Mattarella: lavorare per un maggiore rispetto dei diritti nelle carceri Askanews, 15 giugno 2018 “Tutte le aree di privazione della libertà personale, a cominciare dalle carceri, hanno bisogno di interventi mirati per rendere “più coesa, sicura e rispettosa dei diritti delle persone la nostra società”. Lo chiede il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel messaggio inviato al Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma. La legge affida all’ufficio del Garante, spiega Mattarella, “il compito di vigilanza sui luoghi ove le persone vivono una restrizione della propria libertà, affinché il loro stato non si risolva in un peggioramento delle condizioni di disagio ed esclusione sociale, con rischi accentuati per la convivenza: il consolidamento di migliori condizioni di permanenza è essenziale a questo fine”. Il rapporto circa l’attività del Garante nel 2017, continua il capo dello Stato, “sottolinea il lavoro profuso, sin dalla sua istituzione, nel settore della detenzione penale, anzitutto attraverso la tutela dei diritti inalienabili delle persone in carcere e la costante attenzione alla giustizia minorile. In questo ambito si è registrata una maggiore attenzione ai legami familiari e ai rapporti genitoriali, unitamente all’impegno volto ad attuare un regime detentivo improntato alle finalità che la nostra Costituzione assegna alla pena”. Per Mattarella “tutte le aree di privazione della libertà (i luoghi di custodia di polizia, i centri di trattenimento di migranti presenti irregolarmente nel territorio, le residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza psichiatriche, i trattamenti sanitari obbligatori e le residenze per anziani e disabili) hanno meritato e meritano attenzione in ragione delle caratteristiche specifiche che le contraddistinguono, imponendo interventi mirati ed un monitoraggio costante dei fenomeni in evoluzione. Questa opera, rivolta a rendere, in ossequio al dettato costituzionale, più coesa, sicura e rispettosa dei diritti delle persone la nostra società, merita apprezzamento e incoraggiamento”. Violazione dei diritti negli hotspot, aumento dei carcerati e dei bambini-detenuti Huffington Post, 15 giugno 2018 La denuncia del Garante dei detenuti. Il messaggio di Mattarella: “Servono interventi mirati e monitoraggio”. Scadenti condizioni materiali e igieniche delle strutture per i migranti, scarsa trasparenza e mancanza di un sistema di registrazione degli eventi critici, assenza di una procedura di reclamo per far valere violazioni. Sono alcune delle principali carenze messe in luce nella relazione annuale dal Garante delle persone detenute e private della libertà presentata al Parlamento. A distanza di poco più di un anno dall’entrata i vigore del decreto Minniti, che puntava a passare da una disponibilità di circa 400 posti distribuiti nei 4 centri in funzione al momento dell’entrata in vigore della norma (Roma, Torino, Brindisi e Caltanissetta) a una capienza di complessivi 1.600 posti, “va purtroppo rilevato - riferisce il report - che le rinnovate espressioni di impegno a favore dell’assoluto rispetto dei diritti fondamentali sono rimaste dichiarazioni di principio, cui non ha fatto seguito un effettivo miglioramento delle condizioni di vivibilità e/o una diversa impostazione organizzativa delle strutture”. Il Garante segnala “scadenti condizioni materiali e igieniche delle strutture, assenza di attività, mancata apertura dei Centri alla società civile organizzata, scarsa trasparenza a partire dalla mancanza di un sistema di registrazione degli eventi critici e delle loro modalità di gestione, non considerazione delle differenti posizioni giuridiche delle persone trattenute e delle diverse esigenze e vulnerabilità individuali, difficoltà nell’accesso all’informazione, assenza di una procedura di reclamo per far valere violazioni dei diritti o rappresentare istanze”. Stranieri in carcere. Benché sia calato in questi anni per effetto di provvedimenti normativi, resta evidente il fenomeno delle ‘porte girevoli’ in carcere, cioè il passaggio in carcere per non più di tre giorni delle persone arrestate in flagranza di reato e destinate a essere processate per direttissima. Lo segnala la relazione del Garante. Nel 2017 si attesta al 12,03% la quota di ingressi (5.792) con permanenza compresa in tre giorni sul totale degli accessi di persone provenienti dallo stato di libertà. Cifre molto più basse rispetto alle 23.008 di fine 2010 e alle 10.039 del solo primo semestre del 2011. Ma per quanto “apprezzabile l’effetto deflattivo”, “non può dirsi tuttavia ancora soddisfacente la realizzazione del nuovo sistema”. Gli arrestati che passano per le ‘porte girevoli’ sono infatti coloro che, a norma di legge, non dispongono di un domicilio, privato o pubblico e per i quali non sono disponibili le strutture delle forze di polizia adibite alle esigenze restrittive. Non a caso il numero degli stranieri condotti in carcere in attesa dell’udienza per il giudizio direttissimo costituisce il 60,4% del totale degli ingressi dalla libertà che non superano i tre giorni di permanenza (3.496 su 5.792): segno evidente del fatto che alla mancanza di un domicilio (ricorrente per la popolazione straniera) non sopperisce la presenza di un locale delle forze di polizia dove l’arrestato possa essere custodito. Hotspot sono di incerta natura giuridica. Tra marzo 2017 e aprile 2018 il Garante nazionale delle persone detenute e private della libertà personale ha condotto 7 visite negli hotspot. È quanto emerge dalla Relazione annuale del Garante al Parlamento. Gli hotspot, rileva il Garante, “continuano a essere luoghi dalla natura giuridica incerta, rispondenti a differenti funzioni che ne mutano continuamente il carattere e la disciplina. Se da un lato appaiono come luoghi a vocazione umanitaria per le attività di primo soccorso e assistenza, e di informazione e di prima accoglienza per chi ha manifestato la volontà di richiedere la protezione internazionale, dall’altro sono luoghi di svolgimento delle procedure di polizia di pre-identificazione/fotosegnalamento e di avvio delle operazioni di rimpatrio forzato”. Ma in questo modo “rischiano di generare zone d’ombra divenendo di volta in volta strutture aperte o chiuse a seconda delle esigenze dell’Autorità di pubblica sicurezza e delle procedure messe in atto”. Sale il numero di detenuti. Nei 191 penitenziari per adulti con una capienza complessiva di 50.615 posti, i detenuti al 31 maggio 2018 erano 58.569; un anno prima erano 56.863, nel 2016 erano 53.495. È quanto emerge dalla relazione al Parlamento del Garante dei detenuti. Numeri in aumento, ma con un andamento negli ultimi mesi meno rapido, che descrivono una situazione che occorre tenere scrupolosamente sotto controllo. Nel corso della sua attività il Garante ha visitato 71 istituti, in parte con visite ad hoc dovute a particolari circostanze o segnalazioni. Molte le vulnerabilità: lo stesso numero di suicidi (23 da inizio anno) ne è per molti aspetti un indicatore. Al 31 dicembre 2017, secondo i dati del Dap, il totale dei detenuti “lavoranti” era di 18.404, il 31,95% della popolazione detenuta. Nel 2016 erano 16.252, il 29,73%: c’è un leggero incremento ma la quota è sempre ben al di sotto del 50%. Bambini detenuti. Ancora bambini detenuti nelle carceri italiane. Al 31 maggio del 2018 i minori sotto i tre anni ristretti all’interno di istituti di pena - in aree denominate “sezioni nido” - sono 8 (con 7 mamme); i bimbi possono restare con le madri fino all’età di 3 anni. Nei cinque Icam, gli istituti a custodia attenuata per detenute madri, presenti a Torino, Milano, Venezia, Senorbì (Cagliari), Lauro (Avellino) ve ne sono altri 18 (con 15 mamme); qui si può restare fino ai 6 anni. Lo segnala la relazione del Garante detenuti, specificando che l’Icam sardo, in realtà, non ha ospiti perché la sua collocazione separata, a 48 km da Cagliari, rende difficile per una madre rinunciare al contesto relazionale per accedere a una situazione di semi-isolamento. Il messaggio di Mattarella. “Tutte le aree di privazione della libertà (i luoghi di custodia di polizia, i centri di trattenimento di migranti presenti irregolarmente nel territorio, le residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza psichiatriche, i trattamenti sanitari obbligatori e le residenze per anziani e disabili) hanno meritato e meritano attenzione in ragione delle caratteristiche specifiche che le contraddistinguono, imponendo interventi mirati ed un monitoraggio costante dei fenomeni in evoluzione”. Lo scrive il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in un messaggio al Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, in occasione della giornata di presentazione della seconda Relazione al Parlamento del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. “La legge - scrive Mattarella a Palma - affida al vostro Ufficio il compito di vigilanza sui luoghi ove le persone vivono una restrizione della propria libertà, affinché il loro stato non si risolva in un peggioramento delle condizioni di disagio ed esclusione sociale, con rischi accentuati per la convivenza: il consolidamento di migliori condizioni di permanenza è essenziale a questo fine. Il rapporto circa l’attività del Garante nel 2017 sottolinea il lavoro profuso, sin dalla sua istituzione, nel settore della detenzione penale, anzitutto attraverso la tutela dei diritti inalienabili delle persone in carcere e la costante attenzione alla giustizia minorile. In questo ambito si è registrata una maggiore attenzione ai legami familiari e ai rapporti genitoriali, unitamente all’impegno volto ad attuare un regime detentivo improntato alle finalità che la nostra Costituzione assegna alla pena”. “Tutte le aree di privazione della libertà (i luoghi di custodia di polizia, i centri di trattenimento di migranti presenti irregolarmente nel territorio, le residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza psichiatriche, i trattamenti sanitari obbligatori e le residenze per anziani e disabili) hanno meritato e meritano attenzione in ragione delle caratteristiche specifiche che le contraddistinguono, imponendo interventi mirati ed un monitoraggio costante dei fenomeni in evoluzione. Questa opera, rivolta a rendere, in ossequio al dettato costituzionale, più coesa, sicura e rispettosa dei diritti delle persone la nostra società, merita apprezzamento e incoraggiamento”, ribadisce il capo dello Stato. “Viaggio in Italia”. La Corte Costituzionale entra nelle carceri Ansa, 15 giugno 2018 Si partirà ad ottobre dal penitenziario romano di Rebibbia. La Corte costituzionale ha deciso di estendere il “Viaggio in Italia” appena concluso nelle scuole, ma che proseguirà l’anno prossimo ad altre realtà sociali, partendo dal carcere. Per la realizzazione del progetto, la Corte si avvarrà della collaborazione del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, del Dipartimento della giustizia minorile, del Garante nazionale dei detenuti e del professor Marco Ruotolo, Prorettore per i rapporti con scuole, società e istituzioni presso l’Università Roma Tre nonché Direttore del Master in Diritto penitenziario e Costituzione. Il “Viaggio”, già da un mese in fase di pianificazione, comincerà a ottobre 2018 nel carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso. Per consentire la più ampia partecipazione, l’incontro sarà visibile in diretta streaming sia sul sito della Corte costituzionale sia in tutte le carceri attrezzate. Per la documentazione delle altre tappe del “Viaggio”, è in corso di definizione anche una collaborazione con Rai e Rai-cinema. In vista degli incontri con i detenuti - aperti alla stampa, a studenti esterni e a cittadini liberi - la Corte consegnerà agli istituti penitenziari coinvolti nel progetto un numero di copie dell’opuscolo “Che cos’è la Corte costituzionale” corrispondente al numero dei partecipanti. Come per il Viaggio nelle scuole, anche il Viaggio nelle carceri risponde alla volontà della Corte di aprire sempre di più l’Istituzione alla società e di incontrare, anche fisicamente, il Paese reale per confrontarsi e dialogare al fine di consolidare la cultura e il sentire comune costituzionale. Con la scelta del carcere, la Corte intende anche testimoniare che la “cittadinanza costituzionale” non conosce muri perché la Costituzione “appartiene a tutti”. “La Costituzione tutela i diritti di tutti, anche dei detenuti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 giugno 2018 Il