La violenza va combattuta sempre, anche a partire dalle parole Il Mattino di Padova, 18 giugno 2018 Le persone che sono da anni in carcere rischiano, quando usciranno, di trovare un mondo irriconoscibile, dove si usano parole molto più violente, soprattutto ad opera di chi si nasconde dietro i social per esprimere rabbia e odio. Quei detenuti, che spesso hanno compiuto atti violenti, e che oggi però stanno facendo un percorso di assunzione di responsabilità, hanno capito che la violenza va combattuta sempre, anche a partire dalle parole, e che ripulire il linguaggio da ogni forma di aggressività è un modo per affrontare la vita tenendo sotto controllo i propri peggiori istinti, quelli che tante volte portano a commettere reati. Quelle che seguono sono le testimonianze di alcuni di loro su questo tema. Antonio: La lingua non ha ossa, ma rompe le ossa: questo è un detto del mio paese, in Calabria. Per colpa delle parole sono successe tante cose, sono successi omicidi, si sono distrutte delle famiglie e anche noi detenuti dell’Alta Sicurezza oggi stiamo subendo delle parole pesanti, perché secondo alcune persone non sta bene che facciamo un percorso di reinserimento, dal momento che siamo condannati all’ergastolo, ed è per questo che poi succedono momenti di rabbia e di insofferenza, perché a furia di subire arrivi al punto che non ce la fai più. Ma poi non è che subiamo solo noi, ci sono anche le ingiurie che dicono ai nostri familiari, perché loro sono sempre additati come “i figli di”. Giovanni: A me sembra che ci sia una mancanza di educazione sia nel mondo esterno ma anche in questo interno, e una grande responsabilità ce l’ha la televisione, che arriva in tutte le case. Ad esempio penso a quanto siano diseducative alcune trasmissioni tipo il Grande Fratello, ma anche quando si vedono delle liti in parlamento, questo non fa altro che alimentare quel ragionamento che dice: se lo ha fatto lui, che magari dovrebbe dare il buon esempio, perché non lo posso fare io? Credo che questo si avverta soprattutto nei giovani, c’è un modo di fare che non si riesce più a controllare. Dal carcere non è facile capire cosa succede nel mondo fuori, ma pare che buona parte della responsabilità sia spesso dei genitori perché non hanno tempo, non riescono neppure ad essere attenti all’educazione che danno ai propri figli. Purtroppo poi sulla qualità dell’informazione della televisione e dei giornali non c’è un controllo. Basta pensare alla violenza verbale dei giornali sul tema degli affetti delle persone detenute, appena hanno presentato una proposta di legge per i colloqui riservati, tanti giornalisti e politici hanno parlato di celle a luci rosse, e dei detenuti che vogliono fare sesso in carcere: questo è un modo violento di informare, perché non è che in quella leggesi parlava dell’affettività in questi termini, si parlava dei figli, dei genitori anziani, delle mogli e delle compagne di chi sta in carcere. Asot: Quando un giornalista si sofferma sul concetto “celle a luci rosse”, se lo pensa solo è un discorso, ma se lo scrive pubblicamente, immaginiamoci poi cosa dicono le persone al bar. Se un detenuto che esce è cambiato e sente però parlare le persone che ha intorno in questa maniera, rischia di perdere la testa, perché di fronte a una offesa una tende a rispondere d’impulso, a me è andata così, il mio reato è nato da un diverbio, da una parola semplice si è passati ad alzare la voce, poi un’altra parola e così è successo quello che è successo, una rissa finita tragicamente. Uno prima di imparare a correre deve imparare a camminare e secondo me è la stessa cosa con le parole, bisogna imparare a usarle con attenzione prima di parlare così liberamente come avviene sui social. Le parole possono essere i primi passi per delle cose orribili, nessuno di noi può sapere o prevedere in un diverbio come finirà la discussione, se invece uno iniziasse a pesare le parole già all’inizio di un possibile conflitto, molte cose non succederebbero. Oggi, purtroppo, devo dire che sono stato il primo ad usare violenza nelle parole, ma se io mi allontanavo o ci pensavo prima, mi sarei salvato e avrei evitato di fare del male. Quando uno non trova più le parole giuste, tende a reagire e così nasce la violenza che dalle parole può degenerare nei fatti. Io poi ho notato che anche in carcere si usano tante parole violente, sarà perché uno non è lucido, è arrabbiato, ma purtroppo si vive assieme in una convivenza forzata e quindi non puoi fuggire, ti incontri, ti rivedi, le cose ti vengono ripetute e puoi cadere nella provocazione. Tante volte poi da una battuta scherzosa può nascere un conflitto, quindi bisognerebbe stare attenti anche al modo di scherzare. Agostino: Secondo me da quando hanno preso il via questi social dove uno può esprimere le proprie idee pubblicamente, è cambiato molto nei rapporti tra le persone, il fatto di stare sui social è spesso solo un modo per apparire, per dimostrare di essere più grande dell’altro, e magari invece è una persona minuscola quella che fa commenti violenti. Da quello che vedo, sono venuti a mancare due valori, il rispetto delle regole e i valori che sono dentro a una famiglia. Se un ragazzo pensa solo ad apparire mette in secondo piano questi valori. Questo mondo dei social è difficile da fermare perché le persone si rappresentano là per quello che sono, senza mediare, senza porsi dei limiti, non c’è più uno scambio dal vivo che ti permette di metterti in gioco di fronte alla persona. Uno alle spalle può dire quello che vuole e anche a distanza può dire quello che vuole, c’è una forma di impunità. Questo è un fenomeno che va avanti da 20 anni e limitarlo è molto difficile perché ormai le generazioni dei ragazzi sono abituate a parlare in questo modo. Una volta ti tiravano le orecchie, ma sui social come fai a seguire e riprendere un figlio che si esprime violentemente? Angelo: Io sono da 24 anni in carcere e questi social non so neanche cosa siano, ne ho solo sentito parlare, però ascoltando capisco che queste persone che navigano in rete non hanno un limite, scrivono quello che vogliono e senza farsi vedere. Mi viene in mente che da piccolino quando andavo alla domenica a divertirmi in paese, i miei genitori mi imponevano dei limiti nei comportamenti. Oggi sembra che tanti genitori non diano un limite ai propri figli, sembra che gli danno un telefonino dicendogli “fai quello che vuoi”, quindi i ragazzi spesso non sono controllati. Capisco che tanti giovani non parlano dal vivo, faccia a faccia, forse perché si vergognano o sono timidi, però non sono timidi a scrivere sul web parole violente. Ma anche quando ero giovane io c’era sempre nel gruppo di amici chi era più forte ed esprimeva la sua violenza con i gesti o le parole. È comunque complicato capire questo sistema dei social, perché noi siamo estranei a tutto questo, sono tanti anni che siamo in carcere, tagliati fuori dalla vita. Tommaso: Nel paese dove sono cresciuto io, in Calabria, non c’era violenza con la parola perché la gente sapeva che una parola fuori posto poteva costare cara. Si dice che il silenzio è oro e le parole sono piombo, questo perché le parole possono portare il piombo nella realtà dove ho vissuto io. In carcere invece c’è spesso violenza verbale, si tende a dire molte cose che fuori non avresti detto. Paradossalmente fuori ero in un contesto molto violento ma non c’era violenza verbale. In carcere se ne approfittano perché uno vuole evitare di rispondere e di esporsi per non passare guai peggiori, però molte volte uno dimentica uno schiaffo ma non dimentica una parola. Oggi, dalla tv, vedo che si fa molto uso dei social e a me i social sembrano chiusi come un ambiente carcerario, perché nei social non c’è nessuna forma di confronto, ti arrivano subito gli insulti e non è che chi te li fa ce l’hai di fronte, e quindi può agire senza chr gli succeda niente neanche a livello di denuncia. C’è una cosa poi su cui posso parlare per esperienza, purtroppo i nostri figli hanno subito dei pregiudizi perché sono il figlio o la figlia di… e questa è una violenza verbale pesante, capita che magari vengono accusati di avere un buon lavoro solo perché sono “figli di”, come se i nostri figli non potessero avere fortuna nella vita. Una volta mio nipote, che ha avuto successo nella sua attività, mi disse: “Zio, un calabrese nel mondo al primo impatto all’estero si trova definito ‘mafioso’, se poi questo calabrese ha anche avuto successo nel lavoro allora viene definito il capo della mafia”. Questi sono pregiudizi, sono parole violente, ripeto: perché un figlio di un detenuto non può avere successo nella vita normale? Come violenza verbale conosco questa, l’ho ascoltata dalle parole di mia figlia, dei nostri figli e parenti. Carceri a rischio sovraffollamento, capienza in deficit di 8mila posti di Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2018 Le carceri italiane sono sempre più affollate e il divario fra presenze e posti disponibili si allarga. Dopo quattro anni di crescita ininterrotta il numero di detenuti ha ormai oltrepassato le 58.500 unità (dati ministero della Giustizia al 31 maggio scorso) e si avvicina pericolosamente alla soglia dei 60mila, non più superata dal 2013, anno della sentenza “Torreggiani” con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) condannò l’Italia per i “trattamenti inumani e degradanti” causati dal sovraffollamento carcerario. Ad allargarsi è anche la forbice fra numero di detenuti e capienza regolamentare (9 metri quadrati ciascuno): il divario ha raggiunto infatti gli 8mila posti, praticamente il triplo del minimo (2.572) registrato nel 2015. Le cause - Nel 2015, anche grazie agli interventi adottati dopo la condanna della Cedu, si toccò il limite minimo di 52.164 detenuti. Dopodiché le presenze hanno ricominciato a salire facendo segnare un aumento del 13% in tre anni. Le ragioni sono diverse: dal 2015 hanno ripreso ad aumentare (dopo sette anni) gli ingressi in carcere dallo stato di libertà, saliti in particolar modo nel 2016 (+5% nel biennio 2015-2017). Ad aver inciso è inoltre la riduzione delle uscite anche per il venir meno da gennaio 2016, della “liberazione anticipata speciale”, una misura svuota-carceri (Dl 146/2013) che aveva esteso da 45 a 75 giorni per semestre lo sconto di pena per chi partecipava a interventi di rieducazione. Alla base dell’incremento dei detenuti non c’è invece la presenza di stranieri, che è anzi scesa dal 37% del 2010 all’attuale 34 per cento. Misure alternative e lavoro in carcere - Nonostante le difficoltà, il ricorso alle misure alternative è comunque cresciuto e in otto anni il numero di chi sconta la pena al di fuori delle mura carcerarie è più che triplicato. Il merito è soprattutto dell’istituto