Mauro Palma: “il sovraffollamento non si risolve costruendo nuove carceri” di Damiano Aliprandi Il Dubbio , 19 giugno 2018 Lo ha detto il Garante dei detenuti ai microfoni di Inblu Radio, il network delle radio della Cei. Costruire nuove carceri non risolve il problema del sovraffollamento. Questo è in sintesi il pensiero espresso dal Garante nazionale delle persone private delle libertà Mauro Palma ai microfoni di InBlu Radio, il network delle radio cattoliche della Cei. “È sempre una questione sollevata da ministri di nuova nomina - ha rilevato Palma - ma poi le procedure e i tempi sono lunghissimi. Per me il problema vero e quello di riservare il carcere a chi realmente deve essere detenuto”. Il Garante poi ha proseguito: “Circa 5.800 persone in carcere - ha proseguito Palma - hanno avuto una pena inferiore ad un anno. Mi domando se per queste persone non fosse stato più utile trovare pene alternative come il lavoro socialmente utile”. Mauro Palma poi ribadisce ciò che ha già spiegato durante la relazione al parlamento del secondo rapporto curato collettivamente dal Collegio (il Presidente Mauro Palma e le componenti Daniela de Robert ed Emilia Rossi) e dallo staff del Garante nazionale: “C’è grande attesa all’interno del mondo delle carceri che è stato un anno in cui si e molto parlato di provvedimenti che avrebbero rivisto radicalmente l’ordinamento penitenziario. É un mondo che attende que- sto risultato ma che al momento non c’è stato”. Palma ha sottolineato che “il ministro Bonafede pur avendo dichiarato di voler intervenire ha detto di volerlo fare con una prospettiva molto diversa da quella di cui si era discusso in questi anni. Nel frattempo la situazione carceraria è peggiorata dal punto di vista numerico anche se non con quella rapidità che aveva avuto in passato. Ma si è comunque allargata la differenza tra numeri di posti disponibili e persone presenti”. Il Garante ha comunque scorso una cosa positiva: “Devo riconoscere al ministro Bonafede il fatto di aver avviato con me un dialogo. Il problema è se si ha una visione in cui la pena è solo il carcere o se, come scrive la Costituzione, si possono trovare pene al plurale alternative con la possibilità di prevedere un insieme di sanzioni diverse da calibrare sulla specificità e gravità del reato commesso”. Diverso è l’approccio con il ministro degli Interni Matteo Salvini. In merito al linguaggio utilizzato appena si è insediato al ministero, Palma ha sottolineato sempre ai microfoni di InBlu Radio che negli ultimi giorni è molto duro sulla non consapevolezza di come il linguaggio “determini le culture diffuse”. Mauro Palma ha spiegato: “Non si può parlare di pacchia rispetto a persone che soffrono venendo in mare. E non si può dire che queste sono solo battute soprattutto quando provengono da istituzioni, perché queste diventano costruttori culturali”. Il Garante ha aggiunto: “La responsabilità di costruire culture di negazione dell’umanità dell’altra persona è una responsabilità molto grave. Su questo - ha concluso - l’interlocuzione che ho con il ministro dell’Interno e molto diversa da quella con il ministro della Giustizia”. Il tema degli immigrati, infatti, rientra nelle competenze del Garante e si riassumono in tre fasi: trattenuti, ristretti, inviati. Come viene illustrato nella relazione, ci si rende conto di come nell’anno trascorso l’utilizzo della privazione della libertà quale misura di contrasto all’immigrazione irregolare si sia intensificato. Come si evince dal rapporto, infatti, se da un lato nel 2017 si è assistito a un calo degli arrivi sulle coste italiane e a una corrispondente diminuzione degli ingressi negli hotspot (65.295 nel 2016 e 40.534 nel 2017), dall’altro si è registrata una crescita del numero delle persone transitate nei Centri di trattenimento (+ 36 %), del numero dei Centri stessi e delle persone rimpatriate in maniera forzata con scorta internazionale (+ 25 %). Il raggio di azione del Garante nazionale nell’area di privazione della libertà personale dei migranti si è pertanto ampliato sia sotto il profilo di un incremento del numero di persone titolari di diritti su cui vigilare, sia in termini di estensione della rete delle strutture da monitorare. Analizzando le criticità riscontrate, tutto si può dire, ma non che gli immigrati fanno la “pacchia”. Sia da dove arrivano, sia dove poi vengono destinati. Salute in carcere. Don Grimaldi (cappellani): “è emergenza” di Giovanna Pasqualin Traversa agensir.t , 19 giugno 2018 “Tra attese, lentezze burocratiche e scarsità di risorse”. Negli istituti di pena del nostro Paese è emergenza sanitaria. A delinearne lo scenario è l'ispettore generale dei cappellani auspicando maggiore attenzione da parte della politica e la ripresa dell'iter della riforma dell'ordinamento penitenziario. La salute è un diritto fondamentale riconosciuto dalla Costituzione, eppure ammalarsi in carcere è una disgrazia. Visite, esami diagnostici e specialistici, interventi chirurgici diventano estremamente difficoltosi e alla perdita della libertà personale si aggiunge in molti casi anche quella della salute e talvolta della vita. Un’emergenza che don Raffaele Grimaldi, per 23 anni cappellano nel carcere di Secondigliano (Napoli) e da un paio d’anni ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, conosce molto bene. Lo abbiamo intervistato. Come è la situazione della salute in carcere? L’emergenza sanitaria nel nostro Paese riguarda tutte le fasce deboli della società, ma negli istituti di pena è ulteriormente acuita perché la popolazione carceraria è estremamente vulnerabile. I detenuti sono realmente gli ultimi degli ultimi. I direttori dei penitenziari conoscono bene le grosse difficoltà per far venire uno specialista, per sottoporre i reclusi a visite, esami diagnostici e specialistici esterni, ricoveri e/o interventi chirurgici. Le procedure per autorizzazioni e permessi da parte dei magistrati e dei tribunali rallentano molto gli interventi sanitari e il problema si aggrava ulteriormente in presenza di detenuti in regime di alta sicurezza (41 bis). I tempi talvolta si allungano anche per mancanza di mezzi o personale per la scorta, pure in caso di interventi di emergenza. Quali sono i numeri? Gli istituti di pena sono in totale 198 con una presenza di circa 58mila detenuti a fronte di 50mila posti. Solo una quindicina di questi istituti dispone di un centro clinico-diagnostico, alcuni dei quali non funzionano per mancanza di personale e/o di attrezzature. Quali le patologie più frequenti? Malattie croniche come cancro, leucemie, diabete, Alzheimer, depressione. Il 40% dei detenuti soffre di disturbi psicologici ma si riscontrano anche gravi patologie psichiatriche. Con la chiusura degli Opg (ospedali psichiatrici giudiziari, ndr) circa 600 internati hanno trovato posto nelle Rems (residenze per l’applicazione delle misure di sicurezza, una trentina con 20 posti letto ciascuna. ndr), ma in queste strutture il numero dei posti è sottodimensionato e altri 450 sono in lista d’attesa: o in carcere - dove non ricevono le cure di cui avrebbero bisogno - o per strada dal momento che spesso le famiglie non li accolgono. Collegata al disagio è la tragica realtà dei suicidi. Il dossier “Morire di carcere” di Ristretti Orizzonti, aggiornato allo scorso 14 giugno, ne registra 23 nei primi sei mesi di quest’anno e 52 nel 2017. Sono causati da fragilità personale e/o durezza del regime carcerario. Di salute e disagio psichico si era parlato nel decimo dei 18 tavoli degli Stati generali dell’esecuzione penale del 2016, era emersa una grande attenzione verso il tema. Purtroppo la riforma dell’ordinamento penitenziario che avrebbe migliorato le condizioni detentive “umanizzando” tutto il sistema non è decollata e non sappiamo che cosa accadrà con il nuovo governo. Non si tratta di un provvedimento “svuota carceri”, come qualcuno sostiene, ma di un ampliamento delle misure alternative che comunque, insieme ai permessi premio, non verrebbero concesse in automatico bensì dopo un’attenta valutazione della condotta del detenuto da parte di operatori penitenziari e magistratura di sorveglianza. Una riforma necessaria: la precedente risale al 1975. Il 1° aprile 2008 la competenza della medicina penitenziaria è stata trasferita dal ministero della Giustizia al Ssn, quindi alle Regioni. Che cosa è cambiato? Nelle regioni più “virtuose” dal punto di vista sanitario la struttura carceraria ne ha risentito in positivo; in negativo in quelle “in affanno”. Tuttavia per visite specialistiche ed esami esterni, i tempi di attesa rimangono lunghi. Se poi i detenuti vengono nel frattempo trasferiti in istituti di altre regioni occorre ricominciare tutto daccapo perché cambiando le Asl cambiano anche le procedure. A complicare la situazione sono inoltre le continue modifiche delle norme che disciplinano l’attuazione dei diversi protocolli d’intesa con le Regioni. Secondo lei, la società è sensibile ai diritti dei detenuti? Il carcere è visto da molti come giusto luogo di punizione dei delinquenti e come fattore di sicurezza per la società. Oggi la gente è stanca di violenze, aggressioni, spaccio di droga. È impaurita e quando si parla di attenzione ai carcerati si avverte una certa resistenza. C’è chi ritiene che occorra dare la precedenza ai “buoni cittadini” perché chi ha commesso un reato, il castigo e la sofferenza in fondo se li merita. Invece l’uomo non è mai il suo errore: anche se si è macchiato di gravi crimini, conserva la sua dignità. Non possiamo avere verso chi ha sbagliato lo stesso atteggiamento che ha avuto chi ha commesso un reato. Ingiustizia chiama ingiustizia e violenza chiama violenza. Cosa chiede alla politica? Auspico da parte del nuovo governo apertura e attenzione al mondo del carcere, l’impegno di comprendere le problematiche dei reclusi che troppo spesso vengono considerati scarti della società. Da alcuni segnali temo che potrebbero esservi alcune chiusure, ma un conto sono i proclami, un conto quando si inizia a governare e a verificare con mano la realtà. I nostri governanti sono in fondo persone, hanno un cuore, possono anche rivedere qualche posizione. Prima di giudicare i carcerati bisognerebbe rileggerne la storia e interrogarsi sulle cause che li hanno spinti a delinquere. Quando uno è povero, senza lavoro e senza prospettive per il futuro, il rischio di delinquere, soprattutto al sud, è dietro l’angolo. Ciò che occorre sono misure di sostegno e di prevenzione, bisogna agire prima, non dopo il carcere. Cosa può fare la Chiesa? Noi cappellani siamo 250, nessun istituto rimane scoperto, e possiamo avvalerci della collaborazione di volontari e associazioni. La Chiesa è chiamata ad essere voce degli ultimi. Con le sue visite in momenti “forti”, i suoi gesti e le sue parole, Papa Francesco ha riacceso i riflettori su questo mondo invisibile e dimenticato dando un segnale forte anche alla politica. Durante il Giubileo le carceri hanno visto una massiccia presenza di sacerdoti. Ora i vescovi le visitano con maggiore frequenza e al loro interno associazioni e parrocchie promuovono attività. Cominciano ad entrare anche cappellani giovani, ed è importante. Di questa Chiesa sofferente e “imprigionata” dobbiamo