presidente della Consulta al Corriere della sera chiarisce il ruolo guida della Carta. Alla domanda di Bianconi del perché ripartire dal carcere, Lattanzi spiega che si tratta di una istituzione collettiva, “forse la più distante che si possa immaginare da questo palazzo”. Lo scopo è sensibilizzare i detenuti, avvicinare le istituzioni e raccontargli soprattutto che la nostra Costituzione tutela anche i loro diritti. Un messaggio importante, quello che emerge dall’intervista, che appare quasi come un monito al governo, ovvero quello di garantire condizioni dignitose di vita per chi è privato della libertà. Il presidente della Consulta fa anche un esempio. “Con una “sentenza monito” - spiega Lattanzi nell’intervista abbiamo sollecitato il legislatore a risolvere il problema del sovraffollamento, avvertendo che in caso contrario saremmo legittimati a soluzioni estreme, come quella di evitare l’ingresso in carceri di fatto invivibili. Grazie ad alcuni provvedimenti l’emergenza è cessata, anche se adesso i detenuti stanno di nuovo aumentando”. Parliamo della giurisdizione superiore che, come ha ricordato l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini commentando l’intervista, è “la strada maestra individuata dal Partito Radicale per salvare il nostro Paese (e non solo) dal baratro della violazione del diritto e dei diritti umani”. E sono proprio nei momenti emergenziali, pulsioni securitarie, che molto spesso il Parlamento approva leggi che sono di fatto incostituzionali. Il presidente Lattanzi, infatti, fa l’esempio della ex Cirielli quando “è stato esaltato il valore della recidiva, con effetti sulla determinazione della pena giudicati talvolta incostituzionali”. Proprio per questi motivi il presidente della Consulta crede - sembra la lezione liberale di Luigi Einaudi - che “per deliberare occorre conoscere” e sottolinea che questo vale per i politici, “ma anche per i loro consiglieri, i cosiddetti tecnici”. Lattanzi lo dice chiaro e tondo: “Si può assumere qualunque decisione, ma partendo dalla conoscenza di dati oggettivi, non basandosi solo su enunciazioni di principio o sull’emotività”. E ricorda che, a proposito della “certezza della pena”, occorre tenere ben presente “che non esiste solo la pena detentiva, e che altri tipi di misure punitive, in alcuni casi, possono essere percepite dal condannato come sanzioni gravi tanto quanto il carcere”. Ed è qui che Giovanni Bianconi ricorda al presidente della Corte costituzionale, le critiche che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha mosso nei confronti del decreto attuativo della riforma dell’ordinamento penitenziario il quale prevede la sospensione della pena ai condannati di 4 anni. Lattanzi ricorda innanzitutto che non c’è nessun automatismo, perché “la legge non prevede che per una condanna fino a 4 anni non si vada in carcere, ma che il giudice debba valutare caso per caso se sia più opportuno il carcere o una sanzione alternativa”. Dopodiché ci tiene a sottolineare che sarebbe opportuno ancorarsi a dei dati concreti per capire qual è il risultato migliore per la società, “visto che la funzione della pena non è tanto la punizione quanto il recupero del condannato”. Un’intervista che mette in luce la necessità di difendere lo Stato di Diritto. Il faro è la Costituzione italiana. Una buona notizia: la Consulta sostiene i diritti dei detenuti di Massimo Bordin Il Foglio, 15 giugno 2018 Onore al presidente della Corte costituzionale, Giorgio Lattanzi. L’intervista al Corriere della Sera del presidente della Corte costituzionale, Giorgio Lattanzi, ha un notevole rilievo politico per il suo porsi in assoluta controtendenza rispetto alla regressione civile sul tema dei diritti, e del diritto, che caratterizza questa fase politica. La Consulta prosegue i suoi incontri con i cittadini, iniziati nelle scuole, passando dal prossimo autunno alle carceri. “Penso sia utile dialogare anche con le persone detenute, non per discettare della “Costituzione più bella del mondo” ma per ribadire che secondo quella Costituzione la legittima privazione della libertà personale non cancella la tutela dei diritti”. Anche sulla cosiddetta “certezza della pena” il presidente Lattanzi è molto netto quando ricorda come la pena non debba necessariamente coincidere con la carcerazione e che la sua funzione non consista tanto nella punizione quanto nel recupero del condannato. Siamo agli antipodi dei concetti e dei propositi espressi negli editoriali del Fatto e nei discorsi di molti esponenti governativi. È rassicurante leggere il presidente di un organismo di garanzia - “sentinelle della Costituzione” è l’immagine usata per definire il ruolo dei giudici della Consulta - porre il problema del sovraffollamento carcerario come un diritto negato alla dignità della persona. Meno confortante è invece pensare che debba essere il presidente della Corte costituzionale a ribadire in solitudine quei principi che il precedente governo aveva timidamente inserito in una riforma che non ha saputo poi difendere. Il partito radicale dovrebbe inviargli una tessera ad honorem. Continuano i suicidi di detenuti, questa volta a Mantova di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 giugno 2018 Il bilancio di quest’anno sale a 23, su 56 morti in totale. Un altro morto in ospedale dopo aver tentato di impiccarsi in carcere. Questa volta la tragedia è avvenuta a Mantova, quando sabato scorso, un detenuto di 30 anni ha utilizzato i lacci delle scarpe per impiccarsi. L’uomo si trovava in carcere da pochi mesi, ma tanto è bastato per provocare in lui uno stato d’animo tale da voler chiudere con la vita. In suo soccorso sabato mattina intorno alle 10.30 erano arrivate in via Chiassi l’automedica del 118 con il rianimatore e un mezzo della Croce Rossa. All’arrivo dei sanitari il detenuto era già in coma, anche se il suo cuore batteva ancora. L’hanno trasportato urgentemente all’ospedale Carlo Poma, dove sono stati eseguiti vari tentativi di rianimazione, con l’immediato ricovero in terapia intensiva. Martedì pomeriggio ha smesso di vivere. Siamo così giunti al 23esimo suicidio su un totale di 56 morti dall’inizio di quest’anno. Pochi giorni prima di quest’ultimo decesso, un altro detenuto è morto in ospedale dopo aver tento di impiccarsi nel carcere di Taranto. Aveva 38 anni e già presentava evidenti problemi psichiatrici. E proprio quest’ultimo fattore risulta incisivo sui suicidi. Una grossa percentuale dei suicidi riguarda proprio i detenuti con disturbi psichiatrici, e l’assistenza sanitaria - soprattutto nei penitenziari dove ci sono le articolazioni psichiatriche - risulta insoddisfacente: carenza di medici dietro le sbarre, aumento di casi di malasanità e abuso di psicofarmaci. Senza contare che da quando sono stati chiusi gli ospedali giudiziari psichiatrici - passo importante per un Paese degno di essere definito “civile”, rimane il problema degli internati che invece di essere ospitati dalle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), rimangono “parcheggiati” illegalmente nelle carceri. Come il caso di Valerio Guerrieri, il 22 enne che l’anno scorso si suicidò nel carcere romano di Regina Coeli, mentre in realtà era stata disposta una misura di sicurezza in una Rems. Sono stati accusati di omicidio colposo otto agenti penitenziari e due medici, mentre, secondo la magistratura inquirente, è stato giudicato irrilevante il fatto che il ragazzo sia stato trattenuto in carcere per più di dieci giorni senza un titolo legittimo di detenzione. Ma tolti gli internati - che non dovrebbero starci - rimane comunque il problema dei detenuti psichiatrici. Attualmente non sono equiparati ai malati fisici, una disparità eliminata dalla riforma dell’ordinamento penitenziario. Proprio quel decreto principale che il governo passato non ha approvato definitivamente. L’articolo 1, infatti, avrebbe modificato, anzitutto, gli articoli 147 e 148 del codice penale in tema di infermità psichica dei condannati. Tale proposta di riforma è finalizzata a razionalizzare la disciplina dei casi di infermità psichica sopravvenuta attraverso l’abrogazione della disciplina dell’articolo 148 c. p., che era specificatamente ad essa dedicata, e la corrispondente estensione del rinvio facoltativo della pena anche nei confronti di chi si trova in condizioni di grave infermità psichica. In tal modo, attraverso l’equiparazione tra grave infermità fisica e psichica, si determinerebbe un importante passo in avanti, in quanto anche per il disagio psichico si potrà giustificare l’applicazione di benefici per una detenzione in favore di una dignità del malato. Resta comunque il problema dei suicidi. Lo scorso governo aveva approvato delle linee guida e le Regioni si sarebbero dovute adeguare. Molte l’hanno fatte, altre ancora no. Sono linee guida a costo zero, ovvero ottimizzano le risorse presenti. Come sappiamo, gli operatori come medici, psicologi, psichiatrici ed educatori attuali, non bastano. A questo va aggiunta la visione carcero-centrica di questo governo che non aiuta: meno pene alternative, più carcerizzazione. Aumentano anche in Italia i detenuti islamici radicalizzati analisidifesa.it, 15 giugno 2018 Circa 600 radicalizzati islamici nelle carceri italiane da tenere d’occhio, 70 detenuti per terrorismo internazionale, 54 espulsioni di estremisti islamici solo da gennaio “per motivi di sicurezza nazionale” e il rischio dei foreign fighters che ritornano. Questo il quadro che responsabili di servizi e forze di polizia hanno presentato al ministro dell’Interno Matteo Salvini, che mercoledì ha presieduto la sua prima riunione del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica e ieri ha partecipato al Comitato di analisi strategica antiterrorismo (Casa). Molti degli espulsi sono stati individuati proprio nelle carceri, ambienti che continuano a produrre radicalizzazione. Delle circa 20mila persone straniere detenute in Italia, circa 8mila sono islamici e nel 2017 quelli sotto osservazione per radicalizzazione sono molto aumentati rispetto al 2016: 506 contro 365. E quest’anno sono diventati circa 600. Questi detenuti sono monitorati dal Dap con tre livelli di allerta: alto, medio e basso. Il ministro Salvini esprime tuttavia grande fiducia nell’operato degli apparati di sicurezza: “abbiamo ottime forze ordine che fanno bene loro lavoro”, ha spiegato, segnalando però il problema dell’invecchiamento degli agenti. “Ho già sollecitato - ha annunciato - il ministro dell’Economia Giovanni Tria: perdiamo migliaia di unità ogni anno e l’età media supera i 50 anni: il problema tra alcuni anni sarà serio. Bisogna procedere ad un piano di reclutamento che abbassi l’età media”. Problematica sentita anche nelle forze armate e un obiettivo, quello espresso da Salvini, condiviso dai sindacati Siap e Associazione nazionale funzionari di polizia: “sono necessarie energie nuove per potenziare tutte le attività di prevenzione e repressione connesse alla sicurezza nazionale”. “Su 125 foreign fighters legati all’Italia (in totale sono circa 130) almeno il 33,6% è deceduto, mentre ad aprile 2018 il 19,2% è già’ ritornato in Europa (il 9,6%, in particolare, in Italia). E per almeno il 24% dei soggetti si ritiene che l’attività sia ancora in essere nell’area del conflitto, benché le informazioni al riguardo siano piuttosto incerte”. È quanto si legge nel rapporto “Destinazione Jihad. I foreigh fighters d’Italia”, a cura dell’Osservatorio sulla Radicalizzazione e il Terrorismo Internazionale dell’Ispi. Il documento offre per la prima volta un’indagine sistematica e approfondita dei profili individuali di 125 dei circa 130 foreign fighters legati all’Italia, che si sono recati in aree di guerra dall’inizio dei conflitti legati alle cosiddette Primavere Arabe (Siria, Iraq e Libia) fino a ottobre 2017. Lo studio è stato realizzato sulla base di informazioni fornite in esclusiva dal ministero dell’Interno e dalla Polizia di Stato. Per il rapporto “non risulta che alcun foreign fighter presente nella lista ufficiale italiana sia stato coinvolto attivamente nel supporto e tantomeno nell’esecuzione di attacchi terroristici in Occidente. Nondimeno, secondo le informazioni disponibili, per almeno tre individui esistono alcune indicazioni, per quanto parziali, relative a un interesse nella pianificazione di attacchi in Occidente I difensori d’ufficio sono garanti dei diritti e della lealtà dello Stato Il Dubbio, 15 giugno 2018 Sul tema dell’immigrazione, il neo Ministro dell’Interno e Vice Presidente