La corruzione, gli scandali e le regole da cambiare di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 17 giugno 2018 "Non c’erano che venduti, che corrotti, che violenti, che gaglioffi, che bricconi, che malviventi…". Facile, davanti all’ondata di arresti per lo stadio di Roma che gettano ombre pesanti anche su chi sventolava la bandiera del cambiamento, recuperare lo sfogo apocalittico dello scrittore Paolo Valera che nel "Cinquantenario", 1911, urlava contro "lo straripamento della corruzione". Per carità: Dio ci scampi dal qualunquismo di chi fa di ogni erba un fascio. Al pari dello scandalo colpisce però l’uso strumentale delle notizie, degli interrogatori e delle intercettazioni che via via vengono a galla. E sono all’istante raccolti e scagliati su questo o quel bersaglio a seconda di chi impugna la fionda. Come fosse una rissa fra casacche: il mio corrotto sarà pure corrotto ma è meno corrotto del tuo. Quasi che il tema di fondo, cioè il quadro deprimente che emerge dalle indagini di un Paese sempre alle prese con nuovi scandali intorno alle bustarelle, fosse secondario rispetto alla guerra insanabile tra partiti, schieramenti, alleanze, bande clientelari. Peggio, emerge ancora una volta la tentazione di denunciare la "giustizia a orologeria". Cioè la formula strillata nei decenni, da Vittorio Sbardella e Bettino Craxi e Achille Occhetto e Silvio Berlusconi e giù giù fino ai giorni nostri, da Gianfranco Micciché a Patrizio Cinque, il sindaco grillino di Bagheria… Complotti. Sempre. Solo complotti. Dice l’ultimo Indice di Percezione della Corruzione di Transparency International che l’Italia negli ultimi anni avrebbe recuperato 18 posizioni nel ranking mondiale risalendo dal 72° posto del 2002 al 54° del 2017. Evviva. Ma non si tiene conto, scrivono due studiosi del tema, Lucio Picci e Alberto Vannucci, nel libro in uscita Lo Zen e l’arte della lotta alla corruzione, che dal ’95 al 2007 i paesi censiti son passati da 40 a 167. In quel ’95, mentre s’aprivano i processi di Mani Pulite, eravamo al 33° posto: fate voi i conti sui nostri "progressi". Né consola l’ultimo report del Consiglio d’Europa, curato dall’Università di Losanna e dal criminologo Marcelo Aebi, sulla popolazione carceraria europea. Dove "colletti bianchi" nelle nostre prigioni, condannati per reati economici e finanziari, risultano essere 363 contro i 1.971 della Spagna, i 2.268 della Francia, i 6.511 della Germania, gli 11.091 della Gran Bretagna... Sarà poi una coincidenza se troppe imprese straniere decidono di investire non da noi ma in paesi dove certe regole sono fatte rispettare? I costi causati dalla corruzione, infatti, non sono solo etici. Se ormai appare datata la stima della Corte dei Conti di 60 miliardi di euro l’anno buttati in mazzette, è ormai accertato, infatti, uno spreco immenso. Spiega un recente studio di Ugo Arrigo, della Bicocca, che ha confrontato un decennio di spese italiane e francesi nelle infrastrutture ferroviarie, studio ripreso sul Sole 24 Ore da Claudio Gatti, "se si adottassero in Italia i parametri di spesa francesi si sarebbero dovuti spendere 8,9 miliardi all’anno. Esattamente la metà dei 17,8 miliardi che si sono invece spesi". La metà. Allargando ulteriormente il campo, lo stesso Lucio Picci già citato, economista all’Ateneo di Bologna, è arrivato a calcolare sulla base di vari parametri che "il costo del differenziale tra costi della corruzione in Germania e costi in Italia" è tale che se i soldi risparmiati fossero ridistribuiti ai cittadini italiani "il loro reddito pro capite non solo aumenterebbe di 10.607 euro all’anno ma supererebbe quello dei tedeschi di circa mille euro". Non è infatti solo una questione di mazzette. Come dimostrano alcune intercettazionidi questi giorni, ha un costo politico, economico ed elettorale anche lo scambio di favori sulle assunzioni. "Su 6.700 denunciati, 3.200 sono nella sanità, dove ci sono importi straordinari", ha detto giorni fa il procuratore antimafia Renato Nitti a un seminario sugli appalti di Libera, "Nella sanità si gioca con le assunzioni, con gli incarichi e con le commesse. La lottizzazione politica condiziona quasi tutte le nomine della sanità. Tutte le scelte a valle potrebbero essere condizionate. Perché il politico fa tutto questo? Per denaro? Qualche volta. Ma spesso farà tutto questo perché la moneta più preziosa che può chiedere all’imprenditore sono le assunzioni". Il punto è chiaro: la guerra alla corruzione, forse mai combattuta sul serio, ha bisogno di una svolta vera. Dunque? Il contratto Lega-M5S dedica al tema 227 parole, meno d’un quarto di quelle dedicate ai profughi, ma più ancora colpiscono i vuoti: mai citate le parole appalti, mai commesse, mai gare, mai aste, mai ribassi, mai grandi opere... Può darsi che, come ha sostenuto più volte Piercamillo Davigo, le uniche cose che servano davvero siano una semplificazione burocratica e l’introduzione dell’"agente sotto copertura" e dell’"agente provocatore" che si offra come corrotto o corruttore. Ma certo, l’assenza totale di ogni riferimento agli appalti e alla necessità assoluta di modificare le regole... Quanto all’obiettivo dichiarato di "inasprimento delle pene", quella prevista dal codice Rocco del 1930 per la corruzione era da 1 a 5 anni di carcere. Quella attuale, dal 2015, è da sei a dieci anni. I corrotti sono forse diminuiti? Non sarà più importante, piuttosto, la certezza che chi sbaglia paga sul serio? Cananzi (Csm): “la difesa effettiva anche per i non abbienti è principio di giustizia” di Giulia Merlo Il Dubbio, 17 giugno 2018 Al netto delle strumentalizzazioni politiche e dello scontro tra l’avvocatura e il ministro Matteo Salvini, che in un’intervista sul tema dei migranti parlò della “lobby degli avvocati d’ufficio” che si arricchivano, il tema del diritto di difesa torna nell’agenda politica. Uno dei profili più rilevanti è quello della tutela dei non abbienti e, a riprova della collaborazione tra Csm e Cnf, è già esistente un protocollo che disciplina il patrocinio a spese dello Stato per i richiedenti asilo. Un documento che, secondo il consigliere del Csm Francesco Cananzi, “è nato con l’intento di garantire una risposta di giustizia di qualità, nella tutela dei diritti fondamentali”. Consigliere, quali misure sono state messe in atto per garantire il diritto di accesso alla giustizia ai richiedenti asilo? Il Csm ha lavorato molto per garantire una giustizia di qualità per i ricorsi presentati dai richiedenti asilo. La preoccupazione del Consiglio è stata quella di predisporre un’adeguata organizzazione degli uffici giudiziari, a fronte dell’incremento esponenziale di queste richieste, in modo da garantire una risposta il più possibile tempestiva. È stato messo in atto uno sforzo da parte dei tribunali, pur se a fronte di nuove competenze non vi è stato alcun incremento di organico di magistrati, e in questo contesto è stato predisposto il protocollo con il Cnf in materia di patrocinio a spese dello Stato nel caso dei migranti. Il principio ispiratore è che la natura fondamentale dei diritti da tutelare richiede una difesa effettiva, piena e di qualità, che deve essere giustamente retribuita attraverso un istituto previsto dalla Costituzione. E ciò è ancor più necessario a seguito della soppressione del grado di appello. Il patrocinio a spese dello Stato ha sollevato acceso dibattito in questi giorni. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ci ricorda che la Costituzione deve continuare a realizzarsi e, in questo senso, il tema del diritto di difesa pieno ed effettivo è centrale. Il patrocinio a spese dello Stato è un istituto previsto dall’articolo 24 della Costituzione e molto ne hanno discusso anche i padri costituenti. Il proponente dell’emendamento che lo inseriva nella Carta fu l’avvocato Vincenzo La Rocca, che nel suo intervento ricordò un monito di Shakespeare: “La spada della giustizia trapassa facilmente gli stracci e si spezza contro le lamine d’oro”. Ecco, l’istituto nasce perché non ci può essere giustizia che usi diversi pesi a seconda del censo dei cittadini o degli stranieri. La giustizia deve essere uguale per tutti, e così anche la difesa. La stupisce che proprio il diritto alla difesa sia stato messo in discussione politicamente? Non ho interesse a fare valutazioni politiche, mi limito a considerazioni tecnico-giuridiche nell’alveo dei valori costituzionali. Il lavoro messo a punto da Cnf e Csm per la difesa effettiva è fondamentale anche per i giudici, che hanno bisogno del contributo degli avvocati perché si garantisca il principio del contraddittorio. L’intervento pone delle linee guida, poi molto è rimesso ai rapporti tra singoli presidenti di Tribunali e Consiglio dell’Ordine, ma l’obiettivo è quello di conseguire la qualità della difesa e l’equo riconoscimento del compenso dovuto. Il patrocinio a spese dello Stato, quindi, è centrale nell’ordinamento giuridico? È strumentale a che si garantisca una giustizia capace di riconoscere, nel caso dei migranti per esempio, chi abbia il diritto di asilo. Un diritto, questo, fondamentale e riconosciuto dalla Costituzione e dalle convenzioni internazionali. La cultura della difesa è fondamentale e il buon lavoro del Cnf deve proseguire per assicurare una difesa sempre più professionale, eticamente corretta e di qualità. Alle orecchie di un magistrato, che effetto fanno le parole di Salvini che parla di “lobby degli avvocati d’ufficio”? Io non credo che sia corretto parlare di lobby. La difesa d’ufficio è anzitutto un servizio, che certo può essere più o meno efficiente a seconda delle realtà locali - e su questo si deve lavorare - ma che ha questa funzione fondamentale. Quando entrano in gioco i diritti, è evidente che la questione non sia quella delle ipotetiche lobby, ma che essi vengano riconosciuti quando sussistano e che come tali vengano rispettati. Altro discorso è quello riferito al patrocinio a spese dello Stato di cui ho precedentemente detto: anche nel caso di questo istituto, il tema è quello di riconoscere un compenso equo a fronte di un servizio che va reso con professionalità. Italia seconda soltanto agli Stati Uniti, sono 800 le persone sotto protezione di Luca D’Alessandro Il Messaggero, 17 giugno 2018 Prima in Europa, seconda nel mondo, dietro solo agli Stati Uniti. C’è una classifica non proprio virtuosa in cui l’Italia primeggia, ed è quella del numero delle persone scortate in Italia. A livello continentale