Carcere e processi, ecco come si stravolge la Costituzione di Rita Bernardini Left, 1 giugno 2018 La riforma penitenziaria puntava su misure alternative e garanzia delle cure. Ma è stata affossata. Giuseppe B. percorre ansioso i corridoi del carcere Pagliarelli di Palermo con in mano i fogli riguardanti la sua vicenda ove è scritto nero su bianco che non dovrebbe stare in galera ma ricoverato in una Residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). È la misura decisa dal Tribunale di Palermo con la sentenza del 12 dicembre dello scorso anno che lo assolveva perché incapace di intendere e di volere. Stante la sua illegale detenzione, anche il Giudice di sorveglianza interveniva il 29 gennaio 2018 disponendo con urgenza il suo ricovero in una Rems. Niente da fare, il Dap non riesce a trovare un posto libero nelle due residenze disponibili in Sicilia e Giuseppe deve aspettare fino al 2019 quando si libererà un letto. Come lui, nell'isola ci sono altre decine di persone letteralmente sequestrate mentre in tutta Italia sono più di duecento. Ma non finisce qui, a proposito della malattia mentale in carcere. La direttrice Francesca Vazzana, che il 23 maggio scorso ha accompagnato la delegazione del Partito radicale formata da me, Donatella Corleo e Gianmarco Ciccarelli, appare provata: al Pagliarelli non solo ci sono altri tre casi come quello di Giuseppe che lei prontamente ha segnalato a chi ha il compito istituzionale di intervenire, ma ci sono anche oltre duecento casi psichiatrici gravi, un'enormità che, considerato il malfunzionamento della sanità siciliana del tutto disinteressata alla salute dei carcerati, determina una situazione esplosiva nella vita in sezione. Ho voluto raccontare questa problematica perché essa veniva finalmente affrontata dai decreti legislativi di attuazione della riforma dell'ordinamento penitenziario che, purtroppo, non hanno visto la luce a causa della sostanziale unità della classe politica italiana - sia essa di governo che di opposizione - quando si tratta di derogare ai principi costituzionali riguardanti i diritti umani se in gioco c'è una manciata di voti. La riforma tendeva a favorire l'effettivo esercizio, da parte dei soggetti detenuti, di alcuni importanti diritti fondamentali che non possono in alcun modo essere compressi nemmeno per coloro che sono privati della libertà, prima di tutti quello alla salute. Un ventaglio di interventi diversificati contenuti nella riforma destinava il "carcere" a strumento marginale e residuale privilegiando le esigenze di cura anche nei casi di sopraggiunta infermità mentale. Il programma di governo sulla giustizia partorito dagli autoproclamati vincitori delle elezioni - i quali seppure contrapposti in campagna elettorale si erano messi insieme per "governare" - lasciava presagire scenari bui improntati al più truce giustizialismo e alla più rovinosa amministrazione della giustizia che, oltretutto, costerebbe decine di miliardi in più. Proprio in questi giorni l'Italia è tornata ad essere additata dalla Commissione europea come il Paese dei processi lumaca i quali, anziché ridursi nei tempi a seguito delle condanne riportate nei decenni precedenti, si allungano ancora di più relegandoci negli ultimi posti in classifica fra gli Stati comunitari. Anche sotto questo aspetto si tratta di violazioni di principi costituzionali: la ragionevole durata dei processi è infatti garantita sia dall'art. 111 della nostra Costituzione, sia dall'art. 6 della Convenzione europea dei diritti umani. Di questo cancro che devasta la vita dei cittadini e ferisce l'economia facendoci perdere due punti di Pil all'anno nessuno parla perché si tratta di un'agonia lenta che non sollecita nell'immediato la pancia che invece deve essere scombussolata dalle minacce alla sicurezza costantemente - e sovente falsamente - proposte. Il ragionamento, o la soluzione terza che può scaturire da un dibattito vero, sono così scomparsi dagli orizzonti dei mezzi di informazione lasciando spazio solo alla decisione frettolosa e drastica. È così che Salvini può dire a reti unificate che rimpiange di non aver potuto fare subito il ministro dell'Interno, cosa che gli avrebbe consentito di rimpatriare immediatamente cinquecentomila immigrati irregolari, radere al suolo i campi rom, respingere affogandoli i profughi. Occorre resistenza, nonviolenza, Stato di diritto, democrazia. Occorre assicurare il diritto umano alla conoscenza. Occorre che nessun democratico si tiri indietro, magari perché disperato. Occorre - e questo è il mio punto di vista - che viva il Partito radicale nonviolento, transnazionale, transpartito. Gherardo Colombo sul carcere: “idea rassicurante, ma è l’università del crimine” di Marcello Celeghin estense.com, 1 giugno 2018 Il magistrato ospite del Liceo "Ariosto" di Ferrara per una riflessione sulle misure penitenziarie: "Ben 68 ex carcerati su 100 ritornano dietro le sbarre". Tante le domande degli studenti del liceo classico Ariosto che giovedì mattina hanno preso parte alla tavola rotonda sull’esperienza del teatro nelle carceri, dal titolo "Le stanze del Teatro Carcere", organizzata dal liceo in collaborazione con il Teatro Nucleo e l’Istituto Gramsci, e all’intervento del noto magistrato Gherardo Colombo, attuale presidente della Cassa delle ammende del Ministero della Giustizia ed ex magistrato nei processi "Mani Pulite" e P2. Dal dibattito vivace tra Colombo e gli alunni sono emersi gli stereotipi e le false credenze comuni sui carcerati e la vita in carcere. Una città nella città. È questa l’immagine del carcere per chi ogni giorno per lavoro deve oltrepassare le sbarre. Dietro i cancelli c’è un mondo fatto di persone, ognuna con la propria storia, che vogliono continuare a sentirsi vive e parte di una collettività. È da questo dato di fatto che parte il progetto di portare il teatro nelle carceri. La sperimentazione è partita nel 2014 nelle carceri di Ferrara, Bologna, Castelfranco Emilia, Forlì, Parma e Reggio Emilia e circa un anno dopo era già stato realizzato un documentario sul lavoro fatto su passi della Gerusalemme Liberata di Tasso. “Questa iniziativa ha dimostrato di saper coinvolgere i carcerati, di far riversare loro energia e tempo libero in un lavoro di gruppo in cui possano avere libertà di espressione- racconta il regista Eugenio Sideri-. Occorre molto lavoro, molta pazienza per mettere a proprio agio persone spesso non abituate a comunicare”. Il clou della mattinata è stato poi l’incontro-lezione di Gherardo Colombo che ha catalizzato l’attenzione dei giovanissimi partecipanti cercando di portare l’idea di carcere nel loro quotidiano. Il magistrato è partito dallo stereotipo che vede nel carcerato, e nel carcere in generale, il male assoluto, un luogo di punizione lontano dalla vita quotidiana di ognuno di noi, per poi dimostrare quanto possa essere frequente imbattersi nel corso della vita in questo luogo. “Il carcere è un argomento di pancia, serve a rassicurare - spiega il magistrato. Un po’ come quando eravamo bambini e, dopo avere visto un film horror, andavamo a dormire nel lettone, non perché vi fosse una minaccia reale, ma per sentirci rassicurati. Il carcere invece, in molti casi, rappresenta l’università del crimine poiché vivere a stretto contatto con altri detenuti favorisce la reiterazione della delinquenza: ben 68 ex carcerati su 100 ritornano in carcere dopo poco che sono in libertà”. Molto diffuso è anche lo stereotipo che vede nell’immigrazione la causa di un aumento di reati gravi, come gli omicidi. “A dispetto di quanto si crede, tutti i reati sono in calo negli ultimi anni e, addirittura, gli omicidi calano di anno in anno da sedici anni a questa parte - sottolinea Colombo -. Nonostante la percezione, gli omicidi avvengono per lo più all’interno delle mura domestiche, tra gli affetti. Quindi forse è meglio mettere la porta blindata alla nostra camera da letto piuttosto che all’uscio di casa”. L’album di famiglia giustizialista: così i giornali hanno inventato la casta di Francesco Damato Il Dubbio, 1 giugno 2018 Angelo Panebianco con la consueta lucidità, e il pessimismo della ragione felicemente contrapposto da Antonio Gramsci nel secolo scorso all’ottimismo della volontà, ci ha appena ammonito sul Corriere della Sera a non farci illusioni su un “rapido declino” dei “partiti antisistema”. Che erano giunti già cinque anni fa sulla soglia del governo, nella diciassettesima legislatura, varcandola in questa diciottesima con l’incarico conferito da Sergio Mattarella all’” avvocato difensore del popolo” Giuseppe Conte. Un popolo, secondo Conte e i due partiti - 5 stelle e Lega suoi sostenitori nel viaggio per Palazzo Chigi, vessato troppo a lungo da caste e quant’altro rappresentate o protette dai partiti avvicendatisi al potere. La Lega, in verità, è un movimento antisistema atipico, sdoganato poco dopo la sua nascita, in tandem col più vecchio Movimento Sociale, da un Cavaliere - Silvio Berlusconi - riuscito, pur tra alti e bassi, a farne un partito di governo, a livello locale e nazionale. E anche di buon governo, bisogna ammetterlo. Ma nella versione salviniana, premiata dagli elettori, il partito che fu di Umberto Bossi è destinato forse a riservare sorprese ancora maggiori di quelle che ha già procurato in questi ultimi tempi, prima e dopo le elezioni politiche del 4 marzo scorso facendo venire i capogiri al vecchio sdoganatore. Secondo Panebianco lo scenario populista e quant’altro nel quale ci stiamo muovendo è il frutto di “una trentennale, martellante propaganda che ha dipinto la politica rappresentativa come un verminaio, il concentrato di tutte le lordure e le brutture, e i suoi esponenti come gente per la quale vale l’inversione della prova: è ciascuno di loro che deve dimostrare di non essere un