del Consiglio dei Ministri, Matteo Salvini, ha rilasciato a un giornalista del Corriere della Sera le seguenti dichiarazioni: “In Italia c’è una lobby che si sta arricchendo in modo che non ritengo opportuno” ossia “la lobby degli avvocati d’ufficio. Non credo si possa passare per fessi”, ha asserito il Ministro, per poi proseguire: “Nel 2018 le domande di asilo respinte sono state il 58%. Il problema è che il 99% dei respinti fa ricorso pressoché in automatico, perché lo Stato garantisce un avvocato d’ufficio che paghiamo tutti noi. Per giunta, si intasano i tribunali: lavorerò con il collega della Giustizia per intervenire anche su questo”. Si tratta di affermazioni gravissime che destano allarme e preoccupazione. In primo luogo si tratta di una dichia- razione che denota la non conoscenza della materia, confondendo istituti completamente diversi, quali la difesa d’ufficio (garantita nell’ambito del procedimento penale a chi non ha un proprio difensore di fiducia) e il patrocinio a spese dello Stato. Chiunque abbia una minima conoscenza della materia sa perfettamente che nell’ambito dei procedimenti per il riconoscimento dello status di rifugiato e dell’asilo, non interviene mai un difensore d’ufficio, perché non si tratta di procedimenti penali, ma hanno natura amministrativa e, in caso di impugnativa, giurisdizionale. In tali impugnazioni può accadere (e sovente accade) che l’interessato chieda di essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato, in attuazione di quell’articolo 24 comma 3 della Costituzione che assicura “ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione” - espressione del più generale diritto di difesa. Ma ancor più grave è che la evidente confusione tra tematiche ed istituti differenti sia divenuta l’occasione per un attacco al diritto di difesa e la diffusione di una concezione autoritaria del processo penale. La difesa è definita dall’articolo 24 della Costituzione diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Il diritto di difesa, come previsto dalla Carta costituzionale e dalle Convenzioni internazionali a tutela dei diritti umani, non è un inutile orpello che ostacola il regolare corso della giustizia e la celebrazione dei processi; né, tanto meno, come sovente accade, l’Avvocato può essere identificato con l’imputato che egli assiste o con i fatti di cui il proprio assistito è chiamato a rispondere. L’Avvocato (di fiducia e d’ufficio, senza accezioni) svolge una funzione fondamentale di garanzia e tutela dei diritti individuali e di regolare celebrazione del processo. I difensori d’ufficio nelle aule di giustizia quotidianamente intervengono a tutela di chi - spesso per difficoltà economiche - si disinteressa del processo a proprio carico e costituiscono un imprescindibile presidio della regolare celebrazione del processo. Lo fanno nella massima consapevolezza del proprio ruolo, spesso senza alcun riconoscimento economico. In questo senso, come abbiamo scritto in passato, l’Avvocato è il garante della lealtà dello Stato, perché nel processo e con il processo lo Stato esercita il suo potere coercitivo, mentre la difesa - nella dialettica delle parti e del procedimento - è posta a presidio dei diritti di libertà. Le dichiarazioni del Ministro Salvini e di altri esponenti del Governo denotano una concezione del tutto incompatibile con la funzione difensiva e l’idea liberale del processo riconosciute dalla Costituzione, lasciando presagire interventi che potrebbero segnare un grave arretramento nella tutela dei diritti e delle garanzie. Mala tempora currunt. Ma gli avvocati (indistintamente di fiducia o d’ufficio, senza accezioni) resteranno garanti della lealtà dello Stato e dei diritti di libertà. Dello Stato di diritto, praticato e non recitato. E dei diritti di tutti, senza eccezioni. La Giunta e l’Osservatorio difesa d’ufficio “Paola Rebecchi” dell’Unione camere penali italiane Prescrizione, presunti impuniti e cultura inquisitoria di Giovanni Pagliarulo L’Opinione, 15 giugno 2018 A volte basta una frase per comprendere uno scenario complesso. Sul processo penale si assiste da anni a un perenne dibattito sui temi più vari: intercettazioni, separazione delle carriere, misure cautelari, prescrizione, impugnazioni e via discorrendo. L’emergenza è permanente e non c’è settore che non si voglia riformare. L’insoddisfazione è diffusa ed è difficile orientarsi. Un contesto ad alta entropia, direbbe un fisico. A ben vedere, però, i perpetui scontri in materia sono tutti figli di una sola, semplice questione: a cosa serve il processo penale. La risposta dovrebbe essere immediata: a verificare l’ipotesi di reato; accertare se un fatto delittuoso sussista, chi lo abbia commesso e se il “reo” - dimostrato che sia tale - sia punibile. E conseguentemente assolvere o condannare. Una nozione quasi scolastica. Eppure, per molti lo scopo del giudizio penale è la condanna. Nessuno che abbia un minimo di cultura ed esperienza specifiche lo affermerebbe espressamente, beninteso. Tuttavia ogni giorno si possono registrare, sui media, esternazioni che esprimono, più o meno consapevolmente, non è dato saperlo, esattamente questa visione del processo. Una recente inchiesta de “L’Espresso” ne è l’esempio. “La giustizia in Italia è solo per i ricchi”, titola Paolo Biondani lo scorso 8 giugno. Un pezzo (verrebbe da dire: sorprendentemente) “aperto”: si evidenziano i vantaggi della finalità rieducativa della pena e dei benefici penitenziari (un basso tasso di recidiva) si rileva come la insicurezza percepita sia decisamente maggiore di quella reale. Poi un inciso, secco, che esprime l’idea colpevolista del processo: “Prescrizione significa che il reato c’è, l’imputato lo ha commesso”. Un’affermazione profondamente errata in punto di principio. La prescrizione è un fatto - il decorso di un certo quantitativo di tempo, variabile a seconda della gravità dell’illecito - che fa venir meno l’interesse, da parte dello Stato, all’accertamento di un reato, alla individuazione dell’autore, alla condanna dello stesso. Superato un dato lasso cronologico, la verifica e la (eventuale) punizione di un fatto delittuoso costano alla società più di quanto possano rendere. Dunque non vale la pena di tenere in piedi un processo. Se così è - e così è - sul piano concettuale, quello che conta quando si deve ragionare in termini di visione, e di conseguenza di orientamento, del sistema repressivo, affermare tout court che la prescrizione implichi la sussistenza del fatto e la responsabilità di chi ne è accusato è un errore madornale ed è, soprattutto, la negazione della necessità e della natura del processo (inteso in chiave moderna e costituzionale) che serve proprio a verificare tali presupposti. Certo, si potrebbe obiettare che un’impostazione del genere è naif, che chi frequenta gli ambienti giudiziari “sa” che in molti casi il proscioglimento ha impedito una sicura condanna. Ma questo significa spostare il discorso sul piano della prassi - che in sé non intacca l’affermazione di principio; del resto come si può essere sicuri della fondatezza dell’accusa prescindendo dal giudizio? - e andare incontro a obiezioni di pari spessore, prima fra tutte che - dati alla mano - l’estinzione del reato per intervenuto decorso del tempo necessario a prescrivere si manifesta nel 70 per cento dei casi nella fase delle indagini preliminari. Ossia quando l’accertamento processuale deve ancora cominciare e l’unica attività svolta è quella della parte che accusa. Ancora, si può osservare che la prescrizione è rinunciabile, quindi se un imputato è certo della propria innocenza può decidere che il processo a suo carico vada avanti. Ma quanti si possono permettere, in termini economici, emotivi e di salute, una cosa del genere? Chi, di fronte all’alternativa tra liberarsi dall’oggi al domani di una situazione invalidante (basti pensare all’obbligo di dichiarare, se richiesto, di essere sottoposti a procedimento penale) oppure mantenerla per anni, in attesa di un esito comunque incerto, sia pure con le più basse probabilità di soccombenza, vuole e può scegliere la prima via? Solo chi riveste una posizione importante e di rilevanza pubblica, per cui può essere necessario che esca dalla vicenda giudiziaria nel modo più pulito, e ha risorse finanziarie adeguate. Sotto questo profilo, semmai, può valere l’asserto di Biondani secondo il quale la giustizia è per ricchi e potenti. Resta il fatto che l’autore è tranchant e prescinde dalla casistica: la prescrizione genera impunità. Punto. La questione, è evidente, è culturale. Oggi si tende a presumere la colpevolezza. Per invertire la deriva è necessario ripartire dai fondamentali. Sfatare, prima di tutto ed in modo deciso, i falsi miti che esprimono e sui quali si fonda la concezione colpevolista del processo penale. A cominciare da questo: un reato prescritto è un reato prescritto. Non un colpevole che l’ha scampata o un innocente insoddisfatto. Stalking anche se la vittima risponde al telefono per non aggravare la situazione di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2018 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 14 giugno 2018 n. 27466. L’atteggiamento conciliante della vittima di stalking non rappresenta un elemento che comporti uno sconto di pena nei confronti dell’imputato. Questo il principio enunciato dalla Cassazione con la sentenza n. 27466/18. Il ragionamento della Cassazione. La Corte ha rilevato, infatti, come era stato corretto il ragionamento fatto dalla Corte territoriale che aveva giustificato la conferma della responsabilità dell’imputato richiamando proprio la testimonianza della persona offesa, la quale aveva riferito che, di fronte alla reiterata petulanza dell’imputato e conoscendo la sua fragilità psicologica, spesso non sapeva come comportarsi e per questo aveva tenuto un atteggiamento conciliante, in altre aveva risposto al telefono in maniera più decisa. Non aveva voluto e potuto cambiare il numero del telefono in quanto diversi soggetti avevano quel numero e per la vittima il cambiamento avrebbe comportato un’altra serie di problemi. Respinto così l’appello dello stalker che contestava la precedente sentenza perché non avrebbe tenuto conto dell’atteggiamento conciliante della presunta vittima, che aveva sempre risposto alle telefonate ritenute moleste, intrattenendosi a parlare con l’imputata e non aveva cambiato numero di telefono, dimostrando in tal modo di non aver subito alcun turbamento psicologico dai comportamenti dell’imputato. La condotta della persona offesa, quindi, avrebbe dimostrato (a parere del ricorrente) l’assenza di ogni pregiudizio e degli eventi tipici del delitto e una condizione in cui poteva vivere liberamente la propria quotidianità. La Cassazione, inoltre, ha confermato la responsabilità in ordine al delitto di danneggiamento aggravato. Bene hanno fatto secondo la Cassazione i giudici di merito a confermare pieno valore probatorio alle dichiarazioni delle persone offese che avevano precisato di aver riscontrato danni alle auto in occasione dei passaggi sul posto dell’imputata, ignorando la proposizione difensiva, secondo la quale l’imputato aveva motivi personali per frequentare le stesse strade sulle quali le presunte vittime parcheggiavano i loro veicoli. Danneggiamento auto. I giudici di legittimità hanno chiarito che il danneggiamento degli autoveicoli parcheggiati per strada non era soggetta a depenalizzazione ex Dlgs 7/2016 ed era perseguibile d’ufficio. Particolare tenuità al titolare della ditta che non tiene l’inventario di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2018 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 14 giugno 2018 n. 27474. Non punibilità per particolare tenuità del fatto in favore del titolare della ditta individuale fallita, che non tiene il libro degli inventari, se causa del dissesto non è la scarsa attenzione alla contabilità ma le somme non riscosse dall’assicurazione. Il ricorrente, aveva fatto presente ai giudici di aver incaricato prima un commercialista, poi una società di servizi per la contabilità e soprattutto, ed è qui la mossa vincente, aveva chiarito che il dissesto non era dipeso dall’assenza di inventari ma dai mancati risarcimenti da parte di alcuni assicuratori. La Corte d’Appello aveva considerato soprattutto che la condotta omissiva dell’imputato si era protratta per lungo tempo, con l’impossibilità di ricostruire con chiarezza la situazione contabile, e non poteva considerarsi occasionale alla luce del