si parla di una vera e propria egemonia, perché gli altri Paesi non si avvicinano neanche lontanamente al numero di chi vive sotto tutela. Quanto agli Usa, invece, bisogna considerare non solo i 250 milioni di abitanti, rispetto ai nostri 60 milioni, ma anche il diverso sistema costituzionale, che prevede 50 stati federali ed è come se ci fossero altrettanti piccoli governi. Che sia necessario un drastico intervento in materia di scorte, riducendo il numero di servizi per rendere più efficienti quelli davvero necessari e urgenti, non lo dicono i cittadini, ma coloro che si occupano di Sicurezza in Italia, lamentando il fatto che la distribuzione a pioggia di auto e “angeli custodi” inevitabilmente rende il servizio di tutela meno efficace e sicuro. Anche a scorrere i numeri relativi alle scorte, alle persone sotto tutela, al personale impegnato e ai costi, salta subito all’occhio che una bella sforbiciata è necessaria per consentire che il denaro destinato a questa forma di sicurezza venga speso meglio. In effetti, ascoltando gli addetti ai lavori, nel corso degli ultimi decenni il fenomeno è via via cresciuto, arrivando a livelli allarmanti anche per la percezione degli italiani. Nel nostro Paese, fra magistrati, politici, imprenditori, giornalisti e altre personalità, le persone sotto scorta erano circa 800. Recentemente, soprattutto negli ultimi mesi, il ministero dell’Interno ha già messo mano a questo voluminoso fascicolo per una cura dimagrante intensiva. Anche perché i 3000 agenti che vigilano sulla sicurezza delle persone garantirebbero maggiore efficienza se fosse più contenuto il numero di chi deve essere protetto e tutelato. Già dai primi passi, questa scure ha permesso di abbassare il costo del servizio da 250 a 200 milioni. Ma non si tratta di abbassare le spese, quanto di indirizzare in modo più efficace il denaro. La riduzione del numero delle scorte rappresenta infatti un modo per migliorare il servizio. Razionalizzare i costi significa mettere il personale nella condizione di avere i migliori supporti tecnico- logistici necessari: auto blindate ogni volta che è necessario (molte persone realmente a rischio sono costrette a girare in macchine non corazzate) e armamenti migliori (in alcuni casi gli agenti girano ancora con la vecchissima pistola mitragliatrice M12, che risale agli anni Settanta). Un altro dato fa capire come la riduzione delle scorte può portare ad una maggiore efficienza. Il solo reparto competente della Questura di Roma svolge dai 40 ai 60 servizi saltuari al giorno. Questi si chiamano “reimpieghi” e funzionano così: le forze dell’ordine si recano alla stazione per prelevare una persona ed “accompagnarla” presso un luogo istituzionale, poi vanno all’aeroporto per prelevare una seconda persona da portare in un’altra località, e così via. Quest’attività, oltre ad essere massacrante sotto il profilo psico-fisico, porta a una minore sicurezza. Gli uomini non sanno quasi nulla dello scortato e del grado di pericolo in cui vive. Per questo sono maggiormente esposti al rischio, loro e di chi dovrebbe essere protetto. Avere invece più uomini a disposizione in virtù di un numero minore di scortati permetterebbe di assicurare un’alta qualità del servizio. È questo il motivo che ha spinto il governo Renzi prima, e i due leader Matteo Salvini e Luigi Di Maio oggi, a chiedere maggiore senso di responsabilità a ministri e sottosegretari, limitando l’uso dell’auto blu solo ai casi strettamente necessari. Non solo per evitare di provocare fastidiose reazioni da parte dei cittadini, sempre più insofferenti a quella che considerano una manifestazione del potere e non più un’esigenza di protezione per personalità effettivamente a rischio. Anche perché ormai si fa di tutta l’erba un fascio, confondendo proprio l’auto blu con la scorta, mentre solo in pochi casi le due cose coincidono. È per questo che una stretta sarà necessaria non solo a livello centrale, ma anche locale (Regioni, Comuni e Province), se è vero che meno di un anno fa, prima di un drastico intervento di riduzione, soprattutto nel Meridione si veleggiava al ritmo di un automezzo con autista ogni 100mila abitanti. Scorte, ecco il decalogo: meno sirene e sgommate di Luca D’Alessandro Il Messaggero, 17 giugno 2018 L’obiettivo è garantire la tutela. Si può passare con il rosso e usare senza disturbare la vita dei cittadini i lampeggianti solo se indispensabile. Se si facesse un’indagine fra gli scortati d’Italia, si scoprirebbe che coloro davvero in pericolo farebbero volentieri a meno degli “angeli custodi”. Non si sentono in prigione, ma poco ci manca. Quanti invece non vivono una situazione di reale rischio, non rinuncerebbero mai a quello che purtroppo negli anni si è trasformato da necessità in status symbol. Il guaio è che questi ultimi sono la maggioranza. Ed è a causa di questa maggioranza che tra i cittadini è montata l’insofferenza nei confronti di un servizio che dovrebbe garantire solo la sicurezza di quelle persone finite nel mirino della criminalità organizzata e del terrorismo. Al punto che esiste un protocollo, una sorta di decalogo, che prevede tutta una serie di regole e accorgimenti per rendere compatibile l’esigenza di sicurezza delle persone con quella di non esasperare gli animi di una cittadinanza sempre più insofferente. Il confine è sottile, a volte viene scambiata per arroganza ciò che è semplice esigenza di non correre rischi e di non farli correre alla persona sotto tutela. Per questo, il mantra fra i vertici delle forze dell’ordine, ormai è diventato: meno scortati, ma meglio scortati. Si punta anche a far cambiare nella gente la percezione dell’auto che sfreccia con luce blu e sirene spiegate. “Devono capire - spiega Domenico Pianese, segretario generale del Cosip, sindacato indipendente della polizia - che la scorta non è una conquista, ma un’esigenza reale di protezione. Lo Stato deve trasmettere ai cittadini l’idea che le scorte si assegnano solo a chi effettivamente è in reale pericolo di vita”. E dunque, cosa prevede questo decalogo? Si prefigge tra l’altro Io scopo di avere un impatto il più possibile morbido sullo scorrere quotidiano sulla vita degli italiani. Prima di tutto, le sirene spiegate, il passaggio con il semaforo rosso, in corsia d’emergenza o in preferenziale per saltare la fila, devono avvenire solo quando strettamente necessario. Va anche detto che quando esistono reali pericoli, la regola per la scorta è: mai fermarsi, mai subire rallentamenti, variare il più possibile il percorso. Non a caso, l’agguato di via Fani, che costò la vita alla scorta di Aldo Moro, rappresenta lo spartiacque fra due modi di proteggere le personalità. I terroristi riuscirono, perché trovarono il modo per fermare il convoglio di auto. Sono poi previsti diversi comportamenti, a seconda del livello di pericolo dello scortato. È vero che il personale di servizio deve comportarsi allo stesso modo, sia in presenza di una persona ad alto rischio, sia quando si tratta di semplice “tutela”. Ma è il caposcorta che valuta il da farsi volta per volta e deve avere la ragionevolezza di capire come comportarsi. A volte, diventa obiettivo della criminalità proprio chi è meno protetto. Altre volte, la tutela può riguardare la funzione che si svolge e non la persona, per esempio l’ufficio stampa del presidente del Consiglio, ed è difficile che il trasporto richieda la sirena, le luci e la costante esibizione della paletta. Per questo la sensibilità degli agenti è come sempre fondamentale. Che fare, poi, quando agli uomini in servizio viene chiesto aiuto nel portare i sacchetti della spesa? Devono rifiutare, perché non è il loro lavoro, e proprio in quel momento il rischio è maggiore: con le braccia impegnate, come si può reagire in caso di agguato? Ma come convincere le persone sotto tutela particolarmente insistenti? Due i livelli d’intervento. Prima si cerca attraverso un’attività di persuasione, poi si segnala ai superiori l’anomalia e saranno loro a dover intervenire. Gli agenti hanno tutto l’interesse a segnalare le violazioni alle procedure, altrimenti rischiano sanzioni che vanno dal semplice richiamo verbale fino al licenziamento. Ciò avviene non solo per il semplice episodio del carrello della spesa, ma anche quando l’esigenza di non fermarsi al semaforo rosso porta a eventuali incidenti. In questo caso si deve verificare che tutto si sia svolto secondo i protocolli. In caso contrario, oltre alle sanzioni disciplinari è previsto il pagamento dei danni. Com’è evidente dal protocollo, i vertici delle forze dell’ordine sono consapevoli che una maggiore osservazione delle regole, con una decisa riduzione del numero delle persone sotto protezione (limitandolo ai casi effettivamente necessari), non potrà che portare ad un netto miglioramento del servizio e ad una diversa percezione degli italiani. Ivrea (To): detenuto si impicca in cella, protesta degli altri reclusi Ansa, 17 giugno 2018 Protesta dei detenuti del carcere di Ivrea, dove la scorsa notte un recluso extracomunitario di 43 anni si è impiccato con un lenzuolo alle grate della sua cella al primo piano destro della casa circondariale. Nel pomeriggio alcuni carcerati si sono rifiutati di rientrare in cella e si sono arrampicati sul muro del cortile passeggi lamentandosi delle condizioni in cui vivono. Lo rende noto l’Osapp, sindacato autonomo di polizia penitenziaria, per voce del segretario generale Leo Beneduci. In questo momento i detenuti stanno protestando battendo le stoviglie contro le inferriate delle celle. “La situazione comincia a farsi esplosiva e i fatti di Ariano Irpino e oggi di Ivrea parlano chiaro. È sempre più urgente - sostiene Beneduci - che la nuova autorità politica della giustizia dia concreti segnali di innovazione nella gestione delle carceri e nell’organizzazione della polizia penitenziaria. Sommosse, suicidi e aggressioni alla polizia penitenziaria non possono essere il normale andamento delle carceri”. Napoli: a Poggioreale “l’inferno” dell’Avellino, padiglione con le celle blindate di Fabio Postiglione Corriere del Mezzogiorno, 17 giugno 2018 Al padiglione “Avellino” del carcere di Poggioreale quando la mattina ci si sveglia e si guarda qualcuno negli occhi occorre stare sempre molto attenti. Lo sguardo fiero lo si può mostrare solo ai detenuti delle celle accanto, perché certamente sono dello stesso clan. Lì, nel “girone” dell’Alta sorveglianza, funziona proprio in questo modo, valgono