corrotto”. Cito ancora di Panebianco, condividendolo, “il lavaggio del cervello a cui il “circo mediatico giudiziario” ha sottoposto per decenni tanti italiani” : un lavaggio del cervello che ha funzionato “complice la tradizionale debolezza della cultura liberale”, per cui “molti si sono convinti che questo è, a causa della politica, il Paese più corrotto del mondo, o giù di lì, e che bisogna innalzare (per ora solo metaforicamente, poi si vedrà) la ghigliottina”. Parlare di un trentennio, come ha fatto l’editorialista del Corriere della Sera, significa risalire anche a prima del ciclone giudiziario di “Mani pulite”, che travolse la cosiddetta prima Repubblica e ribaltò i rapporti tra i poteri a vantaggio della magistratura. In effetti, già prima del 1992 la politica aveva cominciato a perdere terreno. Risale addirittura al 1978, l’anno del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro, la sensazione avvertita dall’allora segretario del Pci Enrico Berlinguer, pur di fronte alla sopravvivenza della legge sul loro finanziamento pubblico al referendum abrogativo promosso da Marco Pannella, che i partiti stessero perdendo credibilità, compreso il suo. E, facendo parte della cosiddetta maggioranza di solidarietà nazionale, pretese come segnale di svolta e di riconciliazione col pubblico, ottenendole, le dimissioni da presidente della Repubblica di Giovanni Leone, oggetto di una campagna scandalistica poi naufragata nelle aule dei tribunali. Per cui seguirono, ma a distanza di vent’anni, in tempo comunque per cogliere ancora Leone in vita, le scuse di quanti avevano contribuito alla sua sostanziale rimozione dal Quirinale, quando peraltro mancavano solo sei mesi alla scadenza del mandato. Tuttavia, pur potendo risalire a trenta e persino a 40 anni fa, quanti ne sono trascorsi dalla vicenda Leone, la “martellante propaganda” contro la politica inevitabilmente o generalmente corrotta raggiunse il suo apice mediatico e culturale nel 2007. Fu allora che, anche sull’onda - come ha giustamente ricordato ieri sul Dubbio Angelo Bandinelli prendendo spunto, fra l’altro, da un editoriale di Giovanni Orsina di due anni fa sulla Stampa - venne pubblicato e fece testo il libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo dal titolo La Casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili. Un libro che in soli sette mesi vendette un milione e duecentomila copie, ristampato più volte e seguito da altri di tipo analogo, degli stessi autori e imitatori. Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo erano la coppia di punta degli inviati e degli autori di inchieste del Corriere, destinata a separarsi dopo dieci anni, quando Rizzo è passato a Repubblica diventandone vice direttore. “Ci siamo formati alla loro scuola”, si vantò qualche settimana fa una matricola parlamentare dei grillini. L’appartenenza di Stella e Rizzo al Corriere, due giornalisti - per carità - di indiscussa bravura, ma spesso lasciatisi prendere la mano nella loro campagna contro “la casta”, ha dato un po’ il sapore freudianamente autocritico al titolo assegnato all’editoriale di Panebianco: “Album di famiglia”. Come quello storico dell’altrettanto storico articolo sul manifesto scritto da Rossana Rossanda sui brigatisti rossi che avevano sequestrato Moro sterminandone la scorta e diffondendo il primo dei loro truculenti comunicati o proclami. Per carità, non facciamo confusione fra giornalisti d’inchiesta e terroristi. Ma quell’album di famiglia per altri versi centra un problema reale dell’informazione in Italia e di ciò che, volente o nolente, essa ha quanto meno contribuito a creare di questo cupo scenario che ci avvolge. E che ha fatto saltare tutti gli schemi, tutte le abitudini della politica e dintorni, investendo di una certa confusione persino il Quirinale nella gestione della lunga crisi di governo apertasi con le elezioni del 4 marzo scorso. Orlando: “dovremo difendere le regole liberali, ma le misure sociali andranno valutate” di Carlo Bertini La Stampa, 1 giugno 2018 Immerso negli scatoloni da traslocare dal ministero di Via Arenula, il Guardasigilli Andrea Orlando non è in vena di giudizi lusinghieri per il nascituro governo di “una destra illiberale”; ma una parola buona la spende per Matteo Salvini. “Indubbiamente se l'è giocata molto bene lui e molto male gli altri”. Anche voi potevate giocarvela bene con i grillini? Sarebbe andata diversamente se aveste provato a fare un governo con loro? “Non credo che sia il momento delle recriminazione e chiaramente lo penso, altrimenti non avrei sostenuto tale eventualità. Sottolineo solo che queste settimane hanno dimostrato come non fosse difficile egemonizzare un movimento contraddittorio e pronto a tutto pur di governare”. Quindi la colpa della nascita di questo governo forse è da addebitare in parte a Renzi? “Dibattito che non mi appassiona. Nasce per il risultato elettorale e con quello ancora non abbiamo fatto i conti”. E quando li farete? “Abbiamo cominciato con l'Assemblea nazionale, lo dovremmo fare con un congresso e con le iniziative dell'opposizione che partiranno sulle prime scelte del governo. Si preannuncia una torsione illiberale e ne abbiamo già alcuni sintomi: insofferenza verso gli organi di garanzia, verso le minoranze, la demonizzazione dell'avversario e ricerca del conflitto con altri Paesi. Noi non dobbiamo cadere in questa trappola, ma difenderemo con determinazione le regole della democrazia liberale”. È il momento di qualche autocritica sulla vostra azione di governo? “Direi non tanto su quella, ma sul non aver colto in pieno un nodo di portata storica: le dinamiche di globalizzazione vanno governate e non assecondate. Se no rischiamo di respingere con le risposte sbagliate della destra, le domande legittime di rassicurazione delle persone”. Dunque non avete sbagliato ad esempio a non votare la legge sulla legittima difesa? “No, per creare sicurezza non serve uno stato più autoritario, ma è più sicura una società coesa, integrata, dove funziona il welfare e le forze dell'ordine, più che una società di persone rancorose e spaventate”. Se i giallo-verdi lanceranno una parvenza di reddito di cittadinanza, voterete a favore, anche per tentare di recuperare fasce sociali che avete perso per strada? “Non so cosa faranno loro, ma so che dovranno trovare subito dieci miliardi per neutralizzare le clausole Iva e altre somme per compensare i miliardi bruciati questa settimana. Noi dobbiamo dire che questo conto non lo devono pagare le fasce più deboli, ovvero pensionati, precari, i salari più bassi. Invece di pensare alla flat tax, dovranno trovare fondi per ripianare i conti dello Stato. Detto questo, è chiaro che se propongono misure di carattere sociale, che tendono a diminuire le disuguaglianze, dobbiamo valutarle bene per quello che sono. Però il conto che emerge tra revisione della Fornero, flat tax e reddito di cittadinanza non porta a misure sociali: porta diretti alla bancarotta del paese. Che non pagherebbero i banchieri, bensì quelli che hanno un mutuo, o che vivono del proprio stipendio”. A proposito di mutui, forse Salvini si è deciso a far partire il governo anche perché spaventato dai mercati? “Si è convinto anche perché ha trovato un campo da arare fertile: la capacità contrattuale e la classe dirigente dei M5S sono molto deboli”. Anche sulla gestione di questa crisi si giocherà il vostro congresso. Lei sosterrà Zingaretti? “Certo, la sua candidatura può aiutare un riposizionamento del Pd. Non basta però la scelta di un segretario, va prima chiarito quale piattaforma e cultura politica. Se non siamo in grado di dare un'idea della protezione ai cittadini che sia democratica, rischiamo di regalare in modo definitivo a una destra illiberale un consenso di massa. Bisogna evitare il derby tra popolo ed élite e far riemergere la questione sociale. La flat tax è la prova che con i voti dei poveri si tolgono le tasse ai miliardari. Ed è importante cominciare una battaglia per segnalare come una deriva sovranista non può che portarci ad una subalternità a potenze esterne all'Ue. Se l'Europa non fa da garante al nostro debito pubblico, qualcun altro si proporrà di farlo. Bisogna che chi governa dica chi”. Sosterrete Salvini quando batterà i pugni in Europa? “Credo che in questi giorni loro abbiano bruciato tutte le capacità contrattuali: finanziariamente e politicamente, perché nelle prossime settimane Salvini e Di Maio saranno impegnati a rassicurare i mercati e faranno il contrario di quanto promesso. Dovrebbero invece proseguire un'azione tentata dall'Italia in questi anni. O c'è l'Europa politica e sociale subito, o l'Europa rischia di saltare. E senza l'Europa, l'Italia diventa l'appendice di qualche potenza globale”. I clienti (bianchi) dell'avvocato di Enrico Deaglio Il Venerdì di Repubblica, 1 giugno 2018 Verso la fine di maggio del 2018 venne annunciato agli italiani che, dopo un lungo lavoro di trattativa in cui si era “fatta la Storia”, era nata la Terza Repubblica. Venne incaricato di formare il governo uno sconosciuto professore di diritto privato, che annunciò che sarebbe stato l'Avvocato del Popolo, chiarendo che avrebbe fatto il mestiere gratis, senza chiedere anticipi sulla parcella. I promotori della Terza Repubblica aggiunsero che quello era il governo del cambiamento, ovvero del “popolo contro le élites”. Nell'attesa - e un po' anche nel timore - che ci dicessero qualcosa di più, mi sono venute in mente libere associazioni di idee su queste parole. Avvocati. Dai tempi di Cicerone l'Italia è un paese di avvocati, detti anche pagliette. In tempi recenti alcuni erano famosi. L'avvocato Gianni Agnelli, che creò una moda perché teneva l'orologio sopra il polsino; l'avvocato Paolo Conte di Asti (toh, stesso cognome), che ancora adesso suona il jazz e