certificato penale. I giudici però non avevano dato alcun peso alle argomentazioni dell’imputato il quale, pur essendo consapevole che l’elemento non era rilevante ai fini dell’esclusione della responsabilità, aveva chiarito di non aver mai curato personalmente la contabilità. Una circostanza che poteva pesare in positivo sull’applicazione dell’articolo 131-bis. A questo il ricorrente aveva aggiunto la notizia sui veri motivi del “tracollo” certo non imputabili all’assenza del libro inventario ma alla mancata erogazione da parte di alcune assicurazioni di risarcimenti dovuti alla sua ditta. Per la Cassazione la tenuità non poteva essere esclusa in base soprattutto a quest’ultimo elemento, idoneo a sconfessare l’assunto del fallimento collegato alla gestione disordinata. Tanto è vero che nessuna bancarotta era stata ascritta all’imputato. L’insolenza di chi non è consapevole del male di Antonio Mattone Il Mattino, 15 giugno 2018 Il video postato sulle stories di Instagram dove si vede F.P.C., il quindicenne accusato di aver accoltellato gravemente Arturo, che finge in modo divertito e sfrontato di raccontare l’esito di un processo desta un grande sconcerto. Non solo perché al minore, attualmente in attesa di giudizio, viene data l’opportunità di comunicare con l’esterno e quindi di mandare e ricevere messaggi che possono condizionare il processo, quello vero, che avrà inizio i primi di luglio, ma anche per la sfacciataggine con cui “il nano” recita la sua parte. Sembra non avere nessuna consapevolezza della gravità delle accuse che pendono sul suo conto, né delle conseguenze sulla eventuale condanna che potrebbe avere la diffusione virale del filmato. Ormai ha conquistato la scena, è lui il protagonista e tutti lo devono sapere. Conta più diventare un personaggio riconosciuto e affermato, un mito nel quartiere piuttosto che cercare di evitare lunghi anni di carcere. La sceneggiata dura pochi secondi ma ha un effetto dirompente e sembra una parodia della realtà. A cominciare dal nomignolo con cui viene chiamato il ragazzo. “O ke, quanto hai preso?” chiede il compagno di comunità. E lui risponde in modo sbrigativo quasi mangiandosi le parole: “ho preso venti anni”. Poi si corregge e l’espressione del suo volto e il tono della voce cambiano e divengono comici: “ho preso dieci anni, me li hanno moltiplicati”. Colpisce che prima del video appare una frase con un probabile riferimento e un incoraggiamento all’esponente minorenne di una famiglia camorrista arrestato pochi giorni fa per l’omicidio di Coroglio: “mio frate torna presto tutto passa”. Tuttavia non mi sembra che in questa vicenda ci possa essere un collegamento tra clan camorristi, piuttosto c’è un tratto che caratterizza una parte della criminalità giovanile emergente a Napoli, quello della solidarietà generazionale tra giovani che sempre più si emancipano dai boss e dalle famiglie criminali. Questi giovani delinquenti cercano di mettersi in proprio senza rispettare le gerarchie dei vecchi capi di cui non riconoscono il prestigio, anche se talvolta fanno parte della stessa famiglia. Possedere un coltello o una pistola non fa più parte di un processo di iniziazione camorristica, ma è il raggiungimento di uno status autonomo, di un potere che poi va consolidato sul campo con determinazione e ferocia. Sono giovani che hanno perso il senso dell’autorevolezza dei padri, criminali o meno, che non ascoltano più la voce delle madri. Come è accaduto a quel diciassettenne del Pallonetto di Santa Lucia, chiamato nel cuore della notte da un amico che aveva avuto la peggio durante una lite, è salito su un taxi e lo ha vendicato sparando e uccidendo chi aveva picchiato il suo conoscente, mentre la mamma per telefono ha invano cercato di farlo desistere dal suo gesto omicida. Questi boss in erba cercano di emergere creando attorno a sé un alone di invincibilità e di terrore, un carisma amplificato dai social che li rende personaggi attraenti verso i coetanei dei quartieri disagiati. Un modo di uscire dall’anonimato e di riscattarsi per sentirsi finalmente qualcuno. In fondo se Ciro l’immortale esiste solo nella fiction, le loro esistenze sono reali e autentiche. È una forma di narcisismo masochista che mette in conto una probabile fine amara e repentina, nella cella di una galera o peggio nella morte. Emanuele Sibillo volle fare una bella festa per i suoi diciotto anni perché immaginava che la sua vita sarebbe stata breve e non avrebbe potuto festeggiare molti compleanni. Durante la visita di Roberto Saviano a Poggioreale, mentre i detenuti ponevano quesiti e si sono fermati a parlare con lo scrittore, un giovane è stato zitto per tutto il tempo. Un ragazzo che pur non essendo un boss si era creato una sua “batteria di giovani adepti” e che non ha mai aderito a clan più potenti. Il protagonista a cui rivolgere le domande doveva essere lui, non poteva accettare di essere uno dei tanti. Recuperare questi giovani appare molto complicato, ma finché non si interverrà andando alle radici del loro disagio, continueremo ad assistere a vite che un giorno sono protagoniste di storie di violenza e un altro vivono desiderose di rubare la scena, fosse solo per qualche istante nella comunità virtuale. Campania: le carceri “esplodono”, estate ad alto rischio di Gigi Di Fiore Il Mattino, 15 giugno 2018 Ci sono 1.181 detenuti in più rispetto alla capienza e circa settecento agenti in meno. Nel carcere di Ariano Irpino è tornata la calma. Rimesso a posto il reparto devastato dalla ribellione dei 110 detenuti, che avevano tenuto sotto sequestro anche due agenti penitenziari. Ma Ariano è la punta dell’iceberg della sempre difficile situazione carceraria in Campania. Diciassette strutture, 7321 detenuti, una carenza d’organico di almeno 700 agenti penitenziari ne sono alcuni numeri. “Mercoledì prossimo andrò in visita al carcere di Ariano Irpino - dice il garante regionale dei detenuti in Campania, Samuele Ciambriello - Sono convinto che il sistema carcerario campano sia assillato soprattutto da due emergenze, il sovraffollamento e la carente assistenza sanitaria”. Da quando l’assistenza sanitaria dietro le sbarre è stata affidata alle Asl, i problemi sono tanti. Mancano medici, poco presenti figure come psicologi e psichiatri. Eppure ce ne sarebbe tanto bisogno, anche dopo la chiusura dei due ospedali psichiatrici giudiziari campani. Spiega Ciambriello: “Dietro le rivolte e gli episodi di autolesionismo ci sono spesso detenuti con problemi psicologici. Sono poco seguiti, in un sistema che per i detenuti prevede un centro di assistenza psichiatrica per provincia. In provincia di Napoli è nel carcere di Secondigliano, in quella di Avellino a Sant’Angelo dei Lombardi, a Caserta a Santa Maria Capua Vetere. Questo sistema rende poco assidua un’assistenza che dovrebbe essere continua in ogni struttura”. I numeri parlano chiaro: ogni giorno circa 2000 detenuti vengono portati all’esterno per visite mediche specialistiche e accertamenti. Significano una scorta di almeno tre agenti penitenziari. Dice Pompeo Mannone, segretario generale della Fns-Cisl: “C’è una gestione fallimentare della politica carceraria, con sovraffollamento di istituti, carenza di organici e sistema inadeguato”. I Secondo i parametri dell’Unione europea, ogni detenuto dovrebbe avere uno spazio di almeno tre metri quadri in una cella in comune. Le sentenze, anche della corte dei diritti dell’uomo, obbligano al rispetto di criteri di umanità per evitare pesanti risarcimenti a spese dello Stato. Da qui la necessità, dove gli spazi sono ristretti e i detenuti tanti, di un regime di “custodia aperta”. Significa che le celle insufficienti devono essere tenute non chiuse, lasciando liberi i detenuti di circolare nel corridoio sbarrato da un cancello e sorvegliati. Spiega Marco Del Gaudio, vice capo dipartimento del Dap, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria: “La custodia aperta va distinta dalla vigilanza dinamica che è invece un tipo di detenzione non in cella, ma in spazi di formazione o lavoro all’interno della struttura carceraria. Attenzione a non fare confusione. Non c’è collegamento tra questi due regimi di detenzione, che sono spesso un obbligo per non incorrere in sanzioni dell’Europa, e le aggressioni agli agenti penitenziari. Lo sta accertando il lavoro di una commissione del Dap, che presenterà le sue conclusioni a fine mese”. È una Commissione tecnica di comandanti degli agenti penitenziari, o direttori delle carceri. Ha raccolto dati e statistiche, dove il rapporto tra aggressioni e detenzioni aperte viene smentito, Di certo, però, le aggressioni agli agenti penitenziari sarebbero in aumento. E accusa Giuseppe Moretti, presidente dell’Unione sindacati di polizia penitenziaria: “La sommossa di Ariano Irpino dimostra le gravi condizioni di lavoro degli operatori. A causa del regime detentivo aperto, imposto dall’Europa, e della sorveglianza dinamica, voluta da chi ha preferito mascherare le carenze di organico, rischiano ogni giorno la nostra incolumità”. Le alternative mancanti - Una convinzione che è anche del deputato Edmondo Cirielli, questore della Camera e responsabile giustizia di Fdi. Chiede per legge la soppressione del sistema di vigilanza dinamica. E dice: “La cancellazione della vigilanza dinamica è un primo passo verso una seria riforma dell’ordinamento penitenziario”. Ma occorrerebbero carceri più capienti. Per costruire una nuova struttura, ci vogliono in media dieci anni. In Campania, da tempo si sta costruendo un carcere a Noia per 1200 detenuti. Potrebbe tamponare il problema sovraffollamento che, in Italia, significa 50mila detenuti in più rispetto alla capienza delle 191 carceri. Aggiunge ancora il vice dipartimento Dap, Marco Del Gaudio: “Abbiamo installato un sistema informatico che, in tempo reale, ci segnala per ogni struttura la violazione degli spazi minimi previsti in Europa per ogni detenuto. Un modo per poter intervenire subito. Va anche tenuto conto che, in casi di non pericolosità, dobbiamo rispettare il criterio della territorialità per i detenuti che dovrebbero essere tenuti in strutture della regione dove vive la loro famiglia”. Ma il pianeta carceri è fatto di sofferenze e fallimenti. Solo il 20 per cento non torna in carcere una seconda volta. E nel 2017 in Campania ci sono stati 5 suicidi di detenuti, 77 tentati suicidi e un aumento di 600 forme di autolesionismo. Aggiunge Samuele Ciambriello: “Sono numeri drammatici. Le soluzioni non sono le chiusure, ma le aperture degli spazi per attività culturali e lavorative nelle carceri. I detenuti dovrebbero essere seguiti. Ma come è possibile farlo se, per fare un esempio, a Napoli lavorano solo 25 assistenti sociali per 5000 persone da seguire”. Spazi e c’è chi ricorda come, per realizzare un nuovo padiglione, ad Ariano Irpino è stato eliminato il campo di calcio che pure è uno sfogo per i detenuti. E annuncia il neoministro della Giustizia, Alfonso Bonafede: “C’è il nostro impegno a migliorare le condizioni delle carceri”. Calabria: Quintieri tra i papabili alla carica di Garante regionale dei diritti dei detenuti di Ilaria Quattrone strettoweb.com, 15 giugno 2018 Emilio Quintieri è nella lista dei papabili alla carica di Garante regionale dei diritti dei detenuti che saranno scelti dal Consiglio Regionale della Calabria. Prossimamente, il Consiglio Regionale della Calabria, sarà chiamato ad eleggere il “Garante Regionale dei Diritti delle persone detenute o private della libertà personale”, istituito con Legge Regionale n. 1 del 29/01/2018. Il Garante, che opererà su tutto il territorio regionale in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione, senza essere sottoposto ad alcuna forma di controllo gerarchico o funzionale, dovrà essere eletto con deliberazione adottata a maggioranza dei due terzi dei Consiglieri assegnati. In mancanza di raggiungimento del quorum, dalla terza votazione, l’elezione avverrà a maggioranza semplice dei Consiglieri assegnati. Tra i papabili alla carica di Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti della Regione Calabria vi è il cetrarese Emilio Enzo Quintieri, laureando in giurisprudenza, membro del Comitato Nazionale dei Radicali Italiani, da tempo a capo della delegazione visitante gli Istituti Penitenziari della Repubblica con particolare riferimento a quelli delle Regioni Calabria, Puglia, Campania e Lazio, autorizzato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. Quintieri, inoltre, nel corso degli anni, è stato collaboratore di