le regole della strada. Uomini dello stesso clan vengono sistemati nelle stesse celle o comunque vicinissimi, uno accanto all’altro. I dirimpettai sono gli alleati, anche se di quartieri diversi o regioni diverse. Non necessariamente in affari in comune, l’importante è che non siano nemici, che non ci siano conti in sospeso tra gli uni e gli altri. Quelli devono necessariamente stare in un piano differente. La regola principale è evitare tensioni, risse e contatti. Ma gli equilibri si sa, cambiano in fretta e quello che succede fuori, anche se con un po’ di ritardo, si ripercuote dentro le mura del penitenziario e così spesso detenuti di una cella passano in un’altra. Nel carcere napoletano sono 200 i reclusi detti “As”, che sta per Alta sorveglianza e si trovano nella parte ovest del carcere. Sono pregiudicati che hanno pene di associazione mafiosa da scontare o sono indagati per reati di camorra. All’Avellino non si scherza: lì ci sono i boss di Napoli e provincia che spesso sono in attesa di altre destinazioni o di essere trasferiti al 41bis, in carceri-bunker. Eppure, nel posto che dovrebbe essere il più controllato di Poggioreale, sono stati sequestrati sei telefoni cellulari, uno di questo era di Gennaro De Tommaso alias “‘a carogna”. Entrare nell’”As” di Poggioreale equivale ad essere etichettato come uno buono. Questo è quanto si vocifera di cella in cella e non c’è un solo “personaggio” che ne varcando la soglia che non venga “studiato” dagli altri detenuti. L’Avellino negli anni Novanta era destinato agli internati, ai malati psichici ma è poi è stato ristrutturato e reso “blindato”, a prova di cannonate Uomini dello stesso clan sono sistemati sul medesimo piano per evitare tensioni e destinato ai camorristi della città. Celle blindate dalle quali è impossibile ipotizzare di scappare. Tutte le stanza hanno finestre che affacciano all’interno del carcere e non danno all’esterno. Da una parte la “vista” è sul padiglione Milano e dall’altra su quello Firenze. Un corridoio lungo illuminato da neon a luce bianca e celle a destra e sinistra, alcune molte vicine. Sono 12 per ogni piano. Dal piano terra, dove sono reclusi i ras del centro storico, fino al terzo piano dove ci sono i Contini. Al secondo alloggiano i “quartierani”, con le paranze del rione Sanità. Hanno tutte un piccolo televisore collocato al centro della stanza. Massimo ci sono sei detenuti che dormono sulle cuccette. Chi entra per primo sceglie il posto, ma la regola si ribalta quando poi arriva il boss. Lui sceglie tutto, anche il mobiletto dove mettere i propri effetti personali. C’è il bagno con lo sciacquone, un piccolo cucinino per scaldare e preparare le vivande. Al centro c’è un tavolo ma non tutti riescono a prendere posto. A turno c’è chi pranza e cena seduto sul letto. Le celle più nuove hanno anche le docce con acqua sempre troppo calda in estate e sempre troppo fredda in inverno. Due ore di passeggio al giorno, ma per piano e per celle “amiche”. Si inizia dal piano terra, fino al terzo: sorvegliati a vista, i detenuti hanno il divieto assoluto di incontrare i cosiddetti “comuni”, ovvero i reclusi con pene da scontare per reati da strada, per lo più spaccio e rapine. Lecce: detenuto morto in cella, il Gip dispone imputazione coatta per tre medici corrieresalentino.it, 17 giugno 2018 Tre medici del carcere di Lecce rischiano di finire sotto processo per la morte di un detenuto. Il gip Edoardo D’Ambrosio ha infatti disposto l’imputazione coatta dei camici bianchi accogliendo così l’opposizione alla richiesta di archiviazione dei familiari della vittima. Nei prossimi dieci giorni il sostituto procuratore Francesca Miglietta dovrà quindi chiedere il rinvio a giudizio degli indagati con l’accusa di omicidio colposo. Successivamente un gip fisserà la data per l’udienza preliminare. Sarà solo l’ultimo passaggio di una lunga e complessa vicenda giudiziaria per cui la stessa accusa aveva avanzato, inizialente, l’archiviazione. Il caso è relativo alla morte di Donato Cartelli, 59enne originario di Uggiano La Chiesa deceduto il 18 febbraio del 2016. A dare avvio all’inchiesta era stata una denuncia dei familiari del detenuto assistiti dall’avvocato Andrea Conte. Dietro le sbarre Cartelli stava scontando una condanna a nove anni di reclusione per reati contro la persona. Il detenuto non aveva mai lamentato alcun problema di salute. E ai familiari non aveva riferito di alcun malanno. Anzi, nel corso dei colloqui, avrebbe sempre rassicurato i propri familiari augurandosi di poter beneficiare della liberazione anticipata alla luce della buona condotta tenuta dietro le sbarre. Il decesso si concretizzò nel rapido volgere di poche settimane dopo alcuni problemi di stomaco e cali di pressione. Il pubblico ministero Francesca Miglietta, sulla scorta degli esiti della perizia medica della dottoressa Gabriella Cretì nominata in sede di incidente probatorio, chiese l’archiviazione del procedimento. Dopo l’udienza camerale in cui si è discussa l’opposizione alla richiesta di archiviazione avanzata dal legale dei familiari di Cartelli, l’avvocato Andrea Conte, il gip Edoardo D’Ambrosio ha disposto l’imputazione coatta. Secondo il giudice, nel corso della prima visita medica del 20 gennaio 2016 non sarebbe stata disposta un’ecografia nonostante nei giorni successivi i dolori addominali persistessero. E nonostante tale esame sarebbe stato rifiutato dal detenuto per il gip i tre medici (che hanno tenuto in cura Cartelli) avrebbero avuto l’obbligo di fornire un’adeguata informazione sulle conseguenze delle proprie scelte al detenuto “soggetto in tutto e per tutto alle cure dello Stato”. I medici si sarebbero limitati nelle visite del 13 e 19 febbraio a prescrivere terapie generiche (un antidolorifico e un lassativo e un vasopressore pur di a fronte di un quadro cardiocircolatorio estremamente grave (pressione arteriosa pari a 80/60). I medici sono assistiti dagli avvocati Vincenzo e Antonio Venneri e Vincenzo Perrone. Taranto: i Radicali dopo la visita “in carcere condizioni pessime” tarantosera.it, 17 giugno 2018 Visita dell’associazione Pannella e del consigliere Franzoso. L’associazione politica Marco Pannella ha effettuato una visita ispettiva nel carcere di largo Magli insieme al consigliere regionale Francesca Franzoso. Della delegazione facevano parte Annarita Digiorgio, Claudio Leone, e Angelo Cannata. “È la trentesima visita che come radicali effettuiamo presso l’istituto di Taranto, e in tutti questi anni nonostante ogni volta segnaliamo puntualmente le inadempienze e le condizioni disumane e degradanti, che accomunano tutta la comunità penitenziaria, detenuti e detenenti, le condizioni sono sempre pessime - si legge in una nota dell’associazione - questo al netto degli sforzi al limite delle possibilità compiuti dal personale in servizio, che risultano inutili visto la scarsità di risorse umane presenti a fronte del sempre più aumento del sovraffollamento. Se in seguito agli ultimi decreti in materia penitenziaria e di giustizia penale due anni fa c’era stato un netto calo delle presenze con finalmente un letto per cella, adesso in tutte le celle singole è rispuntato il terzo letto. Questo risulta ancora più un problema considerando le celle chiuse di questo istituto. Durante la visita, accompagnati da vicedirettrice e vicecomandante, abbiamo parlato a lungo cella cella delle sezioni di alta sicurezza, isolamento, e protetti, con ogni detenuto raccogliendo segnalazioni specifiche che provvederemo a girare con interrogazioni e relazioni alla regione Puglia e al ministero della giustizia- prosegue la nota- principalmente i detenuti hanno lamentato le lunghe ore che trascorrono in cella senza fare nulla. Infatti pari a zero sono a Taranto le attività lavorative, sportive, o di svago, e ad esclusivo uso interno o a carico delle associazioni di volontariato esterno. Del tutto assenti sono le istituzioni locali su cui la struttura insiste e che pure ne hanno responsabilità su reinserimento e sanità. Il Comune di Taranto per esempio non ha ancora nominato il garante comunale dei detenuti la cui procedura è in stand by da anni. Al pari quello invece nominato dalla Regione Puglia continua ad essere totalmente assente dai luoghi su cui dovrebbe vigilare e dalle persone che dovrebbe garantire. Abbiamo poi verificato che quasi la totalità ha problemi di salute che se anche piccoli qui dentro diventano enormità non avendo a disposizioni le cure dovute e necessarie. Infatti totalmente insufficiente è il personale sanitario e le terapie previste. Passano mesi affinché possano vedere un medico, uno specialista, o fare un esame. Questa parte è di totale responsabilità della regione tramite Asl. Nello stesso ambito resta la difficoltà del personale di gestire oltre trenta detenuti psichiatrici che per legge dovrebbero essere ospitati nelle rems che però in Puglia sono solo due per un totale di 38 posti quindi l’ente è totalmente inadempiente. Rispetto al passato poi le cose si complicano per tutti poiché la nuova magistratura di sorveglianza incaricata su Taranto è molto più rigida e con molta difficoltà concede permessi premio. La scarsità della pianta organica rispetto ai detenuti presenti fa si che dalle 16 alle 8 del giorno seguente vi sia un solo agente per piano (oltre 150 detenuti) e non è facile gestire tutto”. Napoli: i Radicali in visita al carcere, fra i ragazzi di Nisida di Fabrizio Ferrante Ristretti Orizzonti, 17 giugno 2018 I Radicali per il Mezzogiorno europeo hanno visitato, nel pomeriggio di sabato 16 giugno, il carcere minorile napoletano di Nisida. Domenica 17 dalle ore 10 i Radicali varcheranno invece la soglia della casa circondariale di Poggioreale. La visita ispettiva che ha avuto luogo a Nisida ha visto la delegazione radicale accompagnata dal direttore della struttura, Gianluca Giuda (già vicedirettore fra gli adulti a Modena e Secondigliano) che ha illustrato i numeri del penitenziario minorile: al momento Nisida ospita 66 tra ragazzi e ragazze fra i 14 e i 25 anni, con reati commessi in minore età. I detenuti maschi sono 58 mentre otto sono le ragazze al momento ristrette, tra queste neppure una proveniente da Napoli. La maggior parte dei ristretti a Nisida sono italiani, gli stranieri sono una minima parte ben integrata nella struttura sia per quanto riguarda i ragazzi che le ragazze. Maschi e femmine sono separati per quanto riguarda le stanze di pernottamento (che ospitano dai