tutti essere responsabili e farcene carico. Radicali: Bonafede venga con noi a visitare le carceri, prima di proporre riforme dannose notizieinunclick.it , 19 giugno 2018 Nel trentacinquennale dell’ingiusto arresto di Enzo Tortora, Radicali ltaliani organizza una grande mobilitazione sulle carceri che, nell’arco di una settimana, coinvolge circa 200 tra militanti e dirigenti, con visite in 40 istituti penitenziari in 14 regioni italiane. Silvja Manzi, tesoriere di Radicali Italiani, Igor Boni e Miruna Brocco, coordinatori Associazione radicale Adelaide Aglietta, si sono recati nelle Case circondariali di Novara e Biella e hanno dichiarato: “Se il carcere di Novara, pur nelle gravi condizioni in cui versano generalmente le strutture penitenziarie piemontesi, conferma aspetti più positivi che negativi - un numero di agenti penitenziari proporzionato a quello della popolazione detenuta; un’ottima collaborazione con la Asl che consente un trattamento sanitario personalizzato per i detenuti; un buon numero di detenuti occupati in attività sia lavorative sia didattiche - dovuto in particolare alla dimensione dell’Istituto (che nonostante il numero in crescita dei detenuti rimane sotto le 200 unità) e al buon lavoro della direzione e del personale, lo stesso non si può dire del carcere di Biella che si trova in una situazione estremamente critica e potrebbe, invece, essere un’eccellenza. Biella è, per dimensione, il secondo carcere del Piemonte, dopo il “Lorusso-Cutugno” di Torino. La struttura ospita, al momento, 471 detenuti (di cui 263 non italiani), numero peraltro in crescita costante, ma gli agenti di polizia penitenziaria sono solo 190 (considerando le turnazioni, le ferie, le malattie ecc. è molto facile immaginare le difficoltà di gestione per un organico così sottodimensionato) e gli educatori solo 5. A Biella non solo sono presenti praticamente tutti i circuiti (tranne il 41bis, presente invece a Novara ma che non siamo potuti andare a visitare) ma non è stata ancora risolta la situazione dei cosiddetti internati (persone sottoposte a misure di sicurezza da eseguirsi in case lavoro, colonie agricole, Rems ecc.) che trasferiti in emergenza a Biella, non sono stati ancora collocati in strutture idonee, causando gravi disagi agli stessi internati e al personale non preparato a gestirli. Eppure il carcere ha degli elementi di assoluta positività che se valorizzati, con un aumento dell’organico e con una migliore dislocazione dei detenuti (come per tutto il Piemonte, gli istituti soffrono degli sfollamenti fatti dalla Liguria, da Torino e da Milano), farebbero del carcere di Biella un esempio da seguire. Notevole, infatti, è il lavoro dell’azienda agricola all’interno della struttura, così come della sartoria, che quando entrerà a pieno regime produrrà le uniformi della polizia penitenziaria di tutto il Paese. Inoltre, molto accogliente è il nuovo spazio per i colloqui tra genitori detenuti e figli minori. A margine di queste visite - che per noi rientrano in quelle solite che effettuiamo in tutto il Piemonte - non possiamo non rivolgerci direttamente al neo ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Bonafede ha una minima idea di quale sia la situazione carceraria in Italia? Ha mai visitato un carcere? Siamo disposti a portarlo in una delle nostre visite per fargli toccare con mano l’insostenibile situazione che devono vivere quotidianamente detenuti e agenti penitenziari. Venga con noi a visitare le carceri prima di fare proposte che se attuate avranno come risultato l’esatto contrario di quello che dice di voler ottenere. Sostenere, infatti, di poter garantire la rieducazione del detenuto esclusivamente all’interno delle strutture carcerarie - ha mai studiato le statistiche sulle recidive? - significa non avere un minimo di cultura del diritto, della legge, della giustizia e della realtà”. A proposito di garantismo e giustizialismo di Massimo Bordin Il Foglio , 19 giugno 2018 In questa rubrica più di una volta si è scritto sull'ambiguità di termini come garantismo e giustizialismo e dunque si corre il rischio di annoiare a parlarne di nuovo. Ma se ci si sente costretti non si può evitare e non resta che sperare nell'indulgenza del lettore. Prendiamo spunto dall'articolo pubblicato ieri sul Corriere da Pierluigi Battista giocato tutto proprio sul “garantismo”. Termine storto o almeno molto particolare. Per verificarlo basta constatare come sia intraducibile, nella accezione che gli viene data nel nostro paese, in qualsiasi altra lingua europea. Un po' come la parola “cazzaro”, che ha una sua accezione romanesca assolutamente intraducibile in calabrese o in piemontese. Questione di sfumature ma decisive. Per chiarire si può usare una citazione rubata a Guido Vitiello. Leonardo Sciascia da qualche parte scrisse “Mi ripugna quando mi sento dire che sono un garantista. Io non sono un garantista: sono uno che crede nel diritto, che crede nella giustizia”. Nel suo articolo, intitolato “La doppia truffa del garantismo”, Battista sembra in fondo concordare sulla ambiguità della parola, enunciando comportamenti oscillanti e” indulgenze verso se stessi” di sedicenti garantisti, fra i quali inopinatamente include i Radicali. Non si sa di quali radicali parli ma sicuramente sbaglia sulla autoindulgenza o la doppia morale, che in ogni caso non potrebbero avere oggetto. Peraltro nessun Radicale si è mai definito garantista. Battista scrive che “i garantisti sono una esigua minoranza”, nella quale evidentemente si include. Battista il garantista. Al contrario di Sciascia che credeva nella giustizia secondo diritto, che è fatta anche di sostanza. Giustizia (cercasi) per le vittime Corriere della Sera , 19 giugno 2018 Bruxelles e il “Programma Justice”: aiuto legale, economico, psicologico a chi subisce un danno all'estero. Budget di 5 milioni per progetti con l'obiettivo di tutelare sia le “parti civili” sia gli “accusati”. Nicholas Green: sono passati 24 anni, ma tutti quelli che nel 1994 hanno seguito la sua storia ancora se ne ricordano. Sette anni appena compiuti, era in macchina con i genitori e la sorella, vacanza spensierata di una famiglia americana nel sud Italia, quando due rapinatori spararono sulla macchina, uccidendolo. I genitori donarono subito gli organi, regalando vita e vista a sette persone e rilanciando una pratica fino ad allora poco in uso nel nostro Paese. In tanti anni mai una parola di risentimento verso gli italiani. Con tutto che al dolore smisurato si erano aggiunte nei mesi successivi pratiche burocratiche da sbrigare, procedure da seguire, perché la condizione di vittime non si esaurisce con il dolore da affrontare ma prevede anche la quotidianità della sopravvivenza e per di più in un Paese diverso dal proprio, dove vigono regole diverse e bisogna confrontarsi con un sistema di giustizia del quale non sempre si comprendono le ragioni. Così mettersi nei panni della vittima di una ingiustizia, leggera o importante, casuale o no, significa anche farsi carico della sua sofferenza: che proprio perché potrebbe toccare chiunque riguarda non solo l'individuo ma la comunità. In diversi Paesi europei esistono da tanti anni centri specializzati che sono accanto a chi subisce un'ingiustizia con servizi di assistenza psicologica, legale, e aiuto materiale. Le istituzioni europee, che troppo spesso vengono disegnate come distaccate dalla vita reale degli individui, dimostrano invece che su questo tema c'è la massima attenzione e la volontà di impegnarsi a diffondere la cultura del sostegno alle vittime e ai loro familiari. Con questo obiettivo ogni anno viene dedicato un bando specifico del “Programma Justice”, recentemente pubblicato anche per il 2018 con un budget complessivo di quasi 5 milioni di euro. In linea generale con questo bando l'Unione Europea vuole garantire l'applicazione corretta in tutto il territorio delle norme riguardanti il diritto penale, suddividendo le azioni in due priorità: tutela dell'accusato e sostegno alle vittime e loro familiari. Le tipologie di attività ammissibili sono svariate: si possono presentare progetti di ricerca e raccolta dati, magari in collaborazione con l'università, progetti di scambio di buone pratiche con l'obiettivo anche di rendere fluido il passaggio di informazioni. Si possono organizzare progetti di potenziamento delle capacità e competenze di chi lavora in questo settore, favorendo momenti di confronto e conoscenza approfondita. Sono inoltre candidabili progetti per la diffusione di informazioni sui diritti delle vittime o diritti procedurali, per evitare soprusi da parte delle autorità giudiziarie. Ricevono una valutazione particolarmente positiva e meritoria quei progetti che dimostrano di poter avere un impatto concreto sui beneficiari individuati, da misurare attraverso l'indicazione di precisi risultati attesi, mentre sono meno interessanti i progetti finalizzati esclusivamente alla ricerca. Non basta sapere dunque quante famiglie sono coinvolte in analoghe storie di incidenti stradali all'estero, ma bisogna presentare anche un piano di interventi che offra ad esempio assistenza legale e l'accompagnamento di un mediatore culturale e di un interprete. Ciascun progetto può ricevere un contributo minimo di 75 mila euro e deve essere presentato da una rete transnazionale che comprenda almeno due partner da Paesi diversi. La email per informazioni è ec-justice-calls(@ec.europa.eu, alla quale risponde con puntualità e professionalità il punto di contatto col pubblico istituito per questo bando dall'Unione Europea. Interdittive antimafia: un sistema da rivedere di Damiano Aliprandi Il Dubbio , 19 giugno 2018 Assemblea del Partito Radicale per la raccolta delle firme sulle 8 proposte di legge di iniziativa popolare. Modifica di otto leggi ritenute inadeguate e proposta di organizzare - come ha annunciato Sergio D’Elia - una grande marcia, simile a quella del sale di Ghandi, dei diffidati e degli interdetti dall’antimafia. Questo è stato relazionato durante l’assemblea del Partito Radicale, organizzata sabato scorso a Castellammare del Golfo, in Sicilia. Il tema principale, dove non a caso è intervenuto lo studente e imprenditore Pietro Cavallotti, una delle vittime delle misure antimafia, sono le misure di prevenzione antimafia, le quali viaggiano su un binario diverso rispetto i procedimenti penali sulla presunta associazione mafiosa. Con molta facilità si sottrae la proprietà sulla base di ipotesi e semplici sospetti, molto più difficilmente si restituisce se e quando le accuse risultano infondate: accogliere un’istanza di revoca della confisca significa ammettere che il sistema delle misure di prevenzione antimafia è sbagliato con le gravi conseguenze che potrebbero scaturire per i tribunali e per gli stessi magistrati. Lo sa bene anche il Pm che il 22 marzo scorso, in udienza per la revoca di confisca dei beni della famiglia Cavallotti, ha fatto la propria parte mantenendo lo status quo e perciò soprassedendo sul dovere di difendere in primo luogo gli innocenti. La questione del nuovo codice antimafia adottato dallo scorso governo è il perno principale degli interventi che si sono susseguiti durante l’assemblea. Estende i sequestri e le confische