della messa alla prova, introdotto nel 2014 e oggi utilizzato da oltre 13 mila persone, contro le 6557 del 2015. Nato nel processo minorile, questo strumento permette agli adulti che hanno commesso reati minori e ne fanno richiesta di evitare il processo e cancellare il reato, se svolgono svolgere attività e condotte riparative. “Le misure alternative potrebbero essere ancor più utilizzate - spiega Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti - ma la sempre più debole composizione sociale dei detenuti (spesso senza fissa dimora) ne limita il ricorso: in carcere oggi ci sono 8.198 persone con una pena residua inferiore a un anno. E questo nel 2017 ha pesato”. In crescita il numero di detenuti che svolge un’attività lavorativa, che resta comunque ben al di sotto del 50%. A fine 2017 erano 18.404 (il 32%), in gran parte alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (soprattutto per lavori domestici) ma anche di imprese e cooperative che gestiscono lavorazioni all’interno elle strutture detentive. Carceri, risparmio per lo stato potenziando le misure alternative di Claudia Morelli Italia Oggi, 18 giugno 2018 Giorgio Pieri (Comunità Papa Giovanni XXIII): “serve la certezza del recupero”. Potenziare il ricorso alle misure alternative al carcere non significa solo limitare la recidiva criminosa. Ma sarebbe fonte di risparmio per le casse statali, calcolato in circa 570 mila euro all’anno. I calcoli, percentuali e dati alla mano, sono stati effettuati dalla Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, una tra quelle che si occupano “degli ultimi” e che guardano alla riforma dell’ordinamento penitenziario come ad una occasione per rendere certo il recupero dei detenuti. “La certezza della pena è nella certezza del recupero. Sappiamo che chi vive in carcere, una volta fuori delinque di più”, spiega Giorgio Pieri responsabile del progetto Comunità educante con i carcerati, che ha permesso fino ad oggi a 290 carcerati di seguire percorsi personalizzati di recupero in cinque comunità. “Contiamo su un percorso sinergico tra operatori, volontari e carcerati e finora i nostri dati ci dicono che su 100 detenuti da noi presi in carico, appena 15 sono tornati a delinquere. Il nostro percorso Siamo fermamente convinti che ove inserito in un percorso volto alla sua comprensione dei propri bachi, anche relazionali, il detenuto possa riscattarsi per sempre. E d’altra parte, questo è provato dai dati”. Chi sconta la pena interamente in carcere torna a delinquere nel 68% contro il 19% di coloro che sono ammessi alle misure alternative. Il decreto delegato mancante della riforma del sistema penale (103/2017) cambia radicalmente la “filosofia” dell’ordinamento penitenziario mettendo al centro i percorsi personalizzati di recupero dei carcerati, innalzando da 3 a 4 anni il limite di pena per poter accedere alle misure alternative e scardinando il sistema delle preclusioni automatiche. Nell’ottica di favorire ogni percorso alternativo e di rieducazione del detenuto, lo schema di decreto si occupa anche delle comunità di recupero dando loro uno statuto e un sostegno economico. Una sorta di riconoscimento giuridico, come già avviene per le comunità che si occupando dei tossicodipendenti, in modo che la loro “osservazione “ e il comportamento del detenuto tenuto presso queste strutture possa valere nella decisione finale del giudice. Attualmente la decisione di ammettere o meno il detenuto ad una misura alternativa viene effettuata dal giudice sulla base della relazione presentata dall’educatore e basata sulla osservazione in carcere che. A seconda della gravità dei reati, può arrivare anche a due anni. I dati aggiornati al 31 maggio 2018. Conoscere e saper leggere i fenomeni attraverso i dati è fondamentale, anche per dare risposte corrette alla richiesta legittima da parte dei cittadini di sentirsi sicuri e di poter fare affidamento sulla certezza della pena pur se nell’ottica di una sua funzione rieducativa. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, aggiornati al 31 maggio scorso, attualmente i detenuti sono 58mila569, di cui circa 10mila in attesa di giudizio e altre 10mila condannati ma non in via definitiva; la capienza massima delle carceri è di 50.615. Ben 52 mila sono ammessi già oggi in misure alternative. Chiediamo dunque a Pieri cosa cambierebbe se il Governo Conte rimanesse dell’avviso di non dare corso allo schema di decreto delegato, visto che già oggi una così grande porzione di detenuti è in regime alternativo. “Di questi solo 15mila900 sono coloro che sono in affidamento ai servizi sociali o perché in comunità terapeutiche o in comunità oppure sotto la vigilanza di assistenti sociali se possono vantare una casa di proprietà e un lavoro. Gli altri 30 mila, di cui 10 mila in detenzione domiciliare per effetto della legge 199/2010, non si può dire che seguano un percorso educativo di recupero perché non possono essere seguiti tutti dall’Uepe (Uffici esecuzione penale esterna). E poi alla fi ne in carcere rimangono veramente “gli ultimi”, che non hanno una residenza, una casa, un permesso di soggiorno e sono il 38%”. Per Pieri non si tratta di prevede forme sostitutive del carcere in quanto tale, ma di lavorare in sinergia pubblico-privato per garantire una certezza della pena che risiede a suo avviso - nel recupero definitivo della persona. C’è poi il profilo economico. “Abbiamo consegnato alla camera i nostri calcoli: attualmente ciascun detenuto costa tra i 150 e i 200 euro al giorno. Con una retta di 35 euro invece potrebbero rendersi disponibili già 10 mila posti in comunità, con un risparmio di 577 mila euro al giorno”. Alla domanda se il mondo delle comunità ha già chiesto un incontro con il guardasigilli Alfonso Bonafede, Pieri risponde. “Abbiamo inviato auguri di buon lavoro e ora chiederemo di incontrarlo”. Chissà. Consulta: viaggio nelle carceri per spiegare cos’è la Carta, si comincia da Rebibbia Italia Oggi, 18 giugno 2018 L’iniziativa, che fa seguito al tour nelle scuole appena concluso, al via in ottobre. Dopo il tour nelle scuole di tutta Italia, a partire dal prossimo ottobre, i giudici costituzionali saranno in viaggio nelle carceri del Paese. L’8 maggio scorso, infatti, la Corte costituzionale ha deliberato di estendere il “Viaggio in Italia” (appena concluso nelle scuole, ma che proseguirà l’anno prossimo) ad altre realtà sociali, partendo dal carcere. Per la realizzazione del progetto, la Consulta si avvarrà della collaborazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, del Dipartimento della giustizia minorile, del Garante nazionale dei detenuti e del professor Marco Ruotolo, prorettore per i rapporti con scuole, società e istituzioni presso l’Università Roma Tre nonché direttore del master in Diritto penitenziario e Costituzione. Il viaggio, già da un mese in fase di pianificazione, comincerà a ottobre 2018 nel carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso. Per consentire la più ampia partecipazione, l’incontro sarà visibile in diretta streaming sia sul sito della Corte costituzionale sia in tutte le carceri attrezzate. Per la documentazione delle altre tappe, spiega Palazzo della Consulta, è in corso di definizione anche una collaborazione con Rai e Rai-cinema. In vista degli incontri con i detenuti, aperti alla stampa, a studenti esterni e a cittadini liberi, la Corte consegnerà agli istituti penitenziari coinvolti nel progetto un numero di copie dell’opuscolo “Che cos’è la Corte costituzionale” corrispondente al numero dei partecipanti. Come per il viaggio nelle scuole, anche quello nelle carceri “risponde alla volontà della Corte di aprire sempre di più l’istituzione alla società e di incontrare, anche fisicamente, il Paese reale per confrontarsi e dialogare al fine di consolidare la cultura e il sentire comune costituzionale”, spiega una nota della Consulta, sottolineando che con la scelta del carcere la Corte “intende anche testimoniare che la “cittadinanza costituzionale” non conosce muri perché la Costituzione appartiene a tutti”. La doppia truffa del garantismo di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 18 giugno 2018 I garantisti veri sono davvero un’esigua minoranza. Almeno un tempo c’erano i Radicali, ma ciò che resta di loro si è tristemente adeguato al clima di ipocrisia. Siamo in pieno cambio di stagione. E infatti l’inchiesta giudiziaria di Roma riguarda sì uno stadio, ma anche le tifoserie che in quello stadio hanno goffamente e ridicolmente cambiato curva: i giustizialisti e i forcaioli, le cui forze politiche sono (prevalentemente) coinvolte nelle indagini, hanno occupato disperati la curva garantista; i garantisti, che godono per il (prevalente) coinvolgimento dei nemici, hanno rapidamente smesso l’abito garantista che avevano indossato quando a gemere sotto il torchio giudiziario erano i loro amici e sodali e invadono festosi la curva giustizialista momentaneamente disertata negli anni scorsi. Eccoli, i fieri forcaioli di ieri del Movimento 5 Stelle, che invocano (finalmente) la presunzione di innocenza, che deprecano (finalmente) la condanna mediatica che precede quella giudiziaria: hanno scoperto persino le lamentazioni sulla “giustizia ad orologeria”. Ed eccoli, i portabandiera del garantismo (si fa per dire) prima berlusconiano e poi renziano che sghignazzano soddisfatti per il trattamento riservato ai grillini che li avevano messi in croce. Dimostrazione doppiamente esplicita che in Italia il garantismo, la difesa dello Stato di diritto, le garanzie per chi è indagato, la presunzione d’innocenza sancita dalla Costituzione valgono solo per gli amici e i sodali, per i “compagnucci della parrocchietta”, e non valgono più, spariscono, accompagnati da strizzatine d’occhio, quando ad essere messi sotto accusa sono gli altri, soprattutto quelli della curva giustizialista, ora neo-garantista. I garantisti sono davvero un’esigua minoranza, e almeno un tempo c’erano i Radicali, ma ciò che resta di loro si è tristemente adeguato al clima di ipocrisia, ai princìpi della doppia morale: indulgente per noi, severa e inquisitoria con gli altri. Ma questo clima di ipocrisia è davvero la fossa in cui sono gettate cose serissime come lo Stato di diritto. Il trionfo della doppia morale ha screditato battaglie che sembravano epiche, ma che erano solo pretesti per salvare se stessi o il proprio partito. Anni di scontri incandescenti tra garantisti e giustizialisti svaniscono nel grottesco del cambio di curve e di stagione. Tutti pronti per la prossima puntata, quando si assisterà all’ennesimo rovesciamento di ruoli. Come allo stadio, quello che non si riesce nemmeno a costruire. Il buonismo è finito. Ma il cattivismo di Salvini è meglio? di Antonio Polito Corriere della