due ai quattro ristretti) ma svolgono attività insieme durante il giorno. Al momento cinque ragazzi lavorano esternamente al carcere (articolo 21) e il 70% dei detenuti ha superato i 18 anni di età mentre i minorenni sono circa 20. Il carcere di Nisida, sempre secondo quanto riferito dal direttore, rientra nei numeri del rapporto tra detenuti e posti disponibili. I posti infatti sono 70 mentre i ristretti 66 ma il direttore Giuda ha aggiunto che a suo giudizio i posti dovrebbero essere di meno (non più di 45) per avere maggiori possibilità di attività trattamentali efficaci per tutti. Gli agenti penitenziari in servizio a Nisida sono 70, ovvero quelli previsti dalla pianta organica. Gli educatori sono otto, ovvero uno ogni otto ragazzi (a Poggioreale uno ogni 120 detenuti, tanto per fare un raffronto). Le custodie cautelari sono poche, vi è un aumento dei detenuti con cumuli di pena che li porta a stare in istituto per oltre un anno, dato in controtendenza rispetto al passato con permanenze spesso inferiori ai dodici mesi. Al superamento dei 25 anni di età si passa al carcere per adulti. Il sopravvitto vige con prezzi calmierati rispetto ad altre carceri, anche in funzione della minore quantità di beni ordinati per soddisfare le richieste dei detenuti di merci dall’esterno. Fra le attività in corso nel carcere di Nisida figurano: un laboratorio di restauro, una pizzeria, una falegnameria, un laboratorio teatrale e una pasticceria mentre alcuni detenuti stanno lavorando all’allestimento di un parco letterario, destinato a finire in prossimità del mare. A proposito di mare, per i detenuti più meritevoli si aprirà presto la prospettiva di un giorno di mare a settimana durante i mesi estivi. La scuola è obbligatoria, esiste una sezione del Centro permanente istruzione adulti, la scuola media e due insegnanti per l’alfabetizzazione. La sanità sconta le difficoltà burocratiche per quanto riguarda le cure specialistiche, da svolgere in ospedale coi tempi biblici dell’Asl, mentre è sempre presente il medico per le visite generiche o le situazioni gestibili in loco. È al momento in fase di ristrutturazione la sala colloqui, temporaneamente allestita con prefabbricati su un campo di basket e in un’area verde è stata allestita una zona dedicata ai ragazzi padri, per passare del tempo coi loro figli (previsti colloqui aggiuntivi il lunedì) avvicinandosi insieme alla lettura. A Nisida tuttavia non vige, per scelta del direttore, la politica delle celle aperte se non per una porzione minoritaria di detenuti. La giornata dei ragazzi li vede tuttavia ugualmente all’esterno delle stanze (tutte con doccia in camera) per diverse ore al giorno: alle 8:30 partono le attività, alle 12:30 si rientra e poi, dopo il pranzo, alle 14:30 attività formative, alle 17 tempo libero e merenda, cena in refettorio alle 19 e alle 19:30 di nuovo in stanza. La visita ha toccato numerose aree della socialità dei ragazzi: alcuni impegnati in un corso teatrale hanno dato vita a una piccola esibizione davanti alla delegazione radicale. Il corso di ceramica della cooperativa Nesis ha mostrato dove nascono tanti oggetti “Inciarmati a Nisida” come si legge su suppellettili più svariate, in vendita anche esternamente. Tre ragazzi sono stati già assunti. I detenuti impegnati in cucina, invece, tramite un’associazione svolgono catering al di fuori del penitenziario mentre vengono venduti porta a porta o tramite associazioni, degli splendidi presepi in corso di ultimazione nel laboratorio artigianale. Per quanto riguarda lo sport, dopo un progetto che nel passato ha riguardato il gioco del rugby, sono al momento in essere corsi di calcio e basket, ogni martedì e venerdì. La struttura ospita infatti campi per questi due sport ma anche per il volley. Infine una nota di gossip: il direttore del carcere di Nisida non ha confermato, ma non ha nemmeno smentito, la voce secondo cui il noto quanto misterioso cantante Liberato sia un detenuto di Nisida. “Bisogna rispettare la riservatezza del ragazzo”, ha detto Guida, per una frase che potrebbe anche essere sibillina. O forse no ma il mistero, almeno per chi ne è appassionato, resta. Roma: i detenuti di Rebibbia al lavoro per ripulire la città Ansa, 17 giugno 2018 L’attività lavorativa prevede l’impegno in strada 5 giorni a settimana. Dopo la sottoscrizione dell’accordo congiunto Roma Capitale - Ministero della Giustizia e la successiva firma del Protocollo d’Intesa per il progetto “Lavori di pubblica utilità e recupero del patrimonio ambientale”, con il coinvolgimento dei detenuti della Casa circondariale di Rebibbia, ha preso il via lunedì 26 marzo il progetto volto a favorire il reinserimento socio lavorativo dei soggetti in espiazione di pena. Partirà in via sperimentale al Carcere di Rebibbia ma coinvolgerà successivamente anche gli altri Istituti penitenziari. Il progetto si fonda su attività di “lavoro volontario e gratuito”, tenendo conto delle specifiche professionalità e attitudini lavorative, promuovendo un percorso di sensibilizzazione al rispetto del bene comune, alla legalità, all’osservanza delle regole e delle norme, come elementi imprescindibili per il percorso di reintegrazione del reo. Sono stati 18 i primi detenuti che lunedì 26 marzo alle ore 9.00 hanno preso servizio al Parco di Colle Oppio, prima di una serie di ville e parchi destinati alla manutenzione. L’attività lavorativa prevede l’impegno in strada 5 giorni a settimana, ed ha una durata di 6 mesi sotto il controllo diretto e la supervisione della Polizia Penitenziaria. Il percorso di formazione preventivo, con rilascio di attestato, svolto dai detenuti e organizzato dal Servizio Giardini, potrà servire anche successivamente per il loro reintegro nel mondo lavorativo. Trento: “Biblioteca vivente”, narrazioni oltre le mura del carcere Ristretti Orizzonti, 17 giugno 2018 Nell’ambito del progetto “LIBeRI (da) Dentro”, realizzato grazie al contributo della Fondazione Caritro, avrà luogo l’evento “Biblioteca Vivente - Narrazioni oltre le mura del carcere”, che mira a diffondere nella cittadinanza una conoscenza reale del mondo del carcere, delle pene e del loro effetto sulle persone, superando i relativi stereotipi e pregiudizi. I visitatori potranno prendere in prestito un “libro umano”, conversando a tu per tu in maniera informale con persone che nella quotidianità non avrebbero occasione di incontrare. I libri umani saranno principalmente detenuti o ex detenuti, ma anche familiari e operatori del carcere. La metodologia della “Biblioteca Vivente”, dispositivo culturale riconosciuto dal Consiglio d’Europa, sarà utilizzata secondo il modello di ABCittà, che insiste sulla dimensione interculturale, partecipativa e funzionale. Trento, Piazza Duomo, lunedì 25 giugno, 18:00 – 21:00 Napoli: presentazione del nuovo libro di Samuele Ciambriello “Caro prof. ti scrivo…” linkabile.it, 17 giugno 2018 Lunedì 18 giugno alle ore 11.00 presso le aule scolastiche, dell’istituto penitenziario di Poggioreale ci sarà un incontro tra i detenuti, alcuni volontari, gli autori Samuele Ciambriello e Giuseppe Ventura e il prof Rosario Bianco che per la Rogiosi edizione, ha promosso e stampato il libro “Caro Prof ti scrivo. Gli adolescenti scrivono al docente di religione”. L’iniziativa è inserita in uno degli appuntamenti previsti per il progetto, in corso, per alcuni detenuti del Padiglione Genova, denominato “a corto di idee”, promosso dell’Associazione “La Mansarda Onlus”, che ha lo scopo di sviluppare il senso critico e le capacità di discussione tra i detenuti, analizzando argomenti, che sia direttamente che marginalmente, toccano la vita carceraria. Interverranno anche dei detenuti del padiglione Firenze che per la prima volta sono entrati in carcere ed hanno frequentato degli incontri con le volontarie dell’associazione La Mansarda. Al centro dell’incontro temi come il senso della vita, la felicità, le relazioni genitori figli, l’amicizia e l’esperienza di fede che sono trattati dai temi degli adolescenti presenti nel libro. Per questo momento di condivisione e confronto, è stato autorizzato l’ingresso ai giornalisti della carta stampata e delle agenzie muniti di tesserino. Non si possono fare video né fotografie. Per motivi organizzativi e di sicurezza si invita a presentarsi per le ore 10.30. La strage silenziosa dei campi, dove italiani e migranti muoiono insieme di Antonello Mangano L'Espresso, 17 giugno 2018 Negli ultimi sei anni i braccianti caduti sono più di 1.500. Immigrati e italiani. Nell’indifferenza generale. Il sindacalista Soumayla, ammazzato in Calabria il 2 giugno, lottava per i diritti di questi lavoratori. Becky è morta tra le fiamme. Sacko, pochi giorni fa, è stato ucciso a fucilate mentre cercava delle lamiere per le baracche. Paola è morta di caldo. Marcus di freddo. Negli ultimi sei anni, almeno 1.500 lavoratori sono deceduti nei campi: bruciati vivi negli incendi dei ghetti, investiti da un treno, ammazzati dalla fatica o dai “padroni”. Da Nord a Sud, l’agricoltura nel nostro Paese ha il volto della guerra. Muoiono italiani, romeni, africani, arabi. Di caporalato, come i polacchi in Puglia. Di mafia, come gli algerini a Rosarno. E italiani, magari per incidenti col trattore. Storie che finiscono nelle cronache locali per poi essere dimenticate in fretta, invisibili alle statistiche ufficiali, registrate come “difetti in itinere”. Fiamme nel ghetto - "Fuoco, fuoco, fuoco". Sono le due di notte del 27 gennaio 2018. Chi si sveglia all’improvviso. Chi prova a uscire dal torpore del sonno. La plastica diventa incandescente. I riflessi delle fiamme illuminano la notte. Duemila persone corrono più forte che possono. Ma Becky Moses, 26 anni, non ce la fa a uscire dalla baracca di legno, plastica e cartone. E muore arsa viva. Nella bara di zinco finiscono i pochi resti carbonizzati, portati via tra le lacrime delle altre nigeriane e gli sguardi attoniti degli uomini. Becky viveva nel ghetto vicino a Rosarno, uno dei tanti dove vivono in condizioni infernali i braccianti impegnati nelle raccolte. Arance in Calabria, pomodori in Puglia. Dalla stessa baraccopoli, o da quello che ne restava dopo il rogo, è partito domenica scorsa Soumayla Sacko, 29 anni, originario del Mali, per andare a cercare delle lamiere per le baracche dei suoi compagni in una vicina fabbrica abbandonata. Qualcuno lo ha puntato col fucile e gli ha sparato colpendolo dritto in testa. Più fortunati sono stati i due ragazzi