ci rende felici; l'avvocato Giovanni Leone, originario di Pomigliano d'Arco pure lui, che divenne addirittura presidente della Repubblica; l'avvocato Cesare Previti, un tipo piuttosto disinvolto, che anche lui fu al governo. Si dice, nel linguaggio quotidiano: andiamo per avvocati, mi metto l'avvocato, ho un buon avvocato, oppure si invoca la Madonna: orsù dunque avvocata nostra. Per consolarsi, quando uno viene condannato, dice: “Colpa mia, avevo preso l'avvocato Massimo Della Pena”. Il popolo è il cliente dell'avvocato. Speriamo che si comporti bene, il rapporto cliente-legale è molto importante. Bisogna dire la verità all'avvocato? Non sempre. Ma poi, 'sto benedetto popolo: di che cosa è accusato se si fa addirittura una nuova Repubblica per difenderlo? E che popolo è? Popolino? Popolo bue? Popolo padano? Popolo terrone? Popolo che soffre? Non si capisce bene. Ma comunque sia chiaro: è popolo bianco, ariano. L'avvocato non accetta clienti dalla pelle scura. Chi è il nemico del popolo bianco? L'élite. L'élite è: banchieri, possessori di vitalizi, giornaloni, giornalisti, banchieri, ebrei, amici dei negri, europei, buonisti. E anche papa Francesco, che ha esagerato. Per difendere il popolo, l'avvocato si affida a un economista. Deve scegliere tra una vasta rosa di disponibili: un sacco di professori che vogliono mettere in pratica le loro teorie. Ognuno ha una ricetta fantastica, risolutiva. Non si pagano i debiti, si rompe con Bruxelles, ci si appoggia a Putin, si torna alla lira, si stampa moneta, si fa cassa con un condono, si paga un sussidio a tutti, si abbassano le tasse ai ricchi, così spendono; si buttano fuori mezzo milione di neri, così i bianchi fanno il lavoro che hanno sempre sognato: sguattero, raccoglitore di pomodori, badante, pusher. Se ci sono problemi, ci pensa la polizia. Beh, sai che ti dico? Può funzionare. (Questi sproloqui mi sono venuti in mente per non dover affrontare il fatto che - ufficialmente ormai - l'Italia ha il suo primo governo populista. E che questo è andato al potere senza particolari opposizioni). Caso Uva, assolti tutti i carabinieri e i poliziotti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 giugno 2018 La Corte d’assise d’appello di Milano ha confermato il verdetto di primo grado. “Il fatto non sussiste”, assolti anche in appello i due carabinieri e i sei poliziotti imputati per la morte di Giuseppe Uva, avvenuta nel giugno del 2008 a Varese. I giudici hanno in sostanza confermato il verdetto di primo grado. “Ma gli avvocati in questo processo sono stati pesanti e cattivi con noi”, si è lamentata Lucia Uva, sorella della vittima, dopo la sentenza. Risentimento nei confronti dei legali degli imputati, tranne che per uno, ed è un nome eccellente. Parliamo del senatore di Fratelli d’Italia Ignazio La Russa, che si era rimesso la toga per difendere Pierfrancesco Colucci, uno dei poliziotti sotto accusa. “È una storia che mi ha appassionato - aveva raccontato al Giornale - perché nelle carte non ho trovato nulla contro questo poliziotto. Ho pensato che aveva diritto ad essere difeso. Diciamo che fa parte di quel cinquanta per cento di processi che faccio non per soldi ma perché li voglio fare”. Durante l’arringa, La Russa aveva comunque espresso tutta la sua “umana comprensione” per la ricerca della verità, anche con modi “sopra le righe”, da parte dei familiari del manovale morto. Una espressione che ha fatto piacere alla sorella di Uva, nonostante il senatore stesse comunque dall’altra parte della barricata. Il processo era scaturito dall’impugnazione da parte della Procura di Milano della sentenza di primo grado del 2016, che aveva assolto i due carabinieri e sei poliziotti dall’accusa di omicidio preterintenzionale ai danni di Giuseppe. I pm, durante la requisitoria, avevano richiesto tredici anni di carcere per i due carabinieri e 10 anni e sei mesi per sei poliziotti. Il sostituto pg di Milano, Massimo Gaballo, aveva sottolineato che il 43enne Giuseppe Uva, fermato nella notte tra il 13 e il 14 giugno del 2008 in centro a Varese, morì “a causa di un’aritmia provocata dalla violenta manomissione sulla sua persona col trasferimento coatto in caserma, anche a prescindere dalle eventuali percosse subite e dalle lesioni riscontrate sul suo corpo”. A ucciderlo, secondo il rappresentante dell’accusa, furono la “tempesta emotiva” e lo “stress” originati dal suo trasferimento in caserma, illegittimo, non motivato dalla commissione di alcun reato e nemmeno da ragioni di identificazione, dal momento che i carabinieri sapevano bene chi fosse per via dei suoi precedenti. Inoltre, il pg aveva spiegato che è stata chiesta una condanna più lieve per i poliziotti a loro viene addebitata una condotta “omissiva”. I reati contestati erano omicidio preterintenzionale e sequestro di persona aggravato dalla qualifica di pubblico ufficiale. Ma ieri, i giudici della prima Corte d’assise d’appello di Milano, presieduti da Maria Grazia Bernini (a latere Barbara Bellerio), rispetto alla sentenza di primo grado, nell’assolvere tutti gli imputati riguardo all’accusa di sequestro di persona, hanno scagionato con una formula più ampia anche i due carabinieri, sentenziando “perché il fatto non sussiste”. Le parti civili sono state condannate alle spese processuali. “La legge non è uguale per tutti. Sono anni che infangate il nome di mia madre e di mio zio e non avete mai avuto rispetto della nostra famiglia”, è lo sfogo di Angela, nipote di Giuseppe Uva, dopo la lettura della sentenza con la quale la Corte d’assise d’appello di Milano ha assolto i due carabinieri e i sei poliziotti che Gli imputati, tutti presenti in aula, e i loro legali, hanno reagito invitando la nipote di Uva a calmarsi. La donna, però, ha continuato a protestare. “Per 10 anni ci hanno infangato - ha detto gridando, mentre si allontanava - mentre noi non lo abbiamo mai fatto”. La sorella di Giuseppe, Lucia Uva, dopo la lettura della sentenza si è invece avvicinata al sostituto pg Massimo Gavallo e gli ha stretto la mano ringraziandolo: “Per la prima volta, abbiamo avuto un magistrato dell’accusa dalla nostra parte”. Nei precedenti grado di giudizio, i pm avevano sempre chiesto l’assoluzione degli imputati. Le motivazioni della sentenza saranno depositate in 90 giorni: gli avvocati dei familiari di Uva fanno sapere che, dopo averle acquisite, faranno ricorso in Cassazione. Cosa accadde al falegname di Varese? Tutto iniziò il 14 giugno del 2008, quando Giuseppe venne fermato ubriaco alle 3 di notte in centro. Insieme al suo amico Alberto Biggiogero stava spostando una transenna. Arrivarono i carabinieri e li portarono entrambi nella caserma di via Saffi. E qui si apre un “buco” di due ore, che porta direttamente alle 5 del mattino, quando Giuseppe Uva sarebbe entrato al pronto soccorso con un Tso. Alle 10 la morte per arresto cardiaco, su un lettino del reparto di psichiatria. Sette anni di indagini - compreso il processo con l’assoluzione poi impugnato - non hanno chiarito cosa sia effettivamente successo durante le due ore in caserma. In realtà, già nel 2012 un processo per la morte di Uva fu celebrato, sempre a Varese. L’accusa decise di seguire la pista della malasanità e sul banco degli imputati ci finì un medico, che venne assolto con formula piena nell’aprile del 2012. Nel leggere la sentenza, il giudice ordinò anche di effettuare nuove indagini su quello che sarebbe accaduto in caserma, prima dell’ingresso di Giuseppe in ospedale. Il pm allora incaricato delle indagini, Agostino Abate, non la prese affatto bene: parlò apertamente di pregiudizi nei confronti del suo operato. Proprio Abate divenne protagonista dell’incredibile interrogatorio all’unico testimone di quella nottata, Biggiogero. Il video di quanto accaduto è su Youtube: quattro ore di sostanziale massacro, con il teste finito nel pallone, bombardato da domande e da atteggiamenti che in molti hanno definito quasi intimidatori, o quantomeno molto aggressivi, più del lecito per una persona che, in fondo, è soltanto “informata dei fatti” e non accusata di niente. Biggiogero voleva un caffè, Abate gli risponde: “Ha bisogno di drogarsi? Il caffè è una droga”. Un’aria pesante, tanto che di quell’interrogatorio si occupò anche il Csm. Secondo la denuncia dei militari, durante le due ore di fermo Uva si mostrò agitato, quasi incontenibile nella sua furia: “Hanno scritto che quella notte lì Giuseppe si picchiava. Ma io dico, cosa facevano loro? Godevano a vedere una persona che si picchiava?”, si domandò la sorella Lucia. Comunque sia, in ospedale a Uva vengono somministrati vari farmaci per sedarlo. In mattinata, il cuore dell’uomo smetterà di battere per sempre. Da sempre la tesi dei familiari è che il decesso sia stato provocato dalle percosse e dalle manganellate inflitte all’uomo dagli agenti che lo tenevano in custodia. Ieri però è stato decretato per la seconda volta che il “fatto non sussiste”. Caso Uva, il coraggio di fidarsi ancora delle istituzioni di Luigi Manconi e Valentina Calderone Il Manifesto, 1 giugno 2018 La Corte d’Appello di Milano ha assolto ieri gli otto uomini in divisa imputati nel processo per la morte, il 14 giugno saranno dieci anni, di Giuseppe Uva. Varesino, 43 anni, operaio, Uva viene prelevato mentre sta spostando delle transenne in mezzo a una strada e portato in caserma. Ai due carabinieri intervenuti sul posto si aggiungono sei poliziotti. Tutte le forze di pattugliamento della città si occupano di Uva quella notte, lui morirà in ospedale la mattina seguente. Parlare di storie come questa fa affiorare alla mente sempre gli stessi interrogativi. È davvero possibile che un cittadino entri vivo in una caserma, in un carcere, in un posto di polizia, e ne esca morto? Per quale motivo, quando questo succede, è così difficile per le