Sera, 18 giugno 2018 Il cattivismo è un disturbo bipolare della politica, perché divide il mondo in amici e nemici, e inibisce la capacità di includere, che è poi il fine ultimo della democrazia. Ecco come rimettere al centro il bene comune. Il buonismo ha stufato gli italiani perché ha fallito, e Matteo Salvini è stato tra i primi a capirlo. La maggioranza dei cittadini, compresi molti che non l’hanno votato, gli riconosce l’energia e la decisione che ha messo nel suo lavoro, e la capacità di dare la sveglia a un’Europa dominata dagli egoismi. Ma il cattivismo è un disturbo bipolare della politica, perché divide il mondo in amici e nemici, e inibisce la capacità di includere, che è poi il fine ultimo della democrazia. Non può essere dunque la cifra del ministro dell’Interno: ruolo in cui di solito ci si distacca dalla partigianeria politica per trasformarsi nel garante istituzionale del più delicato dei beni comuni: la sicurezza. Il buonismo pretendeva di combattere il traffico degli esseri umani lasciando passare gli esseri umani, che è un po’ come voler combattere il contrabbando dando una mano ai contrabbandieri. Ma il cattivismo trascura gli esseri umani, oppure lascia intendere che siano complici e non vittime del traffico; e dunque li descrive in “crociera” nel Mediterraneo, pronti a godersi la “pacchia” una volta sbarcati. Gli arrivi - Il buonismo ha detto per anni che gli arrivi dei clandestini erano ineluttabili, e dunque dovevamo rassegnarci, e che alla lunga ci avrebbero anche giovato, culturalmente ed economicamente; confondendo lo choc culturale provocato dalle migrazioni con il cosmopolitismo o il melting pot. Ma il cattivismo vuol farci credere che si tratti di un’”invasione”, forse organizzata dai terroristi islamici, da contrastare dunque con mezzi militari come i blocchi navali, o meccanici come le ruspe. Il cattivista agisce su una logica binaria, in cui c’è solo casa loro, dove devono restare, e casa nostra, dove non devono arrivare. In mezzo, il mare. Il bianco e il nero - Il cattivismo, come tutti gli “ismi”, è manicheo e daltonico: vede solo il bianco e il nero, e gli sfuggono le cinquanta sfumature di grigio di cui è fatta la realtà. Non riesce a vedere, sotto la superficie degli eventi, l’aspetto tragico della vita, che spesso mette in conflitto tra di loro due innocenti, rendendoli entrambi vittime. L’altro giorno Salvini è andato in ospedale a Genova a trovare il poliziotto ferito da un giovane che stava dando in escandescenze, e perciò doveva essere fermato per un trattamento sanitario obbligatorio. Il ministro ha fatto bene. Un buonista non l’avrebbe fatto perché un collega di quell’agente, per difenderlo, ha sparato sei volte contro l’aggressore, uccidendolo. Ma un cattivista non si limita alla solidarietà: ricorda alla madre del morto che “se suo figlio non avesse accoltellato un uomo sarebbe ancora vivo”. Come se non fosse anche lui, quel ragazzo, la vittima di un atroce fato, dello smarrimento della capacità di intendere che lo ha reso così debole da aver bisogno, per l’appunto, dell’aiuto dello Stato. Sì, perché garantire l’ordine pubblico non è sempre giocare a guardie e ladri. E ben lo sanno gli agenti di polizia e i carabinieri che ogni giorno e ogni notte, come in un ospedale da campo, soccorrono per le strade delle nostre città malati, sconfitti e peccatori di ogni colore e nazionalità. L’idea ingenua - Il buonista ha un’idea ingenua degli uomini: pensa con Rousseau che nascano tutti buoni e che sia la società (e i politici) a corromperli. Ma il cattivista è un pessimista di natura, crede come Hobbes che nello stato di natura la vita degli esseri umani sia destinata ad essere “solitaria, cattiva, brutale e breve”, e che per questo, per prevenire la guerra di tutti contro tutti, ci voglia un moderno gigante, un Leviatano dotato di poteri assoluti, un Dio in Terra che ci protegga (tra parentesi: come stiano insieme al governo Rousseau e Hobbes, e soprattutto dove sia finito Locke, è un mistero glorioso). L’hashtag - Il cattivista esce di casa la mattina armato di un nodoso bastone e va sui social a cercare qualcuno con cui azzuffarsi (il Cattivissimo-Me-in-Chief si chiama Trump). Ha anche inventato un hashtag, #iostocon, che ognuno poi può completare seguendo la linea tratteggiata: #iostoconledivise,#iostoconSalvini, #iostoconZuccaro, #iostoconMeloni. Uno slogan che propone di saltare il “dibbbattito”, fatto di verifiche, chiari e scuri, controlli e dati, e di andare al dunque, schierandosi a prescindere. Il che è l’opposto del dibattito pubblico informato in una società liberale. Gli altri - Il cattivista incattivisce gli altri. Mentre il problema nelle società complesse è cercare la coesione, conciliare interessi e aspirazioni diverse e talvolta opposte, il cattivista produce altri cattivi. Talvolta sembrano alleati, come il ministro degli Interni tedesco Seehofer che, pensandola come Salvini, vorrebbe respingere in massa alle frontiere della Germania gli immigrati passati per l’Italia. Talvolta sono veri e propri nemici, buonisti cattivissimi, che danno a Salvini del razzista, del fascista, o mettono addirittura in dubbio la sua appartenenza al genere umano. La trasformazione - Nessuno può pensare di trasformare un cattivista in un buonista, non sarebbe nemmeno utile. Ma estirpare il cattivismo dal nostro dibattito pubblico, rimettere al centro la modestia del bene comune, risuscitare quella misericordia cui abbiamo appena dedicato un giubileo, è qualcosa che forse si può chiedere anche a un cattivista. Soprattutto se ora fa il ministro di tutti noi, buoni compresi. “Carcere ai corrotti”. Il ministro della Giustizia Bonafede rompe il silenzio Huffington Post, 18 giugno 2018 Intervento sul blog delle Stelle. Il suo nome è stato tirato in ballo da Raggi, Lombardi e altri come decisivo per il legame fra Luca Lanzalone, M5S e Roma. A lui viene infatti imputato il legame fra i 5 Stelle, il Campidoglio e Luca Lanzalone, arrestato dai pm di Roma. Bonafede ha fatto trapelare ieri la sua “forte irritazione” per essere stato presentato come l’uomo che costrinse la Raggi ad accettare Lanzalone, ha promesso eventuali querele e, pur non entrando nel merito dell’inchiesta - anche per la sua posizione di Guardasigilli - si è limitato a prendersela con il “tritacarne” mediatico. Bonafede, in realtà, è stato tirato in ballo dai suoi stessi compagni di partito: dalla sindaca di Roma Virginia Raggi e ancora oggi da Roberta Lombardi sulle pagine del Messaggero lo “invita a chiarire, a fugare i dubbi”, sottolineando però che “non c’è niente di illecito e strano a presentare un manager che si pensa essere capace e che ha ben lavorato”. Il Guardasigilli sceglie il blog delle Stelle per affrontare il tema della giustizia: “La certezza della pena non è incompatibile con la finalità rieducativa della pena stessa. Sono due principi che necessariamente e fisiologicamente convivono, ma il principio della certezza della pena, va ribadito e va tenuto presente per dare una risposta di credibilità ai cittadini e non a una presunta opinione pubblica, perché i cittadini quella risposta oggi ce la chiedono e da quella risposta passa la fiducia che i cittadini hanno nei confronti dello Stato italiano nella sua capacità di dare una risposta di giustizia effettiva e sostanziale”. Il Guardasigilli si sofferma poi in particolare sulla lotta alla corruzione: “I cittadini oggi si aspettano una risposta molto chiara e precisa nella lotta alla corruzione. Proprio ieri ho avuto il piacere di partecipare alla presentazione della relazione annuale dell’Anac. La prevenzione ed il contrasto alla corruzione è uno dei punti qualificanti del programma di governo e, come Ministro della Giustizia, intendo mettere in campo le misure più risolute per stroncare questo fenomeno. Ben conscio che nessuna lotta al malaffare potrà dirsi credibile se alla condanna per i reati contro la P.A. dei c.d colletti bianchi, non seguirà un’adeguata o alcuna pena detentiva. Ricordo che attualmente - il dato è aggiornato al 31 dicembre 2017 - il numero di questi detenuti è oggi di 370, lo 0,6% del totale. Il mio impegno sarà quindi quello di creare condizioni di piena dignità della detenzione, rispondenti alle prescrizioni europee ed internazionali, sia in termini di aumento della capienza dei posti disponibili sia in termini di razionalizzazione complessiva delle strutture carcerarie”. Infine, un passaggio sul drammatico bilancio dei suicidi in carcere: “Esiste un Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie che dovrà essere potenziato. In uno Stato di diritto non è accettabile che un detenuto preferisca la morte alla detenzione”. Whistleblowing. Chi denuncia è più tutelato dell’accusato Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2018 La legge sul whistleblowing ha un’impostazione fortemente “protettiva” nei confronti di chi segnali reati o irregolarità di cui sia venuto a conoscenza nell’ambito del rapporto di lavoro. L’intento è rimuovere il timore di subire conseguenze negative in seguito alla segnalazione, incentivando le denunce di episodi di malaffare dei quali i lavoratori vengano a conoscenza. L’obiettivo è perseguito attraverso due diverse previsioni. La prima è la prescrizione che i modelli organizzativi prevedano il divieto di atti ritorsivi nei confronti del segnalante, accompagnato dalla codificazione di sanzioni disciplinari per chi lo viola. Prescrizione rafforzata dalla possibilità di denunciare eventuali misure discriminatorie all’Ispettorato nazionale del lavoro, riconosciuta, oltre che al segnalante, anche alle organizzazioni sindacali indicate dallo stesso. La seconda consiste nella sanzione di nullità di tutti gli atti ritorsivi o discriminatori, dal licenziamento alle sanzioni disciplinari, al mutamento di mansioni, al trasferimento, a ogni “misura organizzativa avente effetti negativi”. In caso di controversia, sarà il datore di lavoro a dover dimostrare che i provvedimenti adottati sono fondati su ragioni estranee alla segnalazione. È un sistema di tutela particolarmente “pesante”. C’è peraltro una sproporzione tra le garanzie previste per il segnalante e quelle a favore di chi sia ingiustamente accusato. Le denunce infondate sono sanzionate disciplinarmente solo se effettuate con dolo o colpa grave, concetti complessi da declinare nel caso concreto e, soprattutto, da dimostrare. Inoltre, la nullità sino a prova contraria di tutti gli atti che siano di pregiudizio al segnalante può portare a situazioni paradossali, considerato che chi commette questi atti, nella maggior parte dei casi, potrebbe non essere nemmeno a conoscenza del fatto che il destinatario è autore di una segnalazione. Il legislatore non ha previsto alcuna limitazione temporale