano con i Gip; per esempio, sono i Gip che convalidano gli arresti eseguiti dalle forze dell’ordine; è a loro che il Pm chiede l’autorizzazione a intercettare utenze telefoniche o ad arrestare qualcuno o a sequestrare qualcosa e via così. Questo Gip non potrà fare il Gup, cioè il giudice che decide se rinviare a giudizio l’indagato oppure no. Sicché, fatti quattro i Pm in servizio in un Tribunalino, di Gip e Gup ne servono almeno altrettanti; in realtà di più, perché ci sono le ferie e le malattie e, se al momento buono manca un Gip o un Gup, il processo deve essere rinviato fino a quando ce ne sarà uno disponibile. Già - lo sanno tutti - la Giustizia italiana è un fulmine di guerra, figuriamoci nei Tribunalini. Il problema si ripropone per il dibattimento: per un Tribunalino servono almeno due Sezioni, cioè due collegi di tre giudici ciascuno e un paio di giudici monocratici; e siamo a 8 giudici. Anche qui, se uno si ammala o è in ferie, si blocca tutto; e non è possibile “applicare” un Gip o un Gup (come si fa in un Tribunale normale) per via dell’incompatibilità: hanno già svolto il loro ruolo nel processo che deve essere trattato, non possono giudicare. Insomma, un Tribunale che conti meno di 25/30 magistrati è destinato alla paralisi. Io ho fatto il Procuratore a Ivrea: tre Pm, due Gip, quattro Giudici. Non si combinava niente. Però avvocati, magistrati, personale amministrativo erano tutti contenti. Ma perché non chiedete prima di fare casino? Se il Csm introduce il divieto di scoop per i giornalisti di Liana Milella La Repubblica, 20 giugno 2018 L’idea era buona. Come la racconta Giovanni Legnini, il vice presidente del Csm: “Si dice sempre che i magistrati devono stare zitti. Non devono parlare delle loro inchieste. Invece devono farlo. Ma devono farlo bene. Rispettando le regole”. E qui la faccenda si complica. Perché oggi il Csm, in una dozzina di pagine, detta per la prima volta le linee guida per “una corretta comunicazione istituzionale”. Ma in quella circolare, che Repubblica anticipa, ci sono troppi “no” sulla cronaca giudiziaria, materia caldissima in questo, come in altri momenti della storia italiana. No agli scoop, azzerando il sano principio della leale concorrenza tra testate. No alle anticipazioni, negando a chi trova una notizia la possibilità di pubblicarla subito, anche se la persona coinvolta non saprà dal magistrato, ma dalla stampa, di essere finito in un guaio. No alla pubblicazione di notizie che possono violare, anche in parte, il segreto delle indagini. No a scriverle consegnando già all’opinione pubblica un possibile colpevole. A leggerle dalla parte di chi per anni ha lavorato nei palazzi di giustizia, a contatto con pm, polizia giudiziaria, giudici, si ha l’impressione che le “linee guida” del Csm, una volta attuate, più che un aiuto possano diventare un bel problema. E forse un problema potrebbe esserci pure tra le toghe. Perché la coreografia delle notizie porta alla forte concentrazione nelle mani del capo della procura che diventa il deus ex machina della macchina informativa. Già lo è adesso, ma le “linee guida” rafforzano di molto il suo potere. Sarà il “responsabile per la comunicazione”. L’unico che può parlare, imponendo la linea e controllando pure la polizia giudiziaria. Azzerata l’autonomia dei pm che dovranno informarlo sui casi “di particolare gravità, delicatezza, rilevanza”. Sarà lui solo a decidere flusso e modalità informative. Ma non basta. Il futuro meccanismo sembra togliere, più che aggiungere informazione rispetto al sistema attuale. Ecco il concetto di comunicazione “reattiva”, così viene definita, “per correggere informazioni errate, false, distorte”. E ancora la comunicazione “obiettiva”, cioè “presentare un’accusa in modo imparziale, equilibrato, misurato”. Ma questo saranno i giornalisti a deciderlo. E ancora: l’approccio “garantista” imposto all’informazione giudiziaria - criteri di “oggettività e trasparenza” recita la circolare - rischia di risolversi in regole che solo chi scrive, e non certo chi dà le notizie, ha diritto di darsi. Caso Cucchi. Carabiniere testimone: io trasferito e demansionato, il governo mi ascolti La Repubblica, 20 giugno 2018 Appello a Salvini, Di Maio e Conte: “Ho fatto mio dovere e pago”. La ministra Trenta: “Voglio incontrarlo”. Il Comando: “Trasferito perché vive un disagio psicologico”. “Per aver fatto il mio dovere, come uomo e come carabiniere per aver testimoniato nel processo relativo a Stefano Cucchi, morto perché pestato dai miei colleghi, mi ritrovo a subire un sacco di conseguenze”. Così Riccardo Casamassima, l’appuntato dei carabinieri che con la sua testimonianza ha fatto riaprire l’inchiesta sul decesso di Stefano Cucchi, in un video postato su Fb. Casamassima si rivolge “ai ministri Salvini e Di Maio e al presidente del Consiglio Conte: mi ascoltino”. “Avevo manifestato le mie paure prima del processo del 15 maggio - spiega - paure che si sono concretizzate perché mi è stato notificato un trasferimento presso la scuola allievi ufficiali. Sarò allontanato e demansionato e andrò a lavorare a scuola dopo essere stato per 20 anni in strada. È scandaloso. Ho subito minacce, nessuno mi ha aiutato. Mi appello alle cariche dello Stato, ai ministri Salvini e Di Maio e al presidente del Consiglio Conte: è giusto che una persona onesta debba subire questo trattamento? Mi stanno distruggendo. Mi recherò al comando generale per incontrare il nuovo comandante generale. Se non mi verranno date delle spiegazioni - aggiunge - sarò costretto ad andare in Procura e a denunciare quello che sta succedendo perché il processo Cucchi è ancora aperto e quindi una qualsiasi azione fatta nei miei confronti lo va a compromettere. Per giustificare il trasferimento lo motivano giudicandomi “poco esemplare e inadeguato al senso della disciplina”, conclude Casamassima. “Massima solidarietà a Riccardo Casamassima, il carabiniere che ha fatto il suo dovere raccontando al magistrato quel che sapeva sulla morte di Stefano Cucchi” afferma intanto Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista - Sinistra Europea. “È stato declassato e trasferito mentre meriterebbe una medaglia”. All’appello del carabiniere ha risposto il neoministro della Difesa Elisabetta Trenta: “Ne ho già discusso con il comandante generale dell’Arma e sono disponibile a parlare con lui. Sicuramente - ha aggiunto - ci sono dei fraintendimenti e quello che dice nel video va approfondito”. Il Comando generale dell’arma si è poi espresso sulla questione del trasferimento spiegando che la legione Allievi dove è stato spostato l’appuntato si trova anch’essa a Roma e “in zona più comoda per raggiungere la sua abitazione”. Ma soprattutto, continua l’Arma, la decisione è stata presa a causa di una “situazione di disagio psicologico, che Casamassima ha più volte rappresentato anche pubblicamente, avvertito per la presenza nella stessa caserma di uno dei militari da lui chiamati in causa per il caso Cucchi e di un altro che avrebbe usato parole offensive nei suoi riguardi”. Infine il Comando ha ribadito la solidarietà verso la famiglia Cucchi. La sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, è intervenuta su Facebook sulla questione con un post durissimo: “Il Carabiniere Riccardo Casamassima ha testimoniato così come lo ha ha fatto la Carabiniera Maria Rosati, oggi sua compagna e madre dei suoi figli. Furono loro a dare il via a questo processo per l’uccisione di Stefano Cucchi. Sono stati sentiti dopo che alcuni loro colleghi dissero di aver visto mio fratello estremamente sofferente dopo quel feroce pestaggio subito alla caserma della Casilina durante il foto segnalamento. Sono stati sentiti dopo che alcuni loro colleghi avevano ammesso, davanti ai giudici, di essere stati convocati dai superiori, dopo la morte di mio fratello, per modificare le loro annotazioni. Casamassima oggi è stato trasferito alla scuola allievi con demansionamento umiliante e consistente decurtazione dello stipendio. L’ho sentito in lacrime, disperato. Cari Generali Nistri e Mariuccia, era proprio necessario tutto questo, dopo quanto è emerso durante il processo sino ad ora? La scuola allievi Carabinieri aveva proprio bisogno, oggi, di Riccardo Casamassima? Proprio oggi?”. “Nella prossima udienza dell’11 luglio dovranno sfilare di fronte ai Giudici tanti colleghi del povero Casamassima - spiega - Saranno ben consci di quel che gli è successo oggi. Ma d’altronde la Scuola Allievi aveva bisogno improcrastinabile di lui. Da più parti, dopo quanto sta emergendo al processo, ci viene raccomandata cautela e prudenza. Ci viene letteralmente detto di stare attenti. Lei, Generale Nistri, ci ha detto che tutti hanno scheletri nell’armadio. Noi non li abbiamo, a meno che qualcuno non ce li metta. Ma questa è fantascienza”. Sul proscioglimento no al ricorso per salto di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2018 Corte di cassazione - Ordinanza 27526/2018. Contro la sentenza di non luogo a procedere non è più possibile il cosiddetto ricorso “per saltum” e cioè direttamente in Corte di cassazione senza passare per l’appello. E questo per effetto della riforma del Codice di procedura penale di poco meno di un anno fa. Lo sottolinea la Corte di cassazione con l’ordinanza 27526/2018 della Quarta sezione penale. L’effetto della pronuncia è l’immediata conversione del ricorso stesso in appello. In discussione c’era il regime da applicare all’impugnazione proposta dalla Procura contro la decisone del Gup di prosciogliere un imputato accusato del reato di falsificazione delle dichiarazioni sostitutive di certificazione perché non era stato accertato il dolo. Nel regime antecedente, la riforma approvata con la legge 103 del 2017 era ormai consolidato l’orientamento favorevole alla inappellabilità del giudizio di non luogo a procedere. Alla Procura non restava cioè che la sola soluzione del ricorso per Cassazione. Ora, per effetto del nuovo testo dell’articolo 428 del Codice di procedura, si è provveduto alla sostituzione del ricorso per Cassazione con l’appello, tornando quindi a estendere l’area del giudizio di secondo grado. Cosa avviene però alla possibilità che il Codice di procedura riconosce e cioè del “salto” dell’appello che la parte che ha diritto al secondo grado può effettuare? Per l’ordinanza questa possibilità non esiste più. O meglio esiste solo per la fase di cognizione, nella quale al giudice sono affidati poteri “pieni” e non invece quando il verdetto di proscioglimento è stato emesso nel corso dell’udienza preliminare. Quanto alla fase transitoria, in assenza di una chiara regolazione da parte della legge, la Cassazione ricorda che, se la sentenza di non luogo a procedere è stata emessa prima dell’entrata in vigore della riforma, il 3 agosto 2017, allora resta possibile l’impugnazione attraverso il ricorso in Cassazione come nel regime antecedente. Provvede poi direttamente la Cassazione alla conversione in appello dell’impugnazione quando invece la sentenza impugnata dalla Procura è stata emessa dopo, come nel caso esaminato. Nei reati in contratto fuori confisca l’utile Pa di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2018 Corte di cassazione - Sentenza 25980/2018. In presenza del reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, commesso nell’ambito di un contratto a prestazioni corrispettive, la confisca va circoscritta al vantaggio economico derivato dal reato, al netto delle utilità conseguite dalla Pubblica amministrazione. La Cassazione (sentenza 25980/2018) accoglie il ricorso del legale rappresentante di una Spa, contro la decisione di disporre il sequestro, di oltre 1 milione e 700 mila euro, finalizzato alla confisca in base alla legge 231/2001 per responsabilità amministrativa della società nel reato. La Spa aveva usufruito di un finanziamento Ue, di pari importo, per innovare tecnologia nel Mezzogiorno. Il reato, e il conseguente vantaggio dell’ente, era scattato per la dichiarazione, infedele, con la quale l’amministratore della società si impegnava a realizzare, per l’intero costo, il programma sperimentale in loco. A causa del “patto” non mantenuto i giudici di prima istanza avevano disposto il sequestro di tutta la somma, pur riconoscendo che parte dell’attività di ricerca era stata svolta nell’area etnea come concordato. La