numerosi membri del Parlamento per la presentazione di atti di sindacato ispettivo e proposte di legge in ambito penitenziario nonché accompagnatore di Deputati e Senatori durante le ispezioni alle Carceri ed agli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Tra l’altro è stato uno dei promotori della Legge Regionale istitutiva del Garante in Calabria, seguendo i lavori presso il Consiglio Regionale e venendo anche audito come esperto a Palazzo Campanella dalla competente Commissione Consiliare. È stato più volte candidato alla Camera dei Deputati, nel 2013, con la Lista “Amnistia Giustizia e Libertà” promossa da Marco Pannella ed Emma Bonino ed infine, nel 2018, con la Lista “Più Europa con Emma Bonino”, promossa da Emma Bonino, Benedetto Della Vedova e Bruno Tabacci. Negli ultimi anni, infine, ha portato centinaia di Studenti di Giurisprudenza e Scienze del Servizio Sociale dell’Università della Calabria, accompagnati dai Docenti di Diritto Penale Prof. Mario Caterini e Prof. Sabato Romano, in visita alle Carceri calabresi. Il Garante, infatti, dovrà essere scelto tra persone di specifica e comprovata formazione, competenza ed esperienza nel campo giuridico - amministrativo e nelle discipline afferenti alla promozione e tutela dei diritti umani o che si siano comunque distinte in attività di impegno sociale, con particolare riguardo ai temi della detenzione, e che offrano garanzie di probità, indipendenza e obiettività. Intanto, nei prossimi giorni, in attesa che il Consiglio Regionale definisca l’iter per la elezione del Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti, l’esponente dei Radicali Italiani, debitamente autorizzato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia su richiesta dell’On. Riccardo Magi, farà visita alla Casa Circondariale di Paola (sabato 16), alla Casa Circondariale di Palmi(domenica 17), alla Casa di Reclusione di Rossano (sabato 23) ed infine alla Casa Circondariale di Cosenza (sabato 30). Quintieri durante le visite sarà accompagnato dalla radicale Valentina Anna Moretti, giurista e praticante Avvocato del Foro di Paola, candidata alla carica di Garante Regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Autonoma della Sardegna. Ariano Irpino (Av): protesta e aggressione nel carcere, trasferiti 21 detenuti farodiroma.it, 15 giugno 2018 Saranno in totale 21 i detenuti trasferiti dal carcere di Ariano Irpino dopo la violenta rivolta scatenata ieri. Questi i primi provvedimenti per i fatti di ieri, quindi, che hanno visto come protagonista, suo malgrado, Claudio Picariello, assistente capo della polizia penitenziaria, intervenuto per sedare gli animi, ma finito in ospedale per diverse escoriazioni. Insieme a lui anche altri colleghi sono finiti al pronto soccorso, ma sono tutti già stati dimessi. Sul fatto indaga la Procura di Benevento che a breve potrebbe emanare nuovi provvedimenti a carico dei rivoltosi. La rivolta è scoppiata ieri pomeriggio, come detto, a causa di un detenuto, con problemi psichici, che ha dato in escandescenze perché avrebbe voluto ottenere un trasferimento in altra struttura. Altri reclusi, pensando che l’uomo fosse stato maltrattato, lo hanno “affiancato” nella protesta. I detenuti hanno iniziato ad inveire contro gli agenti, anche con lancio di oggetti, riuscendo a forzare i cancelli e ad accerchiare Picariello, poi riuscito a rifugiarsi in una guardiola. Ariano Irpino (Av): “l’età media dei detenuti scende, mentre ne aumenta il disagio” orticalab.it, 15 giugno 2018 Carlo Mele, Garante dei diritti dei detenuti: “Ero stato nell’Istituto del Tricolle giovedì e avevo scritto alle amministrazioni competenti una missiva che ha poi trovato fatale riscontro. La struttura, creata per massimo 180 persone, accoglie 320 reclusi. Tantissimi i giovani indigenti e molto poco istruiti, leve perfette per la criminalità. Nuove carceri? Ci sono già ma sono chiuse per mancanza di personale. Non serve reprimere: serve rimettere al centro la scuola e il lavoro” “Giovedì scorso sono entrato nel Carcere di Ariano alle 9.45 e ne sono uscito alle 15. Dopo quella lunga visita, ho scritto una nota a tutte le istituzioni competenti fino al livello nazionale: che qualcosa sarebbe accaduto era, ahimè, nell’aria”. Impugna la missiva inviata alle amministrazioni penitenziarie Carlo Mele, che questa volta parla in veste di garante provinciale per i diritti dei detenuti, mentre commenta quanto accaduto alla Casa Circondariale del Tricolle, solo qualche mese fa intitolata a “Pasquale Campanello”. “Alla base degli eventi (giunti finanche alla ribalta delle cronache nazionali, ndr) posso solo immaginare che ci sia una questione logistica: stiamo parlando di una struttura fatta per accogliere 150, massimo 180, persone e dove sono attualmente registrati circa 320 detenuti, molti dei quali hanno di media ai 25 anni, in linea con un trend che vede abbassarsi l’età della popolazione carceraria. Il 95% di essi arriva dal napoletano e molti presentano problemi di natura psico-sociale”. Una miscela potenzialmente pericolosa, se costretta a districarsi negli spazi ristretti di una sorta di pentola a pressione. “Nel 2017, avevo già scritto all’Amministrazione penitenziaria, segnalando una situazione di enorme difficoltà sia per il personale di custodia, sia per quello educativo. Allora, infatti, era in servizio un solo educatore, mentre l’altro era in malattia. In quella missiva segnalavo come la situazione si tenesse solo per la buona volontà di quanti operano all’interno della struttura. L’amministrazione, ad ottobre, mi rispose che avrebbe provveduto a raddoppiare il personale per la formazione e rieducazione, ma quando giovedì sono tornato ad Ariano, la sola differenza era che, rientrando l’altro operatore dalla malattia, gli educatori erano tornati ad essere due. A questo si aggiunga l’insufficienza degli spazi nei quali i detenuti dovrebbero stare quando sono fuori dalle celle; le inottemperanze dell’Asl, che non assicura adeguata assistenza sanitaria; i problemi sotto il profilo delle tutele legali. Alcuni carcerati, infatti, non sanno nemmeno perché restino in lì non avendo mai visto il legale incaricato di garantire il loro patrocinio gratuito”. Sono indiscutibilmente poche le forze che le amministrazioni competenti sembrano poter mettere in campo, a dispetto di un discorso politico nazionale molto muscolare che, però, lascia non pochi dubbi rispetto alla sua reale efficacia. “Questo governo sta parlando di aprire nuovi carceri: perché non dire, invece, che nuovi istituti in Italia sono già stati realizzati e non sono mai entrati in funzione per mancanza di personale e di risorse per assumerlo? Perché non dire che la detenzione deve essere l’ultima ed estrema ratio alla quale fare ricorso? Perché non dire che la recidiva tra coloro che intraprendono percorsi di reinserimento è del 10% e dell’80% tra quanti, invece, ne restano fuori? Il carcere deve o non deve essere trattamentale? È un punto sul quale bisogna fare chiarezza perché se, invece di progredire, abbiamo deciso di tornare indietro a tempi biblici, siamo sulla strada giusta”. Prescindere da questo genere di interrogativi è impossibile. Il contesto di partenza di molte delle persone che in carcere ci finiscono per una condizione di estrema povertà, umana e materiale, impongono a uno Stato civile, di diritto, di interrogarsi sulla funzione che la pena, di qualsiasi genere essa sia, debba avere. E, più in generale, è tenuto ad interrogarsi e dichiarare chiaramente quali obiettivi socio-economici-culturali intenda perseguire con la propria azione pubblica. L’obiettivo è solo quello di reprimere, restituendo alla società degli scarti destinati a rimanere ai margini, senza possibilità di riscatto, oppure c’è volontà di raggiungere una pacificazione perseguita per mezzo di politiche di equità che diano dignità a ciascuno, attribuendo il giusto peso a materie cruciali come l’istruzione ed il lavoro? “Molti giovani vengono arrestati per spaccio di droga o piccole rapine. Provengono da contesti estremamente poveri e hanno un grado di scolarizzazione molto basso il che, naturalmente, fa gioco alla criminalità che riesce a garantire, a loro e alle loro famiglie, quel che lo Stato non dà, né si organizza per assicurarlo. Ad Ariano, i detenuti giovani con questo profilo sono tanti: molti hanno a stento la terza media e non di rado la loro condizione di povertà materiale si accompagna ad un disagio psico-sociale approfondito dal senso di abbandono che vivono nel rapporto con le famiglie che spesso hanno i mezzi per venirli a trovare. Ma il fatto che un carcere sia relegato su di una montagna non può essere un ostacolo all’accesso ai diritti, finanche i più elementari”. Una negazione che è, a propria volta, espressione di un approccio globale alla questione che, come tutto ciò che in Italia riguarda la tutela dei diritti, sta diventando un problema budgetario. “Si parla di mancanza di risorse: sembra quasi si voglia aprire ad una privatizzazione della gestione delle sedi carcerarie perché lo Stato non ha i soldi per farvi fronte. Del resto un detenuto costa, ogni giorno, 200€ all’amministrazione: una somma pro-capite da moltiplicare per una popolazione in crescita in ragione di politiche securitarie che, dando troppo poco spazio alle misure alternative, cresce in continuazione, accrescendo i costi del sistema. Un cane che si morde la coda”. La comunità carceraria di Ariano Irpino è fondamentalmente il riflesso rovesciato del mondo esterno, quello che i detenuti lasciano al momento di entrare in reclusione e dove cercano appigli che, però, è sempre più difficile - per chi in un carcere lavora - assicurare loro. “Ci sono reclusi che non hanno nemmeno i soldi per uno spazzolino e per questo, appena arrivati in carcere, chiedono di lavorare. Allo stesso modo cercano la scuola, avendo consapevolezza del limite che rappresenta, nelle loro vite, l’aver abbandonato presto gli studi. Ma la domanda è: perché? Perché queste persone, soprattutto i ragazzi più giovani, non hanno istruzione? Perché la scuola li ha lasciati andare così? Il carcere, fortunatamente, riesce ancora ad attrezzarsi per rispondere a questo bisogno, ma è sempre più difficile. E, soprattutto, è fuori che la scuola deve riacquistare centralità: una volta dentro è già tardi”. Ecco perché il carcere diventa il riflesso rovesciato della nostra quotidianità, del mondo dei liberi in realtà schiavi di se stessi, delle proprie povertà e di una pochezza socio-politica che sta producendo l’unico effetto di accrescere iniquità e abbandono. “L’abbassamento dell’età media della popolazione carceraria è il dato più allarmante che ci impone un serio esame di coscienza perché è ai giovani, ai nostri figli, e alla rovina del loro futuro che saremo chiamati a rendere conto. Quali modelli educativi diamo ai nostri ragazzi? Quali spazi di protagonismo, di socializzazione, quali opportunità di formazione, confronto e partecipazione garantiamo loro? Nessuna. E non serve arrivare alla devastazione di aree come il napoletano o il casertano. Basti guardare alle macerie fumanti di Avellino: una città che ai più giovani non ha più nulla da dire e da dare. Se i loro principali passatempo diventano la strada, il bar, l’alcool, se nessuno li educa alla responsabilità delle proprie e delle proprie azioni, allora pratica (auto)distruttive come il vandalismo sono la naturale manifestazione della mancanza di senso, del vuoto nel quale sentono di muoversi. È a loro che siamo tenuti a rendere conto: ben prima che possano varcare la soglia di un carcere”. Pesaro: il progetto “Insieme, carcere e salute mentale” fa tappa alla Casa circondariale di Paolo Montanari pesaronotizie.com, 15 giugno 2018 Si è svolto recentemente un incontro con esperti, nella casa circondariale di Villa Fastiggi, in occasione della prima tappa marchigiana del progetto nazionale “Insieme, carcere e salute mentale”, promosso dalle società italiane di Medicina e Sanità Penitenziaria, di Psichiatria e di Psichiatria delle Dipendenze. Un progetto in collaborazione con Area Vasta 1 che permetterà di sviluppare un percorso diagnostico-terapeutico per una migliore gestione e trattamento dei detenuti. Il percorso è stato illustrato dal dottor Leo Mencarelli, responsabile del dipartimento di Salute Mentale dell’Area Vasta 1 che ha ,soprattutto, evidenziato come la terapia farmacologica e la presa in carico psicologica e patologica nel caso che i pazienti detenuti soffrano di dipendenze, possano essere strumenti