famiglie chiedere e avere verità e giustizia? I vari processi per la morte di Uva sono l’emblema di tutto questo: tra testimoni mai ascoltati per anni, imputazioni coatte e sanzioni del Consiglio superiore della magistratura nei confronti dei primi magistrati inquirenti, questa vicenda ha subito lunghe pause e varie battute d’arresto. La difficoltà a indagare appartenenti alle forze dell’ordine è nota, e la sentenza di ieri merita, almeno su un primissimo punto, una riflessione. Se il trattenimento di Uva non poteva fondarsi sulla necessità di identificarlo - era infatti già noto ai carabinieri -, nessun magistrato è stato avvisato, non sono stati compilati né verbali di arresto né di fermo, su quali basi è stato privato della libertà personale? Questa sentenza, pur senza conoscerne ancora le motivazioni, sembra affermare un principio pericoloso. E, cioè, che degli uomini di legge possono detenere a loro piacimento un cittadino al di fuori di ogni garanzia prevista dalla legge. La Cassazione ci dirà se la decisione della Corte d’Appello potrà essere confermata. Nel frattempo rimane la grande amarezza di non esser riusciti a capire, nemmeno questa volta, cosa sia stato a provocare la morte di una persona che si trovava nella custodia di uomini dello Stato. Dall’altra parte però la giornata di ieri ci consegna l’ennesimo esempio di coraggio e fiducia nelle istituzioni, e come sempre a farsi portatrice di parole così importanti è una di quelle donne, madri, mogli o sorelle, che negli ultimi anni hanno sostenuto queste battaglie. La sorella di Giuseppe Uva, Lucia, ha commentato così la sentenza: “Il solo fatto che per la prima volta in dieci anni un procuratore della repubblica abbia richiesto delle condanne è per me una vittoria”. Come a dire che si è sentita un po’ meno sola, che almeno questa volta non si è dovuta assumere tutto il carico di difendere la memoria di suo fratello, la sua famiglia, la legittima richiesta di sapere cos’è accaduto quella notte. Ancora non sappiamo cosa sia successo a Giuseppe Uva, però possiamo sperare che quanto fatto da Lucia in questi anni non verrà sprecato. È un patrimonio collettivo, a disposizione di ognuno di noi. E per il quale tutti dovremmo ringraziare. Processo mediatico, fine pena mai di Elvira Scigliano Il Mattino di Padova, 1 giugno 2018 Rossetti, ex direttore Fastweb, ha raccontato la sua assoluzione dopo 147 udienze L’aula dell’archivio antico al palazzo del Bo ieri ha ospitato il convegno “Processo mediatico. Fine pena mai. La giustizia, il dovere-diritto di informare e la tutela della reputazione di chi è indagato”. Organizzato da PadovaLegge, in collaborazione con il Centro studi sulle istituzioni Livio Paladin e “il Mattino di Padova”. Condotto da Piero Colaprico, giornalista della Repubblica, che ha coniato il termine “tangentopoli”. Tra gli ospiti Mario Rossetti, che ha affrontato 147 udienze per essere poi assolto perché “il fatto non sussiste”. Era direttore finanziario di Fastweb quando è stato travolto dal processo e, dopo, ha dovuto ricostruire la sua vita. Sono intervenuti inoltre Piero Tony, magistrato, Roberto Zaccaria, professore di Diritto pubblico a Firenze ed ex presidente Rai, e Valerio Spigarelli, avvocato (i cui interventi si sono appuntati soprattutto sul ruolo della magistratura e sul fatto che dinanzi a errori ripetuti e evidenti i giudici non sono chiamati a responsabilità). Il convegno ha trattato in primis della reputazione, declinata attraverso la giustizia dentro le aule di tribunale e fuori, con le “urla” dei processi mediatici. Ma più in generale della tutela della giustizia, del diritto di informazione e del rapporto tra due vero “poteri” come magistratura e stampa. E connesse deviazioni. Chi ha la sventura di finire ingiustamente a processo, può venire investito da una tempesta di notizie che diventano “pena accessoria”. “Non sono una vittima e non mi sono mai sentito tale”, precisa Rossetti. “Il mio libro (“Io non avevo l’avvocato”) è una testimonianza civile per i miei figli. Quando hai dei ragazzi, le complicazioni sono tremende. È stato in carcere che ho capito l’influenza del processo mediatico. Ma a causa del processo mediatico non esiste più la responsabilità personale. Neanche il diritto di non rispondere vale, perché la tecnologia attenua il nostro concetto di libertà: più connessi, più controllati. Sono stato fortunato perché sono sopravvissuto e continuo a portare avanti le mie idee per amore dei miei figli”. Molte le domande sintetizzate dall’avvocato Fabio Pinelli, presidente di PadovaLegge: “Il processo penale è libero dalla celebrazione parallela mediatica? O dovrebbe essere ammodernato per tener conto dello stravolgimento tecnologico?”. Senza adeguata verifica antiriciclaggio la banca perde casa di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2018 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 31 maggio 2018 n. 24670. La “non” adeguata verifica anti-riciclaggio fa cadere la buona fede della banca e rende inoppugnabile il sequestro/confisca dell’immobile gravato di garanzia sul mutuo erogato. La Quinta penale della Cassazione (sentenza 24670/18 depositata ieri) fissa con chiarezza i limiti della buona fede e della adeguata verifica in materia di antiriciclaggio, spostando in avanti i doveri “non tipizzati” dell’intermediario. Intermediario che non può limitarsi al mero controllo formale (e superficiale) sulle operazioni, anche perché la normativa oggi impone una “funzione sociale” di controllo sul reimpiego di capitali di origine illecita. La vicenda riguardava la concessione di un mutuo per l’acquisto di immobile con il quale il contraente - indagato tra l’altro narcotraffico e raggiunto pertanto da misure di prevenzione patrimoniale - aveva messo in atto un’operazione di auto-riciclaggio. Formalmente il mutuo fondiario con la banca poteva apparire ineccepibile, se non per la circostanza che l’istituto non aveva adeguatamente soppesato il fatto che i contratti di lavoro dipendente - esibiti come fonte “lecita” di reddito - erano largamente incompleti, non sottoscritti e mai nemmeno trasmessi agli uffici competenti. Tali aspetti, scrive la Quinta, “avrebbero dovuto imporre verifiche più pregnanti riguardo l’effettiva percezione dei redditi da parte degli aspiranti mutuatari “non rivelandosi cautela adeguata e sufficiente la mera consultazione del registro delle imprese in cui figurava la ditta presso la quale, apparentemente” il cliente “aveva documentato di lavorare”. La mancata consultazione delle normali banche dati, che avrebbe rilevato l’anomalia della dichiarazione, è “all’evidenza” una violazione di “obblighi non normativamente previsti siccome ancorati alla diligenza specifica del buon banchiere da declinarsi, dopo l’entrata in vigore del Dlgs 231/2007, anche in relazione alla funzione sociale a questi assegnata dalle politiche di prevenzione delle attività di riciclaggio, che non possono risolversi nel mero controllo formale”. Tra gli elementi valutativi a sfavore della banca, la circostanza che i due mutuanti non erano clienti con i quali l’istituto aveva avuto “pregressi e consolidati rapporti fiduciari”. Niente pretesa della banca sui beni acquistati con il mutuo utilizzato per attività illecite di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2018 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 31 maggio 2018 n. 24670. La banca non può avanzare pretese sull'immobile posto a garanzia del prestito, quando è sottoposto a confisca di prevenzione in quanto acquistato con attività illecita mediante l'impiego delle somme prestate. Onere della banca - La Cassazione con la sentenza n. 24670/18 ha chiarito che l'istituto di credito prima di concedere il prestito deve sincerarsi che il beneficiario abbia tutte le credenziali per poter restituire in maniera del tutto lecita le rate legate al debito. In sostanza il mutuatario non può investire le somme ricevute per compiere attività illecite mediante le quali effettuare acquisti e restituire anche il prestito. I Supremi giudici a tal proposito ricordano che la banca non può limitarsi a rivendicare di avere assolto l'ordinaria diligenza attraverso il rispetto di prescrizioni generali, ma i suoi obblighi si integrano attraverso regole cautelari commisurate al caso concreto, secondo modelli di prevenzione del rischio delineati dalla legge e riempiti di volta in volta, secondo le circostanze in cui sorge il rapporto, di positivi doveri di verifica e di controllo. In altri termini deve offrire la positiva dimostrazione dell'assenza di elementi tali da far insorgere il ragionevole convincimento relativo all'inerenza delle operazioni bancarie ad attività illecite e, in ipotesi di indici di criticità, di averli superati medianti indagini adeguate, nei limiti di un apprezzabile sacrificio e della ragionevole esigibilità, parametrata alle circostanze del concreto contesto. Dunque se in banca si fosse utilizzato il criterio del “buon banchiere” ci si sarebbe accorti di evidenti irregolarità quali il Cud incompleto e privo di sottoscrizione e senza attestazione di trasmissione agli uffici competenti. Le conclusioni - Esistevano, dunque, elementi tali da indurre il mutuante ad assumere nella fase istruttoria maggiori informazioni, anche mediante l'accesso alle banche dati consultabili dagli operatori finanziari utili a escludere il concreto rischio di pagamento del piano ammortamento del mutuo con risorse illecite. Siena: nel carcere di Ranza si studia per tornare nel mondo “normale” di Alessandro Lorenzini sienanews.it, 1 giugno 2018 I corsi dell’istituto Ricasoli nel carcere di massima sicurezza. Studiare per la speranza, un giorno, di tornare ad essere cittadini “normali”. per quanto possa esserlo chi ha trascorso anni, a volte decenni, all’interno di un