per la nullità. Basta che l’atto sia successivo alla segnalazione, con la conseguenza che, anche dopo anni dalla presentazione di una denuncia, il dipendente potrebbe lamentare la nullità di un licenziamento o di una qualsiasi altra modifica organizzativa con un impatto negativo, anche indiretto, sulle sue condizioni di lavoro. Senza che neppure gli sia richiesto di fornire almeno un principio di prova dell’intento ritorsivo, come invece è previsto per altre forme di discriminazione. Sono peraltro compresi tra gli atti nulli anche ordinari provvedimenti di gestione, come cambiamenti di mansioni, avanzamenti di carriera o valutazioni di merito, che non richiedono normalmente alcuna giustificazione. La severità del sistema di tutela del denunciante comporta, per le aziende, la necessità di delimitare nei modelli organizzativi e nelle procedure di gestione delle segnalazioni, l’ambito di applicazione della normativa, escludendo le denunce anonime, peraltro poco compatibili con la normativa, che protegge la riservatezza dell’identità del segnalante, non l’anonimato. È opportuno poi limitare l’uso dei canali di segnalazione alla denuncia di condotte illecite rilevanti in base al Dlgs 231/2001 o di violazioni del modello organizzativo. Misteri italiani e “poteri occulti” di Stefania Limiti La Repubblica, 18 giugno 2018 Si incontra spesso l’espressione “poteri occulti”, Bobbio li chiamava poteri invisibili. Nel discorso pubblico, infatti, quando ci si affanna a raccontare le trame che hanno attraversato la storia del nostro Paese, non avendo quasi mai, purtroppo, un finale adatto al bisogno di comprensione e di giustizia, di frequente si fa riferimento ai “poteri occulti”. Come spiegare questa categoria politica drammaticamente, diremmo fatalmente, adatta al caso italiano? Già, perché certe volte sembra che si voglia trovare una chiave buona per tutte le storie, affascinando l’ascoltatore, incuriosito da un concetto tanto prepotente quanto inafferrabile. Come se, ad esempio, raccontando la strage di Capaci, si voglia dirottare l’attenzione del lettore parlando di quei pochi granuli di pentrite, la punta di un cucchiaino di zucchero, riscontrati nella prima perizia dell’FBI, l’ente americano che ancora oggi ci chiediamo cosa abbia fatto per capire la natura di quella strage. Ma quella perizia la fece. E la pentrite certificò che c’era. Chi la mise? Non lo sappiamo ma possiamo dire con ragionevole certezza, oltre ogni ragionevole dubbio, che non furono gli uomini di Totò Riina. Se vogliamo ricordare quel 19 luglio del 1993, a Palermo, come possiamo spiegare che, pochi giorni prima, nel garage di Palermo dove gli uomini dei Graviano riempiono di esplosivo la piccola auto allestita per il grande botto, c’è un uomo che il boss Gaspare Spatuzza non conosce? Uno che è fuori dal giro delle famiglie, uno che non può descrivere, si dice non in grado, perché, guarda la coincidenza, in quel momento guardava in basso, aveva lo sguardo in giù. “Mi dispiace, non so chi fosse”. Ha parlato, ha detto tanto Gaspare, si è pentito pure di fronte al suo Dio ma niente, quel volto proprio non può ricordarlo. Del resto, proprio lui, si fece una risata quando sentì parlare di una donna nel commando della strage che colpì Milano, quel 27 luglio che l’Italia passò sotto le bombe, quelle che si mangiarono la prima Repubblica. Solo che ha poco da ridere Spatuzza, perché lui a Milano quella sera non c’era, che può saperne lui? E una donna che va a mettere bombe può star bene nei manuali della Guerra Fredda ma non in quelli di Cosa nostra. Potremmo proseguire, la lista è lunghissima. Per questo può essere utile circoscrivere il tema dei “poteri occulti”, nel tentativo di dargli concretezza, di sfilargli l’aura della inafferrabilità. Perché, sfuggente, quell’espressione è ricorrente e, ahinoi, essenziale per comprendere il nostro Paese. Anche la più prudente valutazione storica, ormai, dovrà tenerne conto nella descrizione delle faccende italiane, a meno di non scivolare nella reticenza, con il rischio di una grave perdita di dati di realtà. Perché i poteri occulti hanno modificato, fino ad alterarla profondamente, l’agenda politica del nostro Paese. Si leggono spesso articoli importanti, soprattutto sulle pagine del Corriere della sera, con titoli decisi: Demagogia da sfatare, oppure Processo (infinito) allo Stato. Ci si spiega che i misteri, a ben guardare, hanno sempre una storia semplice che li precede, oppure che sono stati allevati da una perversa passione. Che non si può processare lo Stato, almeno senza fare nome cognomi, perché senno di finisce a parlare troppo genericamente di “entità”. Come se lo Stato fosse una persona precisa, come nel Ventennio. O come se i meccanismi perversi della destabilizzazione consentissero ancora oggi una chiara ricostruzione in sede giudiziaria o storica (se gli storici si affidano solo fonti ufficiali come possono raccontarci la Guerra Fredda?) di quel che ha attraversato un paese frontiera, uno Stato lacerato tra una costituzione materiale, che ci poneva ferreamente dentro l’Alleanza Atlantica, membro essenziale, e una costituzione formale che dettava regole perfette, giusto tributo alla Resistenza e ai suoi protagonisti. E ancora. Gli eventi criminali sono stati pianificati insieme a strategie di disinformazione che hanno reso impossibile nell’immediatezza degli eventi la ricomposizione del quadro di realtà, o perché alcuni elementi investigativi non venivano adeguatamente cercati, se non addirittura cancellati. Cioè, a causa di una grande operazione di depistaggio e disinformazione che simbolicamente può essere rappresentata da tre fatti: l’occultamento della verità sulla morte del bandito Salvatore Giuliano (1950), la scelta investigativa fatta dalla Procura di Milano di non seguire la pista dei neofascisti veneti, individuata dal commissario padovano Pasquale Juliano, dopo la strage di Piazza Fontana (1969), la costruzione del falso pentito Scarantino che ha imposto per anni una verità “surrogata” sulla strage di via D’Amelio (1992). Non è un caso se questo Paese, patria dei depistaggi, solo nel 2017 si è dotato di una legge che punisce duramente i pubblici ufficiali che li attuano - secondo alcuni la norma è troppo blanda ma oggi c’è. La tematica dei poteri occulti, in un Paese che ha subito una brutale e lunga strategia della tensione - espressione coniata nel ‘69 ma poi diventata dannatamente attuale nelle vicende del nostro Paese - non può essere esiliata nell’inutile sfera del complottismo. I tre motivi essenziali per i quali essa ha trovato ‘perfetta’ cittadinanza nel nostro Paese sono noti: 1. la straordinaria forza delle mafie locali e dei gruppi massonici acquisita, sin dalla nascita del Regno, grazie al favore di una borghesia sciatta e parastatale che preferì l’alleanza con l’illegalità piuttosto che sposare le aspirazioni ai valori democratici; 2. la grande operazione di travaso degli uomini del regime fascista nei gangli nella nascente Repubblica, affinché fossero mitigati e sorvegliati gli animi più innovatori; 3. la ‘gemmazionè di strutture e organismi illegali figli della “guerra psicologica” attuata in Italia sin dall’immediato dopoguerra fuori da ogni forma di ufficialità, come prova la scarsità esistenza di documenti, e all’origine dell’abuso della politica segreta. È indispensabile, perciò, ragionare intorno a questo argomento che non appartiene ad una vicenda criminale complessa: essa è un segmento criminale della storia di questo Paese. Inoltre, la questione è sempre più attuale di fronte al prepotente dilagare di organismi non elettivi e non soggetti a forme di controllo democratico che ripropongono in modo drammatico e urgente il tema dei poteri invisibili e del danno irreparabile agli ingranaggi democratici. La corrispondenza tra avvocato e cliente è segreta di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2018 Corte europea dei diritti dell’uomo, affaire Laurent c. France. Il sequestro e l’apertura della corrispondenza tra cliente e avvocato, anche se avviene al di fuori dello studio legale, è una violazione dell’articolo 8 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza depositata il 24 maggio (Laurent contro Francia, ricorso n. 28798/13) con la quale Strasburgo ha accertato una violazione della Convenzione proprio per la violazione del diritto alla confidenzialità delle comunicazioni tra clienti e avvocati. Un privilegio - osserva la Corte - indispensabile a tutelare il diritto alla difesa in modo effettivo e che non può essere circoscritto solo al materiale custodito nello studio professionale. A rivolgersi a Strasburgo, un avvocato che aveva consegnato al suo cliente, sottoposto a una misura detentiva, al termine di un’udienza in tribunale, un foglio sul quale aveva scritto un appunto, poi sequestrato da un poliziotto presente in aula. I giudici nazionali avevano respinto tutti i ricorsi del legale che si è così rivolto alla Corte europea, che gli ha dato ragione. Strasburgo, infatti, ha stabilito che un foglio sul quale un avvocato scrive un messaggio, che consegna al suo cliente al termine di un’udienza, è protetto dall’articolo 8 e, quindi, l’acquisizione del documento è un’ingerenza nel diritto alla corrispondenza che spetta al legale, il quale gode di una protezione privilegiata. Poco importa il contenuto e la forma del documento perché, per Strasburgo, un’ingerenza di questo genere può essere ammessa solo in circostanze eccezionali, in presenza di un bisogno sociale imperativo e solo nei casi in cui si realizza un abuso del privilegio concesso per tutelare il rapporto cliente/avvocato. Stupefacenti: bilancino di precisione e modalità di occultamento fanno cadere la lieve entità di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2018 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 29 maggio 2018 n. 24092. In tema di stupefacenti, la fattispecie del fatto di lieve entità di cui all’articolo 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, anche all’esito della formulazione normativa introdotta dall’articolo 2 del decreto legge 146 del 2013 (convertito dalla legge n. 10 del 2014), può essere riconosciuta solo nella ipotesi di minima offensività penale della condotta, desumibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati espressamente dalla disposizione (mezzi, modalità e circostanze dell’azione), con la conseguenza che, ove uno degli indici previsti dalla legge risulti negativamente assorbente, ogni altra considerazione resta priva di incidenza sul giudizio. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 24092 del 2018. Nel caso specifico è stata ritenuta legittima l’esclusione dell’ipotesi attenuata attraverso la valorizzazione negativa del rilevante quantitativo della droga, del possesso di un bilancino di precisione utilizzabile per il confezionamento delle dosi, delle particolari modalità di occultamento della droga: circostanze considerate indicative di una pur minima organizzazione finalizzata allo spaccio di quantitativi non modesti di droga, tali da soddisfare un numero non esiguo di tossicodipendenti. È assunto pacifico quello secondo cui, in tema di sostanze stupefacenti, il fatto di lieve entità può essere riconosciuto solo in ipotesi di “minima offensività penale” della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla norma (mezzi, modalità e circostanze dell’azione), con la conseguenza che, ove venga meno anche uno soltanto degli indici previsti dalla legge, diviene irrilevante l’eventuale presenza degli altri (cfr. Sezioni unite, 21 giugno 2000, Primavera e altri; di recente, tra le tante, sezione IV, 8 giugno 2016, Agnesse). Ciò in quanto la finalità dell’ipotesi attenuata si ricollega al criterio di ragionevolezza derivante dall’articolo 3 della Costituzione, che impone - tanto al legislatore, quanto all’interprete - la proporzione tra la quantità e la qualità della pena e l’offensività del fatto. In proposito, dovendosi solo ricordare che nessuna conseguenza, sotto questo specifico profilo, deriva dal novum normativo introdotto dal decreto legge 23 dicembre 2013 n. 146, convertito dalla legge 21 febbraio 2014 n. 10, che ha trasformato l’ipotesi di cui al comma 5 dell’articolo 73 del decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 in fattispecie autonoma di reato (scelta normativa ribadita anche a seguito dell’ulteriore modifica introdotta dal decreto legge n. 36 del 2014, convertito dalla legge n. 79 del 2014), giacché i presupposti del reato sono rimasti gli stessi che potevano giustificare (o, per converso, negare) la concessione dell’attenuante (cfr. Sezione IV, 17 febbraio 2016, Silvestri). In questa ottica, la giurisprudenza della Cassazione ha sempre ribadito che nella “ricostruzione” della nuova fattispecie autonoma di reato sono utilizzabili gli stessi parametri che caratterizzavano la previgente previsione di circostanza attenuante. Il fatto di “lieve entità”, cioè, deve essere apprezzato considerando i mezzi, le modalità e le circostanze dell’azione nonché la qualità e quantità delle sostanze stupefacenti, riproponendo l’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza, che vale tuttora per cogliere il proprium anche della nuova fattispecie di reato. I principi cardine, in proposito, sono quelli della “valutazione congiunta” dei parametri normativi e della rilevanza ostativa anche di un solo parametro quando risulti “esorbitante” e cioè chiaramente dimostrativo della “non lievità” del fatto. La valutazione congiunta, infatti, consente di apprezzare, in modo equilibrato, il fatto in tutte le sue componenti, senza peraltro trascurare le connotazioni particolari che assumono, nel concreto, i singoli parametri di riferimento. Si chiude il caso Taricco: la prescrizione nei reati fiscali resta vincolata di Mattia Sibilia e Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2018 I termini di prescrizione dei reati tributari non possono essere interpretati retroattivamente, né modificati senza l’intervento di una norma riformatrice che però ha sempre applicabilità “ex nunc”, mai con lo sguardo rivolto al passato. Ciò in forza del principio di certezza del diritto e di determinatezza della pena ed in quanto la prescrizione penale è considerata diritto sostanziale e non processuale. Così ha stabilito la Corte costituzionale pronunciandosi sul caso Taricco con la sentenza n.115 del 10 aprile scorso. Ma andiamo con ordine. Possiamo definire caso Taricco la diatriba giuridica combattuta a suon di sentenze avvenuta dal 2015 ad oggi tra la Corte di giustizia dell’Unione europea e la Corte costituzionale relativamente alla disciplina italiana in materia di prescrizione con particolare riferimento alle regole di cui agli articoli 160 e 161 Codice penale che, a giudizio del giudice comunitario comporta una sorta di sistematica impunità nei reati aventi ad oggetto l’Iva, con evidente lesione degli interessi economici sia dell’Italia che anche e soprattutto dell’Unione europea stante la natura dell’imposta. Uno sguardo diacronico si ritiene doveroso per rivivere i passaggi di questo braccio di ferro tra l’ordinamento comunitario e quello interno italiano: alla luce dell’ultima pronuncia della Corte costituzionale (sentenza n. 115 del 10 aprile 2018) quest’ultimo sembra esserne uscito vittorioso. Come noto, con la sentenza Taricco del 8 settembre 2015 emessa dalla grande camera della Corte di giustizia dell’Unione europea il giudice comunitario chiedeva a quello italiano di disapplicare, nell’ambito dei reati fiscali aventi ad oggetto gravi frodi in materia di Iva, il disposto degli articoli 160 e 161 Codice penale per far rispettare gli obblighi sanciti dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2 del Tfue. Tale decisione, logicamente, suscitava numerose perplessità soprattutto in relazione ai principi cardine del nostro ordinamento costituzionale sulla scorta della teoria dei “controlimiti” con particolare riguardo al principio di legalità in materia penale. Perplessità applicative che inducevano la Corte di appello di Milano prima e la Corte di cassazione poi a sollecitare l’intervento della Consulta. In linea con le argomentazioni svolte nelle due ordinanze di rimessione, la Consulta riconosceva la concezione sostanziale dell’istituto della prescrizione all’interno dell’ordinamento giuridico italiano; concezione di cui la diretta conseguenza è la riconducibilità di tale istituto al principio di legalità e ai sui corollari (riserva di legge, tassatività e irretroattività). Ne consegue che trattandosi di norme di diritto penale sostanziale è necessario che le regole sulla prescrizione seguano il principio di determinatezza della legge penale, quale principio irrinunciabile del nostro diritto penale costituzionale. Come anticipato, il dibattito non si arrestava con la prima ordinanza della Corte costituzionale, infatti con la sentenza del 5 dicembre 2017 la Corte di giustizia Ue (cosiddetta Taricco-bis) ribadiva l’interpretazione dell’articolo 325 Tfue (si ricorda che tale norma prevede per gli Stati membri l’impegno di “lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione con misure dissuasive ed effettive”) svolta nella sentenza Taricco. Più specificamente, per superare le argomentazioni della Corte costituzionale italiana il giudice comunitario affermava che il contrasto del diritto nazionale con l’articolo 325 Tfue non può determinare la disapplicazione del diritto interno se questa disapplicazione comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene, andando poi a imporre con vigore tuttavia al giudice nazionale di “disapplicare le disposizioni interne sulla prescrizione” che siano in contrasto con l’articolo 325 Tfue. In altri termini la disapplicazione delle norme in materia di prescrizione non era più eventuale e rimessa alla discrezionalità del giudice interno ma poteva comunque essere effettuata solo nel rispetto del principio di legalità. Proprio sul principio di legalità e sulla determinatezza della norma penale, come abbiamo già visto, si è incentrata la recentissima pronuncia della Corte costituzionale che con molta probabilità ha messo la parola fine all’annoso scontro tra l’ordinamento comunitario e quello nazionale relativamente all’istituto della prescrizione dei reati fiscali in materia di Iva. Sancita definitivamente l’inapplicabilità della “regola Taricco” nel nostro ordinamento, stante la forza e l’efficacia del principio di determinatezza in materia penale, così come affermato dalla recente pronuncia della Corte Costituzionale, si ritiene utile ricordare brevemente gli attuali e vigenti termini prescrizionali in materia penal-tributaria. Come noto, con l’articolo 2, comma 36 vicies semel, lettera l) del Dl 13 agosto 2011, n. 138, convertito nella legge 14 settembre 2011, n. 148 sono state apportate delle sostanziali modifiche al sistema penal-tributario nazionale, con riferimento specifico - per quello che qui ci riguarda - al regime prescrizionale di parte dei reati tributari previsti dal Dlgs 20 marzo 2000, n. 74. Infatti l’articolo 17, comma 1-bis, Dlgs 74/2000 fissa in otto anni (risultato dell’aumento di un terzo del termine ordinario di sei anni) il termine di prescrizione dei delitti previsti dagli articoli da 2 a 10 del medesimo decreto. Resta, invece, non riformato il termine di sei anni per la prescrizione dei delitti di cui agli articoli 10-bis (omesso versamento di ritenute dovute o certificate), 10-ter (omesso versamento Iva), 10-quater (indebita compensazione) e 11 (sottrazione fraudolente al pagamento di imposte) del decreto. Riassumendo e schematizzando l’attuale e vigente regime prescrizionale dei reati tributari previsti dal Dlgs 74/2000 il termine di prescrizione per i reati previsti dagli articoli da 2 a 10 è il seguente: Per i reati di cui agli articoli 2 (dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) 3 (dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici), 8 (emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) e 10 (occultamento o distruzione di documenti contabili) per i quali è disposta la pena massima edittale di anni 6 di reclusione, ai sensi del richiamato articolo 17 del decreto 74/2000 il termine di prescrizione è di 8 anni, elevato a 10 in caso di interruzione ai sensi dell’articolo 161 Codice penale e fino a un massimo di anni 13 in caso di sospensione ex articolo 159 Codice penale. Nonostante per i reati di cui all’art. 4 (dichiarazione infedele) e all’articolo 5 (omessa dichiarazione) sia disposta una pena massima edittale più lieve rispetto ai reati sopra elencati e rispettivamente di anni 3 e anni 4 di reclusione, assistiamo tuttavia allo stesso gravoso regime prescrizionale sopra evidenziato. Discorso diverso, invece, va fatto per i reati tributari esclusi dal regime speciale previsto dall’articolo 17 del Dlgs 74/2000. Infatti per i reati di cui agli articoli 10-bis, 10-ter, 10-quater e 11 i quali prevedono la pena massima edittale di anni 2 di reclusione ad esclusione dell’articolo 11 che prevede una pena massima edittale di anni 4 di reclusione, il termine di prescrizione è di 6 anni, elevato a 7 anni e mezzo in caso di interruzione ai sensi dell’articolo 161 Codice penale e fino a un massimo di anni 10 e mesi 6 in caso di sospensione ex articolo 159 Codice penale. Questi termini non potranno quindi mai più essere estesi retroattivamente, né per legge né per decisioni o interpretazioni giurisprudenziali, un loro prolungamento non potrà che essere effettuato che per le annualità di imposta