in assenza di giudicato ai sospettati di tutti i reati contro la pubblica amministrazione, compreso il peculato. Non servono quindi condanne o prove certe, ma basta un informativa dove, per esempio, qualcuno possa dire che uno a parlato o si è preso il caffè con presunto mafioso e scatta la reprimenda. Diversi sono gli interventi a tal proposito. Come quello dell’avvocato Baldassarre Lauria: “La mafia si combatte con il giusto diritto - ha detto l’avvocato Lauria. Il legislatore, condizionato da suggerimenti di magistrati in servizio a Palermo, ha inserito delle norme nella legge antimafia che lasciano spazio a condizioni di lettura troppo ampia per l’applicazione della norma. I magistrati devono tenere conto del danno che si può arrecare al cittadino in mancanza di norme chiare e frutto di un ragionamento non impulsivo”. L’avvocato Lauria ha spiegato che l’articolo 4 del codice antimafia non risponde più al principio ispiratore di Pio La Torre e “consente ai magistrati in ragione di indizi di poter applicare misure restrittive”. L’avvocato Giacomo Frazzitta è stato categorico: “Il diritto non può basarsi sui semplici sospetti. La lotta alla mafia ha bisogno di un diritto chiaro e non suscettibile di interpretazioni indiziarie”. Il Partito Radicale ha organizzato questa assemblea per pianificare, appunto, una campagna di raccolta firme su proposte di legge di iniziativa popolare. Allo stato dei lavori, le proposte di legge sulle quali stanno lavorando i radicali vertono come da tradizione sui temi della giustizia e dello Stato di diritto. Tra le 8 proposte, vi è appunto la revisione del sistema delle misure di prevenzione antimafia, revisione del sistema delle interdittive antimafia, la revisione delle procedure di scioglimento dei comuni per mafia, l’abolizione dell’ergastolo ostativo, il superamento del 41bis e l’abolizione degli incarichi extragiudiziari per i magistrati. Numerose quindi le relazioni e interventi, come quella del professor Angelo Mangione, della Lumsa, di Sergio D’Elia, Rita Bernardini e di molto avvocati. Emblematico l’intervento di Giuseppe Gulotta, accusato della strage di Alcamo Marina e scagionato dopo un calvario durato oltre 25 anni e risarcito dallo Stato. È intervenuta anche l’avvocata Laura Ancona del “Progetto innocenti”. “Quando la legge non ci tutela, ma ci distrugge, - ha spiegato Ancona - è difficile che qualsiasi vittoria giudiziaria possa ricucire la dignità distrutta”. Uno degli aspetti che lei ha affrontato è l’abolizione dell’ergastolo ostativo, perché tale istituto “nega il diritto alla speranza”. Giustizia, l’Italia investe meno rispetto agli altri Paesi dell’Ue di Emanuele Bonini La Stampa , 19 giugno 2018 I dati Eurostat: Penisola al decimo posto con una spesa pubblica complessiva pari a 93,6 euro per abitante. E solo 3 cittadini su 10 pensano che l’indipendenza del sistema giudiziario sia “abbastanza buona” o “molto buona”. L’Italia investe meno degli altri partner europei sulla giustizia, con gli italiani che non la ritengono autonoma quanto dovrebbe. È quanto emerge dai dati Eurostat diffusi oggi per mostrare come e quanto gli Stati membri dell’Ue stanno lavorando per centrare gli obiettivi posti dal programma per lo Sviluppo dell’Onu. Si tratta di una serie di azioni in tanti ambiti al fine di garantire una società più equa, più inclusiva e più moderna. L’obiettivo numero 16 di questa agenda riguarda il capitolo “Pace, giustizia e istituzioni forti”, e l’istituto di statistica europeo fornisce dati relativi alle spese governative per i tribunali. L’Italia è decima nell’Ue, con una spesa pubblica complessiva pari all’equivalente di 93,6 euro per abitante. Un dato inferiore alla media comunitaria, se si guarda a quanto gli Stati membri dell’Ue spendono, a persona, per potenziare la giustizia civile. Il confronto - Dati contabili alla mano, la Penisola non tiene il passo dei Paesi del nord. Lussemburgo (202 euro), Germania (155), Regno Unito (140), Svezia (128), Irlanda (124), Austria (116), Paesi Bassi (112) e Belgio (100) sono quelli che investono nella giustizia più del governo di Roma, superato in questa speciale classifica anche dalla Slovenia (96). La spesa pubblica tricolore non figura agli ultimi posti in Europa, e di per sé è già una buona notizia. Peccato che agli investimenti di non primo ordine corrisponda una percezione anche peggiore sul funzionamento della giustizia. Solo tre cittadini su dieci (32%) ritengono che l’indipendenza del sistema giudiziario sia “abbastanza buona” o “molto buona”. Nel territorio dell’Ue, dove in media una persona su due (56%) crede nell’indipendenza del terzo potere e in alcune aree come al Danimarca questo non è in discussione (87%), solo in Croazia (26%), Slovacchia (29%) e Bulgaria (30%) si ha una percezione più negativa di giudici e avvocati. A voler guardare gli aspetti incoraggianti, c’è un piccolo incremento nella fiducia degli italiani circa l’autonomia del potere giudiziario: nel 2016, pensava fosse indipendente il 25% della popolazione. Il dato è cresciuto di sette punti percentuali nel giro di due anni. Segno che qualcosa sta cambiando. La “Spoon river” degli errori giudiziari di Dimitri Buffa L'Opinione , 19 giugno 2018 Una vera e propria “Spoon river” degli orrori giudiziari del Bel paese. Una esclusiva” del sito errorigiudiziari.com e del Partito radicale transnazionale. Il tutto andato in onda nel disinteresse generale gli scorsi sabato e domenica, giorni in cui si celebrava una tristissima ricorrenza: i 35 anni dall’arresto mediatico di Enzo Tortora a Roma. Il primo a venire condotto in manette a suo tempo per una lunga passeggiata tra le telecamere all’uscita dalla caserma di via in Selci. Dieci persone hanno parlato del proprio dramma di incarcerati innocenti. E un’undicesima, Ilaria Capua, ha ricordato il linciaggio mediatico, e la fuga dall’Italia, subito per un’inchiesta finita nel nulla - la indicavano come trafficante di virus - che però ai suoi albori ebbe come sponsor “l’Espresso” che le dedicò “un’indimenticabile” copertina. La Capua ha detto commuovendosi “meno male che mio padre era morto qualche giorno prima” non avendo visto il nome della famiglia finire sui giornali. Né gli insulti che i parlamentari grillini le dedicavano ogni volta che si presentava in aula alla Camera dove era stata eletta nelle liste del Partito Democratico. Tutto fatto e visto in Italia, patria degli orrori giudiziari, più che errori, visto che su una cosa tutti si sono dichiarati d’accordo: certi fatti quando accadono non sono semplici abbagli. Come non lo fu, racconta ancora oggi Francesca Scopelliti, compagna di Tortora ed ex senatrice di Forza Italia, intestardirsi nel portare a processo Enzo Tortora sulle parole di quei mitomani camorristi senza aver mai fatto lo straccio di un riscontro, compresi quelli bancari. Oltre al Partito radicale transnazionale e all’opera di Irene Testa, dell’associazione “Il detenuto ignoto” e a Maurizio Turco che hanno fortemente voluto questo convegno, cui hanno partecipato Francesco Petrelli, attuale segretario delle Camere penali italiane, insieme ai legali Giandomenico Caiazza e Giuseppe Rossodivita, molto si deve ai due giornalisti Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, cioè gli ideatori dell’archivio degli innocenti su errorigiudiziari.com, se per la prima volta si sono visti parlare in pubblico gente come Angelo Massaro, che per una intercettazione mal capita si è fatto da innocente 21 anni di carcere per omicidio prima di ottenere la revisione del processo. O l’industriale del pellame Diego Olivieri, condannato innocente per associazione mafiosa, traffico internazionale di droga e riciclaggio di 600 milioni di euro. A lui pure fecero fare una passeggiata in pieno centro di Roma, già arrestato da giorni, a beneficio delle telecamere. Poi venne assolto anche se l’azienda andò ramengo. E che dire della presunta pedofila Anna Maria Manna, arrestata in provincia di Taranto per un riconoscimento fotografico fatto da una bambino di sei anni su una fototessera di un documento che la ritrae quando aveva diciassette anni? Passerà oltre tre mesi tra carcere e arresti domiciliari. Correndo i rischi che corrono in galera coloro che vengono accusati di reati sessuali. Il 13 luglio 2001 verrà assolta ma nessuno le chiederà scusa. Impossibile raccontare in pillole cosa si è sentito in questo convegno che avrebbe dovuto essere gremito di giornalisti italiani invece che deserto. Ma non si può non accennare anche alla storia di Stefano Messore che venne scambiato e presentato in tv come uno degli sciacalli del terremoto di Acquasanta il 24 agosto 2016 e che invece era un vero volontario soccorritore. Cinquanta giorni di carcere e l’assoluzione giunta solo il 3 luglio 2017, un anno dopo, quando ormai la sua vita era stata distrutta dal ciclone mediatico-giudiziario. Fu parzialmente compensato dalla partecipazione in tivù al programma di Alberto Matano su Rai 3, “Sono innocente”, che pur essendo stato un “unicum” nella storia del servizio pubblico italiano, al convegno radicale è stato molto criticato per avere subito la scelta dei vertici dell’azienda Rai di mandare in onda i casi giudiziari a patto che non si facessero mai i nomi dei pubblici ministeri che avevano preso la “toppa”. Troppo comodo diventare famosi così, anzi famigerati, senza mai pagare pegno. Tortora è ancora il “Caso Italia” di Valter Vecellio L'Opinione , 19 giugno 2018 Quello che viene chiamato il “Caso Tortora” (e che lui definiva più propriamente il “Caso Italia”, il caso della mala-giustizia, il caso del magistrato che non paga mai, neppure per colpa grave) rischia di scolorire nella memoria collettiva e individuale. Inoltre sono tanti quelli che possiamo definire “gli eroi della sesta giornata”: coloro che ora si “esibiscono” nel tentativo di accaparrarsi dei meriti che non hanno, quando ben altro è stato a suo tempo il comportamento tenuto e ben altre le posizioni assunte. E allora ecco che conviene parlarne, senza stancarsi di farlo, ostinati e pervicaci, senza il timore di “annoiare”. Nessuno deve poter dire: non sapevo, nessuno mi ha detto. Enzo Tortora viene arrestato nel cuore della notte e trattenuto nel comando dei carabinieri di via in Selci a Roma, fino a tarda mattinata: lo si fa uscire solo quando si è ben sicuri che televisioni e giornalisti sono accorsi per poterlo mostrare in manette. La prima di una infinita serie di mascalzonate. A distanza di tanti anni da quei fatti, conviene ancora cercare la risposta alla domanda: perché è accaduto quel che è accaduto? Alla ricerca di una soddisfacente risposta, si affonda in uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’Urbanistica della Regione Campania, il democristiano Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo. Il cuore della vicenda è qui. Sono le 21,45 del 27 aprile 1981 quando le Brigate Rosse sequestrano Cirillo. Segue una frenetica, spasmodica trattativa condotta da esponenti politici della Democrazia cristiana, Cutolo e uomini dei Servizi segreti per “riscattarlo”. Viene chiesto un riscatto di svariati miliardi. Il denaro viene trovato. Durante la strada una parte viene trattenuta e non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la “stecca”. A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi di lire. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un “ritorno”. Il “ritorno” si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la Commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta era costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato, molti che potrebbero spiegare qualcosa non sono più in condizione di farlo: sono tutti morti ammazzati, da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice che ebbe un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e Antonio Ammaturo, il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, “mai più ritrovato”. Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli qui i termini di una questione che ancora “brucia”. Cominciamo col dire che: Tortora era un uomo perbene, vittima di un mostruoso errore giudiziario. Che il suo arresto costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è assodato. “Cinico mercante di morte”, lo definisce il Pubblico ministero Diego Marmo; e aggiunge: “Più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza”. Le “prove” erano la parola di Giovanni Pandico, un camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo ascoltano diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un camorrista. Pasquale Barra detto ’o animale: in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia l’intestino… Con le loro dichiarazioni, Pandico e Barra danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti “pentiti”: curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. Arriviamo ora al nostro “perché?” e al “contesto”. A legare il riscatto per Cirillo raccolto dai costruttori, compensati poi con gli appalti e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della Direzione Antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati “pentiti a orologeria”, per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale. È in questo contesto che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”: 850 mandati di cattura, e tra loro decine di arrestati colpevoli di omonimia, gli errori di persona. Nel solo processo di primo grado gli assolti sono ben 104... Documenti ufficiali, non congetture. Come un documento di straordinaria e inquietante efficacia, l’intervista fatta per il Tg2 con Silvia, la figlia di Enzo: quando suo padre fu arrestato, oltre alle dichiarazioni di Pandico e Barra cosa c’era? “Nulla”. Suo padre è mai stato pedinato, per accertare se davvero era uno spacciatore, un camorrista? “No, mai”. Intercettazioni telefoniche? “Nessuna”. Ispezioni patrimoniali, bancarie? “Nessuna”. Si è mai verificato a chi appartenevano i numeri di telefono trovati su agende di camorristi e si diceva fossero di suo padre? “Lo ha fatto, dopo anni, la difesa di mio padre. È risultato che erano di altri”. Suo padre è stato definito cinico mercante di morte. Su che prove? “Nessuna”. Suo padre è stato accusato di essersi appropriato di fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia. Su che prove? “Nessuna. Chi lo ha scritto è stato poi condannato”. Qualcuno le ha mai chiesto scusa per quello che è accaduto? “No”. Candidato al Parlamento europeo nelle liste radicali, eletto, chiede sia concessa l’autorizzazione a procedere, che invece all’unanimità viene negata. A questo punto, Tortora si dimette e si consegna all’autorità, finendo agli arresti domiciliari. Diventa presidente del Partito Radicale e i temi della giustizia e del carcere diventano la “sua” ossessione. Ora tutti lo evocano, quando ci si vuole accreditare come perseguitati della giustizia. La cosa che si fa, si è fatta, viene fatta, è occultare con cura il Tortora politico, che si impegna a fianco di Marco Pannella e dei Radicali per la giustizia giusta. Che il suo arresto costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è cosa ormai assodata. Nessuno dei “pentiti” che lo ha accusato è stato chiamato a rispondere delle sue calunnie. I magistrati dell’inchiesta hanno tutti fatto carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Stroncato dal tumore, Enzo Tortora ha voluto essere sepolto con una copia della “Storia della colonna infame” di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: “Che non sia un’illusione”. Turbativa d’asta per le imprese consorziate che concorrono da sole ma concordano i ribassi di Paola Rossi Il Sole 24 Ore , 19 giugno 2018 Corte di Cassazione - Sezione VI - Sentenza 18 giugno 2018 n. 27978. I ribassi concordati tra imprese che partecipano a un consorzio, ma concorrono da sole all’appalto, integrano il reato di turbata libertà degli incanti previsto dall’articolo 353 del codice penale. La Corte di cassazione con la sentenza n. 27987 depositata ieri ha annullato con rinvio al Gup la decisione che aveva dichiarato il non luogo a procedere “perché il fatto non sussiste”. Secondo la sentenza di legittimità, nella fase di merito il giudice dell’udienza preliminare avrebbe erroneamente scriminato il comportamento delle imprese che facevano “cartello” valutando la liceità dei loro comportamenti alla luce esclusivamente della procedura di appalto a evidenza pubblica. In particolare veniva meramente appurato che non era stato violato il divieto di contemporanea partecipazione di un consorzio e delle sue imprese componenti, per cui l’eventuale accordo - sottoposto a indagine - veniva letto come posizione del soggetto collettivo e non come comportamento anticoncorrenziale vietato dalle norme pubblicistiche sugli appalti. Ma il consorzio non era soggetto di gara e quindi non poteva escludersi a priori il carattere clandestino dell’accordo. Cioè la partecipazione al consorzio, per imprese che concorrevano da sole, non può rappresentare quell’ombrello che mette al riparo da profili di illeicità i prezzi concordati. Ossia il Gup aveva valutato la collusione solo all’interno del perimetro consortile tralasciando che nella gara sub iudice il consorzio non era partecipante e non valutando come elementi di prova del reato di turbativa significative intercettazioni telefoniche che riguardavano non solo le singole imprese consorziate - che comunque concorrevano individualmente - ma anche imprese terze. È quindi inconferente il richiamo del giudice di merito al quinto comma dell’articolo 36 del Dlgs 163/2003 (“I consorzi stabili sono tenuti ad indicare in sede di offerta per quali consorziati il consorzio concorre; a questi ultimi è fatto divieto di partecipare, in qualsiasi altra forma, alla medesima gara; in caso di violazione sono esclusi dalla gara sia il consorzio sia il consorziato; in caso di inosservanza di tale divieto si applica l'articolo 353 del codice penale. È vietata la partecipazione a più di un consorzio stabile”). Oltraggio a pubblico ufficiale: percezione dell'offesa di un contesto soggettivo allargato Il Sole 24 Ore , 19 giugno 2018 Reati contro la pubblica amministrazione - Oltraggio a pubblico ufficiale - Elemento costitutivo del reato - Offesa rivolta alla presenza di più persone - Necessità. Ai fini della configurabilità del reato di oltraggio di cui all'articolo 341-bis c.p. è sufficiente che le espressioni offensive rivolte al pubblico ufficiale possano essere udite dai presenti, poiché già questa potenzialità costituisce un aggravio psicologico che può compromettere la sua prestazione, disturbandolo mentre compie un atto del suo ufficio, facendogli avvertire condizioni avverse, per lui e per la pubblica amministrazione di cui fa parte, e ulteriori rispetto a quelle ordinarie. Nella specie i giudici di seconde cure hanno ritenuto, valutando gli ambienti penitenziari, in cui si sono svolti i fatti, come luoghi aperti al pubblico, che le offese potessero essere sentite dai presenti, esprimendo così una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 7 giugno 2018 n. 26028. Reati contro la pubblica amministrazione - Delitti - Dei privati - Oltraggio - A pubblico ufficiale o impiegato - Espressioni offensive pronunciate all'interno di un carcere - Luogo aperto al pubblico - Sussistenza. Ai fini del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, la cella e gli ambienti penitenziari sono da considerarsi luogo aperto al pubblico, non essendo nel “possesso” dei detenuti, ai quali non compete alcuno “ius excludendi alios”; tali ambienti, infatti, si trovano nella piena e completa disponibilità dell'amministrazione penitenziaria, che ne può fare uso in ogni momento per qualsiasi esigenza d'istituto. • Corte di cassazione, sezione VII, ordinanza 4 maggio 2017 n. 21506. Reati contro la pubblica amministrazione - Oltraggio a pubblico ufficiale ex articolo 341 bis c.p. - Espressioni offensive rivolte al pubblico ufficiale - Bene giuridico tutelato - Buon andamento della pubblica amministrazione. È sufficiente che le espressioni offensive rivolte al pubblico ufficiale “possano essere udite dai presenti” perché scatti il reato di oltraggio. Infatti, il bene giuridico fondamentale tutelato dall'articolo 341-bis del codice penale è il buon andamento della pubblica amministrazione, per cui “già questa potenzialità costituisce un aggravio psicologico che può compromettere la sua prestazione, disturbandolo - mentre compie un atto del suo ufficio - perché gli fa avvertire condizioni avverse, per lui e per la pubblica amministrazione della quale fa parte, e ulteriori rispetto a quelle ordinarie”. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 13 aprile 2016 n. 15440. Oltraggio a pubblico ufficiale - Elemento materiale - Presenza di più persone - Necessità - Fattispecie. Ai fini della configurabilità del reato di oltraggio a pubblico ufficiale (articolo 341-bis c.p.) è necessaria la presenza di più persone, diverse dai pubblici ufficiali destinatari delle espressioni incriminate. (Da queste premesse, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di condanna da cui non risultava con chiarezza che altre persone, diverse dai protagonisti, avessero assistito alla vicenda, percependo le espressioni rivolte dall'imputato ai due appartenenti alla polizia municipale che l'avevano fermato nello svolgimento di un servizio di controllo della viabilità). • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 23 aprile 2014 n. 17688. Reati contro la pubblica amministrazione - Delitti - Dei privati - Oltraggio a pubblico ufficiale - Nuova figura di reato introdotta con legge n. 94 del 2009 - Continuità normativa con la fattispecie previgente, già abrogata - Esclusione. Il delitto di oltraggio, disposta l'abrogazione degli artt. 341 e 344, per effetto della L. 205/1999, art. 18, è stato nuovamente introdotto nell'ordinamento a seguito della Legge n. 94 del 2009, che ha però delineato una nuova figura di illecito, caratterizzato sotto il profilo della condotta materiale da un'azione consistente nell'offesa dell'onore e della reputazione della vittima, con la pretesa però di ulteriori requisiti oggettivi, in precedenza non richiesti, nel senso che: 1) l'offesa all'onore e al prestigio del pubblico ufficiale deve avvenire alla presenza di più persone; 2) essere realizzata in luogo pubblico o aperto al pubblico; 3) in un momento, nel quale il pubblico ufficiale compie un atto d'ufficio ed a causa o nell'esercizio delle sue funzioni. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 18 ottobre 2013 n. 42900. Toscana: accordo tra Garanti e Provveditorato per migliorare la vita dei detenuti gonews.it , 19 giugno 2018 Un protocollo d’intesa per definire accesso e attività dei garanti dei detenuti negli istituti penitenziari e un nuovo patto per la riforma delle carceri sono stati sottoscritti questa mattina a palazzo Bastogi, una delle sedi del Consiglio regionale, dal provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Toscana, Antonio Fullone, e dal garante regionale dei detenuti, Franco Corleone, con i garanti dei Comuni di Firenze, Livorno, Pisa, San Gimignano, Lucca, Prato e Porto Azzurro. Il nuovo patto per la riforma del carcere in Toscana, rappresenta la terza tappa di un percorso iniziato nel 2013 e proseguita nel dicembre 2016. Si tratta di un accordo su azioni comuni da intraprendere per dar vita a una nuova intesa, riprendere il lavoro in materia di buone pratiche e realizzare un’esperienza pilota nella nostra regione, fare del carcere “un luogo non separato dal territorio e dalla società, un’esperienza capace di valorizzare l’autonomia, le motivazioni e la responsabilità delle persone detenute”. Questa firma fra i garanti e il provveditore ha un senso chiaro, spiega Franco Corleone: “Veniamo da un periodo in cui si era sperato in una grande riforma del carcere che ora sembra tramontata, però, noi abbiamo già una riforma e un regolamento che possono consentire di fare molte buone pratiche. Vogliamo cambiare molte cose, a partire dalla qualità della vita di ogni giorno dei detenuti: garantire la mensa, il refettorio, la biblioteca utilizzabile come luogo di studio e di lettura, garantire celle con servizi igienici adeguati, una condizione che salvaguardi la dignità. È possibile? Crediamo di sì”, prosegue Corleone. E ancora: “Chiediamo cose importanti. A Firenze un istituto femminile autonomo e non come sezione del maschile; i lavori del teatro a Volterra; vogliamo che si risolvano le difficoltà a Livorno, a San Gimignano e a Pisa; è necessario rilanciare il polo universitario in Toscana”. Nell’anno in corso, si legge infatti nel patto oggi sottoscritto, “dovranno essere conclusi o avviati a conclusione gli interventi di ristrutturazione più urgenti” a cominciare dalla “riapertura del carcere di Arezzo”, dalla “ristrutturazione di due sezioni a Livorno”, con riapertura del femminile e apertura della cucina per l’alta sicurezza. E ancora “a Pisa la decisione sull’utilizzo del manufatto G1 e rifacimento dei bagni nella sezione femminile, interventi a Sollicciano a cominciare dalla seconda cucina al maschile, lavori al Gozzini per trasformarlo in istituto femminile”, così come la citata costruzione del teatro a Volterra. Si definiscono gli interventi e, insieme, i tempi di realizzazione e le verifiche tappa per tappa. I garanti potranno avere accesso ai penitenziari senza alcuna limitazione d’orario e tenere colloqui con i detenuti, avviare procedure nel caso ravvisino violazioni di diritti costituzionalmente previsti per i detenuti. Il provveditorato si impegna, tra l’altro, a fornire informazioni e dati su trasferimenti, composizione e andamento della popolazione detenuta. Sono previste verifiche sugli impegni reciprocamente assunti, almeno una volta l’anno sugli accordi presi e sull’attuazione del patto. Tra gli impegni specifici del Garante regionale, emergono sollecitazioni a sostenere la diffusione e l’utilizzo dello strumento dei rimpatri assistiti, per fare in modo che la norma, al momento di fatto inapplicata, possa avere effetti tangibili. Azioni concrete e impegni che i sottoscrittori ritengono realizzabili. “Mi voglio giocare la mia credibilità - dice Corleone - Siamo riusciti a chiudere gli Opg in tutta Italia, compreso Montelupo nella nostra regione. Si è trattato di una fatto enorme. Com’è possibile che in Toscana non si riesca a intervenire su cose più facili rispetto alla chiusura del manicomio giudiziario? Metterò tutto il mio impegno in questa sfida, le condizioni ci sono, credo che nel prossimo mese ci sarà la definizione dei nuovi direttori delle carceri, che per tre anni avranno la responsabilità del loro istituto. Occorrono impegno, volontà ed entusiasmo”. Due le principali criticità da affrontare, prosegue il garante regionale: “Quello che colpisce maggiormente nei detenuti sono la lontananza dai parenti e le condizioni di salute ovvero questioni che dobbiamo affrontare anche con un rapporto con la Regione Toscana, perché il servizio sanitario è regionale e la responsabilità non è dell’amministrazione penitenziaria”. “La svolta ci può essere, se c’è un concorso di azioni - dichiara il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Antonio Fullone. Il rinnovo del protocollo è una ulteriore tappa di un lungo percorso, servono risorse, idee e volontà. Restiamo ottimisti ed è un ottimismo della ragione, non della volontà, perché molte cose sono già state in parte fatte”. Migliorare le condizioni delle carceri “si può fare, richiede tempo, perché in Toscana abbiamo una situazione frastagliata. L’investimento sulla quotidianità va fatto”. Catania: sovraffollate e non riscaldate, report sulle carceri catanesi cataniatoday.it , 19 giugno 2018 Alcuni problemi sono “storici”, altri invece sono sorti soltanto di recente e dipendono - sostanzialmente - dal sovraffollamento che colpisce quasi tutte le strutture del territorio italiano: la situazione delle case circondariali di piazza Lanza e di Bicocca, così come emerge dal lavoro effettuato dall'associazione Antigone, riporta ad una fotografia dai toni cupi. Un ritratto del sistema carcerario etneo pesantemente fiaccato da inefficienze e da problemi che, nei fatti, rendono la vita dei carcerati più difficile di quella prevista dalle sanzioni comminate dal sistema giudiziario. Soprattutto quando ad essere intaccati sono i diritti umani fondamentali e la dignità degli individui. Non mancano tuttavia le note positive, soprattutto nella struttura di piazza Lanza, all'interno della quale si sperimentano regimi detentivi 'aperti' in cui i detenuti possono spendere tempo insieme e socializzare. Il carcere di piazza Lanza - spiega Alice Franchina, osservatrice dell'Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone - che da anni si occupa di monitorare la situazione delle carceri e di difendere i diritti dei detenuti - le criticità principali della struttura di piazza Lanza riguardano la carenza di organico, “sia tra polizia che tra personale, come ad esempio gli educatori, che sono pochissimi”, ed il “sistema di riscaldamento”. All'interno dell'edificio cittadino non ci sono solo difetti e, come chiarisce Franchina, “alcune celle sono a regime aperto, cioè i detenuti possono stare diverse ore in giro per la sezione o nelle sale di socialità e meno ore chiusi in cella e questo, anche a detta degli operatori, ha ridotto la rissosità dei detenuti e contribuisce a un clima più sereno”. Le celle e la popolazione - Dalla lettura delle schede preparate dall'associazione e pubblicate l'anno scorso, si apprende che “le celle sono in generali buone condizioni in tutti i reparti, poiché sono state ristrutturate recentemente. In tutte il bagno è in ambiente separato con doccia. Nei bagni del reparto femminile è presente anche il bidet. È presente l'acqua calda solo per le docce. Le celle sono di dimensioni diverse a seconda delle sezioni. In tutte è rispettato il parametro dei 3 mq per detenuto”. “Tuttavia - continua il rapporto - nelle sezioni maschili, vi sono casi di celle con 5 detenuti in circa 18 mq (3,6 mq a testa) o celle con 4 detenuti ma nelle quali un letto a castello inutilizzato riduce lo spazio calpestabile della cella. Le celle non sono riscaldate poiché il sistema di riscaldamento è obsoleto e tale deficienza, a detta della Direzione, non costituisce un vero problema viste le condizioni climatiche locali.” “La direzione minimizza una cosa che invece è piuttosto grave - aggiunge Alice - perché va bene che siamo in Sicilia ma in inverno senza alcun tipo di riscaldamento (in cella per motivi di sicurezza niente stufe elettriche ovviamente) si muore di freddo”. I reparti e le condizioni - L'edificio di piazza Lanza consta di 6 reparti detentivi: Nicito (isolamento); Etna (originariamente femminile, oggi chiuso in attesa di lavori) Simeto (maschile m.s.), Amenano (maschile m.s.), Troina (maschile m.s.), Terzo Braccio (piano terra attività trattamentali e in parte cantiere, primo piano in attesa consegna lavori, secondo piano femminile). “L'allocazione dei detenuti, a detta della direttrice, avviene su diverse basi - si legge nel lavoro di Antigone - vengono tenute in considerazione principalmente la nazionalità (anche in base alle richieste dei detenuti stessi), la tipologia di reato e la condotta (nel caso dei reparti a regime aperto). Il reparto Troina, che accoglie 27 persone, è dedicato ai detenuti che richiedono condizioni di cura diverse perché con spiccata fragilità emotiva, o difficoltà alla convivenza con gli altri nelle grandi sezioni Simeto e Amenano (circa 150 detenuti ciascuna). Non si configura comunque né come un reparto di osservazione né come un reparto 'protetti'“. Atti di autolesionismo - Gli atti di autolesionismo e scioperi della fame sono riportati nel “Progetto d'Istituto” di quest'anno. “Pur non potendo disporre in sede di visita di precisi dati in merito - è possibile leggere sulla scheda - la casistica degli ultimi anni risulta accresciuta, proporzionalmente, secondo la Direzione, all’aumento del numero di stranieri e di soggetti sottoposti a trattamenti psichiatrici. La natura di tali atti sembrerebbe di lieve portata e dovuta essenzialmente a gesti di protesta legati alla quotidianità carceraria”. Bicocca - Secondo l'osservatrice i problemi principali di questa casa circondariale riguardano “alcune carenze strutturali (un padiglione effettivamente molto vecchio, con docce in comune piene di umidità etc.), il problema dei collegamenti: i detenuti che potrebbero lavorare all'esterno spesso non possono perché non ci sono i mezzi pubblici per raggiungere la città e tornare”, e, anche in questo caso “la carenza di personale”. “Si tratta di un carcere sovraffollato, sia pur in misura nettamente minore rispetto al passato - spiega la scheda riservata al carcere periferico - Grazie a recenti lavori di ristrutturazione le condizioni strutturali sono migliorate: sono state montate le docce in buona parte delle celle e dei lavori sono in corso per adeguare il più vetusto padiglione destro a quello sinistro. Il reparto Transito è stato rifatto ad agosto del 2016. Alcune carenze, come la mancanza di un impianto di riscaldamento, sono però ancora presenti”. “A causa della sua posizione isolata rispetto al centro urbano - si legge inoltre - i pochi detenuti che hanno accesso teorico al lavoro esterno non possono spingersi oltre il parcheggio dell'istituto stesso, dove svolgono lavoretti come la pulitura delle siepi. A causa della riduzione del personale, se prima gli agenti svolgevano il proprio lavoro su 4 quadranti orari da 6 ore, adesso lo svolgono su 3 (da 8 ore).Non vi sono regimi detentivi attenuati quali la sorveglianza dinamica”. Le condizioni generali delle