carcere. Sono ormai sette anni che l’istituto statale Ricasoli di Siena è presente all’interno del carcere di Ranza - San Gimignano, casa di reclusione di massima sicurezza. Non si deve mai perdere la speranza, nemmeno quando si è timbrati con un ‘fine pena mai’ perché a volte anche un ergastolo può prevedere riduzioni e ‘libertà’. E allora quegli uomini condannati a vita, che hanno alle spalle reati pesanti, spesso tanti morti sulla coscienza, sanno che avere un comportamento corretto e costruttivo dentro al carcere può portare a risultati insperati. Con la cucina e il teatro, per esempio, si può riuscire a scoprire che si può imparare ad essere altro oltre a ciò che siamo stati in passato. Nei ricordi dei detenuti della massima sicurezza ci sono la criminalità organizzata e il terrorismo, il più delle volte. Ma ci sono anche famiglie rimaste fuori, più sole di quanto può essere solo chi è dietro le sbarre. Ecco allora che una serie di attività come la cucina e il teatro, appunto, forme d’arte e di creatività, possono sviluppare un punto di vista diverso della vita. I percorsi curriculari sono stati rivisti a seguito del protocollo di intesa tra i Ministeri dell’Istruzione e della Giustizia siglato il 23 ottobre 2012. E nel 2017 è nato il progetto “Scriviamo… con gusto!”, un blog in cui si parla di cucina e di passione. In questo spazio virtuale gli studenti inventano una ricetta, la realizzano in team e, a seconda delle proprie attitudini e potenzialità, lavorano su elaborati scritti di diversa natura da pubblicare in rete, favorendo un confronto con gli utenti. In questo modo, infatti, la sezione scolastica di Ranza si apre virtualmente a tutti coloro che si interessano al mondo della cucina, della scuola e della creatività, stimolando la crescita e l’impegno degli studenti detenuti. Come “gustosa” conclusione dell’anno scolastico, anche quest’anno i detenuti hanno organizzato un pranzo, preparato dagli studenti della casa che studiano nella sede carceraria dell’Istituto Enogastronomico di Colle Val d’Elsa, indirizzo dell’Istituto d’Istruzione superiore statale “Bettino Ricasoli” di Siena. Un evento a cui hanno collaborato anche i detenuti che frequentano il corso teatrale interno e che hanno presentato “monologhi” di famose pellicole da accompagnare al pranzo. “Lo scopo - ha detto Maria Bevilacqua, capo area settore trattamento del carcere di Ranza - è certamente quello di integrare e formare i detenuti, che devono impiegare in maniera proficua il loro tempo di carcerazione. In questo modo acquisiscono strumenti in vista del loro reintegro nella società libera. È vero, molti di loro son ‘fine pena mai’, ma è pur vero che in molti conservano la speranza di una futura misura alternativa, per questo c’è comunque molta attenzione alle lezioni e corsi del genere. La collaborazione con l’istituto Ricasoli dura da sette anni in maniera positiva: ci sono stati tanti esempi di detenuti che hanno trovato lavoro grazie a questi corsi, con impieghi anche in esercizi delle zone limitrofe al carcere”. In carcere di vive una realtà lontana dal quotidiano dell’esterno. E non solo per muri, cancelli, controlli che separano celle e spazi dal mondo esterno. “In questo tipo di lavoro - ha proseguito - si crede perché si crede che ci sia la possibilità di reintegro. Certo, poi ci sono le recidive, inutile negarlo, ma per una recidiva ci sono molti reintegri in società. Sovraffollamento? Quando c’è mai stato in realtà, semmai affollamento, ma non in questa fase, abbiamo circa 250 detenuti. È un lavoro non facile, ci sono stati anche momenti difficili, anche perché è un mondo maschile e maschilista. Con il tempo però si impara a mediare con questo mondo e si riesce a svolgere con serenità il proprio lavoro. In trentasei anni ci sono stati anche attimi molto duri, ma il lavoro va avanti sempre”. “È una scuola un po’ speciale - ha detto Tiziano Neri, preside del Ricasoli -, anche solo per il fatto che le classi son determinate dalla direzione del carcere o che gli ordinamenti didattici sono diversi. Ma è una scuola a tutti gli effetti, il diploma non lo regaliamo a nessuno e ci vuole comunque tanto impegno da parte dei detenuti. Vedo sempre grande motivazione in questi studenti, del resto la cucina, per fare un esempio, permette di sviluppare la propria creatività e indagare a fondo nelle proprie capacità. L’attività si svolge in una padiglione con aule e laboratori. La maggior parte degli studenti è “fine pena mai”, ma questo non è un ostacolo, tutti in ogni caso sperano di raggiungere, un giorno, una misura alternativa. Timore e paura nei docenti? Per prima cosa venire a insegnare in carcere è una libera scelta, non obblighiamo nessuno. Poi se ci sono sentimenti del genere non è possibile venire qua, anzi sono addirittura un fattore di rischio. Negli anni, però, solo un paio di docenti hanno abbandonato questo tipo di esperienza. Di certo noi siamo molto orgogliosi di quello che abbiamo fatto e facciamo qua”. Ferrara: l’ex pm Colombo e le regole spiegate ai detenuti di Martin Miraglia estense.com, 1 giugno 2018 “Non si può vivere senza e partono dalla Costituzione". Spazio anche per le opinioni dell'ex magistrato: "Non credo più che il carcere serva per evitare che le persone commettano reati. Il lavoro serve al reinserimento". Prima si sposta dal tavolo dei relatori, piazzandosi al centro della sala teatro del carcere dell’Arginone facendo girare tutti, detenuti e ospiti, in modo circolare. Poi saluta un detenuto che aveva già incontrato a San Vittore poco tempo addietro e che dovrebbe uscire tra cinque mesi, poi instaura un dialogo che si colloca un po’ a metà tra il provocatorio e lo show. “Per parlare di regole partirei dalle mie dimissioni ormai 11 anni fa dalla magistratura dopo 32 anni da magistrato con la giustizia che ancora funziona malissimo. Una mattina mi sono svegliato e mi sono chiesto se non ci fosse qualcosa da fare prima delle sentenze e dei tribunali, e avevo capito che il problema era la relazione tra noi e le regole, se non la capiamo non c’è giustizia”. L’ex magistrato di "Mani pulite" Gherardo Colombo, nella sua visita ai detenuti e alla casa circondariale di Ferrara di giovedì racconta e si racconta al tempo stesso davanti a una platea che oltre al direttore del carcere Paolo Malato e alla garante Stefania Carnevale - che lavorò anche con lui, per circa un anno - vede dirigenti di un po’ tutte le amministrazioni dello Stato legate in qualche modo alla giustizia, dalla prefettura alla questura, dal Comune ai carabinieri, dalla Municipale ai garanti regionali. “Quando sentite la parola regola voi esultate o vi cascano le braccia?”, esordisce, per poi spiegare cosa sia una regola, secondo lui, ovvero “uno strumento per raggiungere un risultato. Se siete qui è perché non avete rispettato le regole: non le leggi ma quella su come si fanno le rapine ad esempio, altrimenti non sareste qui dentro. Poi non è bello lo stesso, non perché è illegale ma perché la vittima si spaventa”. E, partendo da questo, si può vivere senza regole? No, è la risposta. “Non si possono fare le torte di mele senza le mele, Poi si possono inventare regole nuove e migliorarle, la prima torta di mele probabilmente faceva schifo, ma senza regole niente torte”. E, ad introdurle, è sempre la comunità nel suo complesso perché “quando non le accoglie non le rispetta”. “Ci fu anche chi scrisse un dizionario del gergo carcerario”, spiega ancora Colombo nel suo intervento di circa un’ora e mezza, “ed è perché si usa un linguaggio diverso che avete scelto - e quindi regolamentato, da - voi”. Le regole, alla fine, “servono per fidarsi degli altri, e nonostante quello che si dice credo che la devianza in questo Paese sia simile a quella degli altri”. “Prima di capire il resto delle regole, però, bisogna partire dalla Costituzione”, si appella Colombo, “perché partono tutte da lì”. “La prima regola di base - continua - era la discriminazione: qualcuno vale tanto e qualcuno niente. Le donne hanno votato per la prima volta nel 1947, poi questo concetto è stato rovesciato dai costituenti: le differenze non possono discriminare, non possono interferire nella realizzazione dell’individuo. Perché è cambiato questo modo di vivere? Perché i costituenti avevano vissuto la guerra. Per noi 55 milioni di morti sono solo un numero, ma poi quanti sono tornati senza un braccio, senza vista, senza udito dopo i bombardamenti? L’atomica poi aveva cambiato tutto, e il primo pensiero fu ‘come facciamo a evitare che queste cose si ripetano?”