correnti al momento dell’emanazione di una eventuale legge di riforma. Possibile utilizzare la Pec anche nella procedura di confisca di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2018 Corte di Cassazione, VI sezione penale, sentenza 21740/2018. È valida la notifica a mezzo posta elettronica certificata anche nel procedimento di prevenzione e per il terzo interessato che la riceve decorrono i termini ordinari di impugnazione dell’atto notificato. Il principio è stato fissato dalla VI sezione della Cassazione con la sentenza depositata il 16 maggio scorso. Il caso - Nei confronti di un soggetto ritenuto socialmente pericoloso il tribunale di Caltanissetta aveva disposto la confisca di alcuni immobili ritenuti nella sua disponibilità perché acquistati con somme di provenienza illecita. Il provvedimento era stato notificato a mezzo pec alle parti processuali e anche ad una società di leasing e factoring che aveva finanziato l’acquisto di un immobile mantenendone la proprietà. La società aveva proposto appello avverso il provvedimento di confisca lamentando il fatto che non si era tenuto conto della sua buona fede, ma la Corte di Appello lo aveva dichiarato inammissibile perché proposto tardivamente. Il termine per impugnare veniva fatto decorrere dal giorno in cui all’indirizzo pec della società era pervenuta la comunicazione del decreto. Contro questa decisione la società ricorreva in Cassazione e sosteneva che solo per le notifiche di cancelleria doveva considerarsi ammesso l’uso della pec, come previsto dall’articolo 16 del decreto legge 179 del 2012, convertito nella legge 221 del 2012. Il decreto di confisca era stata invece notificato dalla polizia giudiziaria e per questo non poteva valere a far decorrere il termine per l’appello. La Suprema corte - Ma la Cassazione ha ritenuto corretta la decisione dei giudici di merito. Riprendendo il testo dell’articolo 16 citato dai ricorrenti, la Cassazione ha spiegato che quella norma determina la sostituzione del precedente regime delle notificazioni con quello della notificazione telematica. E non è corretto interpretarlo nel senso che le comunicazioni telematiche sono a uso esclusivo delle cancellerie, visto che quella stessa disposizione espressamente estende la sua applicazione alle ipotesi di notifica del Pm a cura anche della polizia giudiziaria delegata richiamando l’articolo 151 del Cpp. I giudici di legittimità ricordano che il comma 9 lettera c-bis dello stesso articolo 16 del decreto legge 179 del 2012 prevede che, a decorrere dal 15 dicembre 2014, nei procedimenti dinanzi ai tribunali e alle corti di appello, possono essere eseguite a mezzo pec le notifiche anche a persone diverse dall’imputato. Inoltre nella circolare dell’11 dicembre 2014, sull’avvio del sistema di notificazioni e comunicazioni telematiche penali, il ministero della Giustizia fa proprio l’orientamento secondo il quale le procure della Repubblica e le procure generali presso le corti di appello rientrano tra gli uffici che possono esperire la notifica telematica anche nei procedimenti di prevenzione personale e/o patrimoniale. Infine, la Cassazione segnala che l’articolo 7 del Dlgs 159 del 2011 (il cosiddetto codice antimafia) prevede che le comunicazioni riguardanti le misure di prevenzione possano avvenire con le modalità previste dal Dlgs 82 del 2005, che all’articolo 6 prevede l’utilizzo della pec. E così la società di leasing che non ha tenuto conto della notifica a mezzo pec si è vista rigettare definitivamente il ricorso, subendo anche la condanna alle spese. Lombardia: a Milano e Monza nasce lo Sportello del Garante Il Giorno, 18 giugno 2018 I detenuti degli istituti penitenziari di Milano e Monza avranno la possibilità di presentare richieste o istanze rivolgendosi a una figura istituzionale di garanzia, che avrà a disposizione uno spazio all’interno del carcere. È il senso dell’iniziativa “Lo Sportello del Garante”, voluta dal Difensore regionale della Lombardia e dal Provveditorato all’Amministrazione penitenziaria. L’accordo ora diventato operativo - spiega una nota del Consiglio regionale lombardo - sarà presentato giovedì nel carcere di Opera. All’inaugurazione parteciperanno Carlo Lio, difensore regionale di Regione Lombardia regionale (che esercita per legge anche le funzioni di Garante dei detenuti), il provveditore dell’amministrazione penitenziaria Luigi Pagano e i rappresentanti degli istituti penitenziari di Milano San Vittore, Milano Bollate e Monza. Invitati i vertici istituzionali della Regione e dei Tribunali. Bari: i Radicali “il carcere è lasciato a se stesso, nessun raccordo tra gli enti locali” di Gianluigi De Vito Gazzetta del Mezzogiorno, 18 giugno 2018 Radicali Italiani: il Sindaco lo ignora, mai convocato l’osservatorio regionale per la sanità penitenziaria. È a un passo dal baratro. Lasciato a se stesso da Comune, Regione e Asl. Sarebbe già nell’abisso, se non fosse avvinghiato alle funi di chi vi lavora. Quel luogo orrendo che si chiama carcere, spiaggiato non solo dagli anni, somma scenari d’allarme, nonostante i “miracoli” quotidiani per non farlo scoppiare: è questo il ritratto fatto dai Radicali italiani entrati tra le sbarre nel cuore del quartiere Carrassi. Annarita Digiorgio, Michele Macelletti e Pino De Padova sono stati accompagnati dal deputato Pd Ubaldo Pagano nella visita della casa circondariale (la maggior parte dei detenuti è in attesa di giudizio). Radiografia finale: “Una struttura antica e centrale che sconta limitazioni tipiche di un vecchio sistema penitenziario e che la direzione, con sforzi economici, lavorativi e umani, notevoli, cerca di rendere adeguata a una nuova e più umana e civile, nonché legale, visione della detenzione”. E già. Ad ogni “soluzione” un problema. I rattoppi non bastano. “Questo è uno dei pochi penitenziari in cui l’amministrazione sta costruendo le docce in ogni cella. Esigenza che negli altri istituti viene fortemente richiesta. Le celle sono state anche adeguate con porta che separa il bagno dalla cucina. Celle che però sono piccolissime e nonostante questo è rispuntato il famoso terzo letto, ovvero la terza brandina a castello a venti centimetri dal soffitto e a tre metri da terra”, fa notare la delegazione dei radicali. Gli ultimi numeri contano 430 detenuti su una capacità di 299. Il sovraffollamento è circoscritto alla prima e seconda sezione, quella dei detenuti comuni, dove è prioritaria l’esigenza di separare in base ai clan di provenienza. “Ogni sezione ha aree socialità separate dalle altre e ognuna i suoi orari. Spazi che vengono ricavati da ciò che c’è, quindi all’occorrenza i passeggi diventano campi da calcio con asfalto mal messo, ma per ragioni strutturali non possono esserci palestre o campi, né spazi verdi per i bimbi che vengono a trovare i padri. L’unica attività fisica concessa è un passeggio avanti e indietro lungo un corridoio di venti metri sotto il sole e sotto la pioggia”. Nonostante tutto non manca l’aula scolastica, una biblioteca, le salette socialità e la sala colloqui. “Questi ultimi vengono effettuati su prenotazione, con grande vantaggio per i parenti che non devono così compiere interminabili file”. Nessuno dei 157 detenuti lavoranti è sul libro paga di una ditte esterne che pure potrebbero usufruire dei benefici della legge Smuraglia. Il guaio, fanno notare i radicali, è che nemmeno gli enti locali sfruttano l’art.21 per lavori socialmente utili. “Il sindaco di Bari non effettua neppure una visita l’anno, non ci sono progetti con Comuni o Città metropolitana, né i servizi sociali si adoperano per casi che pure ricadono sotto la loro competenza. E a cui spesso fanno fronte le associazioni di volontariato presenti. Manca un servizio di raccordo tra Regione, Comune, enti locali e sanitari con la direzione, che da sola al massimo degli sforzi e con grande difficoltà, deve sopperire a tutto”. Il rischio è perdere in poco tempo ciò che si è costruito in anni, come l’alta funzionalità del Centro clinico (Sai). Ce ne sono otto nelle carceri d’Italia e tre in quelle del Sud: 19 posti letto effettivi, 30mila prestazioni sanitarie annue, attività ambulatoriali specialistiche di ogni tipo, cure, assistenza e diagnostica completa. E il 70% dei reclusi presenta patologie sanitarie gravi. Senza dimenticare i 150 casi psichiatrici, un numero alto che la dice lunga sull’inadeguatezza delle due uniche Rems in Puglia, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Varese: i Radicali “le condizioni generali del carcere sono decisamente migliorate” varese7press.it, 18 giugno 2018 Si è conclusa sabato 16 giugno la visita al carcere di Varese dei Miogni della delegazione Radicali italiani e +Europa con Emma Bonino nell’ambito della manifestazione nazionale per i 35 dall’arresto di Enzo Tortora. La delegazione è stata ben accolta sia dal Comandante della Polizia Penitenziaria che da tutti gli agenti del corpo di Polizia penitenziaria che ringraziamo per la disponibilità e la cortesia. Abbiamo trovato nettamente migliorate le condizioni di sovraffollamento, con netta riduzione del numero di detenuti (64 al momento) rispetto a picchi di 130 nei recenti anni passati. Abbiamo trovato in buone condizioni i servizi igienici e dell’ acqua calda e le docce, in particolare al piano terra recentemente ristrutturato. Rispetto all’ultima visita fatta coi radicali di Varese da Rita Bernardini a ottobre 2016, la situazione è di molto migliorata. Sono aumentati gli spazi per la biblioteca, per le attività sportive e di tipo ludico, le sale di lettura e di giochi da tavola. Pochi rimangono i detenuti con possibilità di lavorare o studiare che rimangono gli strumenti piu’ importanti per il loro reinserimento nella vita sociale. I locali sono puliti, sia le celle che gli spazi comuni. La cucina, ben attrezzata, in ordine e ben pulita è gestita da detenuti qualificati. I detenuti, coi quali abbiamo potuto liberamente parlare, molti dei quali giovani e stranieri, tutti gentili e disponibili, hanno confermato il miglioramento delle condizioni generali. Alcuni ci hanno riconosciuti e ringraziato per quanto Marco Pannella e i radicali hanno fatto e fanno per il problema carceri in Italia. In generale è opinione, sia da parte degli agenti che dei detenuti, che le condizioni sono migliorate soprattutto perché si è ridotto il numero dei detenuti grazie agli effetti della sentenza Torreggiani. Componenti delegazione: Gisella Incerti (Auser Varese) Simone Grillo e Leonardo Tomasello (Ass. radicale Enzo Tortora) Roberto Gervasini (+Europa Emma Bonino) Prato: i Radicali “situazione del carcere molto migliorata, ma ancora carenze di personale” Il Tirreno, 18 giugno 2018 Una delegazione ha visitato il carcere di Prato, presente anche il deputato di Forza