innovativi da costituire un modello anche per altre carceri italiane. I dati sono allarmanti. Nelle Marche il 2% delle persone convive con una fragilità psichiatrica, per un numero complessivo di oltre 30 mila pazienti (7mila solo nella provincia di Pesaro e Urbino) e un numero molto alto di prestazioni sanitarie, 72mila, nel 2017. Nelle carceri, già in allarme per il sovraffollamento, il problema è al collasso: più di 1 detenuto su 3 soffre per disturbi psichici, depressivi e psicotici. Ben il 30% dei 229 detenuti ha problemi psichiatrici, e hanno bisogno di una assistenza non solo medica, ma anche di assistenti sociali, di magistrati di sorveglianza e agenti di polizia penitenziaria, in una integrazione che permetta di garantire i massimi benefici sanitari e riabilitativi a ogni paziente detenuto che convive con un disturbo psichico. Avezzano (Aq): lavoro di pubblica utilità, siglata l’intesa tra Tribunale e carcere centralmente.com, 15 giugno 2018 Un protocollo d’intesa che consente ai detenuti condannati a pene brevi di scontarne parte lavorando in favore della collettività è stato stipulato tra il Presidente del Tribunale di Avezzano, Eugenio Forgillo, e il direttore del carcere Anna Angeletti. Il protocollo consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le Regioni, i Comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato e, da tempo, è stato sottoscritto anche da molti Comuni della Marsica, nonché dalla Croce Rossa. L’intesa è stata ulteriormente perfezionata con l’aggiunta del lavoro proprio presso quell’istituzione che ha emesso la condanna divenendo a tutti gli effetti un modo alternativo di espiazione della pena che tende in qualche misura a ridurre i costi del mantenimento in carcere in vista del ben più consistente obiettivo di reinserimento del condannato nella vita lavorativa ed onesta. “Collaborando tutti insieme si può fare qualcosa per il reinserimento dei detenuti nella vita quotidiana - ha sostenuto il presidente Forgillo - consentendo loro di rendersi utili alla società”. Una delle attività che andranno a svolgere i detenuti sarà anche quella di archiviazione di atti e documenti, smistamento posta e notifiche, fotocopie e smistamento documenti negli uffici giudiziari. Garantita la copertura assicurativa grazie al contributo istituzionale della Croce Rossa, il progetto, previa approvazione Ministeriale e del competente Magistrato di Sorveglianza, vede immediatamente coinvolti 2 detenuti, che hanno il compito di supportare il personale di cancelleria addetto nella riorganizzazione degli archivi dell’ufficio giudiziario, contribuendo a migliorare gli standard di efficienza, sia pure nel pieno rispetto della privacy. Insieme all’apporto contestuale del Sindaco di Pescina sarà anche possibile realizzare il trasloco immediato di molti documenti nell’archivio satellite dislocato presso l’ufficio del giudice di pace di quella città, con conseguente ottimizzazione degli spazi. “ In un prossimo futuro - ha specificato Forgillo - si potrà programmare la digitalizzazione degli atti più importanti, contribuendo alla dematerializzazione; si apre - ha concluso il Presidente - una nuova pagina di efficienza per l’ufficio giudiziario marsicano, dimostrando che operando tutti coesi solidarietà e buona amministrazione possono coesistere a costi irrisori”. Roma: Valentina Esposito, il mio lavoro tra carcere, teatro e una Palma d’Oro di Andrea Porcheddu glistatigenerali.com, 15 giugno 2018 Che sia estremamente determinata, è chiaro a tutti: c’è una forza incredibile dietro la sua grazia e il suo contagioso sorriso. Valentina Esposito è una giovane registra che ha scelto un terreno difficile per lavorare. Ha fondato la compagnia Fort Apache che si è posizionata in una zona di “confine” davvero aspra, quella tra dentro e fuori il carcere, operando con ex detenuti del Carcere di Rebibbia, a Roma. Ma il progetto di Fort Apache è ampio e articolato, abbraccia cinema e teatro, in un percorso che si è concretizzato nel 2015 in un bellissimo film, Ombre della sera e che ha saputo intercettare da qualche anno anche una personalità originale come quella di Marcello Fonte da poco Palma d’Oro al Festival di Cannes, protagonista del film di Matteo Garrone. Docente al Master di Teatro nel Sociale dell’Università “La Sapienza” di Roma, Valentina presenterà il suo nuovo spettacolo, Famiglia, al teatro India nella giornata di domenica 17 giugno e, il giorno seguente, negli spazi del Gay Village di Roma. Naturale allora prendere le mosse proprio dalla nuova creazione per capire di quale sia il percorso artistico e umano di Valentina Esposito. Come avete lavorato a un tema non facile come quello della famiglia? Qual è il nodo che avete voluto affrontare? “La negazione del diritto agli affetti nelle carceri ha una ricaduta emotiva e psicologica terribile sui cittadini reclusi. Soprattutto per coloro che scontano lunghe pene, la perdita della continuità delle relazioni acuisce i conflitti, le incomprensioni, i dolori, rende insopportabile la vita detentiva. La famiglia è fuori che ti aspetta con i suoi conti da pagare, con quanto lasciato in sospeso, con il senso di colpa per l’abbandono e il problema del giudizio. Lavorando sul tema, ho stimolato gli attori a ripercorrere la storia delle loro relazioni familiari ed è emersa con forza la centralità del rapporto con i padri, con un tipo di educazione autoritaria, e la questione della ribellione come atto di definizione identitaria dei figli che si traduce anche in un primo atto di ribellione alle regole, e con l’inizio di un percorso di devianza vissuto all’ombra dell’occhio giudicante dei padri. Padri padroni, grandi lavoratori, in un contesto di povertà con famiglie molto numerose da tirare su. Scontri fortissimi rimasti sospesi a causa della lontananza. Quasi tutti i padri degli attori sono morti durante la detenzione dei figli, lasciando loro il peso che viene dall’impossibilità di riprendere il dialogo e risolvere il conflitto. Da questo nodo irrisolto abbiamo allargato l’obiettivo e raccontato uno scontro generazionale che prescinde la condizione di detenzione e si apre a un affresco della famiglia come dimensione dell’amore e della violenza all’interno della quale si consumano rapporti, si costruiscono i destini, si formano e si scontrano le identità”. Perché ha scelto di lavorare al “confine” del carcere, tra “dentro” e “fuori”? “Il confine tra il dentro e il fuori è la linea sulla quale si fa pratica di resistenza al richiamo dei contesti di origine degli attori ex detenuti, all’attrattiva del ritorno al crimine, è il terreno decisivo nel quale si gioca l’efficacia dell’intervento interno in termini di prevenzione della recidiva e compimento delle finalità costituzionali della pena. Era impensabile per me interrompere il percorso umano e teatrale iniziato con alcuni attori tanti anni fa”. Il Festival di Cannes, premiando il percorso attorale di Marcello Fonte, ha anche indirettamente sancito la qualità di certe proposte di quello che ho provato a chiamare “teatro sociale d’arte”. Come ha incontrato Marcello e come si è inserito nel lavoro di Fort Apache? “Ho conosciuto Marcello nel 2015 al Nuovo Cinema Palazzo di Roma (uno spazio occupato e autogestito nel quartiere San Lorenzo, ndr), mentre eravamo in prova con un altro spettacolo, Tempo Binario. Proprio il giorno del debutto, mentre eravamo tutti insieme, uno degli attori Ruggero Palmiotto, è venuto a mancare. Marcello ha vissuto con noi quel tragico momento e mi sembrò naturale, qualche tempo dopo, chiedergli di sostituirlo per rimettere in scena lo spettacolo in forma di cerimonia privata per la famiglia di Ruggero. Celebrare insieme sulla scena l’addio a un attore ex detenuto è stato uno dei momenti più significativi del nostro percorso, un passaggio che ci ha segnati, forse un punto di non ritorno. Da quel momento Marcello è entrato stabilmente a far parte della Compagnia condividendo con noi la sua altrettanto difficile vicenda esistenziale, la passione per il teatro e la fiducia nel progetto artistico e sociale di Fort Apache”. Ogni volta che si parla di teatro e carcere vale la pena interrogarsi su quale sia il rapporto tra le istituzioni culturali e quelle carcerarie… “Tenere saldo il legame con le istituzioni anche al di fuori delle carceri non solo è in linea con le prospettive ministeriali di spostamento del baricentro della risposta sanzionatoria penale dalla detenzione verso sanzioni di comunità, ma risponde ad una concreta ed emergenziale necessità di intervento in un ambito più carente, rispetto a quanto accade all’interno degli Istituti penitenziari, di un’offerta trattamentale strutturata e coordinata. In questo senso Fort Apache realizza i propri obiettivi programmatici in collaborazione con la Direzione del Carcere di Rebibbia, l’U.E.P.E. Ufficio di Esecuzione Penale Esterna e il Tribunale di Sorveglianza di Roma che sovrintendono alle situazioni dei singoli detenuti in misura alternativa che partecipano all’attività. Parallelamente lavora a progetti di mediazione sociale e culturale con Istituti di Istruzione Superiore e Università sostenuti da Enti Pubblici con finanziamenti del Fondo sociale europeo; in particolare dal 2014 si inserisce nei Progetti di Ricerca e Formazione de La Sapienza Università di Roma e ha sede presso il Dipartimento di Storia dell’Arte e Spettacolo. La collaborazione con l’Università e il conferimento di una sede istituzionalmente riconosciuta, ha avvalorato il Progetto di un grande valore simbolico, divenendo forte segnale di apertura al percorso di reinserimento degli ex detenuti nella società civile. Costruire ponti con contesti sociali e culturali alternativi a quelli di origine degli attori è la via del reinserimento professionale, del dialogo sociale e della contaminazione artistica”. Il Garante dei detenuti: “sui migranti troppi Stati rinunciano alla solidarietà” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 15 giugno 2018 Anche il Garante nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà sostiene che Paesi come Francia e Spagna non hanno dato seguito agli impegni presi in tema di migranti. Contribuendo a creare “una Europa non più solidale”. Si intitola così il capitolo della relazione annuale che sarà presentata stamani in Parlamento dal responsabile Mauro Palma, nel quale si affronta anche il problema degli extra-comunitari che sbarcano in Italia per chiedere asilo nel continente. E finiscono nell’ambito di competenza del Garante perché una volta approdati da questa parte del Mediterraneo vengono trattenuti negli hotspot o nei centri di permanenza. Una “detenzione amministrativa - spiega Palma - di difficile gestione sotto il profilo dell’ordine pubblico”, e a volte “non rispettosa dei diritti fondamentali della persona”. Ma prima ancora c’è il problema dell’afflusso e del ricollocamento dei profughi (o aspiranti tali), che dovrebbe riguardare tutti i Paesi dell’Unione. Invece c’è un bilancio fortemente passivo per l’Italia che nel 2017, sulla base del Regolamento di Dublino, ha visto arrivare 5.944 persone a fronte di 101 partenze verso altre destinazioni europee. Chi proprio sembra non volerne sapere di accogliere i migranti sono i quattro Stati del cosiddetto “gruppo di Visegrad” che “hanno mantenuto la loro parola e non quella dell’Unione: Polonia e Ungheria non hanno accolto nessun richiedente asilo”, la Repubblica Ceca e la Slovacchia solo 12 e 16 provenienti dalla Grecia. Non sono però soltanto loro, denuncia il Garante, a “mettere seriamente in crisi la coesione europea sul fronte delle migrazioni. A luglio 2017, alle richieste di aiuto dell’Italia, Francia e Spagna avevano risposto esprimendo solidarietà, ma chiudendo i loro porti di Barcellona e Marsiglia per gli sbarchi umanitari, mentre l’Austria aveva annunciato di inviare l’esercito a presidiare la frontiera al Brennero per fermare il flusso dei migranti irregolari dall’Italia. Il vincolo di solidarietà tra i Paesi dell’Unione, definito all’articolo 80 del Trattato di funzionamento dell’Unione europea, si è rivelato sempre più debole”. È una fotografia della situazione scattata prima delle polemiche degli ultimi giorni, che non dà giudizi sul cambio d’indirizzo da parte del governo italiano ma aiuta a comprendere il contesto nel quale ci si muove. Anche per affrontare la gestione di chi resta in Italia in attesa di conoscere il proprio destino. Ad aprile 2018 erano in funzione cinque Centri di permanenza per il rimpatrio, con una capienza di 538 posti, già tutti occupati. Rispetto agli anni precedenti aumentano le persone trattenute e i rimpatri forzati, sui quali il Garante, che ne controlla le procedure, rileva alcune criticità. Ad esempio il fatto che i “rimpatriandi” vengano ammanettati con le fascette in velcro, “anche per molte ore e in assenza di comportamenti apertamente non collaborativi”. Inoltre nella relazione si esprimono “forti perplessità sull’opportunità di organizzare voli di rimpatrio forzato verso Paesi, come l’Egitto e la Nigeria, che non hanno istituito un meccanismo nazionale di prevenzione della tortura”. Per quanto riguarda la situazione dei detenuti in Italia, il Garante sottolinea che la popolazione carceraria ha ripreso a crescere a ritmo costante. Al 31 maggio c’erano 58.569 reclusi (quasi 10.000 in più rispetto ai posti disponibili nei 191 penitenziari per adulti), rispetto ai 56.863 di un anno prima e ai 53.495 del 2013. È ripreso il cosiddetto fenomeno delle “porte girevoli”, ovvero la permanenza in prigione di persone per meno di tre giorni perché arrestate in flagranza e rinchiuse in cella in attesa del processo per direttissima: 7.176 nel 2017. Numeri che incidono sul sovraffollamento e non sulla sicurezza della collettività. La relazione ripropone a governo e Parlamento “di voler considerare la riforma dell’intero sistema dell’arresto obbligatorio in termini tali da rendere limitata ai soli casi più gravi, di concreta pericolosità per la sicurezza pubblica, la custodia della persona colta in flagranza di reato”. Migranti. Dossier del Garante sui rimpatri: poca attenzione al rispetto delle norme di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 15 giugno 2018 L’Autorità per i diritti dei detenuti indica “criticità” sui migranti: dalla scarsa igiene dei centri all’ignoranza delle norme sui minori. “Ci state rimpatriando?”