. Il problema, comunque, è sempre quello di seguirle e rispettarle, le regole, è non è facile: “C’è un sistema penalizzante: le regole formali dicono che si sta insieme per armonia, quelle sostanziali che invece contano forza e furbizia, quindi si creano a cascata altre regole. Siamo tutti affetti dalla convinzione che qualcuno meno degno lo si trova sempre. La comunità vuole un carcere più duro, voi non sareste d’accordo. Ma se si parlasse di sex offenders? E di pedofili? Ecco che la prospettiva cambia”. Colombo infine svela una parte di se stesso e della sua vita da magistrato: “Mettere gente in prigione mi è sempre pesato, è sempre stata una pena soprattutto quando esistevano dei rapporti familiari: arrivava in ufficio la compagna con il figlio di un arrestato e mi chiedevo chi fossi io per togliere il padre a un bambino. Ancora oggi non ho una risposta, però credevo che il carcere servisse alla gente per smettere di commettere reati. Ora non più: tutti siamo risorse, e credo che il lavoro sia utilissimo per favorire il reinserimento”. Napoli: si è svolto il convegno “Carcere e giustizia da un altro punto di vista" di Annalisa Cocco linkabile.it, 1 giugno 2018 Le parole del garante Samuele Ciambriello: "i volontari delle carceri sono i veri cospiratori della speranza”. “In questo clima tra cospiratori della speranza, vorrei subito chiarire: i volontari sono dei cospiratori della speranza non delle persone che sono lì per dare alle persone diversamente liberi, qualcosa d’altro. Il titolo di oggi che parla di carcere e giustizia ci deve portare a riflettere, del perché la giustizia è fallita. Entrare in carcere significa far rispettare i diritti di tutti i detenuti, informare i detenuti è un obbligo giuridico e di solidarietà. Infine, vi è bisogno di continuità per portare avanti le relazioni con i detenuti”. Così si è espresso il Garante dei Detenuti, Samuele Ciambriello, durante il Convegno :”Carcere e giustizia, da un altro punto di vista”, avvenuto presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale. Durante il convegno, sono intervenuti: il Vescovo ausiliare di Napoli, Salvatore Angerami, il Professor Giuseppe Ferraro, la Dottoressa e Direttrice della casa circondariale di Poggioreale Maria Luisa Palma, il Direttore Ufficio Pastorale, Sociale e del Lavoro dell’Arcidiocesi di Napoli Antonio Mattone, e Don Franco Esposito. L’evento è stato moderato dal Professore Carmine Matarazzo. Intervento da rimarcare è quello del Vescovo ausiliare di Napoli, Salvatore Angerami che ha dichiarato: “Visitare le Carceri è un esercizio all’educazione della speranza e di riconciliazione con Dio ma soprattutto con Dio. Ciò che deve spronare è Dio, motivo e promessa di speranza". Altra opinione da sottolineare è quella del Professor Giuseppe Ferraro che ha evidenziato le sue considerazioni in merito ad un tema cosi delicato: "Questo è un argomento delicato perché solo Dio può perdonare. Per perdonare bisogna essere in tre :c’è quindi bisogno di fare un percorso ma rivolti verso Dio. Per conoscere la verità e la giustizia, c’è bisogno della Libertà che è determinata dalla qualità dei legami". A seguire si sono espressi anche la Dottoressa e Direttrice della casa circondariale di Poggioreale Maria Luisa Palma, ed il Direttore Ufficio Pastorale, Sociale e del Lavoro dell’Arcidiocesi di Napoli Antonio Mattone che hanno dichiarato: “Il carcere-sottolinea la Direttrice Maria Luisa Palma- è la risposta per raggiungere la sicurezza dei cittadini, ed esiste una correlazione tra carcerazione ed esclusione sociale. Il carcere è un luogo dove si vuole mantenere l’uomo per rieducarlo. Ciò è possibile quando si valorizza l’uomo che ha sbagliato e quando la sanzione è legata alla non distruzione dell’uomo stesso e della sua dignità”. Mattone ha dichiarato: “La presenza dei cristiani nelle carceri non è una questione di buoni sentimenti. Solo gli ergastolani non escono più. Un carcere cattivo serve solo ad abbassare la soglia di umanità di tutti i cittadini. Si perde il lavoro e la salute in carcere dove vige la legge del più forte. Il carcere è pieno di giovani, senza fissa dimore, ed è un contenitore si povertà, un luogo pieno di dolore umano. Un carcere più umano è l’unica arma per cambiare le persone”. Infine le conclusioni sono state affidate a Don Franco Esposito che ha dichiarato: “Gli uomini ti fanno pagare una colpa, Dio non te la fa pagare la colpa. Anche il carcere più innovativo è contro l’uomo, la qualifica del volontario è di sentire propria la sofferenza dell’altro, ed è il momento dove si va oltre“. Napoli: la direttrice di Poggioreale “antichi problemi e nuovi progetti per un carcere efficace” di Fabrizio Ferrante Ristretti Orizzonti, 1 giugno 2018 Intervento di Maria Luisa Palma al convegno “Carcere e giustizia da un altro punto di vista”, svoltosi a Napoli alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale. La direttrice del carcere di Poggioreale, dottoressa Maria Luisa Palma, ha fatto il punto sul proprio impegno nel gestire e migliorare la struttura, non senza evidenziare le criticità ancora da risolvere. La direttrice ha innanzitutto rivelato il suo pensiero sulla percezione del carcere nell’opinione pubblica: “Sono una persona pratica, lavoro nell’amministrazione penitenziaria da 32 anni e pensando a cosa dire oggi ho creduto importante comunicare quello che stiamo facendo per il carcere di Poggioreale. Vorrei quindi fare alcune riflessioni e, perché no pur essendo arrivata da poco, farvi conoscere cosa penso. La prima riflessione mi è venuta leggendo un libro di Alain Brossat, un sociologo francese, dal titolo Pour en finir avec la prison, che sintetizza non solo il mio pensiero ma direi quello di chiunque rifletta su questo periodo carcerario contemporaneo”. Il riferimento è al carcere che dovrebbe fungere come estrema ratio e non come unica risposta alla devianza. “Ma è proprio così? La risposta non è questa, pensate che ci sono in Italia 35 mila fattispecie di reato puniti col carcere. Quindi il carcere è la sola risposta alla delinquenza sociale. È una risposta che si utilizza da più parti anche di questi tempi affinché si ottenga la cosiddetta sicurezza dei cittadini. Mi chiedo se i cittadini si sentano più sicuri con più carcere. Non esiste una correlazione fra sicurezza sociale e carcerazione ma esiste invece, al contrario, una correlazione fra carcerazione ed esclusione sociale. La maggior parte delle persone ristrette a Poggioreale sono giovani, non hanno un’adeguata istruzione, spesso sono tossicodipendenti e ce ne sono tanti, non solo al padiglione Roma. Il carcere non serve a niente quando non è efficace e non è efficace quando non rispetta la legge”. “Seconda riflessione - ha aggiunto la direttrice di Poggioreale - Il carcere efficace è quello progettato tenendo conto del contesto sociale, quindi del territorio in cui sorge. Questo per fare in modo che i detenuti mantengano un contatto col proprio contesto d’appartenenza, per fare sì che i rapporti sociali non vengano evaporati dalla lontananza, quindi un carcere in ogni contesto sociale dove ci sia una situazione di degrado. Quando nel 1912 Poggioreale venne costruito era fuori dalla città, una palude, un posto in cui andavano a cacciare i re e i principi ma piano piano è stato inglobato nella città e adesso si trova praticamente al centro cittadino. Questo significa identificare un carcere con il rispetto dei principi normativi, costituzionali e l’ordinamento penitenziario? Io vedo il carcere per quello che è, un luogo dove una persona viene tenuta separata dal suo contesto naturale, un luogo in cui si vuole mantenere l’uomo coatto per rieducarlo e l’esperienza mi dice che questo non sempre funziona. Ciò riesce solo quando si valorizza l’uomo che ha sbagliato e se lo si include. La sanzione non dev’essere solo restrittiva e non deve distruggere l’uomo. I luoghi della sanzione siano strutturati in maniera diversa dalle carceri per come oggi le conosciamo. Occorre cambiare registro e questi sono i punti da cui partire”. Spazio quindi a cosa, nel concreto, la direttrice Palma sta facendo e a cosa punta per il futuro: “Che cosa sto cercando di realizzare? Proprio questo. Un carcere che non offenda la dignità dell’uomo, non solo dei detenuti ma anche dei lavoratori dentro il carcere. Quando i luoghi, per alcuni di detenzione e per altri di lavoro, sono fatiscenti, vetusti e privi di quei minimi requisiti di vivibilità è difficile attuare quello che la legge ci dice. Quindi quello che sto cercando di fare è catalizzare l’attenzione sulle parti strutturali del carcere. Devo dire che sto avendo una risposta e stiamo riuscendo ad avere i fondi perché senza il supporto economico non si riesce a fare niente. Nel giro di quest’anno si riusciranno a realizzare la ristrutturazione di due padiglioni da 100 detenuti. Già uno è stato realizzato, il Genova, l’abbiamo inaugurato e funziona a pieno regime ma con gli altri due padiglioni, il Venezia e l’altra parte del Genova, significa che altre 200 persone detenute e un numero molto più basso di lavoratori, potranno stare in ambienti che non sono difficili da sopportare. La vista di un padiglione e delle stanze fatiscenti, delle docce coi licheni appartenenti a generazioni passate, è difficile da sopportare”. Non solo nuovi padiglioni ma anche altri storicamente critici (i peggiori restano il Milano e il Salerno) saranno ristrutturati o sensibilmente rinnovati, come l’Avellino: “Interventi ci saranno anche per gli altri padiglioni. Sono in piedi i cantieri per ristrutturare il padiglione Roma dove ci sono i tossicodipendenti. Le persone che lavorano coi tossicodipendenti sanno che quel padiglione è uno dei più antichi, è bellissimo ma per farci un museo non per passarci una detenzione col problema della tossicodipendenza. Il padiglione San Paolo è anch’esso al centro di progetti ma ci vorrà del tempo e ancora l’Avellino, padiglione di Alta Sicurezza: nelle carceri laddove ci sono persone provenienti da un determinato circuito, capita che altri siano un po’trascurati. Per esempio questo vale per le donne: un numero irrisorio di detenute rispetto ai maschi ma che stanno in istituti maschili, subiscono un trattamento che definirei residuale. L’Avellino è un padiglione sorto nel 1912 che non ha socialità. Vi rendete conto cosa significa per i detenuti e per gli agenti stare in un posto dove non ci sono stanze per andare a giocare al bigliardino o per incontrarsi e spezzare la monotonia della detenzione? Questo è stato un impegno e adesso ho avuto l’autorizzazione dal Dap per contrarre il numero dei detenuti in quel padiglione - nonostante un trend in crescita di ingressi in carcere, al momento a Poggioreale ci sono oltre 2200 detenuti in 1600 posti - per realizzare, invece che stanze di detenzione, delle stanze di socialità. Questo perché possano uscire dalle stanze, anzi dalle celle, nome decisamente più appropriato”. Novità in arrivo anche per i parenti in visita ai detenuti: “Per quanto riguarda i colloqui, sono andata a vedere il percorso