Cassazione sottolinea l’errore commesso dai giudici di merito che non hanno fatto la dovuta distinzione tra i “reati-contratto” per i quali il profitto confiscabile è il profitto lordo, e i “reati in contratto” nei quali rientra la truffa aggravata in danno di un ente pubblico. In questa seconda ipotesi, in cui entrano in gioco le prestazioni corrispettive, il profitto coincide con il vantaggio economico realizzato grazie al reato, senza considerare però, ai fini della confisca, l’effettiva utilità conseguita dal danneggiato. La Suprema corte chiarisce che la verifica da fare riguarda l’esistenza di un intento fraudolento già nelle condizioni per l’ammissione al finanziamento. E solo nel caso positivo di un vizio d’origine, il vantaggio ingiusto va identificato con l’intero contributo. Ma se, come nella vicenda esaminata, questo non viene riscontrato, il “focus” sul non lecito deve riguardare la sola esecuzione del progetto finanziato, al netto dell’utile conseguito dalla Pubblica amministrazione e dunque dei proventi frutto di prestazioni legittime. I giudici non hanno invece considerato l’esistenza di un’utilità, seppure parziale per l’amministrazione pubblica. L’accesso abusivo informatico senza prove non può formare ulteriore filone di indagine di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2018 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 19 giugno 2018 n. 28361. L’accesso abusivo a mezzi informatici da parte di due militari impiegati nel servizio di scorta di un terzo soggetto collaboratore di giustizia può essere sanzionato solo se sussistano prove che uniscano l’operato delle forze di polizia e un fine illecito quale l’intestazione fittizia di un bene da parte del collaboratore di giustizia. A precisarlo la Cassazione con la sentenza n. 28361/18. La Corte ha chiarito, infatti, che a seguito di intercettazioni telefoniche era emerso in modo piuttosto equivoco che il collaboratore in concorso con altri avesse provveduto all’intestazione fittizia dei beni, reato commesso al fine di eludere le disposizioni in materia di misure di prevenzione patrimoniale con attribuzione ad alcuni soggetti della titolarità di una srl di costruzioni. Di qui i giudici di merito hanno rilevato come gli accessi informatici abusivi fossero stati effettuati per consentire al collaboratore di giustizia di continuare a perpetrare ulteriori reati. Secondo i Supremi giudici la sentenza di condanna dei militari e del collaboratore è avvenuta in maniera troppo superficiale. In modo particolare non è emersa con adeguata motivazione, il profilo di connessione teleologica o probatoria tra i reati di accesso abusivo a sistemi informatici, che hanno formato oggetto del procedimento sottoposto ai giudici della Cassazione e il reato di intestazione fittizia di beni, che forma oggetto del procedimento nel quale le intercettazioni soni state disposte. In passato già la pronuncia di annullamento aveva vincolato il Tribunale di Roma a dimostrare con adeguata argomentazione, che le informazioni abusivamente captate ai pubblici ufficiali tramite l’accesso ai sistemi informatici protetti riguardassero proprio i beni attraverso i quali si voleva realizzare la commissione del diverso reato di intestazione fittizia di beni. La Cassazione evidenzia come sugli accessi informatici non fosse emerso niente altro in quanto effettuati per acquisire informazioni su un’autovettura, risultata di proprietà della nonna del collaboratore di giustizia nonché a ottenere informazioni su soggetti assolutamente estranei alla vicenda. È allora necessario reinvestire il giudice del rinvio del compito di dare adeguata giustificazione del vincolo di connessione tra i plurimi episodi di accesso abusivo a sistemi informatici ascritta ai ricorrenti (ndr due militari e il collaboratore di giustizia) e i reati per i quali sono state disposte le operazioni di intercettazioni nel procedimento innanzi all’autorità messinese, con motivazione puntuale e specifica, così come imposto dalla precedente sentenza di annullamento (sezione V, sentenza n. 52602 del 27 ottobre 2017). Sardegna: è record di detenuti in regime di 41bis, ma anche di carcerati che studiano di Giampiero Marras L’Unione Sarda, 20 giugno 2018 I due volti degli istituti di pena isolani sono emersi questa mattina nella giornata di studio organizzata nell’Aula Magna dal Polo Universitario Penitenziario dell’Ateneo di Sassari dal titolo “Pena detentiva e reinserimento sociale: il contributo dello studio universitario”. La Sardegna è la prima regione per incidenza di detenuti in regime di 41bis, il cosiddetto carcere duro per terroristi, mafiosi e altri colpevoli di gravi reati. L’isola è anche la seconda regione dopo il Molise con detenuti che hanno una condanna definitiva. Basti dire che il 20% dei carcerati ha una condanna superiore ai vent’anni o ha l’ergastolo, media che è quasi il doppio rispetto alle altre carceri italiane. Il lato positivo è che in Sardegna 4 istituti su 10 consentono l’accesso agli studi universitari: Tempio-Nuchis, Alghero, Sassari e Nuoro. Dato eclatante se si pensa che in tutto il Sud solo tre istituti fanno altrettanto: Taranto, Catanzaro e Pozzuoli femminile. Emmanuele Farris, Delegato del Rettore dell’Università di Sassari per il Polo Universitario Penitenziario, ha snocciolato alcuni dati: i 35 detenuti iscritti ai corsi universitari studiano in 14 corsi di laurea differenti, ripartiti nei dipartimenti di Agraria, Giurisprudenza, Scienze Economiche e Aziendali, Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione, Scienze Umanistiche e Sociali. Il lavoro dell’ateneo turritano è stato riconosciuto dal Ministero (Miur) che ha stanziato per il 2017 ben 220 mila euro per l’implementazione delle attività del Polo Universitario Penitenziario. Cremona: detenuto 39enne trovato morto in carcere, probabile suicidio con il gas Cremona Oggi, 20 giugno 2018 Alle 22 dello scorso venerdì, nella cella del penitenziario di Cremona dove era rinchiuso da mesi, si è tolto la vita Konstantin Kossivtsov, 39 anni, il muratore russo che l’8 marzo di un anno fa, giorno della festa della donna, aveva aggredito l’ex compagna che non lo voleva più in casa. Nella cella del 39enne sono state trovate due bombolette di gas. Si presume che il detenuto, accusato di tentato omicidio, sia morto per overdose per aver inalato gas. Tutte le ipotesi, comunque, sono aperte. Sarà l’autopsia ordinata dalla procura di Cremona a stabilire le cause del decesso. L’11 luglio prossimo il muratore russo avrebbe dovuto ripresentarsi davanti al giudice per conoscere la sua sorte giudiziaria. Si trovava a Cà del Ferro dopo aver trascorso un periodo rinchiuso nel carcere di San Vittore. Sottoposto a perizia psichiatrica, era risultato in grado di intendere e volere. La vittima, intanto, si sta lentamente riprendendo dalle ferite riportate. L’aggressione era avvenuta davanti alla casa di viale Dei Caduti, a Frassino, Mantova, dove fino a poche settimane prima la coppia abitava insieme alla loro bambina. Avezzano (Aq): detenuti al lavoro al Tribunale per scontare pena rainews.it, 20 giugno 2018 È quanto prevede il perfezionamento del Protocollo d’intesa siglato tra il Tribunale e il carcere della città abruzzese. Protocollo già siglato in precedenza dallo stesso Tribunale con alcuni comuni della Marsica e la Croce Rossa. I detenuti vengono utilizzati per archiviare atti e documenti, smistando posta e notifiche e facendo fotocopie. Scontare parte della pena, lavorando per la collettività. I detenuti - oltre ad essere impiegati nella manutenzione, gestione e pulizia di siti e strutture comunali, compresi giardini, ville e parchi, potranno - da ora in poi - prestare il loro servizio presso l’istituzione che ha emesso la condanna nei loro confronti: il Tribunale. È quanto prevede il perfezionamento del Protocollo d’intesa siglato tra il Foro e il carcere di Avezzano. Protocollo già siglato in precedenza dallo stesso Tribunale con alcuni comuni della Marsica e la Croce Rossa. I detenuti vengono utilizzati per archiviare atti e documenti, smistando posta e notifiche e facendo fotocopie. “È un modo alternativo di espiazione della pena che tende in qualche misura a ridurre i costi del mantenimento in carcere in vista del ben più consistente obiettivo di reinserimento del condannato nella vita lavorativa ed onesta” spiega il Presidente del Tribunale, Eugenio Forgillo. Attualmente sono due le persone che dal locale carcere San Nicola, stanno ‘lavorando’ presso il foro del Capoluogo marsicano con il compito di supportare il personale di cancelleria addetto nella riorganizzazione degli archivi dell’ufficio giudiziario, “contribuendo a migliorare gli standard di efficienza, sia pure nel pieno rispetto della privacy” aggiunge il Presidente. Presto - grazie anche alla collaborazione del Sindaco di Pescina, Stefano Iulianella, operatore dell’ambiente carcerario - sarà anche possibile il trasloco di molti documenti nell’archivio satellite dislocato presso l’ufficio del giudice di pace del comune marsicano, con conseguente ottimizzazione degli spazi. “In un prossimo futuro si potrà programmare la digitalizzazione degli atti più importanti - conclude Forgillo - contribuendo alla dematerializzazione”. Cagliari: inaugurati 36 orti per i detenuti della casa circondariale “Ettore Scalas” agensir.it, 20 giugno 2018 Con la posa delle prime piantine di pomodori, cipolle, melanzane e varie qualità di lattuga sono stati inaugurati stamane, presso la casa circondariale “Ettore Scalas” di Cagliari-Uta, 36 orticelli urbani che verranno gestiti dai 70 detenuti sui circa 500 ospitati attualmente nella struttura carceraria. Il progetto è nato dall’iniziativa dei Club Rotary “Cagliari Sud e Nord”, in collaborazione con l’amministrazione carceraria, il tribunale di Cagliari e le associazioni di assistenza carceraria, tra le quali la Caritas. “L’intervento, realizzato con un progetto originale per l’impianto di orto multiplo dell’agronomo Giorgio Oppia, che ha lavorato a stretto contatto con i detenuti - ha detto Stefano Zedda, presidente del club Rotary Cagliari Sud - sarà gestito in toto dall’organizzazione carceraria, le cui dinamiche interne sono estremamente complesse: la casa circondariale di Cagliari ospita molti detenuti delle zone circostanti la città, molti extracomunitari ed una sezione femminile con anche madri con bambini piccoli”. Per il direttore del carcere, Marco Porcu, “è una giornata di gioia: con questi orti un’area inutilizzata del penitenziario prende vita”. L’area di oltre 4.000 mq destinati agli orti si trova all’interno della cinta muraria del moderno carcere ed era completamente abbandonata. “La speranza è che l’orto diventi presto un luogo di lavoro, partecipazione e riscatto”, ha detto il direttore. Per l’agronomo Giorgio Oppia, “l’idea è stata quella di scartare la tecnologia per una impronta più umana, storica, facendo tutto a mano, anche l’irrigazione a goccia sarà gestita manualmente”. Per Oppia “questi orti devono rappresentare una sfida”. Bologna: “La Casa nel Villaggio”, un progetto per i condannati in misura alternativa volabo.it, 20 giugno 2018 Il 29 maggio 2018 presso l’Auditorium del Villaggio del Fanciullo di Bologna, si è tenuta la conferenza stampa di presentazione de La Casa nel Villaggio, un appartamento che prevede l’accoglienza di persone che possono godere di Misure alternative alla detenzione ; l’accoglienza diurna di coloro che godono di permessi premiali; ospitalità ai familiari delle persone accolte; percorsi di inserimento lavorativo e di socializzazione. Abbiamo intervistato la responsabile della Casa Elisabetta Laganà per conoscere meglio l’iniziativa. Buongiorno Elisabetta, le chiederei di raccontarmi cos’è La Casa nel Villaggio e chi ha ideato questo progetto.. La Casa nel Villaggio è sita all’ultimo piano dello stabile del Villaggio del Fanciullo di Bologna ed è aperta dall’agosto 2017. Il progetto è nato come risposta concreta alla necessità rilevata dalle istituzioni che si occupano di carcere e di pena, sia pubbliche che del volontariato, che hanno evidenziato come le misure alternative alla detenzione, pur essendo uno reale strumento di esecuzione della pena, siano applicate solo in parte a causa della carenza di strutture adeguate dedicate all’accoglienza. È stato stimato alcuni