celle - La condizione delle celle, come chiariscono ancora i volontari, “è variabile a seconda delle sezioni”. “Nel padiglione Sinistro sono presenti le docce in cella, e in generale le celle sono state ristrutturate recentemente. La doccia è stata aggiunta al bagno pre-esistente, secondo un progetto del provveditorato che risulta poco funzionale. Il piatto doccia è inserito nella parte centrale del vano del bagno, e diventa quindi baricentrico tra il wc e il lavandino. Lo spazio di passaggio che rimane tra il piatto doccia e la parete longitudinale del bagno risulta dunque di circa 50 cm, e rende difficile il movimento non solo a persone robuste, ma anche a persone di stazza normale. I bagni sono comunque provvisti di acqua calda e di finestra per aerazione e illuminazione naturale”. “Nel padiglione Destro le condizioni generali della sezione non sono buone - concludono - Le docce comuni sono 4; al momento della visita una non era attiva, e in generale il vano delle docce presentava forte umidità e pavimento discontinuo e rabberciato”. Sanità e cure psichiatriche - Uno psichiatra “è presente una o due volte a settimana”. “I colloqui con i detenuti in osservazione psichiatrica variano a seconda della categoria a cui vengono assegnati dopo un apposito monitoraggio - continua il documento di Antigone - I detenuti considerati ad alto controllo sono visti una volta a settimana, quelli sottoposti a un controllo medio una ogni quindici giorni e quelli considerati a basso controllo una volta ogni uno-due mesi. A detta del personale, dopo la riforma le visite specialistiche sono meno diradate, svolgendosi ogni settimana. È rimasto il presidio che c'era già, ma con un medico in più. Si è rilevato un aumento delle visite in ospedale”. In questa struttura, in fine, non si sono registrati casi di autolesionismo o suicidio. Catanzaro: carcere di Siano; spazio ai laboratori, detenuti e figli valorizzano il proprio ruolo cn24tv.it , 19 giugno 2018 Valorizzare la genitorialità in un contesto delicato come quello dell’istituto penitenziario. È ciò che si è prefissata la Direzione del carcere di Catanzaro insieme all’associazione Universo Minori, presieduta da Rita Tulelli. Negli ultimi mesi, per una volta la settimana, una ventina di bambini e adolescenti, di età compresa tra zero e sedici anni, figli di persone detenute, hanno potuto incontrare i loro genitori in un ambiente all’interno della struttura di Siano pensato “a misura di bambino” e animato da tante attività. “I bambini che devono frequentare questa realtà per incontrare i loro parenti devono poter ricevere da questa esperienza una reale educazione alla legalità” - ha affermato il direttore del carcere Angela Paravati. “Per questo motivo sono stati ideati questi laboratori di attività manuali, disegno, danza: per educare all’uso corretto del tempo libero in compagnia dei genitori, che a loro volta stanno compiendo un percorso”. Presenti anche la docente di inglese del Centro per l’istruzione degli adulti Angela Mingrone, nonché l’assessore alla cultura del comune di Catanzaro Concetta Carrozza. Le operatrici Jessica Scalise, Pamela Critelli, Rotundo Tiziana e Jessica Ianchello, dell’associazione Gaia, sostenuta dall’Associazione Universo Minori, all’interno della struttura di Siano e in modo assolutamente gratuito per l’Istituto penitenziario, hanno curato i laboratori creativi, nell’ambito della più ampia finalità istituzionale di rendere questo “quartiere chiuso” un servizio sociale. Il momento conclusivo è stato particolarmente commovente, anche per la partecipazione emotiva dei più piccoli: una ragazza nel corso dell’incontro finale ha ringraziato l’istituzione per questa opportunità, sostenendo che questo spazio ha “colmato” almeno una volta la settimana, il vuoto che tutti gli altri giorni la separa dal padre, riassumendo in queste semplici e spontanee parole quello che voleva essere lo scopo dell’iniziativa. Sassari: oggi convegno su pena detentiva e reinserimento sociale uniss.it , 19 giugno 2018 Il Polo Universitario Penitenziario dell’Università di Sassari organizza una Giornata di Studi dal titolo “Pena detentiva e reinserimento sociale: il contributo dello studio universitario”. L’evento si terrà martedì 19 giugno dalle 9:30 alle 13.00 nell’Aula Magna dell'Università. Tra i relatori, il Garante Nazionale dei detenuti, Mauro Palma, e il Coordinatore nazionale della Conferenza dei poli universitari penitenziari Franco Prina. Le relazioni. La giornata sarà introdotta dai saluti del Magnifico Rettore Massimo Carpinelli e del Sindaco di Sassari Nicola Sanna. La riflessione sul ruolo dello studio universitario nei percorsi di reinserimento sociale dei detenuti nelle carceri italiane inizierà con la relazione del Garante Nazionale per i Detenuti Prof. Mauro Palma, che affronterà il tema “La pena e le sue aporie nella società complessa”. Istituito formalmente alla fine del 2013, il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha cominciato ad essere operativo nel 2016. Si tratta di un organismo indipendente in grado di monitorare i luoghi di privazione della libertà per cercare soluzioni migliorative: oltre al carcere, i luoghi di polizia, i centri per gli immigrati, le Rems (strutture riabilitative per pazienti psichiatrici recentemente istituite dopo la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari, i trattamenti sanitari obbligatori. Inoltre, nelle istituzioni sulle quali esercita il proprio controllo, il Garante nazionale ha il compito di risolvere le situazioni che generano occasioni di ostilità o che originano reclami proposti dalle persone ristrette, riservando all’autorità giudiziaria i reclami giurisdizionali che richiedono l’intervento del magistrato di sorveglianza. Successivamente il referente locale dell’associazione Antigone Dr. Daniele Pulino, dell’Osservatorio Sociale sulla Criminalità del Dipartimento di Storia, Scienze dell'Uomo e della Formazione dell’Università di Sassari, traccerà il bilancio annuale della situazione carceraria italiana e sarda in particolare, con la relazione “Un anno di carcere. La Sardegna nell'attività di osservazione dell'Associazione Antigone”. Significativa la presenza del Coordinatore Nazionale della Conferenza dei Poli Universitari Penitenziari Prof. Franco Prina dell’Università di Torino, alla prima uscita pubblica dopo la recente costituzione del gruppo di lavoro dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari in seno alla Crui; della Conferenza fa parte anche l'Università di Sassari, il cui delegato Emmanuele Farris siede nel Consiglio direttivo assieme alle Università di Napoli Federico II, Padova e Pisa. Il Prof. Prina presenterà una relazione dal titolo “L'impegno delle Università italiane per il diritto dei detenuti allo studio universitario: esperienze e prospettive” Il potenziamento del Polo universitario penitenziario dell'Università di Sassari. Seguirà l’intervento del Delegato del Rettore per il Polo Universitario Penitenziario dell’Università di Sassari Prof. Emmanuele Farris, che, con la relazione dal titolo “L’Università di Sassari per i detenuti: da 15 anni un’Università inclusiva proiettata verso il futuro”, descriverà l’evoluzione delle attività di didattica carceraria portata avanti negli ultimi 15 anni dall’ateneo sassarese; Farris si soffermerà sulle strategie di potenziamento rese possibili dal cospicuo finanziamento premiale che il Ministero per l’Istruzione, Università e Ricerca ha recentemente stanziato a favore dell’ateneo turritano. Napoli: “Caro prof ti scrivo”, il libro di Ciambriello commentato dai detenuti Il Roma , 19 giugno 2018 “Caro prof. ti scrivo…” è il titolo del libro che è stato presentato questa mattina a Poggioreale ai detenuti dei padiglioni Firenze e Genova. Scritto a quattro mani da Samuele Ciambriello, garante per i detenuti della Campania e professore di religione, e da Giuseppe Ventura, giovane scrittore di 23 anni, il libro affronta in maniera semplice tematiche profonde come quelle sul senso della vita, l’amore, l’amicizia, e lo fa chiedendo a dei ragazzi di liceo di esternare i loro sentimenti a riguardo su di un foglio bianco. Le risposte sono state assolutamente inaspettate, a tratti commoventi ed emozionanti. I detenuti di Poggioreale hanno avuto modo di leggere questo libro durante uno dei tanti laboratori portati avanti dall’associazione “La mansarda”, e stamattina l’hanno commentato insieme agli autori, tirando fuori le loro emozioni e riflessioni su argomenti di grande sensibilità. Chi è “diversamente libero” ha, a volte, una sensibilità più spiccata e più intuitiva rispetto a chi non prova sulla propria pelle certe sofferenze. C’è chi ha commentato: “Se avessi avuto un prof. come Samuele non avrei snobbato la religione come materia. Noi non siamo abituati ad ascoltarci ed ascoltare”. Tra le testimonianze più toccanti, quella di Roberto, detenuto con la passione del pugilato, molto emozionato, che racconta: “La persona più importante nella mia vita è il mio maestro di ring. Stamattina mi ha telefonato. Quando il dolore è troppo forte e ci viene la nausea, dobbiamo avere la forza di non mollare”. Gianluca invece ha ricordato la testimonianza che più lo ha colpito nel libro, quella di Abdul, un ragazzo immigrato che poneva l’attenzione sull’importanza dell’amicizia e del legame profondo che si crea alle volte con un vero amico. E sono proprio questi legami a darti la forza ed il coraggio di andare avanti e proseguire un percorso di riabilitazione. “Una vita difficile non può essere né un alibi né una colpa”, dichiara Samuele Ciambriello, e prosegue: “Per determinati reati e fasce d’età quella del cosiddetto “branco” dovrebbe essere considerata aggravante”. Mentre il coautore Giuseppe Ventura ha commentato: “Vengo anche io da un quartiere di periferia, la scrittura mi ha salvato dalla strada. La salvezza può essere anche fantasia. Essere qui oggi per me è un privilegio”. Presente all’incontro anche la direttrice del carcere di Poggioreale, Maria Luisa Palma: “Momenti come questi sono importantissimi per imparare a mettersi in gioco, non è da tutti saper esternare le proprie emozioni e sentimenti”. Terni: “Intrecci”, mostra delle opere dei detenuti al Museo diocesano diocesi.terni.it , 19 giugno 2018 S’intitola “Intrecci” la mostra di opere pittoriche e di versi poetici, realizzata nell’ambito del progetto arte in carcere, promossa dal Laboratorio Artistico Casa Circondariale di Terni, dalla Caritas diocesana e associazione di volontariato San Martino e dalla casa Circondariale di Terni. La mostra allestita presso il Museo Diocesano e Capitolare di Terni sarà inaugurata sabato 26 maggio alle ore 17 e resterà aperta dal 26 maggio al 2 giugno 2018 con orario 10.00 - 12.30 e 17.00 - 19.30. In mostra 70 opere pittoriche realizzate da 13 detenuti e 12 poesie scritte da altrettanti detenuti. Per acquisire le opere potrà essere fatta un’offerta in denaro e il ricavato sarà utilizzato per l’acquisto dei materiali del laboratorio artistico e per le necessità del detenuto autore dell’opera. Saranno presenti alcuni detenuti autori delle opere esposte. “Nella Casa Circondariale di Terni, da oltre quattordici anni, è attivo il Progetto ‘Arte in Carcere”, un