che fanno i familiari: bellissimo lo slogan che viene utilizzato per indicare i familiari, nessun crimine nessuna condanna, in quanto non hanno commesso alcun crimine né ricevuto condanne da scontare. Però diciamo che svolgere i colloqui richiede grande salute, prima di tutto. Ad esempio adesso c’è grandissimo caldo. Abbiamo fatto degli sforzi per far sì che i parenti non stazionassero più fuori dalla struttura come qualche tempo fa, però nel cortile scoperto ci sono tettoie di plastica che lo rendono come una serra. Stiamo facendo il possibile e nel giro di quest’anno apriremo un’altra zona di accettazione colloqui per dare modo alle persone di non svenire per il caldo”. Infine un passaggio sull’importanza del volontariato e dell’apertura del carcere alle realtà associative esterne: “Dunque serve il carcere? Può servire innanzitutto se non è un luogo di grande sofferenza. Sto cercando di aprire il carcere all’esterno. A Poggioreale 150 volontari entrano abitualmente, volontari che sono anche operatori che portano avanti progetti. I volontari servono allo scopo di aiutare l’amministrazione a raggiungere il suo obiettivo e assolvere il compito istituzionale di rieducare, con la consapevolezza che questo è un dovere ma anche che per fare ciò deve essere aiutata dalla società esterna, dal volontariato. Ruolo del volontariato è dunque aiutarci a fare il nostro dovere. Bisogna mettere in campo tutte le forze possibili perché il carcere rispetti i diritti dell’uomo”. Aosta: nel carcere di Brissogne "alta concentrazione" del batterio legionella di Marco Camilli aostaoggi.it, 1 giugno 2018 La Casa circondariale di Brissogne potrebbe aver rischiato una epidemia di legionella e a tutt'oggi non possiede un sistema permanente in grado di annullare o quantomeno ridurre il pericolo di diffusione del batterio. È quanto emerge da una corrispondenza tra il sindacato di polizia penitenziaria Osapp e la direzione dell'istituto carcerario valdostano da cui si intuisce inoltre che né il personale né i detenuti sarebbero stati avvisati del pericolo corso. La corrispondenza, resa nota dal vice segretario di Piemonte e Valle d'Aosta del sindacato Carmelo Passafiume, ha origine da un comunicazione in cui l'Osapp denunciava la “presunta presenza del micidiale batterio della legionella del nostro istituto. Sembrerebbe che l'incapacità della caldaia a raggiungere temperature idonee a sterilizzare l'acqua comporto il rischio della presenza di tale batterio”, scriveva il sindacato nella lettera. Nella risposta il comandante di reparto Di Martino ha confermato che il batterio era presente nella rete idrica. “A seguito di tempestiva richiesta di intervento”, si legge infatti nella risposta fornita all'Osapp, lo scorso 7 maggio una ditta specializzata è “intervenuta per eseguire una disinfestazione di tutta la rete dell'acqua calda sanitaria”. Le analisi effettuate in seguito hanno confermato che “la sanificazione ha permesso di eliminare le alte concentrazioni del batterio, riportando i valori della norma”. Intanto “si è provveduto a inoltrare formale richiesta all'ufficio tecnico presso il Prap al fine di ottenere il finanziamento necessario all'installazione di un apposito impianto di prevenzione, con dosaggio continuo, di prodotto anti-legionella”. Per l'Osapp comunque il pericolo non è passato. “Non ci risulta - sottolinea infatti Passafiume - siano stati avviati accertamenti sanitari per sapere se taluno del personale o delle persone detenute abbia contratto il micidiale virus”. Per il sindacato “è facile dedurre” che prima della sanificazione “il personale residente in caserma e i detenuti ignari abbiano usato giornalmente le docce e, l'inalazione dell'acqua infetta è il principale modo di contrarre la legionella”. Questa, conclude l'Osapp, è “la ciliegina sulla torta di una situazione di degrato nella gestione della casa circondariale Aosta che adesso sta sconfinando le responsabilità amministrativa e veleggia verso ben altre responsabilità”. Piombino (Li): studenti e detenuti sullo stesso palco di Daniele Perini Il Tirreno, 1 giugno 2018 Lo spettacolo teatrale è nato dal progetto di collaborazione. Serata di grande eventi al Centro Giovani di Piombino con l’appuntamento fissato per stasera alle 21 con lo spettacolo “Il passato che ha sbagliato. Il futuro che può errare”. L’evento è finanziato da Caritas Piombino, a cura dell’associazione culturale Sobborghi Onlus, con la partecipazione del polo studentesco Isis Carducci, Volta e Pacinotti e della casa circondariale di Massa Marittima. Dal progetto universitario di una ragazza ventiquattrenne piombinese che svolge il servizio civile per il Centro Giovani di Piombino, Soili Mancini, e la sua collaborazione con il coordinatore dei detenuti della casa circondariale di Massa Marittima, è nato un percorso di incontri e laboratori tra i detenuti stessi e gli alunni delle classi quarte degli istituti d’istruzione di secondo grado piombinesi. Ad aderire al progetto sono state le classi delle professoresse Barani e Niccolini del liceo ad indirizzo sociale piombinese e due alunni della quarta Iti. Dopo il percorso di preparazione siamo giunti quindi, in concomitanza con la fine del calendario scolastico, all’organizzazione di questo spettacolo finale che vedrà continuare la collaborazione tra i detenuti e gli alunni piombinesi. Sarà uno spettacolo che metterà in luce la bella collaborazione tra due mondi che difficilmente possono entrare in contatto e contaminarsi positivamente. Coordinati dal sapiente lavoro dell’associazione Sobborghi e degli enti legati al Centro Giò, invece, questa sera sarà possibile vedere un lavoro concepito e realizzato dall’unione delle forze di chi si vuole rimettere in gioco dopo gli errori commessi nella vita e da chi sta imparando, grazie alla scuola e allo studio, quelle che sono le fondamenta di una buona società. Prima dell’evento, per le 17, è previsto un aperitivo organizzato dal bar del Centro Giovani, il nuovo Fabar da poco riconcepito e tornato ad offrire il servizio all’interno dei locali del Centro di viale della Resistenza. Terni: “Intrecci”, mostra delle opere dei detenuti al Museo diocesano diocesi.terni.it, 1 giugno 2018 S’intitola “Intrecci” la mostra di opere pittoriche e di versi poetici, realizzata nell’ambito del progetto arte in carcere, promossa dal Laboratorio Artistico Casa Circondariale di Terni, dalla Caritas diocesana e associazione di volontariato San Martino e dalla casa Circondariale di Terni. La mostra allestita presso il Museo Diocesano e Capitolare di Terni sarà inaugurata sabato 26 maggio alle ore 17 e resterà aperta dal 26 maggio al 2 giugno 2018 con orario 10.00 - 12.30 e 17.00 - 19.30. In mostra 70 opere pittoriche realizzate da 13 detenuti e 12 poesie scritte da altrettanti detenuti. Per acquisire le opere potrà essere fatta un’offerta in denaro e il ricavato sarà utilizzato per l’acquisto dei materiali del laboratorio artistico e per le necessità del detenuto autore dell’opera. Saranno presenti alcuni detenuti autori delle opere esposte “Nella Casa Circondariale di Terni, da oltre quattordici anni, è attivo il Progetto ‘Arte in Carcere”, un laboratorio artistico organizzato dalla Caritas - Associazione di volontariato San Martino - spiega la coordinatrice del progetto Gisella Manuetti Bonelli -. Per i detenuti che lo frequentano, questo luogo è diventato un punto di riferimento per socializzare, per intraprendere un percorso di introspezione e crescita personale acquisendo elementi tecnici sul disegno e sul colore. In questo luogo passano e si incontrano individui di varie culture e per tanti motivi, alcuni sostano più a lungo di altri. Nello spazio di questo Laboratorio Artistico, le diversità si intrecciano come a formare un unico ordito perché la finalità è uguale per tutti: cercare in se stessi, al di la del reato per cui stanno scontando la pena, qualcosa di bello, realizzarlo e dimostrarlo. Creando disegni e pitture e scrivendo versi, esposti in questa mostra, trapela il loro impegno, per ritrovare una sensibilità, sopita da tempo e il desiderio di riallacciare una nuova alleanza con se stessi e con gli altri”. La Corte di Strasburgo condanna Lituania e Romania: collaborarono con la Cia di Simone Pieranni Il Manifesto, 1 giugno 2018 Prigioni segrete della Cia. Due “sospettati” post 11.9 ancora a Guantanamo, saranno risarciti con 100mila euro. La Corte europea per i diritti umani di Strasburgo ha condannato Romania e Lituania, perché avrebbero permesso alla Cia di ospitare due sospettati di terrorismo in alcune prigioni segrete sul proprio territorio. La Corte non li accusa di torture - che sarebbero avvenute in altri luoghi - ma di aver partecipato al “trattamento inumano” di persone e di aver fornito carceri segrete alla Cia, utilizzate, spesso, come base per ulteriori spostamenti. Si tratta dei rivoli dell’11 settembre 2001 e di quella strategia voluta dall’allora amministrazione americana di gloves off, “togliersi i guanti” per trattare con i sospettati di terrorismo. A ricorrere alla Corte europea di Strasburgo erano stati Abd al Rahim al Nashiri e Abu Zubaydah, entrambi ancora detenuti nel carcere di Guantanamo. La denuncia del primo aveva già fatto condannare dalla Corte di Strasburgo la Polonia, sempre per la sua collaborazione con la Cia. Poi ha accusato anche la Romania: sosteneva che il paese si fosse reso complice dei servizi segreti statunitensi permettendogli di detenerlo sul loro territorio e poi consentendogli di trasferirlo al di fuori di questo sottoponendolo al rischio di essere condannato a morte. Le stesse accuse sono state mosse alla Lituania da Abu Zubaydah. Sia Lituania, sia Romania dovranno pagare 100mila euro per danni a entrambi. La storia dei due sospettati è simile a tante altre: Abu Zubaydah, nato