che erano con lui, presi anche loro di mira in questo tiro al bersaglio, ma riusciti a scappare. E a denunciare quanto successo. Le campagne rosarnesi sono un grande cimitero. Raccontano storie di ghanesi disperati che si impiccano nelle fabbriche diroccate o di braccianti investiti mentre tornano dal lavoro in bici su strade male illuminate. Dominic Man Addiah, per esempio, è scappato alla guerra in Liberia per morire in Europa. Dormiva in auto ai bordi del ghetto di Rosarno. Era il 2013 ed è morto di freddo. Marcus era nato in Gambia e aveva girato mezzo mondo prima di arrivare nelle campagne calabresi. Era malato: è morto alla fine del 2010 nell’ospedale di Lamezia, provincia di Catanzaro, assistito dai volontari che hanno dovuto comunicare la notizia ai familiari in Africa. La morte di Sekine, poi, è semplicemente senza senso. Siamo ancora nel ghetto, giugno 2016, tra gli spacci informali che vendono burro di arachidi e antidolorifico in bustine. Un gruppo di agenti - sei tra poliziotti e carabinieri - interviene per sedare una rissa. Sekine Triore, 27 anni, è evidentemente fuori di testa, "in stato di alterazione psicofisica", annota il verbale. La dinamica è controversa. Avrebbe un coltello in mano, gli agenti lo affrontano. Lui ne colpisce uno all’occhio, questo reagisce. Un proiettile trafora l’addome. Sekine morirà poco dopo all’ospedale di Polistena. Il processo - “eccesso di legittima difesa”, il reato ipotizzato - è ancora alle udienze preliminari. Dopo quello sparo si teme una rivolta. Ma ci sarà soltanto un corteo con cartelli di cartone. E le morti dei braccianti non avvengono solo d’estate. Tra Rossano e Corigliano, ogni inverno, oltre diecimila lavoratori dell’Est arrivano per la raccolta delle clementine. Nel novembre del 2012 lo scontro tra un trenino diesel e un furgone con sei rumeni di ritorno dai campi è spaventoso: l’impatto lascia un ammasso di lamiere e sangue. Poi arrivano due ditte di pompe funebri: "Li abbiamo visti prima noi", dicono, e si contendono i corpi a calci e pugni. Un cadavere rotola sul terreno. I parenti delle vittime non ne possono più: "Mettete la testa in un vaso. Vergognatevi. C’è il nostro sangue qui". Per i congiunti è l’inizio di una trafila del dolore: non avranno neanche il risarcimento Inail. A Foggia invece gli africani ricordano le fiamme del marzo 2017. Allora i morti furono due: Mamadou Konate e Nouhou Doumbia, 33 e 36 anni, entrambi del Mali. Uno ha vissuto gli ultimi istanti sulla sua branda, avvolto dalle fiamme, l’altro mentre cercava la salvezza sulla porta della baracca. Il vento ha propagato il fuoco. Poteva essere una strage. "Se la sono cercata", secondo alcuni: non avevano obbedito all’ordinanza di sgombero del ghetto e sono rimasti ostinatamente lì, dove le condizioni sono orribili ma anche dove i caporali vengono a portare lavoro. Centinaia di desaparecidos - Asfissiati o carbonizzati, a bastonate e a coltellate, investiti da un Tir o colpiti da infarto. Persino annegati nei vasconi per la raccolta dell’acqua. Alessandro Leogrande - per una strana maledizione morto d’infarto a 40 anni lo scorso novembre - aveva raccolto in un libro le testimonianze dei parenti dei polacchi scomparsi: 119 dal 2000 al 2006. Inghiottiti dalle campagne pugliesi. Attirati da connazionali e schiavizzati a morte. Anche a Rosarno, negli anni 90, in tanti hanno perso la vita senza un perché. Ma a differenza della Puglia, uccisi da italiani e non da connazionali. Il motivo? Difficile da decifrare. In quegli anni non c’erano né Ong sul territorio, né una particolare attenzione mediatica. Le campagne del profondo Sud erano letteralmente al buio. In pochissimi avevano a cuore la sorte di lavoratori senza volto, nome, documenti. I loro cadaveri sparivano nel fango dei campi, seppelliti in casolari, uccisi a fucilate. Un bilancio è impossibile. Tra i pochi nomi sottratti all’oblio, due ragazzi di 20 anni. Abdelgani Abid e Sari Mabini, algerini. Attirati in auto con la promessa di un lavoro in campagna e uccisi a bruciapelo in una zona isolata. Era il 1992. Saranno solo i primi di una lunga serie di morti e feriti. Uccisi dalla fatica - Per lo Stato, Paola si occupava di “direzione aziendale e consulenza gestionale”. Almeno è quello che dicono i registri Inail. Invece stava da mattina a sera con la testa verso l’alto e le mani protese a pulire i grappoli d’uva. E non era neanche assunta direttamente, ma “somministrata” da un’agenzia interinale. Il volto moderno del caporalato. A 49 anni, si alzava ogni notte alle tre, prendeva un autobus da San Giorgio Jonico alle campagne di Andria e toglieva i chicchi più piccoli dai grappoli. Quelli che impediscono agli altri di crescere. Tecnicamente si chiama acinellatura. È uno dei lavori più pesanti e peggio pagati in agricoltura. In Puglia, tradizionalmente, è un lavoro da donne. Mani delicate e poche pretese. "Meno di trenta euro a giornata, nonostante i contratti provinciali stabiliscano un salario di 52 euro", dicono i sindacalisti. Quel giorno, sotto il tendone, c’erano quaranta gradi. Il dolore alla cervicale era forte, ma con quel lavoro è normale. Poi lo svenimento, occhi sbarrati, le urla delle colleghe. Mezz’ora sul terreno. A prenderla non è venuta l’ambulanza, ma direttamente il carro funebre. Il 13 luglio del 2015 gli italiani scoprono un mondo nuovo. Morire di sfruttamento non è solo questione da africani che vivono nella “clandestinità”. Riguarda anche una fetta di mondo “normale”: italiani assunti da agenzie interinali. L’estate del 2015 sarà ricordata per le temperature sopra la media. E per i caduti. Morti di fatica da Carmagnola, provincia di Torino, a Vittoria, vicino Ragusa. Almeno, la fine di Mohamed Abdullah è servita a qualcosa: raccontare il percorso dei pomodori dal caporalato alle nostre tavole. Il sudanese è morto di infarto nei pressi di Nardò. Nel corso delle indagini, i carabinieri di Lecce hanno seguito a ritroso il percorso degli ortaggi. Una piccola ditta del leccese assoldava un caporale, che formava le squadre per la raccolta. I pomodori finivano a una cooperativa di Andria che riforniva marchi importanti: una vicino Parma, una nei pressi di Bologna, un altro nel napoletano e più in là fino al mercato inglese. Invisibili alle statistiche - La “Spoon river” dei campi italiani è fatta di uomini e donne senza volto. Ma anche di numeri evanescenti. Prendiamo il 2015. Secondo l’Inail, sono morte soltanto tredici persone nei campi. Eppure quell’anno si è registrata una vera ecatombe. Dove sono finiti Stefan, Paola, Mohamed, Zakaria, Vasile, Arcangelo, Ioan? Non li troviamo sotto la voce agricoltura, ma tra i 336 deceduti non assegnati a una categoria, inseriti nel sommerso. Del resto, i rapporti dell’Ispettorato del lavoro dicono che - nel settore primario - il 50 per cento delle imprese ispezionate risulta irregolare. Ma allora quanta gente è morta nei campi? Secondo l’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro nel 2015 sono stati 518. In agricoltura si registrerebbe il 37 per cento del totale degli incidenti mortali. La differenza rispetto ai dati ufficiali la spiega Carlo Soricelli, anima dell’Osservatorio, un metalmeccanico bolognese in pensione che da dieci anni conta tutti gli infortuni mortali, spulciando ogni giorno la stampa: "L’Inail considera solo i propri assicurati, escludendo partite Iva, artigiani, liberi professionisti che hanno altre assicurazioni". L’Osservatorio inserisce nelle sue statistiche anche tutti gli incidenti “in itinere”, cioè andando o tornando dal luogo di lavoro. Ma su una cosa sono tutti d’accordo. Muoiono soprattutto gli italiani. Nella fascia del sommerso - sempre relativa al 2015 - i dati Inail parlano di 272 italiani deceduti su 336 (l’81 per cento). Al secondo posto i rumeni (27 casi). Terzi, a grande distanza, gli indiani (9). Anche l’Osservatorio conferma che la stragrande maggioranza dei morti è italiana. Un dato rimane costante: una vittima su cinque - in tutte le categorie - è uccisa dal trattore. "Il terreno può nascondere insidie pazzesche: spesso sembra asciutto ma sotto è impregnato d’acqua. Il peso del trattore in un terreno in pendenza è micidiale", dice Soricelli. Così un agricoltore di Sessame, provincia di Asti, è morto decapitato: prima il ribaltamento, poi un filare che gli trancia il capo. È il maggio del 2017. Si tratta soltanto di uno dei tantissimi casi di una strage invisibile che coinvolge in gran parte italiani. La maggior parte dei quali oltre i 50 anni. I numeri - raccolti dall’osservatorio bolognese - sono spaventosi. Centotrentotto morti nel 2017, oltre 1.400 negli ultimi dieci anni. Per evitare almeno questa mattanza basterebbe poco. Per esempio la legge europea che prevede uno specifico patentino. Ma l’applicazione è stata ritardata più volte. L’ultima, giusto un anno fa. Politica migratoria: la solidarietà non basta di Sergio Fabbrini Il Sole 24 Ore, 17 giugno 2018 L’Europa avrebbe dovuto “fare di più per aiutare l’Italia ad affrontare gli enormi flussi migratori”, ha riconosciuto la cancelliera tedesca Merkel. L’Italia “è stata lasciata da sola ad affrontare la sfida delle migrazioni”, ha ribadito l’altro ieri il presidente francese Macron nell’incontro con il nostro presidente del Consiglio Conte. Non c’è stato un governo italiano degli ultimi anni che non abbia denunciato l’ipocrisia europea, ricca di nobili parole (nei nostri confronti) ma povera di concrete azioni (per sostenerci). Tutto vero. Ma anche tutto (troppo) semplice. Per affrontare una crisi migratoria di queste proporzioni, la solidarietà non basta. Ci vuole un nuovo approccio alla politica migratoria. Quale? Rispondo cominciando dall’inizio. Primo. La politica migratoria è stata tradizionalmente una prerogativa centrale dello stato nazionale, in quanto ha influenzato la capacità di quest’ultimo di proteggere la propria sovranità territoriale. Lo stesso discorso vale per la politica dell’asilo, il cui controllo consente a uno Stato di stabilire chi può vivere all’interno dei suoi confini. Con la fine della Guerra Fredda, e lo scongelamento delle frontiere che si era determinato, quelle prerogative furono portate a Bruxelles e organizzate all’interno di uno specifico pilastro di collaborazione intergovernativa. Con il Trattato di Maastricht del 1992, gli stati membri dell’Unione europea (Ue) decisero di coordinarsi sul piano di quelle politiche, mantenendo però il controllo delle proprie sovranità territoriali. Tale