anni fa che nelle carceri italiane ci sono circa 20.000 detenuti che hanno pene definitive da scontare entro i tre anni che potrebbero quindi usufruire della concessione di misure alternative, ma non possono accedervi perché non hanno un luogo esterno di ospitalità. Questo accade laddove non c’è famiglia - ed è la condizione di molti stranieri - o, anche se la famiglia c’è, non ci sono le condizioni per il rientro della persona all’interno del proprio nucleo. La Caritas nazionale ha lavorato per anni su questo tema e ha lanciato il Progetto Nazionale Carcere su tutto il territorio nazionale, che prevede l’accoglienza di persone altrimenti impossibilitate ad accedere alle misure alternative perché non hanno un progetto abitativo idoneo. E siccome il lavoro è un diritto fondamentale e una parte assolutamente indispensabile per la risocializzazione della persona, il progetto non si limita a dare un tetto sulla testa, ma prevede anche l’avviamento al lavoro attraverso tirocini formativi e la ricerca intensa di lavoro stabile per i soggetti che accoglie. Bologna ha risposto in maniera entusiasta a questa iniziativa. Il progetto compiuto dovrebbe realizzarsi nella zona di Corticella, dove la parrocchia locale ha messo a disposizione un complesso abitativo da ristrutturare che permetterà di edificare una casa di accoglienza per le persone che possono accedere alle misure alternative al carcere di circa 8-10 posti, una comunità di vita composta da padri Dehoniani di Bologna e laici, ed un altro luogo attrezzato per laboratori artigianali. Dato che, però, era evidente che i tempi per la ristrutturazione sarebbero stati particolarmente lunghi, si è pensato di non attendere così tanto data l’urgenza di iniziare e, vista la disponibilità dell’appartamento al quarto piano dell’edificio principale del Villaggio del Fanciullo, si è deciso di iniziare lì. Grazie al sostegno dell’Arcivescovo Zuppi, che ha sempre manifestato un forte interesse sulle tematiche del carcere e per questo progetto ha stanziato fondi della Curia di Bologna, siamo così potuti di partire prima che arrivassero i fondi Caritas dell’8 per mille, previsti come sostentamento del progetto. L’appartamento è dunque un vero e proprio centro di accoglienza, una casa dove le persone possono vivere? Assolutamente sì: è un progetto residenziale. Qui gli ospiti hanno delle norme che sono riferite a) a una buona convivenza reciproca b) alle prescrizioni previste dai singoli provvedimenti del magistrato. Noi indichiamo delle regole generali orientate al fatto che le persone conducano uno stile di vita sobrio e il più possibile organizzato secondo i criteri di una esistenza che va verso la risocializzazione. Proponiamo un contesto profondamente diverso dalla vita del carcere, sia relazionale che personale, fondato sull’esercizio della responsabilità. A questo proposito abbiamo coinvolto anche figure del volontariato, quindi componenti della società esterna, per svolgere con gli ospiti attività sia all’interno della struttura, sia esternamente; il progetto infatti è stato pensato in collaborazione con l’associazione di volontariato Il Poggeschi per il carcere. Ci sono sempre degli operatori all’interno dell’appartamento? Non è prevista la nostra presenza stabile diurna, né il nostro pernottamento, ma siamo al piano di sotto e continuamente in contatto con loro per ogni necessità. Rispettiamo, senza snaturarlo, il senso della misura dell’affidamento in prova come una misura di fiducia; la considerazione di fondo è che ogni persona che sta scontando una pena e per la quale viene elaborato un progetto possa beneficiare dell’opportunità e della fiducia di essere promotore del proprio progetto di reinserimento, ed essere responsabile della propria vita al di fuori del carcere, chiaramente supportata sia dagli operatori che dalle istituzioni. Come si svolge una giornata tipo all’interno della Casa nel Villaggio? Un vincolo è che tutte le persone ospiti siano quotidianamente impegnate. Quindi, al momento dell’uscita dal carcere e dell’inizio della misura alternativa, viene condotta immediatamente una ricerca lavorativa per trovare dei tirocini formativi che cerchino di tenere conto, laddove ci sono state, delle abilità precedenti dei singoli soggetti. In altri casi bisogna invece partire da zero. Attualmente abbiamo uno studente universitario che, secondo le disposizioni del Magistrato di sorveglianza, deve studiare e conseguire la Laurea in Giurisprudenza. Questo è il suo progetto, dà gli esami con profitto e poi, come può, si rende utile anche nelle attività generali del Villaggio. Faceva parte anche del coro Papageno, ora continua da esterno l’attività corale. Abbiamo un’altra persona che si reca tutti i giorni nella provincia di Bologna, ad Anzola Emilia, per lavorare. Un altro svolge tirocinio presso la coop EtaBeta. In sostanza tutti devono avere delle cose da fare durante il giorno e contemporaneamente occuparsi della gestione della casa. Da questo punto di vista sono completamente autonomi: noi forniamo delle derrate per la spesa e loro cucinano, si occupano della casa e fanno anche delle attività di tipo risocializzante. Qualcuno ha famiglia esterna di cui occuparsi. Al di là della gestione della casa, ci sono attività ricreative che nascono dal basso, ideate dagli abitanti della Casa? Le vite di ciascuno sono abbastanza intense, nel senso che - ad esempio - chi lavora fuori Bologna quando arriva il fine settimana fa fatica a pensare ad altro se non a riposare, sebbene ognuno abbia una sua rete. Parte delle attività ricreative e risocializzanti sono organizzate dal gruppo dei volontari. Si fanno cene periodiche con i volontari in cui si cucina insieme, si esce per iniziative e questo ha un valore, amplia la possibilità di creare rapporti, avere relazioni e cambiare così la visione della vita. È un’esperienza importante perché se è vero che qualcuno - non molti - ha mantenuto un po’ di rete sociale esterna positiva, per qualcun altro invece la rete sociale assolutamente non esisteva; ad esempio alle persone che non provengono da Bologna La costruzione di nuove reti di socializzazione alternative a quelle dal circuito deviante, che mi sembra di capire sia una parte fondamentale del progetto, è dunque affidata al volontariato? Come primo inizio sì. Noi diciamo “qui c’è un mondo che tu puoi utilizzare dal tuo punto di vista. Ad esempio puoi cominciare ad uscire e vedere se hai degli interessi, occuparti di altri e di te stesso in modo costruttivo, conseguire obiettivi scolastici e culturali, impattare realtà che non conoscevi. Con questa base sicura che ti offriamo vedi che cosa ti può interessare per farti stare meglio”. Noi diamo il calcio d’inizio e poi li seguiamo passo passo per vedere come organizzano il tempo libero. Di fatto fuori, se uno vuole, ci sono infinite possibilità per tornare alla vita errata precedente, però ci sono anche tante altre possibilità interessanti. Partecipando a iniziative del genere, hanno scoperto e capito che tutto sommato la visione della vita legata al reato in un certo modo può essere ribaltata. Ricordo che, ad una cena a cui partecipavano un gruppo di volontari, uno degli ospiti ha detto “Io frequentavo le discoteche della Romagna ed ero in un gran giro di coca e di sostanze con quella che veniva definita “la bella gente”… Ora mi rendo conto che la bella gente siete voi: le persone decidono di venire a passare una serata con noi, dove si mangia insieme, si sta insieme e ci si confronta sulla vita”. Alcuni degli ospiti hanno espresso il desiderio di fare volontariato? Qualcuno sì, compatibilmente con l’essere impegnato col lavoro. Abbiamo anche persone che ormai sono dimesse da mesi ma che continuano ad frequentare l’ambito del Villaggio. Quindi mantengono diciamo un cordone, un contatto con questa realtà che comunque è una realtà concretamente ispirata ad un’idea umanitaria della vita. Nel progetto parlate di ospitalità ai familiari delle persone accolte ciò significa che possono pernottare nella Casa nel Villaggio? Siccome nell’appartamento abbiamo solo 4 posti in 4 camere e non vogliamo creare sovraffollamento, i familiari di solito vengono ospitati all’interno dello Studentato delle Missioni qui vicino, dove ci sono delle camere apposite. Poi però possono mangiare tutti insieme nell’appartamento e possono venire qui anche persone o familiari di persone che non vivono qui e che beneficiano di misure alternative. Questo mi fa pensare all’accoglienza diurna prevista dal progetto, mi può raccontare come funziona? Vogliamo che la casa diventi anche un luogo in cui possano transitare altre persone che usufruiscono di misure alternative alla detenzione o permessi premio. Queste persone - e ce ne sono - se non hanno delle reti sociali, si trovano a trascorrere la giornata da sole. Noi cerchiamo di evitare la solitudine di queste persone, offrendo quindi la possibilità di trovare una casa e qualcuno con cui relazionarsi. Ovviamente tutto deve essere filtrato coi criteri del permesso di cui la persona può usufruire. Una volta che si estinguerà la pena cosa faranno le persone vostre ospiti? Avete già un progetto anche da questo punto di vista? Questa è una questione fondamentale. Nella fase dell’approssimarsi al momento della dimissione - quindi qualche mese prima del fine pena - noi cerchiamo di far sì che la persona abbia le condizioni autonome per ripartire. Ci assicuriamo che il tirocinio formativo ad esempio si trasformi in un lavoro, che ci sia una possibilità abitativa dignitosa, magari anche in luoghi protetti di transizione che non siano dormitori, perché vorrebbe dire esporre la persona a condizioni di recidiva. Senza questi due vincoli essenziali noi non dimettiamo la persona anche se ha terminato la pena, perché vorrebbe dire disfare tutto lavoro precedente ed esporla a rischio. La Casa è già aperta da diversi mesi, avete già potuto fare un primo bilancio di come stia andando il progetto? Quando si offrono alle persone dimesse dal carcere le condizioni per poter avere un luogo di abitazione dignitoso la prospettiva cambia. Già il solo contesto abitativo fa la differenza; qualcuno dei nostri ospiti racconta in giro di vivere in un costoso attico con una vista spettacolare che domina Bologna, ed in effetti è vero… Sembra proprio una sorta di contrappasso dal carcere che ha uno spazio estremamente limitato dai muri e un campo visivo particolarmente ristretto. Invece qui lo sguardo ti si allarga a decine di chilometri e questo è un elemento terapeutico già di per sé. Quindi, dicevo, quando si offrono alle persone i fondamentali per poter ricostruire la vita, cioè un accompagnamento personale, un sistema di relazioni positive, un lavoro e un’abitazione, quasi tutte poi vivono con estrema gratitudine questa opportunità che gli è stata data e la usano al meglio. Ci è capitato un solo caso di evasione; si trattava di una persona straniera, gravemente malata che voleva finire la sua vita con i familiari che non potevano venire in Italia. La conferenza stampa e l’inaugurazione della Casa alla presenza dell’Arcivescovo Zuppi arrivano a diversi mesi dalla partenza vera e propria del progetto. Avete voluto aspettare questo primo bilancio prima di presentarlo alla città di Bologna? Sì. Siamo partiti in sordina perché si tratta di un’esperienza nuova a Bologna, e noi per primi volevamo misurarci con l’attuazione del progetto. Vede, nelle varie relazioni che ho svolto quando ero Garante per i diritti delle persone private della libertà del Comune di Bologna avevo messo in evidenza la mancanza di un servizio di accoglienza realmente strutturato in città, che garantisse una progetto completo per ogni persona accolta. La Casa nel Villaggio è proprio questo: ha un solido pensiero dietro e le persone che vengono qui hanno un progetto loro dedicato. Questo ci dà l’opportunità di costruire una buona collaborazione con il Magistrato di sorveglianza e di facilitare così i percorsi di reinserimento. I risultati sono stati decisamente al di sopra delle aspettative. Ora, quindi, vogliamo che la città sappia dell’esistenza di questa realtà che non è una realtà pericolosa, non minaccia la sicurezza della comunità, perché i nostri ospiti sono persone che fuori non hanno intenzione di rimettersi a delinquere, ma vogliono cambiare radicalmente