Italia Giorgio Silli. Tra i carceri visitati dai Radicali italiani In occasione del 35° anniversario dell’incarcerazione di Enzo Tortora, c’è anche quello della Dogaia. “Abbiamo voluto toccare con mano la quotidianità dentro il carcere - dichiara il presidente di Radicali Prato Simone Lappano - La vita dei detenuti, prima di tutto, ma anche del personale carcerario: queste persone, infatti, vivono tutte sulla propria pelle le difficoltà che possono verificarsi all’interno della struttura, così come l’effetto positivo di iniziative, attività e condizioni di vita dignitose per tutti”. La delegazione di Radicali Prato, accompagnata dalla comandante Barbara D’Orefice, ha visitato le diverse sezioni del carcere, e ha avuto l’opportunità di dialogare sia col personale carcerario che con i detenuti. “Abbiamo trovato un contesto che, al di là delle ormai conosciute difficoltà burocratiche e organizzative, sta migliorando di anno in anno - ha continuato il presidente - l’atmosfera che si respira è quella di un ambiente collaborativo, dove la comandante Barbara D’Orefice è la prima a dare ascolto alle esigenze e richieste dei detenuti. Rodrigo, uno dei detenuti nella sezione di media sicurezza, ci ha raccontato delle numerose attività che si svolgono ogni giorno, sottolineando come nei mesi estivi molte di esse si sospendano, a causa della chiusura delle scuole e delle strutture che le promuovono, e questo provochi un certo senso di vuoto nella quotidianità nel carcere. “Menomale che ho il mondiale da vedere” ha scherzato Rodrigo, che essendo brasiliano ha una squadra da tifare!” Le maggiori difficoltà sono legate alle risorse economiche disponibili: il personale è ridotto al minimo e questo rischia di costituire un freno alle numerose iniziative che gli spazi e la disponibilità dello staff invece potrebbero accogliere. Alla visita ha partecipato anche il deputato Giorgio Silli che ha risposto positivamente all’invito dell’Associazione, rivolto a tutte le forze politiche, a partecipare all’iniziativa. “C’è sicuramente tanto lavoro da fare, possiamo e dobbiamo contribuire al miglioramento di queste realtà” ha infine dichiarato il tesoriere dei Radicali Prato Matteo Giusti, anche lui presente alla visita, “Ma per riuscire ad essere realmente incisivi ed efficaci c’è bisogno che il tema, per noi di centrale importanza, abbia la giusta visibilità e risonanza. Per questo ringraziamo Giorgio per la sua presenza: nonostante idee e posizioni spesso diametralmente opposte, è bello trovare negli avversari politici la volontà di supportare temi e questioni che stanno a cuore a entrambe le parti”. Roma: insegnamento in carcere, per perdere il posto basta il tempo di una gita di Giovanni Iacomini Il Fatto Quotidiano, 18 giugno 2018 Estate in arrivo, si chiudono i giochi. In una stessa giornata si può assaporare il meglio e il peggio dell’insegnamento in carcere. La mattina c’è la “gita di fine anno”; il pullman blu della polizia penitenziaria parte dalla Casa di reclusione di Rebibbia al gran completo, con la direzione, l’area educativa, il comandante e, a riempire le ultime file come da tradizione, gli studenti. Solo che questi non hanno chitarre per cantare vecchie canzoni: sono adulti, detenuti. In programma i Mercati Traianei che, come scopriamo, erano il centro della vita amministrativa e giudiziaria dello Stato, altro che botteghe e mercati. In una sala dei piani alti con vista mozzafiato sui Fori imperiali, il Colosseo, il Campidoglio, la Colonna, cioè quanto di meglio l’umanità ha saputo costruire e lasciarci, i saluti di rito: il direttore Stefano Ricca, le autorità, il garante regionale dei diritti dei detenuti Stefano Anastasia, l’associazione Zètema del Comune di Roma che, con Monica de Martiis, organizza l’evento. Il clou è la visita guidata alla mostra Traiano - costruire l’impero, creare l’Europa (e di questi tempi, ogni riferimento non mi pare puramente casuale). Tutti in fila come scolaretti, dalle massime autorità agli studenti dell’ultimo banco, senza più distinzione di sorta, ad ascoltare l’appassionata lezione della responsabile del museo Lucrezia Ungaro. È un momento magico, tra le sale piene di reperti e testimonianze con proiezioni di audio-visivi esplicativi, si è come risucchiati nel passato: i particolari dei bassorilievi, il retro delle statue, le acconciature delle donne ritratte, tutto concorre - attraverso le tecniche più innovative a disposizione della ricerca archeologica - alla riscrittura della storia dei tempi di Traiano. Scopriamo le dinamiche delle battaglie, i rapporti tra i membri della dinastia regnante e il Senato, il trattamento delle provincie conquistate, la politica delle infrastrutture, in poche parole la creazione di quello che è stato uno dei più vasti imperi di sempre, esteso dall’Atlantico alle sponde dell’oceano Indiano. Un’immersione nella cultura, nel senso più alto del termine, che come per incanto accomuna tutti i partecipanti, con il pregiudicato che rimette il naso fuori per la prima volta dopo 11 anni e scambia serenamente le sue impressioni con l’agente di polizia. Per chiudere in bellezza, i detenuti lavoranti nelle cucine del carcere mostrano tutto il loro orgoglio donando cibo agli ospiti della chiesa di Sant’Eustachio. È il reinserimento sociale, il tentativo di abbattere la recidiva che tutti ci proponiamo. Non si fa in tempo a riprendersi da tutto ciò che una telefonata mi fa ripiombare nella quotidianità più triste: la scuola da cui dipendo mi comunica che sono “soprannumerario”, cioè perdente posto e costretto a fare domanda di trasferimento entro 24 ore. Sulla trentina di insegnanti di Rebibbia, siamo in 17 a rincorrere per ore comunicati ufficiali e ufficiosi, ricostruzioni di carriera, allegati, dichiarazioni, graduatorie, codici di distretti, organici di fatto e di diritto, classi e cattedre, istanze, reclami, gare di solidarietà e un’infinita serie di telefonate ed email davvero sfiancanti. Fino a prima di cena resta solo il Dsga, cioè il segretario, a gestire la situazione senza segreterie (anch’esse svuotate dai tagli degli scorsi anni) e tenere aperta la scuola senza Ata, cioè personale ausiliario. La mattina, alla consegna delle domande, va tutto in tilt: uffici chiusi, porte sbattute, grida di protesta, minacce di denunce, sindacati sul piede di guerra, organizzazione di sit-in. Succede tutti gli anni, ormai: quando la stanchezza dell’anno in via di conclusione si fa sentire, il caldo dell’estate romana, particolarmente umido all’avvio, infierisce in un turbinio di zanzare-tigre che aggrediscono i polpacci tra relazioni finali, sintesi di competenze, scrutini agguerriti con sistemi digitali mal funzionanti e misconosciuti ai più, mentre si attende con trepidazione l’inizio degli esami di Stato sperando in commissioni esterne “normali”, arrivano puntuali i tagli delle classi e degli organici dei docenti di Rebibbia. Qualcuno, in preda alla disperazione che certamente altera le percezioni, azzarda un’ardita immedesimazione con i profughi della nave Aquarius, anche noi in cerca di un porto sicuro, chissà se c’è un buon carcere a Valencia? Ed ecco che in un attimo torna il sereno: sullo schermo di un pc appaiono nuovi organici rimaneggiati, alcune classi sono ricomparse, si formano le cattedre-orario, ci sono i completamenti. Tornano i sorrisi ma purtroppo non per tutti: tra quelli che restano soprannumerari compare la situazione più paradossale, la collega che ha già fatto la festa per il pensionamento. Non avendo ancora una disposizione scritta è ancora tenuta a fare domanda di trasferimento. Per dove? Per un posto dove a settembre ovviamente non ci sarà. Tutti si chiederanno chi sia il titolare di cattedra: lei starà al mare, auspicabilmente, a godersi il suo tempo e il posto potrebbe restare scoperto in attesa che sia nominato un supplente; o forse, più probabilmente, i colleghi in attività dovranno farsi in quattro per sostituirla. Piccole incongruenze. Non possiamo che sperare che col nuovo governo questa “buona scuola” diventi migliore. Alessandria: se il carcere diventa una nave diretta in America alessandrianews.it, 18 giugno 2018 Domenica 17 giugno nel teatro della Direzione degli Istituti Penitenziari di Alessandria, presso il carcere Catiello-Gaeta (ex don Soria), si è tenuto lo spettacolo conclusivo del laboratorio teatrale “Arte espressione del Sé”. L’evento rientrava nell’ambito del Progetto “Il Senso dei Sensi”, realizzato dall’associazione di ascolto “La Brezza Onlus” di Torino tratto dal monologo “900” di Alessandro Baricco. A portarlo in scena la compagnia del carcere, creata per l’occasione e destinata, almeno nella speranza degli attori e della direttrice, Elena Lombardi Vallauri, a proseguire l’attività anche in futuro. La metafora del viaggio oltreoceano, su una nave diretta in America, è stata il contenitore ideale per un lavoro intriso di emozioni e poesia, capace di coinvolgere il pubblico presente, chiamato ad arricchire le performance proposte con suoni prodotti da utensili creati con ciò che è possibile utilizzare in carcere, dalle bottigliette d’acqua alle capsule del caffè. L’effetto è stato potente, con attori immedesimati nella propria parte e capaci di portare in scena la “terza classe”, quella forse più bistrattata ma anche capace di regalare le storie più intense e, come dice Baricco, “non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla”. Negli oblò dipinti dagli stessi attori sogni e visioni di ciò che si trova all’esterno, meta di un viaggio che può sembrare interminabile, ma che diventa più sopportabile quando ci sono compagni con cui condividerlo, amici con cui fare musica, recitare poesie, lasciarsi andare a una risata o a un passo di danza. Ad accompagnare le diverse performance anche la musica dal vivo, tastiera e chitarra capaci di coinvolgere anche il pubblico in momenti d’improvvisazione ed empatia. Un risultato complessivo notevole, che ha perfettamente centrato l’obiettivo di fornire strumenti agli ospiti dell’Istituto penitenziario per fare arte ed esprimere se stessi, ma anche per lanciare un messaggio all’esterno, carico di umanità e voglia di non essere dimenticati. È attraverso questo genere di iniziative che il carcere può offrire speranza di cambiamento autentico, di un reinserimento pieno nella società, perché anche se il percorso è lungo, prima o poi ciascuno inizierà ad avvistare l’America, una nuova occasione da cogliere, anche grazie a tutto ciò che si è imparato durante il viaggio per raggiungerla. Migranti. Salvini: aprire hotspot in Africa, basta andare in Ue col cappello in mano di Amedeo La Mattina La Stampa, 18 giugno 2018 “Con Conte mai uno screzio. Prima i nostri premier a Bruxelles, Berlino, Parigi dicevano: avanza qualcosa?”