in Arabia saudita, è stato ritenuto dai servizi americani capo-reclutatore di al Qaeda, nonché mente di alcuni attentati e soprattutto uomo capace di tenere contatti con il capo, bin Laden. Secondo le informazioni trapelate sui media americani, sarebbe stato catturato in Pakistan nel marzo del 2002. Da lì sarebbe stato spostato in una prigione segreta in Tailandia, fino ad arrivare in Polonia, sempre nel 2002. Per la Corte sarebbe stato detenuto in Lituania tra il febbraio 2005 e il marzo 2006 e poi trasferito a Guantanamo, via Afghanistan. Abd Al Nashiri, invece, venne arrestato a Dubai nel 2002, poi spostato prima in Afghanistan e Tailandia. Sarebbe stato detenuto in Romania, dopo un passaggio in Polonia, tra l’aprile 2004 e il novembre 2005. Anche per lui, poi, Guantanamo. L’uso di “prigioni segrete” e delle “extraordinary rendition” sono ormai conosciute; lo erano meno all’epoca in cui avvenivano. Paesi alleati o ben disposti ad assecondare Washington, si resero così colpevoli di gravi crimini, considerato che la Cia decise di imprigionare - o fare transitare - i sospetti nei “black sites” per eludere i vincoli della legge americana agli interrogatori. Bucarest - secondo la Corte - era dunque a conoscenza dei rischi che correva il sospettato “ospitato” dalle sue carceri ad hoc; sapeva che Abd al-Rahim al-Nashiri avrebbe rischiato la tortura e la pena di morte. Secondo la sentenza l’uomo ha sofferto “condizioni di detenzione” estreme e “trattamenti disumani che la Romania ha consentito cooperando con la Cia”. I giudici hanno citato documenti della Cia secondo cui i due sospetti terroristi sono stati sottoposti a lunghi periodi incappucciati, in isolamento, esposti a rumori e luci forti e a detenzione con ceppi alle gambe. Ucraina. Una grande “lezione di giornalismo” di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 1 giugno 2018 È una grande “lezione di giornalismo” quella che ci arriva da Kiev. Il reporter russo Arkadij Babchenko, dato per assassinato dai servizi russi, è riapparso vivo e vegeto in una conferenza stampa dei servizi segreti ucraini: “È stata una messa in scena per proteggerlo da un attentato”, con tanto di arresto del reo-confesso attentatore e prove “inoppugnabili”. Come una pistola Makharov che più russa non si può e l’annuncio di avere trovato tre proiettili dello stesso tipo di quelli usati per gli omicidi dell’oppositore politico russo Nemtzov e della Politkovskaja, la giornalista che testimoniava la strage in Cecenia - parte della Federazione russa - durante l’intervento militare di Mosca. Omicidi questi, invece, spaventosamente veri. Con Babchenko morto è subito partita una guerra diplomatica lanciata dal presidente ucraino, il cioccolataio Poroshenko e delle cancellerie europeo-atlantiche contro l’immancabile nemico ritrovato, la Russia di Vladimir Putin, per questo imbroglio mediatico che ha ingannato perfino la moglie che aveva ritrovato il corpo del resuscitato in un lago di finto sangue. Proprio mentre si sta sgonfiando il caso Skripal, che è bene ricordarlo ha schierato tutto l’Occidente con dure sanzioni contro la Russia. Ora, dopo l’”omicidio” Babchenko, in tanti si chiedono se il caso Skripal non sia anch’esso un’invenzione di sana pianta. Eppure, la deduzione mainstream della stampa occidentale sull’affaire Babchenko sembra essere la stessa usata dal capo della polizia e dai servizi segreti ucraini che, come tutti sanno, grondano verità: è stata una beffa a Mosca per salvare Babchenko. Insomma le autorità di Kiev avrebbero costruito un falso attentato - ma utilizzando prove che dovremmo invece considerare “vere” - per difendere la libertà di stampa e la vita del “collega”. Stanno davvero così le cose? La domanda è legittima per tre ordini di motivi: la comprensibilmente infastidita reazione degli organismi internazionali che difendono i giornalisti nel mondo; il lugubre e realissimo scenario dei reporter morti ammazzati davvero; la non verifica della fonte, vale a dire il regime ucraino, l’estasi dell’arbitrio. Per Reporters sans frontières che ha parlato per bocca del suo segretario Christophe Deloire, si tratta di un fatto “desolante” che “non aiuta la libertà di stampa. Perché basta una simulazione simile per gettare un’ombra su tutti gli affaire legati agli assassini politici”, è stata “una menzogna di Stato”. Altri organismi, indignati dal teatrino, avvertono del rischio al lupo al lupo; insomma la prossima volta sarà davvero difficile credere a Babchenko e perfino alla malaugurata notizia della sua morte vera. Mentre di assassinii concreti di giornalisti reali è pieno il mondo; dal Messico dove sono decine già dall’inizio dell’anno, alla europeissima Slovacchia, dalla vicina Malta, al tiro al piccione israeliano a Gaza che prende di mira proprio i reporter palestinesi, alle sparizioni in Egitto, alle carceri in Turchia ecc. Ma il fatto più vergognoso è la non verifica delle fonti della notizia. Perché in realtà i governi ucraini che dalla rivolta di Majdan si sono susseguiti fino ad oggi, si sono caratterizzati solo per le loro menzogne, spesso accompagnate dai fragorosi assensi dell’Europa e degli Usa, entrambi impegnati a sognare la riedizione di un improbabile nuovo 1989. Ricordiamo alcuni misfatti, menzogne e silenzi: da chi ha veramente ucciso le 70 vittime di piazza Majdan durante i moti sostenuti da tutto l’Occidente, con il capo della Cia John Brennan in piazza a Kiev, e che invece secondo rapporti internazionali indipendenti risultano ormai colpiti da cecchini “rivoltosi” abilmente disseminati nella piazza; alla strage di Odessa dove più di 40 persone dell’opposizione sono state arse vive nell’incendio della Casa dei sindacati assaltata dai neonazisti ormai inseriti nei gangli dello Stato. L’Ue ha preteso a parole la verità per garantire l’ingresso di Kiev nell’Unione, poi ha taciuto. È la Nato che intanto ha aperto le sue porte. Qual è il nodo non sciolto: proprio il silenzio complice di Kiev in questi anni sull’assassinio di tanti giornalisti o invisi al nuovo potere, oppure testimoni dei misfatti delle milizie d’estrema destra inquadrate nei battaglioni dell’esercito che combatte nel Donbass la rivolta degli ucraini filo-russi: sono almeno 12 i giornalisti assassinati in Ucraina dal 2014 (li abbiamo contati grazie al nostro Yurii Colombo da Mosca). E si rifletta sul fatto che in questi giorni l’estrema destra ucraina assedia con proteste l’ambasciata italiana per reclamare la liberazione dell’”eroe”, vale a dire il militare del battaglione Azov in galera in Italia per avere ucciso deliberatamente il fotoreporter italiano Rocchelli impegnato a testimoniare il dramma della guerra civile in Donbass. Insomma, ricordando che il mestiere di giornalista spesso è “scambiato” per quello di altre due professioni, la spia e l’archeologo (per via della frequentazione del Medio Oriente e dell’Asia), visto che il redivivo di Kiev non ci pare proprio uno scavatore di città sepolte, di chi è davvero collega questo Babchenko? Emirati Arabi. Condannato a 10 anni di carcere il leader dissidente Ahmed Mansoor asianews.it, 1 giugno 2018 Dovrà pagare anche una ammenda di 235mila euro e trascorrere altri tre anni in libertà vigilata. Con i suoi post in rete avrebbe minato “lo status e il prestigio” del Paese e “i suoi simboli”. La stampa internazionale non ha potuto assistere al processo in aula. Caduta l’accusa di “complotto” per una “organizzazione terrorista”. Un tribunale degli Emirati Arabi Uniti (Eau) ha condannato a 10 anni di prigione e al pagamento di una ammenda di 235mila euro Ahmed Mansoor, uno dei più famosi leader dell’opposizione interna. Difensore dei diritti umani e noto blogger, è stato arrestato nel marzo dello scorso anno nella sua casa di ‘Ajman per aver criticato la leadership al potere e offuscato l’immagine del Paese attraverso una serie di post diffusi su internet e social network. I giudici che hanno comminato la sentenza hanno inoltre stabilito che egli dovrà trascorrere tre anni in libertà vigilata una volta uscito dal carcere. A riferire della condanna sono due giornali locali, The National e Gulf News, perché la stampa internazionale non ha potuto assistere al processo, a conferma di un inasprimento della censura e un crescente pugno di ferro da parte delle famiglie reali verso le voci critiche. Secondo quanto recita la sentenza, il 48enne leader dissidente è stato condannato per aver minato “lo status e il prestigio” degli Emirati “e i suoi simboli”. Egli avrebbe inoltre nociuto alle relazioni fra Abu Dhabi e le nazioni dell’area del Golfo. Il tribunale ha invece fatto decadere l’accusa di “complotto” con una non meglio precisata “organizzazione terrorista”. Il suo arresto aveva sollevato una ondata di indignazione e di protese internazionali. A giustificazione del fermo, il pubblico ministero incaricato della lotta contro i crimini informatici ha accusato Mansoor di aver usato la rete per “pubblicare false informazioni”, diffuso “idee tendenziose per seminare sedizione e settarismo” e “attentato all’unità nazionale”. Ahmed Mansoor era rimasta l’unica voce indipendente, non ancora in carcere, a parlare attraverso il suo blog e account Twitter delle violazioni dei diritti umani all’interno del paese. Egli ha subito ripetute minacce di morte, intimidazioni e vessazioni da parte delle autorità degli Emirati e suoi sostenitori. Il suo computer, il telefono, l’email e l’account Twitter sono stati tutti più volte violati. Nel 2011, quando fu condannato a tre anni di carcere per “offese a pubblici ufficiali” nel contesto delle rivolte scoppiate nel contesto della Primavera araba, egli è stato aggredito e minacciato di morte da sostenitori del governo. Nel 2015 si è aggiudicato il prestigioso premio Martin Ennals per difensori dei diritti umani.