la loro vita. Scommettere su luoghi di questo genere è anche un elemento di risparmio sociale, perché il carcere effettivamente costa infinitamente di più anche dal punto di vista organizzativo. Le misure alternative sono invece molto meno costose e più sicure di una pena che prevede la detenzione fino all’ultimo giorno. Infatti chi non ha avuto la possibilità di guardare all’esterno per cercarsi un lavoro e trovare altre reti sociali fa molta più fatica a reinserirsi, e può essere più tentato di rincorrere alle strategie precedenti che lo hanno portato in carcere. Quando sarà pronta la struttura in Corticella che ne sarà dell’appartamento al quarto piano? Continuerà ad essere impiegato nell’ambito di questo progetto o cambierà destinazione d’uso? La risposta devono darla i padri dehoniani. Il mio auspicio è che, quando verrà aperta la struttura di Corticella, in tempi non brevissimi che adesso non siamo in grado di definire, questa struttura rimanga comunque a disposizione per l’accoglienza femminile. Penso alla questione delle madri con figli in carcere di cui mi sono occupata moltissimo quando ero Garante perché ad oggi, nonostante i numerosi appelli fatti e anche un’importante convegno realizzato dal mio Ufficio del Garante insieme alle istituzioni sulla questione femminile e le madri con bambini in carcere lo scorso anno, non esiste di fatto una possibilità esterna di accoglierle e il carcere di Bologna rimane dunque l’unica sede per madri con bambini per le carceri dell’Emilia Romagna. Vengono portate qui da tutta la regione perché questa è l’unica città che garantisce il servizio sanitario per 24 Ore. Inizialmente in carcere c’era anche una cosiddetta “sezione nido”, che io ho sempre considerato una cosa inaccettabile; fare una sezione nido in un carcere espone bimbi molto piccoli a eventi traumatici spesso permanenti - si pensi solo ai rumori del carcere! Alcuni neonati e bambini di pochi mesi, che ho seguito, dopo un po’ cominciavano a manifestare segni di agitazione e di pianto inconsolabile, facevano fatica a mangiare e altro ancora. Questi effetti lamentati dalle madri con bambini sono inequivocabilmente derivati dal contesto del carcere e sono segno di profondo disagio ambientale dovuto all’assoluta inadeguatezza del contesto. Il suo è davvero un bel desiderio per ipotizzare degli sviluppi futuri del progetto. Buona fortuna per tutto ciò che è e sarà La Casa nel Villaggio! Grazie, siamo convinti che darà dei buoni frutti. Non c’è soddisfazione più grande per chi si occupa di queste tematiche che vedere le persone trovare un nuovo senso della vita, dei nuovi valori, una nuova opportunità e delle nuove idee per vivere in modo diverso. Biella: i Radicali “carcere di in situazione critica, ci appelliamo al ministro Bonafede” newsbiella.it, 20 giugno 2018 La situazione del carcere di Biella torna al centro dell’attenzione con la visita nei giorni scorsi dei Radicali Italiani nella struttura di via dei Tigli. Silvja Manzi, tesoriere di Radicali Italiani, Igor Boni e Miruna Brocco, coordinatori Associazione radicale Adelaide Aglietta, si sono recati nella Casa circondariale nell’ambito di una iniziativa nazionale. “Il carcere di Biella si trova in una situazione estremamente critica e potrebbe, invece, essere un’eccellenza - hanno affermato - Biella è, per dimensione, il secondo carcere del Piemonte, dopo il “Lorusso-Cutugno” di Torino. La struttura ospita, al momento, 471 detenuti (di cui 263 non italiani), numero peraltro in crescita costante, ma gli agenti di polizia penitenziaria sono solo 190 (considerando le turnazioni, le ferie, le malattie ecc. è molto facile immaginare le difficoltà di gestione per un organico così sottodimensionato) e gli educatori solo 5. A Biella non solo sono presenti praticamente tutti i circuiti (tranne il 41bis, presente invece a Novara ma che non siamo potuti andare a visitare) ma non è stata ancora risolta la situazione dei cosiddetti internati (persone sottoposte a misure di sicurezza da eseguirsi in case lavoro, colonie agricole, Rems ecc.) che trasferiti in emergenza a Biella, non sono stati ancora collocati in strutture idonee, causando gravi disagi agli stessi internati e al personale non preparato a gestirli”. Per i Radicali Italiani il carcere “ha degli elementi di assoluta positività che se valorizzati, con un aumento dell’organico e con una migliore dislocazione dei detenuti (come per tutto il Piemonte, gli istituti soffrono degli sfollamenti fatti dalla Liguria, da Torino e da Milano), farebbero del carcere di Biella un esempio da seguire. Notevole, infatti, è il lavoro dell’azienda agricola all’interno della struttura, così come della sartoria, che quando entrerà a pieno regime produrrà le uniformi della polizia penitenziaria di tutto il Paese. Inoltre, molto accogliente è il nuovo spazio per i colloqui tra genitori detenuti e figli minori”. Infine l’appello al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede: “Ha una minima idea di quale sia la situazione carceraria in Italia? Ha mai visitato un carcere? Siamo disposti a portarlo in una delle nostre visite per fargli toccare con mano l’insostenibile situazione che devono vivere quotidianamente detenuti e agenti penitenziari. Venga con noi a visitare le carceri prima di fare proposte che se attuate avranno come risultato l’esatto contrario di quello che dice di voler ottenere. Sostenere, infatti, di poter garantire la rieducazione del detenuto esclusivamente all’interno delle strutture carcerarie - ha mai studiato le statistiche sulle recidive? - significa non avere un minimo di cultura del diritto, della legge, della giustizia e della realtà”. Rieti: i Radicali in visita al carcere denunciano molte carenze da parte dell’Asl formatrieti.it, 20 giugno 2018 Si è svolta domenica 17 giugno, organizzata da Radicali Italiani, una visita al carcere di Rieti. La delegazione radicale, composta da Marco Giordani, Alessio Torelli e Marco Arcangeli è stata accompagnata da Lodovica Rando - consigliere comunale M5S - e Marco Cossu - consigliere provinciale Fratelli D’Italia. Questa che segue è la loro relazione: “Il Carcere di Rieti, come già evidenziato nelle precedenti visite, è una buona struttura, dove le condizioni di vivibilità sono sicuramente migliori rispetto alla media degli altri istituti. La popolazione detenuta a Rieti è particolare, sia perché composta per lo più di condannati definitivi (nonostante come Casa Circondariale dovrebbe ospitare detenuti in attesa di giudizio o per brevi condanne) sia perché costituita per oltre la metà di stranieri. Manca tuttavia un rapporto proficuo con il territorio, alimentato non dalle istituzioni ma solo da alcuni gruppi di volontari. Esperienze di lavoro interno sono fallite lasciando in abbandono le pur notevoli strutture, quelle di lavoro esterno (molto positiva quella ad Amatrice) non riescono ad avere seguito e diffusione. Non va per esempio nella direzione giusta la recente proposta in Consiglio Comunale di Rieti di utilizzare per lavori di pubblica utilità gli autori di reati lievi del Codice della Strada, anziché cogliere l’occasione per un processo di reinserimento e riabilitazione per i detenuti. Il lavoro da tutti viene considerato la strada per il reinserimento sociale dei detenuti. Non è forse un caso che il carcere di Rieti, difficilmente raggiungibile e con scarse opportunità di lavoro offerte dal territorio, sia destinazione di stranieri ben oltre la media nazionale, nella supposizione che gli stranieri abbiano meno bisogno di essere visitati e di essere reintegrati. Altro annoso problema dell’Istituto è la assenza colpevole da parte della Asl: ad esempio per la carenza del supporto psichiatrico: le 18 ore settimanali - quando garantite - si concretizzerebbero, su 238 detenuti in terapia psichiatrica, in 3 minuti a testa; non c’è inoltre un psicologo per prendere in carico i nuovi arrivi. Trattamenti Sanitari Obbligatori vengono richiesti (e sottoscritti dal Sindaco) in un numero di che è giudicato eccessivo e forse con troppa leggerezza vengono disposte delle “sorveglianze a vista” il cui onere inevitabilmente ricade sulla polizia penitenziaria. Di notte non ci sono infermieri a supporto del medico di guardia, ma soprattutto la Asl non fornisce una serie di prestazioni specialistiche (otorino, dermatologo, oculista, urologo) le quali richiedono di spostarsi in Ospedale anche per situazioni facilmente risolvibili in ambulatorio (misurazione della vista, rimozione di un tappo di cerume, esame di una verruca). Questo è un aspetto particolarmente grave perché comporta che ben 3 agenti siano distaccati per scortare il paziente, in una situazione in cui la polizia penitenziaria è in carenza di oltre 50 agenti (a fronte di 70 detenuti oltre la capienza massima). L’aspetto paradossale di queste che tecnicamente si chiamano “traduzioni” (anche se qualcuno le chiamerebbe “gite”, seppure in manette) di poche centinaia di metri da Carcere ad Ospedale è che, mentre viviamo un periodo in cui la “sicurezza” dei cittadini viene invocata ad ogni occasione, quotidianamente (ben 326 traduzioni sanitarie nel 2017) si viene a creare una situazione che, secondo la narrazione comune, esporrebbe gli stessi cittadini a dei rischi; è evidente la contraddizione tra le intenzioni (del comune sentire e del nuovo governo) di ridurre i permessi ai detenuti giudicati “meritevoli” dai magistrati di sorveglianza e un sistema Asl che invia quotidianamente in ambulatorio anche detenuti potenzialmente pericolosi. La visita della delegazione è proseguita in una delle sezioni degli 84 Sex-Offender, che costituiscono una categoria eterogenea che mette insieme stupratori e pedofili con violenti e molestatori telematici. Essi vivono separati dal resto dei detenuti (280) e questo fa sì che la loro condizione sia più critica di quella degli altri, anche visivamente: negli spazi di passeggio - da anni desolatamente “nudi”, nelle celle - che ospitano spesso 4 detenuti in uno spazio progettato per 2; aspetto quest’ultimo che restringe anche lo spazio calpestabile per ogni detenuto, che dovrebbe essere sopra i 3mq per non incorrere in “trattamento disumano e degradante” (vero che la condizione è attenuata dal regime di celle aperte per gran parte della giornata, in vigore nell’intero Istituto). Nella visita alla sezione abbiamo ricevuto diverse lamentele, segnalazioni e richieste da parte dei detenuti, che abbiamo subito girato al pur sensibile personale penitenziario. Esse, spesso legate a disfunzioni legate a mancanza di organico (“mai visto educatore in 4 mesi”, “nessun fisioterapista dopo 4 mesi da un intervento ortopedico”, “il magistrato non si vede”) dimostrano come sia rilevante la lontananza, per i mille problemi individuali, sia dei Magistrati di Sorveglianza (che risiedono a Viterbo) che del Garante dei Diritti dei Detenuti (che risiede a Roma). Sarebbe per questo opportuna la presenza fissa a Rieti, in giorni prestabiliti, di un Magistrato di Sorveglianza. Torniamo inoltre a chiedere alla Amministrazione Comunale di Rieti di provvedere al bando per concretizzare l’Ufficio del Garante Comunale (che ricordiamo è previsto senza emolumenti). Ma fra tutte le urgenze, quella sanitaria è la maggiore. L’attuale carenza di organici medici in Ospedale non è una scusante della situazione, perché essa si trascina così, e pericolosamente, da sempre. È necessario che sulla Asl intervengano con decisione sia la Regione, sia il Sindaco come Autorità Sanitaria Locale. Un ultimo appello è alle palestre cittadine: la palestra del carcere è una importante sfogo di energie anche psichiche per i detenuti, specie per i sex offender che non hanno neppure uno spazio esterno utilizzabile per il calcio. Purtroppo, per mancanza di fondi, essa è desolatamente povera di attrezzature. Sarebbe un bel segnale per qui fuori ed un importante aiuto per lì dentro se si riuscisse a dotarle di attrezzi, magari nel periodico rinnovo degli stessi da parte delle palestre. Potrebbe magari prendere questa iniziativa il Consigliere Delegato allo Sport?”