. È l’una e mezza di notte del 26 novembre scorso e quattro cittadini tunisini, che dormono nei moduli abitativi del Centro di permanenza per il rimpatrio di Bari vengono svegliati da agenti di polizia e da un mediatore culturale, che li invitano a prepararsi per le dimissioni. “Nessuna informazione” viene fornita loro sul fatto che stanno per essere riportati in Tunisia, “si tratta solo di un trasferimento a Roma”. Secondo gli operatori, quella comunicazione viene differita perché “determinerebbe il rischio di reazioni violente”. Una cautela forse dovuta all’esperienza, ma in ogni caso non “conforme agli standard internazionali”. L’episodio è descritto in un rapporto (datato 9 aprile 2018) del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, che oggi presenterà a Roma, in Senato, la relazione annuale sul proprio operato. Un volume di 380 pagine, che Avvenire ha potuto visionare in anteprima e che non riferisce solo dei controlli dei membri del collegio del Garante (Mauro Palma, Daniela de Robert ed Emilia Rossi) negli istituti di pena, ma anche di ispezioni in altre realtà “detentive” o dove ci sia il rischio di privazione della libertà. Nel novero di situazioni sono incluse le “condizioni dei migranti irregolari”, non solo nei “Centri di permanenza o hotspot” (7 strutture ispezionate), ma anche lungo le diverse fasi, dal trattenimento al rimpatrio. Ebbene, rispetto alle condizioni di “detenzione amministrativa” dei migranti irregolari nelle strutture visitate, il cahier de doléances elenca diversi “nodi”: dalle “scadenti condizioni materiali e igieniche delle strutture” ispezionate, alla “scarsa trasparenza”, fino alla “non considerazione delle differenti posizioni giuridiche delle persone trattenute e delle diverse esigenze e vulnerabilità individuali” e all’”assenza di una procedura di reclamo per far valere violazioni dei diritti o rappresentare istanze”. Altre incongruenze, come detto all’inizio, avvengono durante la fase dei rimpatri di chi non può più soggiornare in Italia. Procedure delicate e onerose per lo Stato, ma destinate a crescere (lo scorso anno ne sono state eseguite 7mila, ma il neo-ministro dell’Interno Matteo Salvini ha promesso di aumentarle esponenzialmente). Ma come si svolgono? Il Garante “da marzo 2017 al giugno 2018” ha monitorato “16 operazioni di rimpatrio forzato”, 13 verso la Tunisia e 3 verso la Nigeria”. Fra le irregolarità individuate, la “consuetudine, riscontrata nella gran parte delle operazioni monitorate, di tenere anche per molte ore i polsi dei rimpatriandi legati tramite delle fascette in velcro, indiscriminatamente e in assenza di comportamenti apertamente non collaborativi”. Oltre al mancato avviso dell’imminente rimpatrio, il Garante ritiene “non accettabile” che i migranti vengano lasciati per ore, in attesa dei controlli, in piedi in aree all’aperto, al caldo d’estate e al freddo d’inverno, oppure “in locali fatiscenti”, in particolare nella “struttura aeroportuale dedicata di Palermo”. Non si tratta di questioni poco rilevanti, poiché “in base al diritto internazionale la libertà di ciascun Stato di allontanare stranieri dal proprio territorio è soggetta ad alcune restrizioni, non solo attinenti alla legittimità del provvedimento, ma anche alle modalità” (e altre garanzie sono fissate nella direttiva Ue 115 del 2008). Qualora venissero meno, avverte l’autorità, ciò renderebbe “illegittimo il rimpatrio forzato”. Per di più, il Garante “esprime forti perplessità sull’opportunità di organizzare voli di rimpatrio forzato verso Paesi, come l’Egitto e la Nigeria, che non hanno istituito un meccanismo nazionale di prevenzione della tortura”, così come nei pochi “rimpatri forzati individuali recentemente effettuati verso Libia e Sudan”. L’ultima notazione, sconcertante, riguarda l’accertamento dell’età dei minori stranieri, che spesso arrivano non accompagnati da adulti. A oltre un anno dall’entrata in vigore della legge Zampa, non solo il Garante rileva “un grave deficit di attuazione” della normativa, con episodi di avvio di accertamenti socio-sanitari sul minore “senza il coinvolgimento dell’Autorità giudiziaria”, ma perfino casi di “mancata conoscenza delle disposizioni sia da parte delle forze di polizia che della magistratura onoraria”. Se è vero che l’ignoranza della legge non è una scusa per nessuno, quando a non conoscerla è un pubblico ufficiale c’è da restare sbigottiti. Migranti. Lo spartiacque di Sacko e Aquarius di Marco Bentivogli* e don Virginio Colmegna** Il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2018 Quando ci sono persone che si trovano in una difficoltà e di rischio per la propria vita, come stare stipati da giorni su una nave in mezzo al Mediterraneo, quello di intervenire e trarre in salvo vite dovrebbe essere un atto spontaneo e profondo. Quando ciò non accade, allora vuol dire che si è talmente carichi delle proprie convinzioni e dei propri tornaconti da non riconoscere più nell’altro una persona come me, nata solo in un altro posto e in un altro tempo. Certo, l’Europa e molti Paesi europei sono stati ipocriti e assenti, ma il Mediterraneo è diventato il cimitero più grande della terra e tutte le irresponsabilità della politica non giustificano altri morti in mare. Per una parte dell’opinione pubblica, quelle vite sui barconi rischiano di ridursi a mere immagini televisive avvolte da una dimensione quasi spettacolare, ma che non tocca più il piano emotivo. Invece, bisogna lasciarsene commuovere perché la commozione è un sentimento profondamente umano. Non si deve mai dimenticare che là sopra ci sono singoli individui, ognuno con un nome, una storia, dei genitori che li hanno messi al mondo, fratelli, sorelle, una comunità che li ha visti crescere, un vissuto di relazioni ed esperienze, un futuro di sogni e aspettative. E se ora sono in cammino verso un altro approdo, dopo aver già patito tanto in termini di sofferenza, è perché ci sono motivi che non hanno lasciato loro altra scelta. Alla politica, quella che non si fa con i muri e con i rifiuti ma che punta alla costruzione di un “noi” fatto di legami e bene comune, va chiesto di gestire i problemi attraverso la ricerca di risposte possibili, impegno diplomatico, soluzioni condivise. Salvare vite umane dovrebbe essere più di un dovere: è una conseguenza stessa dell’appartenere al genere umano. E per noi, come uomini di fede, tendere la mano a chi è più povero e indifeso è vivere pienamente il Vangelo. Matteo 25, 35-36, è chiaro e non è interpretabile a seconda della convenienza: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi”. È empatia e solidarietà senza sconti o distinguo. Cattolici o no, sono parole che tracciano una linea netta fra chi crede che niente possa farci rinunciare a riconoscere gli altri come fratelli e sorelle e chi, invece, non ci crede. Così come non era solo nero di pelle, Soumalya Sacko, ucciso a colpi di fucile qualche giorno fa, né solo ultimo tra gli ultimi, bracciante agricolo maliano, abitante nel vibonese, in Calabria. Soumalya Sacko era anche un sindacalista. Era il simbolo dell’emancipazione dalla segregazione, dal razzismo, dallo sfruttamento e dall’indigenza e, nel contempo, della rivendicazione collettiva da parte di gruppi sociali che acquisiscono coscienza di sé e dell’ingiustizia che subiscono. Ma nessuno sembra abbia colto il senso profondo della sua morte. Sacko e Aquarius sono due simboli e segnano uno spartiacque fra umanità e crudeltà. A queste Paese servono soluzioni e regole certe per tutti e servono politici che si occupano con serietà di quelle soluzioni. Negare i disagi degli italiani nelle periferie per assenza di politiche di integrazione e di contrasto alla criminalità è un errore fatale, ma spaventare le persone non le rende più sicure, anzi acuisce i disagi, mette i penultimi contro gli ultimi. Affrontare la questione significa occuparsi sin d’ora di temi prioritari, partendo da un’analisi accurata e oggettiva. Due fenomeni, fra loro connessi. Il primo: la popolazione dell’Africa passerà dagli attuali 1,2 miliardi a 4,4 miliardi nel 2100. Di questi, il 41 per cento sarà nella coorte tra i 0-14 anni. Almeno mezzo miliardo premerà per entrare in Europa. Se da subito non si lavora alla transizione demografica del continente africano, creando un sistema scolastico che dia gli strumenti culturali per farsi un’opinione e creare le condizioni di sviluppo, non ci sarà politica degli sbarchi e dei rimpatri in grado di reggere a questo flusso migratorio che non è arrestabile. Il secondo: nel 2015 gli over 60 nel mondo erano già 901 milioni, nel 2092 aumenteranno del 132 per cento; mentre dagli attuali 125 milioni di over 80 si passerà a livello planetario a 434 milioni, il +247%. Italia, Giappone, Francia, Germania sono tra i Paesi in cui la popolazione invecchierà più rapidamente (Italia e Giappone si giocano il primato). In Italia l’aspettativa di vita salirà a 93 anni. Si tratta di uno scenario inedito. Vince l’avidità della società chiusa quando si fa credere a un povero che la causa dei suoi problemi siano quelli più poveri di lui. Occupiamoci delle persone, di tutte. Non rinunciamo alla nostra umanità e non lasciamo che quella paura ci impedisca di cambiare in meglio il mondo in cui viviamo. *Segretario Generale Fim Cisl **Presidente Fondazione Casa della carità Migranti. Gli abusi dei poliziotti francesi che respingono in Italia i ragazzini di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 15 giugno 2018 Nel giorno dell’incontro tra Conte e Macron, un nuovo rapporto di Oxfam, Diaconia Valdese e Asgi documenta la brutalità degli agenti transalpini verso i minori fermati dopo la frontiera di Ventimiglia. Ragazzini stranieri non accompagnati, di 12 anni o poco più, continuano ad essere respinti illegalmente verso l’Italia dalla polizia francese dopo la frontiera di Ventimiglia. Sono per lo più ragazzini africani sopravvissuti a viaggi drammatici, spesso riusciti a evitare i controlli camminando lungo sentieri pericolosi come il “passo della morte” che unisce Ventimiglia e Mentone, la località transalpina diventata il simbolo dei maltrattamenti degli agenti francesi. La legge prevede che i minori non accompagnati vengano affidati ai servizi sociali e abbiano il diritto di chiedere asilo in un Paese europeo per ricongiungersi a familiari o amici. Ma nessuna indagine in tal senso viene per lo più fatta, e ai ragazzini sono soltanto chieste le generalità per compilare il cosiddetto “refus d’entrèe”. Le testimonianze - Sheref, 16 anni, arriva dal Ciad ed è sbarcato a Lampedusa lo scorso agosto: “Ho provato 10 volte ad attraversare la frontiera, 8 a piedi e due in treno, mi