laboratorio artistico organizzato dalla Caritas - Associazione di volontariato San Martino - spiega la coordinatrice del progetto Gisella Manuetti Bonelli. Per i detenuti che lo frequentano, questo luogo è diventato un punto di riferimento per socializzare, per intraprendere un percorso di introspezione e crescita personale acquisendo elementi tecnici sul disegno e sul colore. In questo luogo passano e si incontrano individui di varie culture e per tanti motivi, alcuni sostano più a lungo di altri. Nello spazio di questo Laboratorio Artistico, le diversità si intrecciano come a formare un unico ordito perché la finalità è uguale per tutti: cercare in se stessi, al di la del reato per cui stanno scontando la pena, qualcosa di bello, realizzarlo e dimostrarlo. Creando disegni e pitture e scrivendo versi, esposti in questa mostra, trapela il loro impegno, per ritrovare una sensibilità, sopita da tempo e il desiderio di riallacciare una nuova alleanza con se stessi e con gli altri”. Foggia: Festa della famiglia nel carcere di Lucera immediato.net , 19 giugno 2018 Gioia e commozione grazie ai clown dottori de Il Cuore Foggia. Giochi, balli e tanti abbracci per un pomeriggio che ha voluto celebrare gli affetti più cari, oltre le sbarre. I detenuti hanno donato 275 euro ai volontari. “Vogliamo ringraziare i clown dottori per la bella iniziativa di oggi pomeriggio, che ha messo al centro dell’attenzione i nostri figli. Nella speranza che possano esserci altri momenti come questo, abbiamo fortemente voluto raccogliere una piccola somma da donare per accrescere le vostre iniziative. Queste occasioni per noi sono importanti perché ci fanno rivivere momenti di gioia familiare. Ringraziamo il direttore Giuseppe Altomare, il commissario Daniela Occhionero e tutta la Polizia Penitenziaria e il funzionario giuridico pedagogico, la dottoressa Cinzia Conte per aver permesso tutto questo”. In un breve messaggio, letto da un detenuto a fine pomeriggio, il senso della bella iniziativa organizzata il 19 giugno scorso presso la Casa Circondariale di Lucera. I clown dottori de Il Cuore Foggia hanno intrattenuto con giochi, balli e musica i ristretti e le loro famiglie. Tanti i bambini, accolti con cori e abbracci dai volontari e con lacrime di commozione dai padri, che senza esitazione si sono messi in gioco nel cortile del carcere lucerino. Dopo un momento musicale, i clown dottori hanno fatto gareggiare padri e figli, divisi in due squadre, con la partecipazione eccezionale delle mamme, che hanno contribuito alla vittoria della squadra composta dai bambini. Commovente il momento dei bigliettini regalo: i figli hanno scelto a caso delle letterine, preparate dai volontari, in cui era scritto quale dono fare a papà: abbracci lunghi dieci secondi, baci, pizzicotti affettuosi sulle guance, una carezza. I clown dottori hanno, quindi, distribuito in allegria un naso rosso a tutti i piccoli e un pallone “perché possiate giocare tutti insieme: mamma, papà e figli. La famiglia è un dono e noi pensiamo che sia bello trascorrere più tempo possibile insieme, in armonia”, hanno sottolineato i camici colorati. Al termine della iniziativa, mentre nel cortile i detenuti offrivano pizza e dolcetti ai propri familiari, l’Ufficio ragioneria della Casa Circondariale ha consegnato ai clown dottori de Il Cuore Foggia i fondi raccolti da tutti i detenuti del carcere: 275 euro. “Siamo felicissimi di questa donazione, che non ci aspettavamo - il commento di Jole Figurella, presidente dell’associazione - Sono stati molto generosi e presto in associazione faremo una riunione per decidere in quale progetto investire questo dono speciale. Speriamo di poter tornare presto nel carcere di Lucera e nelle altre case circondariali del territorio con nuove iniziative di questo tipo”. Il pomeriggio di festa “dentro” è stato animato dai clown dottori Ciù Ciù, Robigna, Campana, Pallotta, Bacchetta, Arale, Dolcina, Aurora, Tortellina, Occhiolina, Dadà. Il CSV Foggia ha partecipato all’iniziativa con la responsabile della promozione del volontariato in ambito penitenziario, Annalisa Graziano. Paragoni inevitabili di Piero Sansonetti Il Dubbio , 19 giugno 2018 Beh, era da ottant’anni che non si vedeva qualcosa del genere. Il ministro dell’Interno ha ordinato un censimento dei Rom. E lo ha fatto usando parole tutt’altro che gentili. Ha detto di essere consapevole che non potrà espellere i Rom che risultino di nazionalità italiana. Ha aggiunto: “Purtroppo”. È una specie di annuncio di “retata”. Non c’è assolutamente niente di ideologico nel fare osservare che un censimento su base razziale, o etnica, non si faceva, in Italia, dal 22 agosto del 1938. E che l’ultimo lo ordinò Mussolini. Fare osservare questa circostanza non equivale al grido isterico: “fascisti, fascisti”. È solo una osservazione storica. Conoscere e valutare la storia è sempre un esercizio fondamentale in politica. Anche per questo sarebbe utile che la classe politica che ci governa (o che si oppone a chi governa) fosse un po’ istruita sul piano della Storia. E non sempre è così. Io mi limito a dire che la pulsione xenofoba e ultra-legalitaria che ha spinto Salvini a immaginare un censimento su base razziale è sicuramente molto simile alla pulsione che spinse il regime fascista italiano a fare la stessa cosa nei confronti degli ebrei. Questo vuol dire che siamo alla vigilia del fascismo? Non credo. Penso che la democrazia italiana e le sue istituzioni siano molto forti e non abbiano nulla da temere. Anche se sono sotto attacco. Credo però che - come diceva Renzo de Felice, illustre storico liberale, forse il più lucido storico italiano del 900 - il fascismo abbia lasciato in Italia, e anche nella sua classe dirigente, una parte profonda della sua cultura e delle sue aspirazioni, e non sarà facile liberarsene. De Felice disse queste cose un quarto di secolo fa: la decisione di Salvini ci dice che aveva ragione e che ancora non ce ne siamo liberati. Demonizzare chi non la pensa come te è un pessimo modo di discutere e di combattere per le proprie idee. Ma qui non si tratta di demonizzare: si tratta di analizzare. Io credo che la scelta di Salvini (sostenuta, mi pare, un po’ da tutta la maggioranza e anche da settori dell’opposizione di destra) di cavalcare la parte più reazionaria del populismo profondo, quello che vince nella pancia dell’opinione pubblica, sia una scelta sbagliata e molto molto pericolosa. Che può portare a una vera e propria frana dei diritti, anche dei diritti più elementari. E trasformare l’Italia in un luogo dove vince l’intolleranza e il giustizialismo. Oggi segnaliamo che anche in altri paesi del mondo, come da noi, è aperta una battaglia tra due idee molto diverse di modernità e di civiltà. Negli Stati Uniti, per esempio. Dove è l’esponente della destra conservatrice (ma liberale), Laura Bush, a contrapporsi all’ideologia della tolleranza zero, che sta mettendo in discussione alcuni canoni secolari dell’America umanitaria. Da noi la situazione è molto simile. Per questo mi pare che segnalare la somiglianza tra gli errori di Mussolini e certe tendenze di oggi non abbia nulla di ideologico. Ripensare alla storia, agli errori del passato, è sempre una cosa saggia. Se l'altro diventa il male di Chiara Saraceno La Repubblica , 19 giugno 2018 I rom sono odiati e temuti più dei migranti. Li si disprezza quando vivono nei campi, ignorando che spesso non è una scelta ma una necessità per mancanza di alternative, rafforzata da politiche pubbliche che, nel migliore dei casi, sembrano ritenere che i “campi attrezzati” siano la soluzione abitativa più adatta a loro. Si ignora che i camminanti sono una piccola minoranza e che la maggioranza dei rom e sinti sarebbe ben contenta di avere un tetto stabile sulla testa, acqua corrente per lavarsi, servizi igienici adeguati, un lavoro regolare. Ma si disprezzano e temono i rom anche quando “pretendono” una abitazione come tutti gli altri. Una indagine Istat di qualche anno fa rilevò che quasi il 70% degli intervistati non avrebbe voluto avere come vicino di casa un rom. Così che i rom e sinti che abitano in appartamenti e hanno un lavoro regolare evitano di dichiarare la propria appartenenza etnica, come se fosse un marchio vergognoso, da nascondere o negare. Una più recente indagine internazionale dell'Istituto Pew ha segnalato che, con l'82% di intervistati che esprime un'opinione negativa sui rom e sinti, l'Italia mostra il più alto tasso di anti-gitanismo tra i paesi industrializzati. Il ministro dell'Interno Salvini, più preoccupato di rafforzare la propria costituency che di costruire le condizioni per una società sicura perché giusta e rispettosa dei diritti di tutti, dopo la battaglia dei porti anti-immigrati ha deciso di agitare anche la bandiera della caccia ai rom, in una ennesima versione della “emergenza rom”, come se si trattasse di popolazioni comparse improvvisamente da non si sa dove, stranieri non solo o tanto perché di altri paesi, ma perché estranei “al popolo” italiano. Quindi da respingere quando possibile perché anche stranieri dal punto di vista della cittadinanza e da chiudere in recinti, se “purtroppo”, italiani. Questi ultimi, ha aggiunto con dispiacere, “dobbiamo tenerceli”. Come se non fossero cittadini come lui e chi vota per lui, con gli stessi diritti (e certamente non sottoponibili a censimento etnico). Diritti che come ministro degli Interni e vicepresidente del Consiglio deve proteggere e rappresentare, a partire dal diritto fondamentale ad avere una abitazione decente, con le stesse regole, criteri di priorità, che valgono per tutti. Non mi nascondo che ci possano essere problemi di integrazione ed anche di comportamenti impropri, come i matrimoni precoci, l'evasione scolastica, l'accattonaggio o i furti. Ma essi non sono condivisi da tutta la popolazione rom. Allo stesso tempo non possono che essere rafforzati da atteggiamenti, e politiche pubbliche, che continuano a trattare la popolazione rom come un corpo estraneo a quello non solo del “popolo” e dei cittadini, ma della stessa umanità. Se si continua a negare loro sia condizioni di vita decenti, sia la stessa capacità di apprezzarle. Salvini e il censimento dei Rom: su base etnica è vietato dalla legge di Nicoletta Cottone Il Sole 24 Ore , 19 giugno 2018 Il vicepremier, ministro dell’Interno e leader della Lega Matteo Salvini annuncia che al ministero si sta “facendo preparare un dossier sulla questione rom in Italia, perché dopo Maroni non si è fatto più nulla, ed è il caos”. Ha parlato dai microfoni di Telelombardia di “una ricognizione sui rom in Italia per vedere chi, come, quanti”, ossia “rifacendo quello che fu definito il censimento, facciamo un'anagrafe”. E ha detto che gli stranieri irregolari andranno “espulsi” con accordi fra Stati, ma “i rom italiani purtroppo te li devi tenere a casa”. Immediata la reazione di Carlo Stasolla, presidente dell'Associazione 21 luglio che si occupa della tutela dei diritti di comunità come rom e sinti che ha ricordato che “in Italia un censimento su base etnica non è consentito dalla legge”. E ha sottolineato che “i rom italiani sono presenti nel nostro Paese dal almeno mezzo secolo e a volte sono più italiani di tanti nostri