. Marco Giordani e Alessio Torelli Segretario e Tesoriere di Sabina Radicale - Radicali Italiani Bari: tre giorni di sciopero degli avvocati penalisti, protesta nei confronti del governo di Paolo Mosè ildispariquotidiano.it, 20 giugno 2018 La richiesta dei penalisti è di una vera riforma della giustizia. Dopo i gravi fatti di Bari con le udienze nelle tendopoli. Mentre la burocrazia del Ministero va alla ricerca di cavilli e una moltitudine di autorizzazioni, la sede storica di Ischia non è stata ancora presa sotto la responsabilità del tribunale di Napoli. Con una spesa per il contribuente non indifferente, mentre il giorno della chiusura si avvicina sempre più senza che vi sia un atto che consenta di sperare nella proroga o nella stabilizzazione dell’ufficio isolano. Tre giorni di blocco totale delle udienze penali per protestare contro lo sfascio della giustizia. Dopo gli ultimi avvenimenti che hanno indotto l’Unione delle Camere penali italiane a proclamare l’astensione per i giorni 25, 26 e 27 giugno. Disponendo che tutti gli uffici periferici per il giorno 27 organizzino una manifestazione per richiamare l’attenzione del nuovo esecutivo. Per indurre il governo a dare quelle risposte che si attendono da anni per una veritiera riforma che consenta di essere al passo dei tempi e di un Paese civile, dopo la brutta figura che ha richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica per la chiusura del palazzo di giustizia di Bari e con il realizzo di tendostrutture per ospitare le aule del dibattimento e gli uffici di cancelleria. Una richiesta esplicita che viene indirizzata al nuovo guardasigilli Bonafede, che dovrebbe presenziare ad un convegno che si terrà il prossimo 30 giugno ad Ischia. E si chiede un’azione più incisiva proprio per dare sostanza e risoluzione alle varie problematiche che attendono da anni risposte. E nel passaggio del deliberato si evidenzia proprio questo aspetto: “Che sin dall’inizio sia l’avvocatura che la magistratura e le rispettive rappresentanze locali e nazionali hanno evidenziato la necessità di poter individuare soluzioni diverse sulla base della situazione di emergenza con la nomina di un commissario in grado di poter acquisire l’uso di immobili di dimensioni pari a quello di via Nazariantz, peraltro disponibili nella città, disponendone la provvisoria modifica della destinazione urbanistica, opponendosi invece nettamente alle soluzioni fatte proprie dal Ministro che appaiono appiattite sulle posizioni della “burocrazia ministeriale”, come evidenziato nel recente comunicato della Camera Penale di Bari riportato con risalto sulla stampa”. Rimarcando ancora le gravi inadempienze e l’assenza totale del Ministero e di tutti gli uffici che fanno capo, che da anni vengono sistematicamente sollecitati ad interventi, ma senza trovare alcuna risposta: “Che occorre pertanto opporsi fermamente ad ogni iniziativa volta a operare una assurda ed ingiustificata parificazione fra la attuale situazione di crisi, determinatasi a seguito dei gravissimi ritardi e delle inadempienze del Ministero della Giustizia, e le situazioni venutesi a creare a seguito di eventi sismici devastanti, ponendo in essere rimedi quali la sospensione dei termini e della prescrizione che non possono trovare giustificazione alcuna nel caso di evidenti responsabilità politiche delle amministrazioni”. Ma bisogna essere più realistici del re, allorquando bisognerebbe andare a rivedere la geografia giudiziaria su tutto il territorio, che appalesa gravi disfunzioni e assenza anche della minima manutenzione degli edifici: “Che tale operazione “normalizzatrice” significa inevitabilmente il rinvio di ogni soluzione reale dei problemi giudiziari del territorio, e la stagnazione della vita civile, professionale ed economica gravitante intorno alla corretta quotidiana gestione della attività giudiziaria, con una definitiva emarginazione della crisi nei consueti spazi di obsolescenza alla quale sono destinate le “emergenze”, specialmente in alcune zone geografiche del nostro Paese”. Ed ancora la delibera è incalzante verso il nuovo guardasigilli, che pur si è interessato a qualche problematica più difficile da risolvere. Impegnandosi a trovare soluzioni tecniche e soprattutto a colmare il buco finanziario che fino ad ora ha provocato ritardi e mancanza di attuazione di crescita del settore giustizia: “Che tale mancato rispetto è risultato con evidenza laddove il Ministro Bonafede si è vantato di avere, all’emergere della crisi, fatto un’unica (pur doverosa) telefonata al rappresentante della magistratura associata, omettendo invece ogni contatto (anch’esso altrettanto doveroso) con la rappresentanza dell’Avvocatura penale, la quale pure ha chiesto formalmente con una lettera pubblica, rimasta senza risposta, un incontro urgente con il Ministro della Giustizia al fine di poter rappresentare la posizione dei penalisti italiani, le esigenze dell’avvocatura e le proposte di soluzione della crisi”. E si chiede alla politica uno sforzo, un cambio di rotta significativo in tutti i settori della giustizia, a partire dalle varie funzioni giurisdizionali del funzionamento degli uffici e fino ad arrivare alle carceri, che sono una vera piaga indelebile: “Che il disinteresse per una nuova politica rispettosa dei ruoli e delle effettive esigenze del mondo della Giustizia appare purtroppo confermato dal fatto che l’attuale Governo ha ritenuto nel suo “contratto” di poter e di dover investire le risorse pubbliche - nell’ambito di una visione esclusivamente securitaria ed autoritaria della pena, in aperto conflitto con i parametri costituzionali - solo nella edificazione di nuove carceri, con ciò affermando una distorta interpretazione del principio di “certezza della pena”, e del tutto trascurando di perseguire e di implementare nel nostro sistema giudiziario la “certezza del processo e della giustizia” come valori preminenti di un moderno Stato di diritto costituzionale”. E in questo panorama non può mancare il discorso che si appalesa sul palazzo di giustizia di Ischia, già bello e pronto per essere consegnato nelle mani e nelle cure del Ministero della Giustizia. Ma da quest’ultimo fino ad ora non arrivano segnali incoraggianti, dovendo assumere ufficialmente l’impegno della gestione. Con uno scambio di incartamenti con il Comune d’Ischia. E ciò si sarebbe dovuto verificare dopo che diversi dirigenti del dicastero di via Arenula si sono presentati ad Ischia all’incontro con i tecnici del Comune per verificare quali sono stati i lavori eseguiti e se questi sono a norma per essere ritenuti classificabili per un palazzo di giustizia. Una sorta per trovare il pelo nell’uovo, quando poi a Bari sono state autorizzate le udienze in una tendopoli, come se fossero dei terremotati. Come appare anacronistico pretendere la ristrutturazione del palazzo di giustizia di Ischia senza che contestualmente sia iniziato un iter serio ed ufficiale per confermare la presenza sul territorio della sezione distaccata. Tutto è demandato alla volontà della politica, che si è impegnata a garantire che non si chiuderanno i battenti. Ma bisognerà fare presto, perché il 31 dicembre del 2018 è dietro l’angolo. Napoli: un polo universitario in carcere, la “Federico II” a Secondigliano di Anna Laura De Rosa La Repubblica, 20 giugno 2018 È stato inaugurato nel Centro penitenziario “Pasquale Mandato” di Napoli (Secondigliano) il Polo universitario penitenziario regionale per i detenuti della Campania. È il primo del meridione ed è stato costituito dall’Università degli Studi di Napoli Federico II e dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria provveditorato regionale. L’obiettivo è favorire lo sviluppo culturale e la formazione universitaria dei detenuti degli istituti penitenziari, nonché supportare gli agenti nei percorsi di formazione universitaria. Al taglio del nastro hanno partecipato Gaetano Manfredi, rettore della Federico II, Giulia Russo, direttore del Centro penitenziario di Napoli Secondigliano, Samuele Ciambriello, garante regionale dei diritti delle persone detenute, Giuseppe Martone, provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Campania. Il responsabile per l’Ateneo è la professoressa Marella Santangelo, che ha la responsabilità dei rapporti con la Direzione del carcere e con le altre istituzioni coinvolte. I docenti dei Dipartimenti coinvolti garantiranno lezioni, seminari, orientamento per la preparazione degli esami, assistenza alla preparazione delle tesi di laurea, nonché l’effettuazione degli esami e delle sessioni di laurea per quanti pervengono alla fine del loro percorso di studi. La Federico II dispone, inoltre, della piattaforma di e-learning, Federica.eu, che consente di seguire le videolectures, leggere i testi del docente, sottolineare i passaggi interessanti, prendere appunti, commentare. Per il prossimo anno accademico 2018-19, per le attività del Polo Universitario, si prevede, dopo un’attenta consultazione dei dati nazionali, il coinvolgimento in particolare dei Dipartimenti di Scienze Sociali, Scienze Politiche, Giurisprudenza e Studi Umanistici, e della Scuola Politecnica e delle Scienze di base. Arienzo (Ce): “Criminali non si nasce”, al carcere un incontro-dibattito sulla legalità ecaserta.it, 20 giugno 2018 Si è tenuto ieri mattina presso la casa circondariale di Arienzo, diretta dalla direttrice dott.ssa Casaburo Mariarosaria, un incontro sulla legalità introdotto e moderato dalla giornalista Emanuela Belcuore. Vi hanno preso parte Francesca Beneduce, criminologa già Presidente Commissione Pari Opportunità della Regione Campania; Davide Guida, sindaco di Arienzo e Luigi Di Cicco coautore di Gramigna e produttore dell’omonimo film. A sorpresa si è unito ai lavori il deputato Antonio del Monaco Componente della IV commissione permanente della Camera dei Deputati -Difesa e Sicurezza- la cui presenza è stata particolarmente gradita ai detenuti che hanno avuto l’opportunità di confrontarsi con “un pezzo dello Stato” come loro stessi lo hanno definito, ha sottolineato un ‘interessamento attivo alle problematiche carcerarie che non possono prescindere dalla cultura del rispetto, principalmente verso se stessi. Il sindaco Guida, che da più di due anni vanta una collaborazione attiva con la struttura detentiva attraverso l’impiego dei detenuti in lavori socialmente utili alla comunità di Arienzo, ha annunciato che a breve si implementerà la collaborazione mediante l’ausilio presso il Comune di un bibliotecario proveniente dalla struttura circondariale. Una platea attenta ed interessata ha seguito l’incontro, che ha spaziato dalle teorie criminologiche dell’associazione differenziale, al pregiudizio, al dubbio temi approfonditi dalla Dott.sa Beneduce che aggiunge - “È fondamentale codificare e capire le storie, le tante storie di vita difficile rinchiuse in queste mura. La storia di Luigi offrire all’attenzione dei tanti lettori un messaggio rassicurante a testimonianza che un’alternativa c’è sempre. Importante il dialogo che è possibile quando nessuno crede che la propria verità renda menzogna quella dell’altro. Gramigna si presta a tante teorie criminologiche che qui trovano un’applicazione pratica. Quella di Luigi è una devianza positiva, che si è formata non tanto e non solo nell’aver incontrato persone sbagliate, ma anche e soprattutto dall’aver incontrato le persone giuste. Ruolo centrale in questa Ri-nascita è affidato alla sua mamma. C’è sempre una scelta, un’alternativa. Criminali non si nasce, ma si diventa, se si impara a preferire i comportamenti criminali e a comportarsi da criminali. È una storia che vince il pregiudizio”. Anche Luigi Di Cicco, anima della giornata, ha sottolineato quanto per lui valga la Libertà “che mi sono cucito addosso”, parole come “le lame che mi hanno attraversato” denotano lo stesso dolore che attraversa gli occhi dei detenuti che ci stanno di fronte. “Avere l’impressione della normalità,- aggiunge Di Cicco- grazie alla nascita di un figlio, per trasmettergli i principi ed i valori che mi hanno sostenuto anche quando ho temuto di perderli”. Luigi ha donato una copia autografata del suo libro alla biblioteca del carcere ma questo non è stato l’unico dono di oggi. Ad allietare gli ospiti della struttura un altro omaggio, il famoso “Fiocco di Neve” fatti pervenire da Ciro Poppella ideatore anche del dolce Gramigna “voce di speranza”. Brindisi: Pier Paolo Pasolini e “I ragazzi della via Appia”, in scena i detenuti-attori brindisireport.it, 20 giugno 2018 Pausa estiva per il laboratorio teatrale che nei mesi scorsi ha