. Matteo Salvini chiederà alle navi italiane e alla Guarda costiera di stare più vicini alle coste italiane. “Nel Mediterraneo ci sono tanti Paesi che possono intervenire, il Nordafrica, Francia, Spagna, Francia, Portogallo: non possiamo permetterci di portare mezza Africa sul territorio italiano”. Il ministro dell’Interno continua a interpretare la linea dura del governo e si muove a tutto campo senza preoccuparsi di invadere le competenze dei suoi colleghi. Tra i 5 Stelle cresce la preoccupazione di lasciare al leader leghista il ruolo di premier ombra. Ma lo stesso Salvini liquida queste voci come fake news e assicura che con gli alleati non c’è “il minimo screzio”. Intanto segue ogni mossa del premier. Sta mettendo la massima attenzione sull’incontro di oggi tra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e Angela Merkel. “Il convitato di pietra a Berlino - ha spiegato ai suoi collaboratori - sarà Horst Seehofer”. L’alleato tedesco - Secondo la Bild online, citando fonti della Csu, Seehofer avrebbe posto un ultimatum alla Cancelliera, la quale finora si è rifiutata di approvare il piano del bavarese che prevede la possibilità di respingere migranti che sono stati già registrati in altri Paesi o che sono stati respinti dalla Germania. Merkel vorrebbe aspettare il Consiglio europeo di fine giugno dove verrà discussa la riforma del Regolamento di Dublino. Ecco, la debolezza interna della Cancelliera viene vista da Salvini come il grimaldello per costringere l’Europa a cambiare rotta e ad aiutare l’Italia. Ma nel mirino del leader leghista c’è sempre Parigi. Si consente pure di essere sarcastico con l’inquilino dell’Eliseo. “Sono sicuro che con il presidente francese Macron, che ha un cuore così grande, dopo la Spagna, toccherà alla Francia accogliere migranti. E poi toccherà a Portogallo e Malta. Adesso non ci sono più servi né schiavi di nessuno al governo”. Modifica Trattato di Dublino - Non è stata ancora definita una proposta organica per modificare Dublino, ma sono chiare le direttrici, a cominciare dalla costituzione di hotspot nei Paesi di transito. In sostanza si tratta di “spostare” in Africa la frontiera dell’Europa con lo scopo di ridurre al massimo le partenze dei migranti dalle coste libiche o tunisine verso l’Italia. Bisognerà capire la fattibilità di queste strutture, affidata a un’agenzia internazionale, il grado di volontà politica da parte dell’Europa e, soprattutto, quante risorse saranno messe a disposizione. Ma se tutti, almeno a parole, dicono di voler lavorare in questa direzione, ancora più complicata è la questione del ricollocamento dei migranti che hanno già raggiunto il nostro Paese. Il braccio di ferro è proprio sui ricollocamenti obbligatori: a rifiutarsi finora sono stati tutti, non solo i Paesi di Visegrad. Salvini punta su meccanismi di distribuzione automatici e obbligatori che devono interessare sia i migranti richiedenti asilo sia quelli che fuggono dalla povertà. Il responsabile del Viminale si rende conto che trovare un accordo sarà molto difficile. “Deve essere chiaro che chi non rispetta le quote di ricollocamento dovrà subire il taglio dei fondi strutturali. Prima i nostri presidenti del Consiglio andavano a Bruxelles, Berlino, Parigi col cappello in mano dicendo: “Siamo l’Italia, avanza qualcosa per noi?”. E di solito ci dicevano: “No, paga, taci e accogli”. Ora basta”. Un messaggio rivolto anche a quei Paesi come l’Ungheria di Orban che finora hanno fatto muro. La tela di Salvini - Salvini spera di avere subito dalla sua parte Francia e Germania. Le missioni di Conte a Parigi e a Berlino sono finalizzate a questo obiettivo. Ma sarà lui, il ministro, a tessere una sua tela parallela. Mercoledì incontrerà a Roma il ministro dell’Interno austriaco Heinz-Christian Strache, che è anche vice-cancelliere e leader del Partito liberal nazionale (Fpö) molto vicino alle posizioni della Lega. Svizzera. La “bolla integralista” cresce nelle carceri di Guido Olimpio caffe.ch, 18 giugno 2018 C’è un doppio fronte che preoccupa le polizie europee. Il primo è rappresentato dal rischio dei veterani dello Stato Islamico, coloro che potrebbero rientrare in patria in seguito alla perdita delle basi in Siria e in Iraq. Il secondo è l’attività di proselitismo svolto da movimenti o associazioni non legate al Califfato, ma vicine a ideologie comunque islamiste. E, negli ultimi mesi, questo tipo di azione ha trovato spinte anche da personaggi religiosi vicini alla Turchia di Erdogan. La recente stretta decisa dal governo austriaco con la chiusura di sette moschee e l’espulsione di alcuni imam ha rappresentato uno squillo di tromba. Per alcuni un allarme vero sui rischi di infiltrazione e propaganda in aree meno esposte. Torniamo al tema dei volontari dell’Isis. Anche la Svizzera, sia pure in forma minore, ha “offerto” la sua quota. Secondo le autorità sono circa un centinaio, attorno a loro un reticolo di amici e parenti che potrebbe allargare la “bolla integralista” - pericolosa - ad un migliaio di persone. Un paio - secondo un recente rapporto dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) - hanno avuto contatti anche con l’Italia che da sempre è punto di passaggio ed ha “prodotto” circa 130 elementi. Sono però numeri ben lontani dalle realtà francese e belga, dove giovani di seconda e terza generazione forniscono materiale a non finire per i reclutatori. Gli analisti che seguono gli sviluppi nella Confederazione, ripetendo segnalazioni emerse nel resto del continente, avvertono che l’ambiente svizzero sta mutando. Esiste un pericolo, comune ad altri Paesi, di un reclutamento nelle prigioni. Bastano un paio di estremisti: l’esperienza insegna che possono portare dalla loro parte piccoli criminali comuni. Li convinceranno a “pentirsi” delle loro colpe - in certi casi non gli chiederanno neppure questo - e poi proveranno a usare la loro esperienza nel crimine per aiutare la causa jihadista. Tecnica che purtroppo funziona. Lo scenario elvetico, così come italiano o spagnolo, potrebbe materializzarsi nella saldatura tra chi non è partito per il Medio Oriente e chi, invece, è tornato a casa. Sempre gli specialisti sottolineano che dalla Confederazione non ci sono state più partenze massicce, anzi il livello si è ridotto quasi allo zero. E se questo è un aspetto positivo, dall’altro potrebbe rappresentare un problema: la testa calda non ha un luogo dove andare a combattere, quindi ripiega sul “teatro vicino”, ossia la sua città. Magari dopo aver incontrato un mujahed che è rientrato con il suo bagaglio di esperienza e odio. Oppure aprendo un contatto virtuale attraverso il web, con un ispiratore remoto. Senza poi dimenticare l’impatto delle famiglie. Non pochi guerriglieri islamisti hanno al seguito mogli e figli, alcuni minori, esposti a nefandezze d’ogni tipo e magari persino coinvolti in fatti sanguinosi. I governi europei non sanno bene cosa fare con i congiunti di un uomo che ha ucciso, decapitato, violentato. Esistono problemi legali ed etici, questioni pratiche e umane. Possiamo far finta di nulla, magari speriamo che siano altri - come i curdi - a occuparsi di questi nuclei. Ma è solo un modo per rinviare la questione: prima o poi si dovrà pensare come cercare di recuperare dei bambini trascinati loro malgrado in un viaggio di guerra. Non è buonismo, ma una necessità per impedire che altri li possano manipolare. È un tema che ci porta a quello della predicazione dei cattivi maestri. Il parlamentare Boris Bignasca ha presentato l’altro giorno un’interrogazione al Consiglio di Stato per sapere se la minaccia denunciata dall’Austria possa avere dei riflessi anche in Svizzera, dove peraltro operano organizzazioni turche non proprio moderate e che hanno lanciato iniziative dove il sentimento anti-occidentale è abbastanza evidente. Si tratta, se vogliamo, del proseguimento di un lungo cammino che ha portato “istituti” musulmani ad investire da Vienna al Canton Ticino già dalla fine degli anni ‘90. Oggi il focus è sulla componente che ha nella Turchia un suo riferimento ideologico e politico. Da qui l’interesse di capire che tipo di legame esista con Ankara - finanziario, intellettuale - e il livello di diffusione nella Confederazione visto che gli episodi non mancano. L’esigenza di sicurezza deve però sempre mantenere una doppia linea: fermezza e saggezza nella risposta. Le generalizzazioni non aiutano, così come sarebbe controproducente alzare toni e livello del confronto. Il muro contro muro è un regalo agli estremisti. Il rapimento della sposa: in Kirghizistan una tradizione dura a morire di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 giugno 2018 L’ultimo caso risale al 10 giugno: una diciottenne è stata rapita dal figlio del proprietario del terreno dove la ragazza abitava con la sua famiglia. L’aggressore, aiutato da un paio di amici, l’ha caricata su un’automobile. Per sposarla come prevede la tradizione, diceva. Lei ha rifiutato e la punizione è stata lo stupro. Lui, caso raro, è stato arrestato. Lei è ancora in ospedale. Due settimane prima, il 27 maggio, una studentessa di Medicina di 20 anni, Burulay Turdaliyeva, era stata rapita. L’automobile su cui viaggiavano era stata fermata a un posto di blocco. Insospettiti dal loro comportamento, gli agenti avevano portato i due alla più vicina stazione di polizia. Non avevano pensato a perquisire l’uomo, che aveva tirato fuori un coltello uccidendo la ragazza. Poi aveva tentato il suicidio, senza riuscirci. In Kirghizistan, repubblica dello spazio ex sovietico dell’Asia, le cose vanno così. Nel 2016 (ultimi dati disponibili) il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione aveva denunciato che il sei per cento delle spose al di sopra dei 15 anni di età era stato rapito. Ci sarebbe la legge a vietare la tradizione dell’ala kachuu, ossia il rapimento delle spose (letteralmente “prendi e scappa”). Ma, nonostante nel 2012 le pene siano state più che raddoppiate, da tre a sette anni, chi dovrebbe prevenire il fenomeno lo fa di rado. Le autorità cercano di risolvere le cose “amichevolmente”, favorendo l’accordo tra la famiglia dell’aggressore e quella della vittima per mettere a tacere tutto e procedere al matrimonio. Conviene a tutti, in fondo, no? Una donna non più vergine non è più “maritabile” e allora tanto vale che la sua famiglia dia il consenso al matrimonio col suo stupratore. Naturalmente la voce delle uniche cui non converrebbe, le donne stuprate, non è presa in considerazione. Secondo un sondaggio condotto dal ministero dell’Interno nella città meridionale di Osh, il 64 per cento degli agenti di polizia considera il rapimento delle spose una cosa “normale” e l’82 per cento ne attribuisce la colpa alle donne “provocanti”. Come fermare questa barbarie?