concittadini”. Ecco chi sono e dove vivono in Italia secondo il rapporto annuale del 2017 dell’associazione. Italia paesi dei campi - Dati certi relativi a rom e sinti non ce ne sono. La presenza di rom, sinti e camminanti in Italia è stimata dal Consiglio d’Europa fra 120mila e 180mila persone. Secondo la mappatura 2017 dell’Associazione 21 luglio sono 26mila i rom e sinti che vivono in Italia in condizioni di emergenza abitativa: in baraccopoli formali e informali, in micro insediamenti e in centri di raccolta rom. Rappresentano lo 0,4% della popolazione italiana. In un anno secondo il report sarebbero diminuiti del 7%, da 28mila a 26mila, soprattutto per lo spostamento volontario di alcune famiglie romene verso altri paesi europei. In Italia sono 148 le baraccopoli formali distribuite in 87 comuni. Il 55% ha meno di 18 anni, l’aspettativa di vita è di 10 anni inferiore a quella italiana. Circa il 43% si stima abbia la cittadinanza italiana. In Europa l’Italia, afferma il report presentato al Senato ad aprile, è “denominata in Europa “il Paese dei campi” perché la nazione maggiormente impegnata nell'ultimo ventennio nella progettazione, costruzione e gestione di aree all'aperto dove segregare su base etnica le comunità rom”. Dove vivono - Secondo il report 16.400 vivono in insediamenti formali. Circa 1.300 persone, in prevalenza sinti, vivono in una cinquantina di micro aree collocate nell'Italia Centro-Settentrionale. Circa 1.200 rom di cittadinanza rumena nelle città di Roma, Napoli e Sesto Fiorentino abitano in immobili occupati in forma monoetnica. Poi ci sono i circa 760 rom di nazionalità italiana presenti in abitazione dell'edilizia residenziale pubblica all'interno di quartieri monoetnici nelle città di Cosenza (circa 500 persone) e Gioia Tauro (circa 260 persone). Il report segnala che nelle baraccopoli informali e nei micro insediamenti sono presenti per l’86% cittadini di origine rumena. I rimanenti sono in prevalenza di nazionalità bulgara. Nelle baraccopoli formali sono circa 9.600 i rom originari dell'ex Jugoslavia: si stima che circa il 30% (3mila) sia formato da apolidi (senza cittadinanza). Le baraccopoli - Le più grandi baraccopoli informali sono concentrate nella Regione Campania. La città con il maggior numero di baraccopoli formali (17) è Roma, che è anche la città con il maggior numero di micro insediamenti informali (circa 300). Sono costituiti da roulotte, tende, baracche “fai da te” di lamiera o legno, spesso senza acqua corrente, riscaldamento, rete fognaria ed elettrica. Secondo la mappatura dell’Associazione 21 luglio, in Italia sono presenti 148 insediamenti formali, abitati da circa 16.400 persone e 2 centri di accoglienza che accolgono circa 130 individui. In 16 regioni italiane si registra la presenza di insediamenti informali e micro insediamenti abitati da circa 9.600 persone (per l'86% rom di nazionalità rumena). Il 9% di essi sono di cittadinanza bulgara, mentre i rimanenti sono cittadini italiani o originari dell'ex Jugoslavia. Il 24% del totale risulta presente in 4 mega insediamenti: Borgo Mezzanone (Foggia), Scampia (Napoli), Camping River (Roma) e Germagnano esterno (Torino). Il 73% di essi, pari a 7.000 persone circa, risulta invece presente in 5 regioni: Campania (2.100), Lazio (1.800), Piemonte (1.000), Puglia (1.100) e Lombardia (1.000). Nel corso del 2017 c’0è stato un aumento numerico dei mega insediamenti informali dovuto principalmente al “declassamento” di insediamenti in passato riconosciuti come formali, come i “campi” di Scampia e Giugliano (Napoli) e il Camping River (Roma). Il 20 giugno Giornata mondiale del Rifugiato delle Nazioni Unite di Fausta Chiesa Corriere della Sera , 19 giugno 2018 È voluta dall’assemblea generale dell’Onu per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla condizione di milioni di profughi e richiedenti asilo. La campagna “#WithRefugees”. Il 20 giugno si celebra in tutto il mondo la Giornata mondiale del Rifugiato, voluta dall’assemblea generale delle Nazioni Unite per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla condizione di milioni di profughi e richiedenti asilo che lasciano il proprio Paese costretti a fuggire da guerre e violenza. L’Agenzia dell’Onu per i rifugiati ha lanciato la campagna “#WithRefugees”, che vuole dare visibilità ai gesti di solidarietà verso i rifugiati, dando voce a chi accoglie e rafforzando l’incontro tra le comunità locali e i richiedenti asilo. Ma #WithRefugees è anche una petizione, con la quale l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) chiede ai governi di garantire che ogni bambino rifugiato abbia un’istruzione, che ogni famiglia rifugiata abbia un posto sicuro in cui vivere, che ogni rifugiato possa lavorare o acquisire nuove competenze per dare il suo contributo alla comunità. La petizione sarà presentata all’assemblea delle Nazioni Unite entro la fine del 2018 in occasione dell’adozione del Global Compact per i rifugiati. “Oggi - dice Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr per il Sud Europa - stare dalla parte dei rifugiati non è solo un atto di umanità, purtroppo è anche un atto di coraggio è diventato scomodo stare dalla parte di coloro che non hanno scelto di lasciare il proprio Paese e che affrontano una pesantissima sfida, quella di ricominciare da zero in un ambiente nuovo, spesso diffidente e, nel peggiore dei casi, ostile”. Intanto Sos Villaggi dei Bambini promuove una road map per accendere i riflettori sui diritti e i bisogni dei minorenni non accompagnati che arrivano nel nostro Paese (15 mila nel 2017). Numerosi gli eventi previsti fino alla fine del mese. withrefugees.unhcr.it. Stati Uniti. La tolleranza zero ideologia che non risolve nulla di Laura Bush* Il Dubbio , 19 giugno 2018 Domenica scorsa, giorno che la nostra nazione ha scelto per rendere omaggio ai padri e ai legami della famiglia, ero tra i milioni di americani che hanno visto quelle immagini di bambini strappati dalle braccia dei loro genitori. In sei settimane, dal 19 aprile al 3 maggio, il Dipartimento di sicurezza interna ha spedito circa duemila bambini nei centri di detenzione e accoglienza. Oltre un centinaio tra di loro ha meno di 4 anni. La ragione di questa separazione è la politica di tolleranza zero verso i loro genitori, accusati di aver varcato illegalmente le nostre frontiere. Vivo in Texas, uno Stato di confine e sono sensibile alla necessità di controllare le frontiere, ma la politica della nostra amministrazione è crudele. È immorale. E mi spezza il cuore. Nessun governo dovrebbe parcheggiare dei bambini in vecchi depositi ristrutturati o in tendopoli nel deserto come accade nella zona di El Paso. Le immagini che vediamo in Tv ci ricordano sinistramente i campi di internamento riservati agli americani di origine giapponese durante la Seconda guerra mondiale, che fu uno degli episodi più vergognosi della storia americana. Sappiamo inoltre che simili trattamenti causano traumi profondi; i giapponesi internati soffrirono di turbe mentali e malattie cardiache e la loro speranza di vita era decisamente inferiore al resto della popolazione. Gli americani si vantano di formare una nazione etica, di es- sere il paese degli aiuti umanitari nelle regioni devastate dalle catastrofi naturali, dalle carestie, dalle guerre. Ci vantiamo di credere che le persone devono essere giudicate per i loro atti e non per il colore della pelle. Ci vantiamo di essere giusti e tolleranti. Per questo l’ingiustizia della tolleranza zero non può essere la risposta. Se noi siamo davvero quel paese allora il nostro obbligo morale consiste nel ricongiungere quei bambini imprigionati con i loro genitori e di cessare di separare le famiglie. Ho lasciato Washington quasi dieci anni fa, ma so che nelle stanze del governo ci sono delle persone oneste e umane che possono intervenire su questa questione così importante. Recentemente Coleen Kraft, direttrice dell’Accademia americana di pediatria, ha visitato un centro di accoglienza amministrato dall’Ufficio federale di smistamento immigrati. Racconta di aver visto dei letti, dei giocattoli, delle matite colorate, un’area di gioco e uno stock di pannolini, ma le istruzioni per gli operatori sono di non toccare mai i bambini immigrati, non possono prenderli nelle braccia o consolarli. È immaginabile che un bambino separato dalla madre e dal padre che ancora porta i pannolini non possa ricevere neanche un abbraccio? Ventinove anni fa mia suocera Barbara Bush ha visitato la “Grandma’s House”, un focolare per bambini malati di Aids. All’epoca, quando la crisi dell’Aids era all’apogeo, i bebè nati con il virus erano trattati da veri e propri “intoccabili”. Durante la sua visita Barbara che allora era First lady- a preso tra le sue braccia un bambino molto agitato. Si chiamava Donovan, l’ha stretto contro le sue spalle per calmarlo. Per lei quella fragile stretta non era un atto di coraggio. Era semplicemente l’unico gesto da compiere in un mondo spesso arbitrario, cattivo, feroce. Barbara, che aveva visto morire una figlia di appena tre anni, sapeva cosa significa perdere un bambino ed era convinta che ognuno di loro in qualsiasi posto del mondo avesse diritto alla gentilezza, alla compassione e all’amore. Nel la 2018 la nostra nazione non è in grado di trovare risposte più generose, compassionevoli e morali? Personalmente io credo di sì. *Ex first lady degli Stati Uniti Iran. Sufi messo a morte nonostante prove della sua innocenza di Riccardo Noury Corriere della Sera , 19 giugno 2018 Mohammad Salas, un conducente di autobus di 51 anni appartenente a uno dei principali ordini sufi, il Nemattolah Gonabadi, è stato messo a morte questa mattina. Era stato condannato alla pena capitale il 19 marzo 2018 dopo essere stato giudicato colpevole dell’omicidio di tre agenti di polizia nel corso di una protesta organizzata dal suo ordine spirituale, da tempo perseguitato in Iran in quanto - nelle parole della Guida suprema - portatore di un “falso misticismo”. La protesta, svoltasi il 19 febbraio, era diventata violenta dopo che le forze di sicurezza avevano sparato proiettili veri contro la folla e usato gas lacrimogeni e cannoni ad acqua per disperderla. I tre agenti erano stati investiti da un autobus alle 18.30. L’unica prova presentata nel processo era stata una “confessione”, resa durante gli interrogatori in assenza di un avvocato e poi ritrattata dall’imputato, che aveva denunciato di essere stato brutalmente picchiato perché si dichiarasse colpevole. La “confessione” era stata trasmessa in televisione il 20 febbraio. La Corte suprema aveva respinto la richiesta di un riesame del verdetto, sollecitata dall’avvocato di Salas sulla base di nuove prove relative all’innocenza del suo cliente, che secondo numerosi testimoni oculari era stato arrestato tra le 14.30 e le 16.30, ossia almeno due ore prima dell’investimento mortale. Altri testimoni avevano descritto l’autista responsabile dell’investimento come una persona giovane, tutt’altro che cinquantunenne. Sabato 16 giugno i familiari di Salas erano stati convocati dalla direzione del carcere di Raja’i Shahr, nei pressi della capitale Teheran, per le 15.30 di ieri per visitare per l’ultima volta il loro congiunto.