approccio era stato inaugurato già dagli Accordi di Schengen del 1985 (la cui Convenzione, di natura internazionale, verrà firmata il 15 giugno 1990, divenendo quindi legge comunitario nel 1999) che avviarono l’eliminazione delle frontiere interne tra i Paesi aderenti a quegli Accordi. Eliminazione a cui non corrispose appunto la creazione di una comune frontiera esterna. Lo stesso approccio guidò la Convenzione di Dublino (firmata anch’essa il 15 giugno 1990, divenuta quindi legge comunitaria nel 2003) in base alla quale si decise che spettasse allo stato di primo arrivo stabilire se accettare la domanda d’asilo politico di un migrante. In poche parole, gli stati europei hanno dovuto riconoscere che la questione migratoria non può essere risolta da ognuno di loro singolarmente. Tuttavia, non hanno voluto rinunciare al principio della loro sovranità territoriale. Poteva funzionare? Secondo. Quando esplose la crisi migratoria alla metà di questo decennio, il coordinamento volontario delle sovranità territoriali non ha più funzionato. Vennero quindi avviati tentativi per ridimensionare quelle sovranità, così da promuovere risposte collettive. Nel 2015 la Commissione propose uno schema per la rilocazione dei rifugiati politici tra i vari stati europei, nel 2016 la piccola agenzia per il coordinamento delle frontiere (Frontex) fu trasformata in una Guardia europea di frontiera e costiera. Più l’immigrazione aumentava, più la Commissione e il Consiglio dei ministri hanno dovuto trovare soluzioni collettive, più tali soluzioni furono però vissute come intrusioni nelle sovranità nazionali. Così, ovunque si è registrata la crescita impetuosa di partiti che denunciavano “l’impotenza europea nei confronti dell’immigrazione”, presentando quest’ultima come una minaccia esistenziale alle società nazionali. Una crescita così impetuosa che quei partiti sono andati al potere (prima) nei Paesi dell’Europa orientale e (poi) anche dell’Europa centro-occidentale (tra cui in Italia con le elezioni del marzo scorso). Per quei partiti occorre chiudere le frontiere nazionali così da creare una “fortezza Europa” distaccata (militarmente, se necessario) dalle aree regionali limitrofe (Africa in particolare). È possibile che un problema di questa magnitudine possa essere affrontato Paese per Paese? E, soprattutto, basta davvero chiudere la porta per fermare l’acqua? Terzo. Se è impensabile chiudere le frontiere in un Paese come il nostro, tuttavia sarebbe opportuno domandarsi se ha senso continuare a fare affidamento sulla solidarietà degli altri per gestire i flussi migratori che arrivano sulle nostre coste. Certamente è ragionevole chiedere che la Commissione assuma compiti di redistribuzione dei costi “migratori” (dai Paesi più esposti a quelli meno esposti), oppure che i Paesi meno colpiti dallo shock migratorio si impegnino finanziariamente e organizzativamente per costruire centri di raccolta dei migranti là dove essi partono per andare in Italia. Così è ragionevole chiedere di rivedere gli accordi di Dublino (magari evitando di allearsi con i Paesi di Visegrad che quegli accordi vogliono semplicemente abolirli). Per quanto tali misure siano necessarie, tuttavia esse non vanno al cuore del problema. Che è costituito (appunto) dalla persistenza della sovranità territoriale degli stati. Ecco perché il grido di dolore sull’Europa “che ci dovrebbe aiutare di più” andrebbe accompagnato da una strategia rigorosa per ridefinire quelle sovranità territoriali. Una strategia finalizzata a dare vita ad un governo comune della politica migratoria che sia indipendente e separato dai singoli stati. Occorre trasformare la Guardia europea in un’agenzia che possa agire autonomamente dalle volontà dei singoli governi (mentre ora interviene se richiesta da questi ultimi), così garantendo lo spazio europeo della libera circolazione. Occorre assegnare al governo comune della politica migratoria un bilancio indipendente, derivato da una capacità fiscale autonoma e gestito da un commissario responsabile verso il Parlamento europeo e il Consiglio dei ministri. Si tratta infine di sostituire gli Accordi di Dublino con una politica europea dell’asilo politico, decisa dal legislativo bicamerale a maggioranza e gestita da autorità politiche sovranazionali. In conclusione, occorre superare la logica intergovernativa della politica migratoria, così come si è sviluppata da Maastricht in poi. Va tolta l’acqua ai pesci sovranisti che criticano l’Europa per non fare abbastanza e, contemporaneamente, le impediscono di acquisire la necessaria sovranità per fare qualcosa in modo efficace. Ecco perché, oltre a chiedere solidarietà, dovremmo avanzare una strategia di riforma strutturale della politica migratoria. La xenofobia non protegge l’Europa di Juan Luis Cebrián La Stampa, 17 giugno 2018 L’intento iniziale del governo spagnolo di concedere lo status di rifugiato agli oltre 600 migranti della nave Aquarius, a cui è stato negato l’attracco ai porti italiani e che è stata dirottata verso Valencia, ha suscitato la preoccupazione che questo possa creare un precedente nel trattamento dell’immigrazione illegale da parte di Madrid. Il portavoce dell’appena nominato e inesperto gabinetto di Pedro Sanchez insiste sul fatto che la Spagna non intende impegnarsi ad accogliere i profughi respinti da altri Paesi e fa riferimento alla natura esclusivamente “umanitaria” di questo caso, che non influirà sulla politica generale in materia di immigrazione. Alla fine, i naufraghi saranno trattati come qualsiasi altra persona che arrivi illegalmente sulle spiagge spagnole, con la consueta procedura dell’identificazione individuale e il rimpatrio nel Paese di origine di tutti coloro che non soddisfano le condizioni legali per la richiesta di asilo. Intanto l’incidente ha scatenato una polemica tra il governo francese e quello italiano, mentre i nazionalisti bavaresi si stanno ribellando alla politica sull’immigrazione di Angela Merkel. Questi scontri sono una pessima premessa per quello che inevitabilmente dovrà seguire: una seria riflessione all’interno dell’Unione Europea che porti a una politica comune in materia di immigrazione illegale, rifugiati e controllo delle frontiere. Oltre alla situazione estremamente grave creata dalla guerra in Siria e dal conflitto civile ucraino, con milioni di sfollati e rifugiati, la pressione migratoria di quelli che fuggono dalle carestie africane, abbagliati dal miraggio del sogno europeo, si intensificherà nel breve e medio termine. La polarizzazione del dibattito politico su questi temi ha già generato conseguenze gravi come la Brexit, la vittoria dei partiti anti-sistema in Italia, la crescita dell’estrema destra in Francia, Germania, Austria e nei Paesi nordici, e le tendenze filofasciste delle ex nazioni del Patto di Varsavia, ora incorporate nell’Europa di Bruxelles. Al centro del problema ci sono le realtà demografiche dell’Europa e dell’Africa; la schiacciante disuguaglianza economica tra le due sponde del Mediterraneo e la violazione dei diritti umani nella maggior parte dei Paesi da cui arrivano i flussi migratori. Gli 1,4 miliardi di africani arriveranno a 1,8 in meno di un decennio e quasi la metà di loro avrà meno di 14 anni. Nel frattempo, l’Europa unita non registra praticamente variazioni del numero di abitanti mentre la popolazione continua ad invecchiare e la percentuale di bambini e adolescenti è meno del quindici per cento. Il reddito medio pro capite nei Paesi dell’Unione supera i 30 mila dollari a fronte di un migliaio scarsi per gran parte delle nazioni africane. Per di più i social network e la televisione si incaricano di far conoscere agli africani l’opulenza europea, in contrasto con il destino oscuro dei loro Paesi, dove le circostanze vedono ridotti in schiavitù, sia pure non dichiarata né riconosciuta, centinaia di migliaia di loro abitanti. Se vuole mantenere lo standard di vita e la protezione sociale dei suoi cittadini, l’Europa ha bisogno di manodopera immigrata. Al netto delle discussioni sul carattere benevolo o maligno di ciascuno dei suoi governanti e dell’uso politico di una realtà così dolorosa e esecrabile come quella che abbiamo descritto, la Commissione e il Consiglio dei ministri devono votarsi ad adottare politiche che permettano allo stesso tempo di migliorare la protezione delle frontiere e l’integrazione di milioni di nuovi europei d’adozione. Questo è il problema principale dell’Ue e deve rimanere tale per gli anni a venire. Supporre che possa essere risolto trasformando il continente in una fortezza è, oltre che ingiusto, inutile. Manipolare le coscienze dei cittadini rappresentando il rifugiato o il migrante come un nemico delle nostre società, servirà solo a incoraggiare la xenofobia, rovinare la convivenza e distruggere la democrazia. Non a fermare i flussi migratori. Pena di morte. Giudice Usa rischia di essere cacciato perché contrario alle esecuzioni La Repubblica, 17 giugno 2018 Il report di Nessuno Tocchi Caino. Otto esecuzioni capitali in Iran. Commutata una condanna a morte in Arabia Saudita in 6 anni di carcere e 500 frustate- Nello Stato dell’Arkansas (Usa) un giudice rischia di essere sollevato dal siu ruolo (ancorché eletto dai cittadini) per aver partecipato ad una manifestazione contro la pena di morte. La Commissione Disciplinare Giudiziaria (Jdcc) dello Stato nel Sud degli Stati Uniti - si apprende dal sito di Nessuno Tocchi Caino - ha presentato le sue accuse formali contro il giudice Wendel Griffen, della Pulaski County per essersi esposto con i movimenti che si battono per l’abolizione della pena capitale. L’accusa potrebbe risultare nella sua sospensione o rimozione dall’ufficio. Griffen, 65 anni, nero, che è anche un Pastore Battista della New Millennium Church, il 14 aprile dell’anno scorso (era Venerdì Santo) poche ore dopo aver emesso un’ordinanza che sospendeva le esecuzioni nello Stato, aveva partecipato in prima persona ad una manifestazione contro la pena di morte, che si era svolta davanti agli uffici del Governatore. Il giudice che mima l’esecuzione di un condannato. Nel corso di quella manifestazione, il giudice, adagiato su una brandina da campo, avrebbe mimato un condannato a morte in attesa dell’iniezione letale. Tre giorni dopo, la Corte Suprema ha prima annullato la sua ordinanza (poi ripresa da un altro giudice, e anche quella annullata dalla Corte Suprema), e subito dopo ha disposto che da quel