visto la partecipazione di numerosi detenuti della casa circondariale di via Appia a Brindisi, alcuni dei quali hanno partecipato anche con testi propri alla preparazione della piece che chiude la stagione, in attesa della ripresa delle attività a settembre. L’esperienza, che vede la piena disponibilità del direttore della casa circondariale, Anna Maria Dello Preite, del comandante e degli operatori della Polizia penitenziaria, è condotta dal compagnia Sud Theatri (che ringrazia per la collaborazione direttore e personale di custodia). La “chiusa” dei primi quattro mesi di lavoro del laboratorio è andata in scena nel pomeriggio di venerdì scorso nella cappella del carcere davanti a un folto pubblico di detenuti, educatori e agenti della Polizia penitenziaria. Sul palcoscenico, nove ospiti della casa circondariale, che hanno interpretato i diversi ruoli dello spettacolo “I ragazzi della via Appia”, liberamente tratto dal film “Accattone” e al romanzo “Ragazzi di vita”, entrambi di Pier Paolo Pasolini. La compagnia Sud Theatri (Franco Miccoli, Viviana Martucci, Marilù Sbano, Maria Antonietta Pagliara e Carla Orlandini, con la partecipazione al progetto anche di Onofrio Fortunato), ha potuto apprezzare nel corso dei primi mesi del laboratorio il forte e convinto impegno dei detenuti, che lascia ben sperare per il prosieguo di questa esperienza alla ripresa dopo l’estate, e l’indispensabile appoggio da parte della direzione da parte della casa circondariale di Brindisi. Il coinvolgimento in una operazione culturale, l’affinamento delle capacità espressive, l’incontro con autori come Pier Paolo Pasolini ed altri che come lui hanno saputo raccontare gli aspetti più scomodi della società italiana e dell’emarginazione, hanno riscosso l’interesse che meritavano. In carcere raccontare è anche raccontarsi, e riscoprire se stessi. La (discutibile) distinzione tra rifugiati e migranti di Donatella Di Cesare Corriere della Sera, 20 giugno 2018 Le frontiere si chiudono per quegli stranieri che sono più stranieri di altri: i poveri. Le parole non sono indifferenti. Decidono la politica. Soprattutto quando si tratta della cosiddetta “crisi migratoria”. Il tema, si sa, accende gli animi. Anche per ciò abbondano i luoghi comuni, mentre la complessità resta sullo sfondo. In nome dell’esigenza di “ridurre gli sbarchi”, si è affermata così la distinzione tra rifugiati e migranti che in breve è diventata criterio selettivo: i primi possono entrare, gli ultimi vanno respinti. Da una parte i buoni, dall’altra i cattivi, da una parte i veri, dall’altra i falsi. Il migrante che tenta di passare per rifugiato è il “clandestino”. Ma ha davvero senso questa distinzione? Il “rifugiato” può vantare un passato glorioso. Viene dalla schiera degli esiliati, apolidi, proscritti che non sono mai mancati nella storia. Pur tra ambiguità, il rifugiato assume un significato più preciso tra le due guerre mondiali. Indica lo straniero che, lasciato il proprio Paese, chiede protezione allo Stato in cui giunge. Il prototipo del rifugiato è l’esule russo, vittima della rivoluzione, che trova spazio in tante pagine della letteratura. Questa figura è destinata a lasciare un’impronta nell’immaginario collettivo. Ben diversamente vanno le cose per gli italiani che fuggono dal regime di Mussolini. Accanto all’”esule russo” non nasce la categoria del “rifugiato italiano”. Per non parlare degli ebrei tedeschi che devono aspettare fino al 1938 per essere riconosciuti come profughi dai Paesi occidentali. La svolta è segnata dalla Convenzione di Ginevra che il 28 luglio 1951 definisce il rifugiato mettendo l’accento sulla “persecuzione”. Sembra così rompere con il passato, perché non parla più di un gruppo, bensì del singolo che chiede protezione. Eppure ha la meglio la continuità: il rifugiato non è che il calco del dissidente sovietico. Con la vittoria del blocco occidentale prevale la difesa dei diritti civili sulla tutela contro le violenze economiche. Fame e povertà restano cause perdenti. Ma perché mai i motivi economici dovrebbero essere meno gravi di quelli politici? I rifugiati sono i dissidenti che suscitano simpatia, accendono la solidarietà: cecoslovacchi, greci, cileni, argentini. Tutto cambia quando compare un nuovo rifugiato: meno bianco, meno istruito, meno ricco. È il “migrante”, termine che, al contrario di “rifugiato”, non corrisponde a una categoria giuridica. In poco tempo assume contorni negativi e inquietanti. La governance burocratica lo ferma, gli chiede una “prova” della sua persecuzione, ne fa tutt’al più un “richiedente asilo”. Le frontiere si chiudono per quegli stranieri che sono più stranieri di altri: i poveri. Colpevoli già solo per essersi mossi, non suscitano alcuna compassione. Anzi! I persecutori potrebbero essere loro, questi “nemici subdoli”. Eppure i migranti, questi nuovi poveri cui è stata tolta persino la dignità del povero, hanno mille motivi da far valere per quella loro scelta sofferta. L’Unhcr parla già da anni di “flussi misti” per indicare i migranti che fuggono da guerra, violenza, fame, siccità. Con questa formula già si ammette l’impossibilità di applicare schemi antiquati. Nel mondo globalizzato la persecuzione ha molti volti. Come distinguere in un groviglio di motivi che s’intrecciano? La distinzione tra rifugiati politici e migranti economici non regge. Sarebbe come sostenere che l’impoverimento di interi continenti non abbia cause politiche. Sfruttamento, crisi finanziarie, catastrofi ecologiche non sono meno rilevanti della minaccia personale. Questo criterio antistorico non può essere criterio per una politica della migrazione. Anche da qui si deve ricominciare. Minori stranieri non accompagnati: le criticità dei centri di accoglienza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 giugno 2018 Il rapporto dell’autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza e dell’Unhcr. Permanenze troppo lunghe, scarsità di informazioni, difficoltà di socializzazione. Questo e altro ancora emerge dal rapporto sulle visite nei centri emergenziali, di prima e seconda accoglienza in Italia realizzata congiuntamente dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza (Agia), Filomena Albano, e l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i Rifugiati (Unhcr). Il campione esaminato comprende strutture di Umbria, Marche, Toscana, Lazio, Puglia, Sicilia, Emilia Romagna, Lombardia, Veneto e Piemonte. Quindici i centri coinvolti, 134 i minori incontrati, 21 le nazionalità rappresentate nelle attività di ascolto e 17 anni l’età media dei ragazzi. Le visite proseguiranno fino a fine 2018, dopo di che sarà diffuso il rapporto conclusivo. Nell’ 80% dei 15 centri visitati sono risultate carenti informazioni e orientamento, nel 53% di essi emerge la mancanza di attività di socializzazione, nel 47% delle 15 strutture coinvolte la permanenza in centri di prima accoglienza o emergenziali vanno ben oltre i 30 giorni previsti dalla legge. La problematica più segnalata dagli enti gestori è stata quella dei tempi gravosi per la nomina dei tutori. Ragazzi ed enti insieme hanno tra l’altro fatto rilevare l’impossibilità per i minori stranieri non accompagnati di tesserarsi con la Federazione gioco calcio. Tra le proposte dei ‘ minori’: sostegno all’integrazione personalizzato; incontro con le comunità locali per combattere episodi di razzismo, contatto con famiglie per conoscere la cultura italiana. “Potremmo passare le domeniche insieme” dicono. E ancora: corsi di italiano, possibilità di socializzare con i coetanei e tutori volontari in grado di attivare un rapporto di conoscenza, rispetto reciproco e fiducia. L’anticipazione segnala una serie di “protection gaps” specifici. Tra di essi la promiscuità con gli ospiti adulti, la permanenza dei minorenni fino ed oltre il compimento della maggiore età, le restrizioni della facoltà di movimento e la mancanza di condizioni di vita adeguate alla minore età. A conclusione del rapporto, l’Agia e Unhcr, ritengono ancora necessario sottolineare l’importanza di garantire e promuovere l’apertura di spazi protetti di ascolto del minore, indi- spensabili a un’effettiva individuazione e presa in carico dei bisogni - non ultimo quello di progettualità - dei minori stranieri che giungono in Italia soli e che hanno dunque specifiche esigenze di protezione, tanto più laddove fuggano da conflitti o da forme specifiche di persecuzione. Da qui, le raccomandazioni. È stata ribadita dall’anticipazione del rapporto la necessità di garantire e promuovere spazi protetti di ascolto per i minorenni che giungono in Italia da soli e che hanno dunque specifiche esigenze di protezione, tanto più se fuggono da conflitti o da persecuzioni. Tra le richieste dei ragazzi, tradotte in raccomandazioni, quella frequentissima di “gentilezza e rispetto nelle comunicazioni”. A tribunali e garanti è stato raccomandato di assicurare informazioni esaustive sulla figura e i compiti dei tutori, dei quali è stata sollecitata ancora una volta la nomina. È stato altresì chiesto di chiarire e uniformare su tutto il territorio l’applicazione della procedura di ricongiungimento familiare dei minori non accompagnati ai sensi di Dublino III. Non risulta sia stato fatto circolare l’opuscolo informativo per dare ai richiedenti asilo informazioni corrette e omogenee sulla procedura. L’anticipazione del rapporto Agia- Unhcr sollecita i responsabili a far in modo che “eventuali permanenze in centri di accoglienza straordinaria e strutture a non alta qualificazione siano contenute nei tempi strettamente necessari”. Altra raccomandazione quella di attivare le procedure di accertamento dell’età solo qualora ci siano fondati dubbi su di essa e sempre su disposizione della Procura presso il Tribunale per i minorenni. Ai servizi sociali, infine, è stato chiesto di vigilare su chi realizza, a livello locale, gli interventi sociali. Rom, perché il loro censimento è incostituzionale di Tommaso Edoardo Frosini Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2018 La storia dell’era cristiana comincia con un censimento, considerato come un evento decisivo e di valore universale, nel cui quadro si collega la nascita di Gesù a Betlemme. Come scrive Luca nel suo Vangelo: “Or avvenne in quei giorni che uscì un decreto da parte di Cesare Augusto, che si facesse un censimento su tutta la terra… E tutti andavano a farsi registrare, ciascuno nella propria città (di nascita)”. Quel censimento suscitò la diffidenza e poi la resistenza della comunità israelitica che vi fu sottoposta, benché esso fu esteso a tutto l’impero romano, tanto che alcuni storici hanno ravvisato in quel contrasto l’origine della rivolta di Giudea. Si è fatto richiamo all’episodio evangelico, perché esso appare addirittura emblematico del carattere di eccezionalità rispetto alla vita quotidiana, che contraddistingue l’operazione censitaria, delle difficoltà di carattere pratico e psicologico che essa comporta per i cittadini censiti, del pericolo di tensioni fra il privato e il pubblico, che possono derivarne. Nihil sub sole novi. La diffusa protesta, che precedette nel territorio della Repubblica Federale Tedesca il censimento sulla popolazione residente previsto per il 1983 e che sboccò nella sentenza del 15 dicembre 1983 del Tribunale Costituzionale Federale, con la conseguente soppressione del censimento già organizzato, rappresenta un punto fermo di riferimento della questione giuridica del censimento. La sentenza si basa sull’art. 1, comma 1, della Legge Fondamentale, che tutela la dignità umana come intangibile: perché questa potrebbe essere violata attraverso la raccolta delle informazioni, ovvero i dati personali, che riguardano gli individui. Pertanto, tocca al legislatore, affermò il Tribunale, il compito di determinare gli scopi leciti e i requisiti tutelati, anzitutto tutelando il segreto statistico e stabilendo l’anonimità dei dati elaborati. Occorre quindi, evitare che vi sia una registrazione e catalogazione del singolo in tutti gli aspetti della sua personalità. Insomma, quanto deciso dal Tribunale tedesco vale ancora oggi a tutela del cittadino, della sua privacy e quindi della sua dignità. Vale per tutte le democrazie costituzionali, che hanno a cuore la garanzia dei diritti dell’uomo e la tutela dello stesso senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, come recita l’art. 3 della Costituzione italiana. Certo, un censimento va fatto se non altro per conoscere quanti siamo, ovvero quanti risiedono sul territorio. Per sapere quali sono le tendenze delle società, e quindi le criticità da superare e le positività da coltivare. Se così non fosse non sarebbe possibile intervenire con politiche per la crescita e lo sviluppo, anche per sanare alcuni problemi che emergono nel contesto di una comunità. Vi è un ente pubblico preposto alla statistica della società italiana, come l’Istat, e vi è un centro di ricerca, come il Censis, che fotografa lo stato dell’arte della società attraverso indagini e ricerche. Questa attività di indagine, che si svolge come una sorta di continuo censimento, incontra il limite della individuazione dei soggetti e dei gruppi. Cioè non può raccogliere e catalogare dati che siano mirati alla individuazione di categorie specifiche e pertanto anche la raccolta di informazioni deve avvenire in forma anonima e generica. Una legge che prevedesse un censimento su specifiche categorie di persone sarebbe viziata da incostituzionalità. Per le ragioni già esposte dal Tribunale costituzionale tedesco, che troverebbero in Italia una identica applicazione. Vale la pena ricordare, che un censimento della popolazione Rom in Italia fu tentato con un decreto del maggio 2008 dall’allora ministro dell’interno Roberto Maroni: si parlò di identificazione, fotosegnalazione e rilievo delle impronte digitali: l’iniziativa suscitò le critiche dell’Unione Europea e dell’Onu. E poi non se ne fece più nulla. Nulla impedisce che si conosca il numero di Rom residenti in Italia, e così pure per altri soggetti, ma sarebbe incostituzionale la schedatura di essi, ovvero la registrazione e il trattamento dei dati personali. La dignità umana vale per tutti. Mamma gli zingari! Il cacicco leghista e il mestiere dell’odio di Moni Ovadia Il Manifesto, 20 giugno 2018 La ziganofobia è una delle forme più ripugnanti e vili di razzismo, prova di un’imbecillità senza limiti. Quasi nessuno di coloro che agitano lo spettro dei Rom e dei Sinti conosce la loro Storia, né le loro storie. Questi scervellati non hanno mai avuto l’opportunità di frequentarli, di ascoltarne le ragioni, di percepirne la specificità culturale ed esistenziale, vivono di pregiudizi, di sentito dire, di impressioni esteriori prive di senso. Gli imprenditori del panico, delle paure irrazionali sanno che elettoralmente rende molto prendersela con gli ultimi, con gli indifesi che risultano “estranei” per l’uomo della strada, figura retorica, inesistente parametro della più sudicia propaganda dell’odio. Inoltre bisogna essere davvero infami per prendersela con chi non ha una nazione che lo difenda, che non può mettere in campo forze economico finanziarie per arginare le politiche persecutorie pensate e concepite come perfetta arma di distrazione di massa. Ma francamente più ancora dell’odio, della brutalità e della violenza colpiscono e offendono la stupidità e la vacuità dell’operazione pensata dal già cacicco padano, ora Gran Vizir nazional-sovranista: censire gli zingari ed espellere i “clandestini”, gli “illegali”. Un simile censimento nella nostra Repubblica dovrebbe essere anticostituzionale, ma qualora per assurdo si potesse fare, quali ne sarebbero gli esiti concreti? 26 mila Rom espellibili perché non italiani e neppure comunitari. Il grande problema dell’Italia: 26 mila “alieni” su 60 milioni di autoctoni! Come mi faceva osservare un amico, il giornalista Lorenzo Alvaro, non si tratta neppure di una statistica. Come può dunque essere creduto un ciarlatano la cui proposta politica poggia sul nulla? Tutto dipende da un vecchio trucco di tutte le demagogie, reiterare una falsità facendo perno su un sentimento diffuso nelle pseudo democrazie, corrotte e indebolite da classi dirigenti indegne che ne hanno eroso i valori per interessi di fazione o di casta. Le falsità che scatenano panico nei confronti delle marginalità sono le più efficaci, nella fattispecie i Rom e i migranti. In tempi di crisi e di mancanza di punti di riferimento, avere un nemico su cui scaricare le frustrazioni, causate, sia chiaro solo ed esclusivamente dal malgoverno e sfogare la rabbia sociale sull’eterno “altro” aiuta perversamente a non assumersi responsabilità. Il cittadino, l’elettore non sono innocenti per definizione, devono anch’essi assumersi il carico di responsabilità altrimenti contribuiscono a distruggere una democrazia. Ora è mia opinione che noi in Italia si sia ad una svolta. Il cazzaro verde, per mutuare una felice espressione di Marco Travaglio adesso sta esagerando. Dal fare il mestiere del populista - si! mestiere, perché quello che fa Salvini non è politica ma redditizio mestiere, si è montato la testa, si comincia a prendere troppo sul serio, agitando come Torquemada il Vangelo. Capita, a certe nullità dall’ego ipertrofico, noi abitanti dello Stivale ne sappiamo qualcosa. Adesso tutte le persone con un po’ di sale in zucca è tempo che alzino il tiro, a partire dalle comunità ebraiche che si segnalano già per l’inquietudine, ma che dovrebbero fare molto ma molto di più rifiutando radicalmente ogni contatto con certi politici e non mercanteggiando indulgenze con essi in cambio di strumentali benevolenze verso le porcherie perpetrate dal governo di Israele a danno del popolo palestinese. Un luminoso esempio è venuto proprio da una straordinaria donna ebrea, la senatrice a vita Liliana Segre che ha assunto come priorità non negoziabile la difesa della minoranza Rom e Sinta. È compito imperativo di ogni persona per bene fare sentire la propria voce per fermare questa deriva, sinistra e ridicola ad un tempo, per ritrovare il senso primo di ogni civiltà del diritto. E si presenta anche l’occasione di ritornare ai fondamenti della costituzione dell’Europa unita facendo capire a certi governi che è troppo comodo ingozzarsi con contributi comunitari per dare forza a politiche persecutorie nei confronti degli ultimi. Nel mondo 68,5 milioni profughi: all’85% vanno in Paesi vicini e poveri di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 20 giugno 2018 Rapporto Unhcr. Oggi la Giornata mondiale del Rifugiato, il 53 per cento dei profughi e degli sfollati sono bambini o minori. È più grande dell’Italia la nazione dei senza nazione, dei fuggiaschi, degli sfollati, dei profughi e dei rifugiati: le persone costrette a fuggire da casa propria nel mondo sono 68,5 milioni, secondo il rapporto annuale Global Trends 2017 presentato ieri dall’agenzia Onu per i rifugiati, l’Unhcr. Ma essendo una realtà mutevole e itinerante, anche se per lo più ammassata in grandi campi profughi o in baracche degli slum delle metropoli (il 58% abita in aree urbane), forse è più corretto rappresentarli come flusso: sono 44.500 al giorno, una persona che si aggiunge ogni due secondi. Un essere umano ogni 110, in sostanza, è costretto a fuggire. Mentre 667 mila persone hanno potuto fare ritorno a casa o nel proprio paese nel corso del 2017. In ogni caso da cinque anni questa cifra record di 68 milioni, tanti quanti i cittadini della Thailandia, non diminuisce, alimentata in particolare nel 2017 dagli esodi di massa da Congo, Sud Sudan e Birmania (i rohingya). I profughi, che scappano cioè da guerre e persecuzioni e violenze sono 25,4 milioni. E i richiedenti asilo, cioè le persone ancora in attesa al 31 dicembre scorso di un attestato di protezione internazionale sono passati da 300 mila del 2016 a 3,1 milioni nel 2017, segno delle peggiori condizioni per l’esame delle domande e il rilascio dello status di rifugiato. Contrariamente alla vulgata razzista, l’85% dei profughi risiede, non nei Paesi industrializzati e ricchi come il nostro, ma in quelli poveri o in via di sviluppo. Quasi due terzi del totale (40 milioni) sono sfollati interni, cioè non hanno ancora varcato il confine del proprio Paese, sperando di poter tornare per ricostruirsi una vita lì dove abitavano un tempo. Quattro rifugiati su cinque, poi, vanno poco oltre, nei paesi limitrofi, sempre nella speranza di tornare quanto prima. Un quinto sono palestinesi, presi in carico dall’apposita agenzia dell’Onu Unrwa. I restanti provengono per i due terzi - da cinque aree del globo: Siria, Afghanistan, Sud Sudan, Birmania, Somalia. Quindi anche da Iraq e Venezuela. La Turchia, dopo l’accordo del 2016 con l’Ue per il trattenimento dei 3,5 milioni siriani in fuga dalla guerra che dura sette anni è il primo Paese ospitante, seguito da Pakistan (ospita metà dei profughi dall’Afghanistan), Uganda, Libano e Iran. Il Libano ha il maggior numero di rifugiati in rapporto ai cittadini (164 ogni mille abitanti, l’Italia 19, la Turchia 43). La Germania non è più il luogo d’arrivo più ambito, il sogno ora sono di nuovo gli Stati Uniti. Droghe, aver salva la vita è un diritto essenziale di Leopoldo Grosso Il Manifesto, 20 giugno 2018 In mancanza di una guida al Dipartimento nazionale per le dipendenze sotto la Presidenza del Consiglio, tocca al Ministero della salute e soprattutto alle Regioni prendere l’iniziativa, coordinarsi, definire un Atto di indirizzo, imporre un’Intesa, non al ribasso, sul piano nazionale. La questione “droga” non è nel contratto di governo Lega-5 stelle. Se ne è parlato il 14 giugno a Torino in un incontro nazionale indetto dal mondo associativo e dalla Regione Piemonte. In quanto materia divisoria, rimane fuori da ogni iniziativa legislativa da parte della maggioranza. Il vuoto istituzionale degli ultimi 10 anni, già debitorio di due mancate Conferenze nazionali, sarà eventualmente riempito solo da interventi dettati dall’emergenza. Le stesse proposte di legge di minoranza, o di iniziativa popolare, sono destinate ad approdare su un binario morto, come già avvenuto per la scorsa legislatura. Rimane l’”ordinaria amministrazione” che, nel contingente, prevede un adempimento: la definizione dei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea) che contemplano anche la Riduzione del danno in tema di dipendenze e consumi di sostanze psicoattive. L’applicazione del Dpcm del 12 gennaio 2017 (art.28, lettera K) trasforma in diritti esigibili, per tutti i cittadini italiani, le prestazioni di Riduzione del danno e di Limitazione dei rischi. In tal modo dovrebbero finalmente essere messi a sistema, come servizi, una pluralità di interventi e iniziative che si protraggono in uno stato di estrema precarietà fin dalla metà degli anni ‘90. Sono progetti di riduzione della mortalità per overdose e per Aids, ostinatamente voluti, portati avanti e difesi da minoranze attive di operatori, di associazioni della società civile, di Amministrazioni e di gruppi di consumatori, che si sono di continuo confrontati con finanziamenti a singhiozzo e polemiche ideologiche strumentali. Prevalenti nelle aree metropolitane e diffusi maggiormente al nord Italia, gli interventi di riduzione del danno non ricoprono l’intera capillarità del territorio nazionale. Con la realizzazione dei Lea, gli Interventi salvavita come la somministrazione e distribuzione di Narcan e di siringhe sterili, le unità di strada e i drop- in, e anche il controllo del contenuto delle sostanze illegali nei luoghi di consumo, saranno “dovuti”, in quanto prestazioni-base, in tutto il Paese. Il loro costo non elevato, è stimato intorno al 5% della spesa complessiva che le Regioni investono ogni anno sui servizi per le dipendenze. I Lea della riduzione del danno si devono (la legge va rispettata) e si possono realizzare (la spesa è sostenibile). Ma nulla è scontato. Le complicazioni e le sorprese delle vicende “applicative” dei decreti sulla cannabis terapeutica insegnano! Burocratismi, contrarietà ideologiche e tagli alla spesa sanitaria possono convergere nell’allungamento a tempo indeterminato dei tempi di realizzazione e nell’annacquamento del risultato. In mancanza di una guida al Dipartimento nazionale per le dipendenze sotto la Presidenza del Consiglio, tocca al Ministero della salute e soprattutto alle Regioni prendere l’iniziativa, coordinarsi, definire un Atto di indirizzo, imporre un’Intesa, non al ribasso, sul piano nazionale. Nel frattempo il gruppo di lavoro della regione Piemonte, composto da operatori del pubblico e del privato non profit, e da rappresentanti dei consumatori, ha