hanno fermato, ammanettato, più volte picchiato e rispedito a piedi in Italia senza chiedermi se avessi familiari o amici in Francia”. Un suo coetaneo, E., originario dell’Eritrea, racconta: “Ho provato già dieci volte ad attraversare la frontiera. Una volta a piedi, da solo, ma mi sono perso. Le altre nove volte in treno. La polizia francese sale sul treno, ti afferra, ti fa scendere e ti rispedisce indietro”. T., 15 anni, fuggito dalla guerra in Darfur: “Ho provato a passare. Eravamo in due, ci hanno fatto scendere dal treno strattonandoci e urlando, poi ci hanno spinti in un furgone nel parcheggio della stazione, ci hanno dato un foglio (il cosiddetto “refus d’entrèe”, ndr) e ci hanno rimessi su un treno che tornava in Italia, senza spiegarci nulla”. Maltrattamenti e abusi - Quella di T., Sheref ed E. sono alcune delle testimonianze raccolte in “Se questa è Europa”, un rapporto che documenta gli abusi e i respingimenti illegali in Italia compiuti dalla polizia francese. Lo hanno redatto Oxfam, Diaconia Valdese e Asgi, ong impegnate nella città ligure a soccorrere i migranti respinti e lì bloccati in condizioni di estrema vulnerabilità: 1 su 4 è un minore che cerca di ricongiungersi con familiari o conoscenti in Francia, Inghilterra, Svezia o Germania, a cui troppo spesso viene negata protezione e il diritto di chiedere asilo previsto dalle norme europee. Il rapporto denuncia la brutalità della polizia francese verso i minori migranti che prima di essere respinti sono spesso vittime di altri abusi: registrati a volte come maggiorenni, le loro dichiarazioni sulla loro volontà di tornare indietro falsificate, detenuti senza acqua, cibo o coperte e senza la possibilità di poter parlare con un tutore legale. I ragazzi raccontano anche di essere stati vittime di riprovevoli abusi verbali o fisici: il taglio delle suole delle scarpe, il furto di Sim telefoniche. In molti vengono costretti a tornare fino a Ventimiglia a piedi, lungo una strada priva di marciapiede, con qualunque condizione atmosferica: una giovanissima donna eritrea è stata costretta a farlo sotto il sole cocente, portando in braccio il suo bambino nato da soli 40 giorni. L’appello nel giorno dell’incontro tra Conte e Macron - “La situazione a Ventimiglia è lo specchio di un’Europa che sta tradendo i propri valori fondanti di solidarietà, non rispettando le norme nazionali ed europee alla base dell’idea stessa di Unione - dice Elisa Bacciotti, direttrice delle campagne dei Programmi in Italia di Oxfam -. Per questo chiediamo al Governo francese di intervenire, per far cessare immediatamente gli abusi e i respingimenti illegali dei minori da parte della propria polizia di frontiera e al Governo italiano di attivarsi in ogni modo perché ciò avvenga”. L’appello arriva con un tempismo perfetto nel giorno in cui il premier Conte sarà ricevuto, nel suo primo viaggio in Europa, da Macron. E i due leader non potranno ignorarlo. Svizzera. Richiedente asilo dello Sri Lanka suicida in carcere brindisilibera.it, 15 giugno 2018 Punta dell’iceberg del disagio psicologico e psichico di cui soffrono la maggior parte dei migranti. Una richiedente asilo dello Sri Lanka di 29 anni ha tentato di suicidarsi martedì nel carcere di Waaghof, a Basilea. La giovane è morta oggi all’ospedale universitario della città renana a causa delle ferite riportate. La sua domanda di asilo era stata respinta nell’agosto del 2017. La donna, era giunta in Svizzera nel maggio del 2017 e aveva presentato una richiesta alla Segreteria di Stato della migrazione (SEM), che l’aveva respinta, sottolineando come fosse Malta a doverla esaminare. Nel quadro della procedura detta di Dublino, la 29enne avrebbe dovuto essere spostata Malta, primo Paese europeo nel quale era entrata. La SEM aveva quindi incaricato l’ufficio della migrazione del cantone di Basilea Città di eseguire la decisione di rinvio. La donna era però fuggita ed è stata arrestata sabato nel canton Berna e posta lunedì in detenzione nel carcere basilese di Waaghof. Lì avrebbe dovuto essere interrogata dalla SEM. Ha tentato il suicidio martedì, poco dopo mezzogiorno. Trasportata al pronto soccorso dell’ospedale universitario, è morta stamane. Non è la prima volta che un richiedente asilo commette suicidio all’interno di un centro di detenzione evidenzia Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”. Non si sa ancora molto della storia della giovane srilankese che si è suicidata. Era però uno dei tanti ospiti in uno dei centri di accoglienza sparsi in Europa. Bisogna costruire un percorso di presa in carico delle situazioni più gravi: il rischio è che vengano palleggiati da un centro all’altro. È necessario che tutti trovino qualcuno capace di ascoltarli, perché la sofferenza c’è su tutti. Tra l’altro quelli con problemi psichiatrici sono pochi, ma se non vengono seguiti possono diventare un problema perché sono schegge impazzite. Russia. “Celle in standard europeo: così niente brutte figure” di Leonardo Coen Il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2018 Fanno sapere a Mosca: gli oppositori sono andati in vacanza. Sotto l’Urss, significava che i dissidenti erano stati spediti nei gulag, o peggio, sottoterra. Oggi, è solo un avvertimento. È meglio che gli oppositori stiano tranquilli, durante il Mondiale di calcio. Dalla galera è uscito ieri il leader dell’opposizione Aleksey Navalny: ha scontato 30 giorni di carcere amministrativo per aver organizzato una manifestazione non autorizzata. Non è la prima volta, non sarà l’ultima. Il tempo di tornare a casa e subito Navalny ha ricominciato a scrivere sul suo blog (e su Instagram). Con ironia, racconta che le autorità hanno appena rimesso a nuovo la prigione, secondo gli standard euroremont (gli standard abitativi europei, molto in voga): “Si aspettano ospiti stranieri”, prevedono cioè di arrestare “parecchi tifosi, soprattutto inglesi, e quindi non vogliono fare brutta figura”. La descrizione di Navalny è minuziosa: “Hanno ridipinto le grate. Hanno sistemato water closet al posto dei buchi nel pavimento. In cortile ora c’è un campetto di calcio con le porte, hanno distribuito i palloni. L’alimentazione è meglio che al ristorante. Uno studente della scuola di polizia passa e distribuisce il menù. Come in aereo, si può scegliere tra due opzioni. Ho segnato il mio ultimo pranzo. Antipasto: insalata di patate oppure un pasticcio di verze. Zuppa: kharcio (zuppa di carne di montone del Caucaso, ndr) oppure borsch (zuppa di verdure e carne ucraina). Piatto principale: plov (risotto uzbeko di carne verdure), oppure spiedino di carne (di maiale, ma per motivi religiosi si può chiedere kosherohalal). Dolce: tiramisu o pasticcino con le ciliege. Da bere: acqua, succo di mirtillo o birra non alcolica, prodotta non in Russia. Poiché il personale della prigione non sa l’inglese, sono state coinvolte delle stagiste (studentesse dell’università di lingue straniere Moris Teresa, che prepara la classe amministrativa specializzata in affari internazionali, ndr). Le ragazze indossano una divisa, simile a quella dei poliziotti e degli assistenti di volo. Poiché per ora mancano gli stranieri, le studentesse si annoiano, chiedono di fare arresti di massa, così possono addestrarsi meglio”. Nelle celle, informa Navalny, hanno installato gli schermi piatti, per far vedere il Mondiale ai carcerati. Per chi esce di prigione c’è persino un regalo, un libro con le leggi russe e un domino (o Backgammon) col logo di Russia 2018: “Io ho scelto il Backgammon”, ha concluso Navalny, “anticipando il vostro entusiasmo in stile anche io voglio essere arrestato, faccio notare che il numero di posti in carcere è limitato: se intendete infrangere le normative, affrettatevi. Dopo il campionato, la carrozza dorata ritornerà ad essere una zucca”. In realtà, ricorda Denis Bilunov, uno dei più noti oppositori, “la voce dei dissidenti si sente solo in circoli ristretti, ormai”. Qualcuno si ribella al silenzio imposto. Il popolare scrittore satirico Victor Shenderovich - grande tifoso che ogni quattro anni dimentica tutto - è furibondo: “Che vada all’inferno questo campionato, un’altra festa che Putin vuol sfruttare, mentre sta morendo in galera un prigioniero politico innocente”. Oleg Sentsov, regista e scrittore ucraino, accusato d’aver preparato atti di sabotaggio in Crimea e condannato a 20 anni, sta attuando lo sciopero della fame. Il Parlamento europeo, poche ore prima dell’inaugurazione del Mondiale, ha adottato una risoluzione (485 sì, 76 no, 66 astenuti) in cui si chiede alla Russia di rilasciare “immediatamente e incondizionatamente Sentsov e tutti gli altri ucraini detenuti illegalmente”. Rapporto Onu sul Kashmir accusa l’India: omicidi, torture e impunità di Matteo Miavaldi Il Manifesto, 15 giugno 2018 È il primo, duro rapporto dell’Alto commissariato contro New Delhi. Che replica: “Falso e tendenzioso”. “C’è urgente bisogno di affrontare le violazioni dei diritti umani e gli abusi del passato e correnti ai danni della popolazione del Kashmir, che per sette decenni ha sofferto un conflitto che ha reclamato e rovinato numerose vite”. Così inizia il comunicato con cui, nella giornata di ieri, l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani (Ohchr) annunciava la pubblicazione di un rapporto dedicato alla situazione dei diritti umani nello stato indiano del Jammu e Kashmir e nell’Azad Jammu e Kashmir e Gilgit-Baltistan, amministrato dal governo pachistano. Si tratta in assoluto del primo rapporto dedicato dall’Ohchr alla situazione in Kashmir, territorio suddiviso tra India e Pakistan dal 1947 oggetto di rivendicazioni territoriali reciproche e teatro di un conflitto in cui le atrocità del terrorismo si mischiano alla repressione violenta degli apparati di sicurezza nazionali. Prendendo in esame il periodo che va dal giugno del 2016 al marzo del 2018, il rapporto ripercorre l’ultima fase di una stagione di violenze che sta ancora interessando “entrambi” i Kashmir, in particolare quello indiano. L’Ohchr, sottolineando come la richiesta di inviare osservatori dell’Onu sul campo sia stata respinta da New Delhi e accordata da Islamabad solo nel caso l’accesso al territorio fosse garantito anche dall’India, nelle 49 pagine del rapporto getta luce sulle violazioni dei diritti umani commesse impunemente dalle forze di sicurezza indiane, protette da leggi ad hoc che subordinano l’apertura di procedimenti penali ai danni degli agenti coinvolti all’autorizzazione degli stessi vertici militari. Ad oggi, nota il rapporto, non un solo soldato indiano è stato portato a processo per ipotesi di reato che vanno dall’omicidio alla tortura, dallo stupro di civili all’occultamento di cadaveri in fosse comuni, fino al recente fenomeno delle vittime di proiettili a pallettoni di piombo esplosi da polizia ed esercito su manifestanti civili: in meno di un anno, i fucili a pallettoni delle autorità indiane hanno portato alla morte di almeno 17 persone e al ferimento di oltre 6.200 manifestanti, tutti civili. L’Alto Commissario per i diritti umani Zeid Ràad Al Hussein, commentando i contenuti del rapporto, ha dichiarato in conferenza stampa: “Solleciterò presso l’Alto commissariato per i diritti umani la formazione di una commissione d’inchiesta per condurre un’indagine internazionale, indipendente e completa circa le accuse di violazioni dei diritti umani in Kashmir”. Attraverso un comunicato del ministero degli Esteri, l’India ha respinto le accuse contenute nel rapporto, giudicandolo “fallace, tendenzioso e motivato”. “È una selezione di informazioni largamente non verificate. È apertamente pregiudiziale e intende costruire una falsa narrazione” si legge nel comunicato ministeriale che, oltre a respingere le accuse di violazione dei diritti umani, giudica il rapporto “una violazione della sovranità e dell’integrità territoriale indiana. L’intero stato del Jammu e Kashmir è parte integrante dell’India. Il Pakistan sta occupando illegalmente e con la forza una parte dello Stato Indiano”. Il ministero degli esteri pachistano, per contro, ha accolto con favore la pubblicazione del rapporto che pur contiene accuse di violenze e violazioni dei diritti umani nel Kashmir pachistano: “I riferimenti alle preoccupazioni circa violazioni dei diritti umani nell’Azad Jammu e Kashmir e Gilgit-Baltistan non dovrebbero in nessun modo costituire un falso senso di equivalenza rispetto alle enormi e sistematiche violazioni dei diritti umani nel Kashmir occupato dall’India” recita il comunicato di Islamabad.