momento in poi il giudice Griffen non dovesse più trattare, per sempre, casi che avessero in oggetto i farmaci letali o comunque la pena di morte. La Corte aveva inoltre deferito Griffen a una commissione disciplinare, la “Judicial Discipline and Disability Commission”. Griffen aveva reagito alla dura reprimenda della Corte Suprema sia avviando un’azione legale davanti a una corte federale contro i singoli membri della Corte Suprema, sia sostenendo che fosse un attacco alla sua libertà di giudice eletto dai cittadini, motivato soprattutto dal fatto che lui fosse un uomo di colore. “Libertà di parola sì, ma poi ti devi dimettere”. I tre membri della Commissione incaricati di seguire il caso hanno citato la sua partecipazione alla manifestazione, oltre i commenti che aveva fatto on line e sui social media contro la pena di morte. “Il giudice Griffen - hanno affermato i membri della Commissione - ha il diritto alla libertà di parola, ma una volta rivendicata la sua libertà di parola di opposizione alla pena di morte, aveva l’obbligo di ricusarsi (astenersi) da ogni caso riguardante la pena di morte”. Griffen il 17 aprile 2018 ha di nuovo messo in scena la sua manifestazione fuori dalla villa del governatore, durante una veglia per celebrare il primo anniversario delle 4 esecuzioni che l”Arkansas ha effettuato l’anno scorso. Griffen ha 30 giorni di tempo per rispondere alle accuse e avrà un’udienza di fronte alla Commissione riunita in plenum e se questa accoglierà le accuse, potrà raccomandare alla Corte Suprema di Stato di sospendere o rimuovere Griffen. In subordine, potrebbe anche emettere un ammonimento pubblico, cioè rimproverare o censurare il giudice Griffen. Iran - Otto condanne a morte. La Corte Suprema iraniana, a Teheran, ha confermato le condanne a morte per otto membri del gruppo terrorista Daesh (o Isis), accusati di avere avuto un ruolo organizzativo negli attacchi terroristici a Teheran nel giugno 2017. Lo ha comunicato alla stampa il capo del Tribunale rivoluzionario di Teheran, Mousa Ghazanfarabadi. Ha aggiunto che la Corte Suprema ha stabilito che la pena capitale è commisurata alla loro condanna per “aiuto e favoreggiamento” di un’azione violenta contro il potere costituito. Il 7 giugno 2017, i terroristi di Daesh hanno lanciato attacchi simultanei contro il palazzo del Parlamento iraniano nel centro di Teheran e al mausoleo del defunto fondatore della Repubblica Islamica, Imam Khomeini. Gli attacchi causarono la morte di 17 persone e più di 40 feriti. Cinque terroristi furono uccisi. Arabia Saudita - Annullata l’esecuzione della pena per una donna. Una cittadina indonesiana, Nurkoyah binti Marsan Dasan, ha vinto una battaglia, durata 8 anni, per sfuggire alla pena di morte dopo essere stata accusata di aver ucciso un bambino di 3 mesi in Arabia Saudita. Secondo una dichiarazione dell’Ambasciatore indonesiano in Arabia Saudita, il Paese ha annullato la pena di morte per Nurkoyah, una notizia che arriva subito dopo quella dell’annullamento della pena di morte per altri 2 indonesiani il 7 maggio 2018. Nurkoyah era stata accusata di aver ucciso un bambino di 3 mesi, Masyari bin Ahmad al-Busyail, dopo aver messo deliberatamente nel suo latte droghe e veleno per topi. Dopo aver attraversato un lungo e difficile processo dalla data del suo arresto, il 9 maggio 2010, la donna ha finalmente avuto la certezza del rigetto da parte del giudice della richiesta di pena di morte il 31 maggio scorso. Il verdetto è giuridicamente vincolante e ha segnato la fine del processo. La condanna commutata in 6 anni di carcere e 500 frustate. Durante l’udienza, il giudice ha respinto la “had ghilah” (la pena di morte, appunto) e ha deciso al suo posto la “ta zir” (una specie di punizione disciplinare) con una condanna a 6 anni di carcere e 500 colpi di frusta. La decisione è basata sulla confessione fatta da Nurkoyah all’inizio dell”indagine, anche se in seguito l’ha ritirata dicendo che era stata fatta sotto pressione. Il padre del bambino, Khalid Al-Busyail, ha quindi intentato una causa per “qisas” (vendetta) contro Nurkoyah. Il giudice del Tribunale distrettuale di Dammam ha respinto la condanna a morte perché lei ha negato le accuse e il padre non è stato in grado di presentare altre prove a sostegno della richiesta. Somalia - Pena di morte e progetto-terrorismo. L’organizzazione Nessuno tocchi Caino ha tenuto una serie di incontri, a distanza di un anno dall’avvio del progetto “Contenere la pena di morte in tempo di guerra al terrorismo in Somalia, Tunisia ed Egitto”, a Nairobi, in Kenya, per fare una valutazione del lavoro svolto in Somalia. Con una riunione svoltasi presso la sede della Somali Women Agenda, tra Elisabetta Zamparutti e Laura Harth, per Nessuno tocchi Caino e Hibo Yassin, Beatrice Kamanan, Patrick Onyango, Duncan Njorge e Smitangi per la Somali Women Agenda, si è deciso di presentare i risultati di questo primo anno di attività alla fine di luglio a Mogadiscio. È stato infatti possibile visitare le carceri, tanto civili che militari, di Mogadiscio e di Baiboa e altre sono in programma per raccogliere dati sui detenuti nel braccio della morte in Somalia. Un aumento delle esecuzioni. Il monitoraggio è svolto in partnership con il Capo dell’Amministrazione penitenziaria somala, Gen. Bashir. In base alla ricerca, nel 2017, si è registrato un aumento delle esecuzioni, almeno 24, la maggior parte (21) per terrorismo. Altrettante sono state le condanne a morte pronunciate nel corso dell’anno. Almeno 12 delle 24 esecuzioni sono avvenute sotto l’autorità del Governo federale (9 per terrorismo) e 12 nel Puntland, tutte per terrorismo. Tanto le 24 condanne a morte che le 24 esecuzioni sono state comminate da tribunali militari, per lo più nei confronti di civili, fatte salve le tre condanne a morte e altre tre esecuzioni di appartenenti a forze armate in Somalia. Un successivo incontro tra Nessuno tocchi Caino e la Somali Woman Agenda si è svolto presso l’Unione Europea dove si è appreso che una Corte, istituita grazie agli sforzi dell’Unodc (United Nation Office on Drugs and Crime) e di altri donatori governativi, come il Regno Unito, l’Olanda e la Danimarca, è stata costruita a Mogadiscio per trattare tutti i casi di civili che, ritenuti responsabili di atti di terrorismo o di pirateria, altrimenti sarebbero giudicati impropriamente dalle Corti militari. Autorità Nazionale Palestinese - Verso l’abolizione delle pene capitali. Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha firmato l’adesione dello Stato di Palestina a 7 convenzioni e trattati internazionali, incluso il secondo protocollo facoltativo del 1989 al Patto internazionale sui diritti civili e politici (Iccpr), mirante all’abolizione della pena di morte. Il Centro palestinese per i diritti umani (Pchr) ha commentato positivamente l’adesione al protocollo Iccpr, ed ha sottolineato che si tratta di un passo nella giusta direzione che deve ora essere seguito dalle appropriate misure legislative. In una dichiarazione, il Pchr ha affermato che dal suo insediamento nel 1995, il centro si è opposto all’uso della pena di morte nel territorio palestinese occupato (Opt) e ha invitato la leadership palestinese in molte occasioni e ogni volta che veniva emessa una nuova condanna a morte ad abolirla e firmare il relativo protocollo internazionale. Condanne senza appello e scarse tecniche investigative. Il Pchr ha sempre criticato l’uso della pena di morte da parte della Autorità Nazionale Palestinese (Anp) per la scarsa qualità delle tecniche investigative e le scarse garanzie per un giusto processo, circostanze a cui si deve aggiungere l’inumanità stessa della pena di morte, e la sua inefficienza come elemento di deterrenza. Da quando l’Autorità Palestinese è stata fondata, e soprattutto in seguito alle sue divisioni interne, il Pchr ha monitorato la costante assenza di processi equi e di corrette procedure legali. Una delle carenze più gravi, secondo Pchr, è l’uso di tribunali militari per processare civili, tribunali militari che nella Striscia di Gaza prendono il nome di “Field Court”, ed emettono sentenze che vengono eseguite immediatamente, senza possibilità di appello, e senza la ratifica, che sarebbe prevista dalla legge, da parte del presidente dell’Anp. Pchr ha anche riscontrato l’uso sistemico della tortura e l’assenza di garanzia processuali. Le 173 esecuzioni a Gaza, le 30 in Cisgiordania. Da quando è stata istituita l’Anp nel 1994, sono state emesse 203 condanne a morte, 173 delle quali nella Striscia di Gaza, e 30 nella West Bank (Cisgiordania). Il Pchr ha chiesto al Presidente dell’Autorità Palestinese di sospendere con effetto immediato l’uso della pena di morte in attesa che vengano prese le opportune misure legislative per adeguarsi ai trattati internazionali appena sottoscritti. I bambini “strappati” che indignano gli Usa: 2mila separati dalle famiglie di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 17 giugno 2018 I genitori, migranti irregolari, sono entrati in America tra il 19 aprile e il 13 maggio scorso, invece di essere espulsi vengono perseguiti. Scambio di accuse Trump-democratici. È la contabilità che indigna l’America: 1.995 bambini sono stati separati dai loro genitori, migranti irregolari, nel periodo dal 19 aprile al 31 maggio scorso, lungo la frontiera con il Messico. Donald Trump ha autorizzato le operazioni di polizia iniziate un paio di mesi fa. Ma ieri, parlando con i giornalisti davanti alla Casa Bianca, ha scaricato la responsabilità sui democratici: “Odio quello che sta succedendo. Odio vedere i bambini strappati dalle loro famiglie. Ma questa è la legge voluta dai democratici. Noi siamo disponibili a cancellarla subito, ma dobbiamo concordare misure che mettano in sicurezza il confine: abbiamo bisogno del Muro, di arrestare i criminali senza poi rilasciarli immediatamente. Al Senato servono 60 voti per cambiare. I repubblicani ne hanno 51: tocca ai democratici decidere per il bene del Paese”. Il ministro della Giustizia, Jeff Sessions, invece, ha scomodato la Bibbia: “Vorrei citare il chiaro e saggio comandamento dell’Apostolo Paolo nella Lettera ai Romani, capitolo 13. Obbedite alle leggi del governo che sono state costituite da Dio per mantenere l’ordine”. Il Washington Post, però, riferisce che la Conferenza dei vescovi cattolici americani non è d’accordo con Sessions. E il reverendo Samuel Rodriguez, che pronunciò la preghiera nel giorno