definito il disegno tecnico progettuale, un vero e proprio piano di fattibilità di realizzazione dei Lea della riduzione del danno, che può costituire un utile piattaforma di confronto per la discussione interregionale. Questo impegno può fornire la spinta necessaria per la creazione di altrettanti tavoli e momenti di confronto in tutte le Regioni d’Italia. Focalizzarsi sui Lea significa riproporre l’attenzione sulla Riduzione del danno, sulla necessità degli interventi salvavita, sui diritti delle persone consumatrici e dipendenti, sulla tutela della salute e sulla sicurezza di tutti i cittadini. Stati Uniti. Il pianto dei baby migranti in gabbia di Federico Rampini La Repubblica, 20 giugno 2018 Stati Uniti sotto shock per le immagini e le voci dal vivo dei bambini separati dai genitori arrestati al confine. Ma l’amministrazione Trump racconta una falsa verità: “Sono accuditi”. E arriva la ritorsione dopo le accuse Onu. L’America è sotto shock per le voci dal vivo dei bambini-prigionieri che piangono in un centro di detenzione al confine Texas-Messico: registrate e diffuse in uno scoop di ProPublica, ong di giornalismo investigativo. E il presidente risponde: “I trafficanti di bambini sono sofisticati. Sfruttano i cavilli di un sistema marcio. Basta coi giudici che proliferano nei tribunali, ci vuole sicurezza, ci vuole il Muro”. Sono i due poli di un’emergenza umanitaria: condannata da molti anche nel partito repubblicano, denunciata dalle massime autorità religiose e dall’Onu (per ripicca Washington vuole uscire dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite). La versione del governo è un’altra, nella forma più estrema la espone la ministra della Homeland Security, Kirstjen Nielsen: “I bambini stanno bene e sono accuditi”. Oppure un poliziotto della Border Patrol, immortalato nella stessa registrazione di ProPublica, mentre commenta il coro dei bambini che piangono: “Qui abbiamo una bella orchestra, quello che ci manca è il direttore d’orchestra”. Infine c’è la tv di destra FoxNews, dove diversi commentatori descrivono le condizioni di quei minorenni “come dei campi di vacanze estivi”. Poiché gli elettori di Donald Trump credono solo alla Fox, è probabile che metà del paese stia vivendo questa emergenza in modo molto diverso. E a questa metà sceglie di parlare il presidente. La sua tesi - contestata dall’opposizione democratica e anche da autorevoli repubblicani come i senatori John McCain e Lindsay Graham - è che le leggi in vigore impongono la procedura di separazione dei genitori dai figli. “Con le norme attuali - dice Trump - abbiamo solo due opzioni per rispondere a questa massiccia crisi ai nostri confini. Possiamo rilasciare in libertà tutte le famiglie con figli che attraversano la frontiera dall’America centrale. Oppure possiamo arrestare gli adulti per il reato federale d’ingresso illegale”. In questo secondo caso, sempre secondo la teoria dell’Amministrazione, è obbligatorio evitare che i figli seguano gli adulti in carcere. Donde la separazione dei minori, confinati a loro volta in appositi centri: depositi recintati e guardati dalla polizia di frontiera. È in uno di quelli che sono stati registrati i pianti disperati dei bambini. E anche la voce di una piccola salvadoregna di sei anni che implora tutti di chiamare sua zia, e recita il numero di telefono a memoria quando le si avvicina un rappresentante consolare del Salvador. La zia, contattata da ProPublica, è disperata quanto lei: non può aiutarla, è rimasta nel Salvador con la figlia, entrambe hanno avviato (con poche speranze) una richiesta di asilo negli Stati Uniti per sfuggire alla violenza delle gang. La mamma della bambina detenuta si chiama Cindy Madrid, ha 29 anni, è stata incarcerata vicino a Port Isabel nel Texas. C’è il rischio che sia deportata senza sua figlia, che rimarrebbe chissà fino a quando in Texas nel centro di custodia dei bambini. Il caso dei prigionieri politici ucraini nelle carceri russe di Yevhen Perelygin* oltrefrontieranews.it, 20 giugno 2018 Mentre il Parlamento europeo ha votato con una stragrande maggioranza una mozione in difesa del cineasta ucraino di Crimea Oleg Sentsov, alcuni deputati italiani con il loro voto contrario di fatto hanno sostenuto la detenzione illegale dei prigionieri politici ucraini. Nella mia più che trentennale carriera diplomatica ho assistito molte volte ad azioni che non corrispondevano alle norme, ai principi comuni o standard della politica internazionale. Ciò premesso, sono rimasto veramente esterrefatto per il voto di alcuni membri italiani del Parlamento europeo, alla Plenaria del Parlamento europeo del 14 giugno a Strasburgo, che di fatto giustifica la situazione inaccettabile della detenzione illegale delle persone nelle prigioni della Federazione Russa giudicate senza riguardo e rispetto di alcuna norma e forma di giustizia. Per condannare tali mostruose violazioni, circa 500 deputati europei hanno approvato la Risoluzione 2018/2754 (Rsp) che esorta la Russia a rilasciare immediatamente e incondizionatamente Oleg Sentsov e tutti gli altri cittadini ucraini detenuti illegalmente in Russia e in Crimea. Io non posso trovare alcuna motivazione che starebbe alla base del voto contrario al richiamo di fermare “torture e gravi maltrattamenti su Oleg Sentsov”, prigioniero senza colpe trattenuto nel carcere più a nord della Russia, e che dal 14 maggio 2018 conduce uno sciopero della fame a oltranza. Il famoso cineasta e intellettuale crimeano Oleg Sentsov e` stato condannato in Russia a 20 anni di carcere per non aver accettato l’occupazione illegale della Crimea e non aver voluto piegarsi forzatamente alla cittadinanza russa rinunciando a quella ucraina. I procuratori russi l’hanno accusato di “far parte di una comunità terrorista”. Diversi processi hanno messo in luce le profonde e diffuse carenze del sistema giudiziario russo, tra cui l’uso della tortura e altri maltrattamenti, come verificato nel corso delle indagini, oltre alla negazione del diritto a essere rappresentati da un avvocato a propria scelta. Lo confermano diverse organizzazioni per la difesa dei diritti umani, inclusa Amnesty International. A favore del regista ucraino si sono mobilitati diversi esponenti della cultura internazionale e si e` mossa tutta la comunità internazionale. A mio parere, la negazione del sostegno ai prigionieri di coscienza come Oleg Sensov e a molte altre persone innocenti, non solo non aiuta “tantissime piccole e medie imprese italiane che esportano in Russia”, ma, al contrario, allontana una giusta soluzione per tutti i prigionieri innocenti. *Ambasciatore d’Ucraina in Italia Arabia Saudita. Il regno di bin Salman tra riforme sociali e repressione di Chiara Clausi occhidellaguerra.it, 20 giugno 2018 Centinaia di arresti in Arabia Saudita. Personalità di alto profilo sono state rinchiuse in carcere con l’accusa di essere dei traditori. A molti è stato vietato di uscire dal regno. Ma tanti ormai hanno lasciato il Paese per paura e non hanno alcuna intenzione di ritornare. Il principe ereditario Mohammad bin Salman alterna alle rivoluzionarie riforme sociali, spietate repressioni sui dissidenti. Come non se ne vedevano da decenni. Ci sono stati diverse operazioni nei confronti dei critici del regno durante lo scorso anno, incluso uno a settembre che ha colpito decine di religiosi, intellettuali liberali e reali, la maggior parte dei quali rimane detenuta. Anche a novembre sono stati presi di mira alcuni dei più famosi uomini d’affari e reali del paese, rinchiusi nel lussuoso hotel Ritz-Carlton di Riad e accusati di corruzione. La maggior parte dei circa 380 detenuti vip sono stati rilasciati dopo aver rilasciato consistenti somme di denaro e beni per il regno in cambio della libertà. Sono stati accusati di aver cospirato contro la monarchia. Ma persone vicine a loro ritengono che sono accuse fabbricate ad hoc, ma che potrebbero portare ad accuse di terrorismo sul loro conto. Ora l’ultima ondata di arresti a maggio ha colpito donne e uomini, attivisti, che hanno spinto perché le saudite ottenessero il diritto di guidare. Il governo riconoscerà tale diritto il 24 giugno. Questo provvedimento fa parte di una serie di riforme sociali avviate negli ultimi anni, tra le quali il permesso alle donne di diventare imprenditrici anche senza il consenso del marito o del padre, quello di fare le investigatrici o entrare allo stadio. Il governo saudita ha annunciato per la prima volta l’intenzione di revocare il divieto di guida a settembre, divenuto un simbolo dell’oppressione delle donne nel regno. Il decreto ha inviato un potente messaggio. Cioè che la monarchia saudita è impegnata a portare cambiamenti sociali incredibili fino a poco tempo fa, grazie all’intervento del principe ereditario Mohammed bin Salman. Ma c’è chi esprime la sua preoccupazione per ciò che sta accadendo nel regno: “Speravamo in una società più equilibrata, in più diritti. Invece quello che abbiamo ottenuto, è più repressione solo con una diversa ideologia”, ha raccontato un attivista. Diversa l’opinione di chi sostiene il governo: “Il Paese sta attraversando un cambiamento radicale, e vi sono diverse posizioni politiche al suo interno, dai conservatori religiosi ai liberali filo-occidentali. Se vuoi realizzare un cambiamento, che è atteso da tempo, hai bisogno di un approccio autoritario, e ciò significa limitare per un po’ le libertà”, ha spiegato Ali Shihabi, direttore del think tank Arabia Foundation con sede a Washington al Wall Street Journal. Da quando re Salman è salito al trono nel 2015, bin Salman ha dato il via a diverse riforme economiche e sociali. Ha cercato di differenziare l’economia del Paese, fino ad allora dipendente quasi esclusivamente dal petrolio, attraendo maggiori investitori, ma si è adoperato anche ad aprire il regno fino ad allora chiuso in un rigido conservatorismo religioso. Ha aperto sale cinematografiche e reso possibile l’organizzazione di concerti musicali. Ma secondo alcuni sauditi come Yahya Assiri, attivista che vive a Londra dal 2013, la situazione non è stata mai così negativa: “Ora devi essere completamente filo-governativo. Anche stare zitti non è abbastanza”. L’Unione europea ha condannato la repressione in corso e dichiarato che ciò che sta accadendo “mina la credibilità del processo di riforma del Paese” e ha chiesto alle autorità saudite di rilasciare gli arrestati. Tra le persone detenute c’è anche uno dei più importanti religiosi del Regno, Salman al-Odah. Un tempo un fondamentalista islamista che guidò il movimento antimonarchico del “risveglio islamico” negli anni 90, in seguito sposò opinioni più moderate e divenne uno dei principali sostenitori delle riforme sociali e politiche. Odah e un altro noto religioso, Awad al-Qarni, sono stati detenuti per non aver adottato la linea dura del governo saudita contro il Qatar. Entrambi i religiosi hanno fatto commenti pubblici su Twitter a sostegno di migliori relazioni tra le potenze del Golfo. Il clima che si respira in Arabia Saudita non fa presagire nulla di buono. Anche Jamal Khashoggi, giornalista saudita che ora vive a Washington, è di questa opinione. Ha lasciato il regno la scorsa estate per paura di essere arrestato o nel timore che gli sarebbe stato vietato viaggiare: “Ogni volta che sento di un arresto o di un amico a cui è stato vietato viaggiare, sono grato di essere qui”. Tailandia. Pena di morte, prima esecuzione dal 2009 ticinonews.ch, 20 giugno 2018 La Tailandia ha giustiziato ieri il primo detenuto da nove anni a questa parte, con un’iniezione letale che ha tolto la vita a un giovane di 26 anni condannato per l’omicidio di un minorenne a cui aveva rubato il telefonino nel 2012, per poi pugnalarlo 24 volte. Lo ha annunciato oggi il Dipartimento per le carceri. L’esecuzione è stata criticata dai gruppi per i diritti umani. In un comunicato, Amnesty International l’ha definita “deplorevole”. Dal 2009 la Tailandia aveva osservato una moratoria di fatto sulla pena capitale, tanto che la stessa Amnesty International era pronta a considerare il Paese “abolizionista in pratica” al compimento del decimo anniversario dall’ultima esecuzione. Sulla carta, in Tailandia sono 63 i reati che prevedono la pena capitale, dall’omicidio al traffico di droga. I detenuti condannati alla pena di morte sono oltre 500.