dell’inaugurazione di Trump, ha firmato una lettera per chiedere all’amministrazione di bloccare “queste orribili procedure”. Il quadro giuridico lascia ampi margini di discrezionalità. La legge cardine sull’immigrazione risale al 1965 (presidenza democratica di Lyndon Johnson) ed è stata modificata nel 1986 (era del repubblicano Ronald Reagan), con successivi adattamenti negli anni Novanta, quando alla Casa Bianca c’era il democratico Bill Clinton. Le norme consentono di perseguire gli immigrati illegali anche sul piano criminale, con pene in media fino a 15 mesi di reclusione. Ma nel 1997 il cosiddetto “Flores Settlement”, un accordo stragiudiziale accolto dal governo federale, ha stabilito che i minorenni non possano essere puniti e incarcerati. Fino a qualche mese fa, il problema non si era mai posto: i governi di George W.Bush e di Barack Obama avevano sì intensificato i controlli, ma i “clandestini” bloccati, cioè i migranti non richiedenti asilo politico, venivano semplicemente espulsi. Ed eccoci alla primavera 2018 e alla dottrina della “tolleranza zero”, messa a punto, tra gli altri, da Sessions. Viene deciso di perseguire penalmente i migranti, ma non i minori che vengono separati dalle famiglie e condotti nei “centri di ricovero”. Le strutture, però, non sono sufficienti. Il Dipartimento per la Sicurezza ne costruirà un altro a Tornillo, in Texas. Per il momento non ci sono dettagli: dovrebbe essere una tendopoli “temporanea”. Le storie, i drammi personali si mescolano con le polemiche politiche (a novembre si vota per le elezioni di mid-term) e i negoziati al Congresso per trovare una via d’uscita. Il confronto si è acceso sulla proposta di Paul Ryan, Speaker repubblicano alla Camera dei Rappresentanti. È uno schema in tre punti: in caso di arresto, le famiglie di migranti non devono essere divise; cittadinanza americana per 1,8 milioni di giovani migranti; 25 miliardi di dollari per la costruzione del Muro. L’ala conservatrice dei repubblicani è contraria “a ogni amnistia”, mentre una parte dei democratici non vuole finanziare la Barriera. E Trump? Prima ha detto che non avrebbe firmato una legge così “debole”, poi la portavoce Sarah Sanders ha fatto sapere che c’era stato un equivoco e che “il presidente appoggia Ryan”. Sarà il tema di questa settimana. Una sentenza condanna la Turchia per i crimini contro il popolo curdo di Ezio Menzione* Il Dubbio, 17 giugno 2018 Il 24 maggio scorso il Tribunale Permanente dei Popoli ha emesso un’importante sentenza sui crimini commessi dal governo turco contro il popolo curdo dal 2015 al 2016, quando molte città del Kurdistan turco furono messe sotto assedio e bombardate, con un numero enorme di vittime civili. La Turchia è stata riconosciuta colpevole delle atrocità commesse (ivi compresa l’uccisione da parte dei servizi segreti turchi di tre donne curde a Parigi nel 2013). Ma cose è il Tribunale Permanente dei Popoli? È un tribunale che indaga e decide su quei crimini di guerra e contro l’umanità sui quali non possono decidere le corti internazionali (la Corte Penale Internazionale dell’Aja, soprattutto) per non avere uno stato ratificato gli accordi sulle giurisdizioni superiori o per altri motivi e dunque su fatti sui quali non potrebbe mai esserci indagine e men che meno un giudizio o una sentenza. Il Tpp nacque nel 1979, sulla scia del glorioso Tribunale Russell, così chiamato perché fondato dal filosofo inglese e dal francese Jean Paul Sartre per portare a giudizio i crimini compiuti dagli Usa in Vietnam. Il Tribunale Russell, a suo volta, applicava le regole e le procedure istituite dal Tribunale di Norimberga nel 1945. E così fa il Tpp. Procura e Tribunale sono costituiti da esimi giuristi di diritto internazionale provenienti da varie nazioni. In questo caso la procura si è mossa sulla base di report di associazioni curde ed ha individuato molti testi oculari che potevano riferire al Tribunale i misfatti commessi dal governo turco durante i mesi dell’assedio alle città curde nel 2015 e nel 2016. Ha inoltre indagato sull’omicidio di tre donne curde avvenuto a Parigi nel 2015. Ha così costruito il capo di imputazione e la struttura del processo, che si è svolto in due udienze tenutesi a Parigi nel febbraio scorso. Il governo turco, per via consolare, è stato chiamato a difendersi nell’occasione, ma non ha ritenuto di farlo. Il Tpp, però, per potere ritenere la propria competenza a giudicare, ha dovuto superare un grave ostacolo: dagli atti risultava che l’attacco della Turchia al popolo curdo fosse, secondo il governo, una semplice operazione di polizia antiterrorismo; e se così fosse stato certamente il tribunale non avrebbe potuto giudicare. Esso, infatti, può giudicare solo se si tratta di conflitti armati, sia pure non- internazionali, i quali però possono ricadere sotto la competenza a conoscere nazionale oppure internazionale a seconda delle caratteristiche che essi assumono. Il Tribunale, riferendosi alla Convenzione di Ginevra del 1949 (soprattutto l’art. 3) ed al secondo Protocollo Aggiuntivo del 1977, ha ritenuto di dare rilievo a tre aspetti fondamentali: la durata del conflitto, che è fatto risalire quanto meno al 1984; le radici del conflitto, che denotano come il governo turco intenda negare l’esistenza dell’autonomi culturale e politica del popolo curdo e l’esistenza stessa del medesimo; l’unitarietà o unicità della leadership curda, in mano al Pkk (Partito del Lavoratori Curdi). Sottolinea inoltre il Tribunale come lo stesso governo turco abbia riconosciuto la soggettività del popolo curdo sedendosi ad un tavolo a trattare con il Pkk: trattative che erano giunte ad un buon punto quando Erdogan le ha unilateralmente negate e affossate. Da tutto ciò discende che la contrapposizione governo/ ribelli e popolazione non può essere considerata una semplice operazione di polizia, ma deve essere considerata, sulla scorta di leggi e giurisprudenza, un vero e proprio conflitto armato e dunque devono per esso valere le regole dettate dalla Convenzione di Ginevra e, fra le altre, il divieto di trattamenti inumani e crudeli, le torture, le uccisioni e le mutilazioni, le esecuzioni senza processo adeguato, la cura degli ammalati e dei feriti: tutte pratiche messe invece in opera dal governo turco dal 2015 fino, almeno, al marzo 2016. Meno difficile era giudicare sulla sussistenza dei fatti di cui al capo di imputazione: stragi di civili (si pensi ai due episodi di bombardamento di gas contro i civili rifugiati negli scantinati dei palazzi a Cizre ne 2016), assassini mirati, divieto di ingresso a medici e Croce Rossa nelle città poste sotto stato di assedio ed una miriade di altre atrocità erano state più che dimostrate dai numerosi testi che hanno sfilato durante l’udienza. Se proprio vogliamo trovare una debolezza nella pregevole sentenza, riguarda il displacement (allontanamento forzato) della popolazione curda, avvenuto e che sta ancora avvenendo da tutta la regione (Amnesty International ha calcolato che siano fra 500.000 e 700.000 gli esuli curdi dal Kurdistan turco a seguito del conflitto); displacement che poi è l’obbiettivo finale della politica governativa turca: liberarsi dei curdi una volta e per tutte, o almeno indebolirne grandemente l’incidenza politica sul paese. A questo fenomeno la sentenza non dedica attenzione sufficiente. Il Tpp, però, pur non potendone fare oggetto di giudizio perché non contenuto nel capo di imputazione, nelle sue raccomandazioni finali, arriva a condannare anche l’intervento armato delle milizie turche ad Afrin, in corso da settimane proprio nei giorni del processo a fine gennaio scorso. La sentenza, ovviamente e purtroppo non ha valore legale, ma un altissimo valore morale e di ricostruzione storica e potrà essere base per altri giudizi in altre sedi (L’Aja, Corte Edu e altro); non a caso è stata presentata a Bruxelles, per darne immediata conoscenza alle autorità europee. *Osservatore Ucpi e testimone nel giudizio al Tpp Cina. La prima prigione “dal volto umano” La Repubblica, 17 giugno 2018 La nuova prigione di Chuanbei è stata aperta nel 2012. La possibilità di apprendere un lavoro, celle a norma e assistenza psicologica per i detenuti. Spesso la Cina viene accusata di violazioni ai diritti umani e di non rendere noto il numero reale delle esecuzioni capitali che ogni anno avvengono. Tutto, in un contesto penitenziario da dove arrivano accuse di lavori forzati e torture. Nella regione del Sichuan, la prigione di Chuanbei rappresenta un’eccezione, di apprende da AsiaNews. All’interno di essa sono iniziati una serie di programmi sperimentali per i detenuti: laboratori, aule, una music hall, un centro ricreativo e un campo da calcio. Ora ogni stanza ospita 12 detenuti, che hanno a disposizione tre stanze da bagno. Gli anziani e coloro che soffrono di patologie psicologiche o fisiche ricevono, stando a quanto di apprende, un’adeguata assistenza medica. Il carcere di Chuanbei è stato aperto nel 1952. Impiegava i detenuti nelle miniere, nelle acciaierie e nei cementifici. Un detenuto che lavorava nella vecchia struttura racconta: “Nell’aria c’era talmente tanta polvere che il cielo diventava grigio e tutto il mio corpo, a parte gli occhi, era coperto di polvere”. E continua: “Ora le nostre vite nella nuova struttura sono diverse. È come la distanza tra il cielo e la terra”. Il cementificio di Chuanbei è stato chiuso nel 2010. Due anni dopo è stata aperta la nuova struttura. Essa è stata la prima prigione ad essere ricostruita dopo il terremoto di Wenchuan nel maggio del 2008. I detenuti lavorano ancora nel nuovo carcere. Tuttavia, hanno la possibilità di apprendere un mestiere e specializzarsi. Alcuni analisti sono scettici, temono che il progetto di Chuanbei sia solo una facciata e che poco o nulla verrà fatto per le altre carceri. Indotti a ripensare il sistema carcerario. Il sistema detentivo del Paese è balzato agli onori della cronaca mondiale per la sistematica violazione dei diritti umani. Gli internati spesso sono costretti a lavorare in condizioni disumane, senza alcuna tutela o retribuzione. La Cina ha dovuto rivedere la gestione del proprio sistema carcerario a causa delle crescenti pressioni della comunità internazionale. La prima legislazione sulle carceri è del 1994. A partire dagli anni 2000 le autorità hanno cercato di revisionare il sistema detentivo, cercando di migliorare le condizioni dei detenuti-lavoratori e la distribuzione del carico di lavoro.