Nel contratto tra Lega e M5S vendetta al posto di giustizia di Giuseppe Mosconi* Il Mattino di Padova, 14 giugno 2018 Due aspetti particolarmente evidenti balzano all’occhio a una prima lettura del capitolo 12 del “Contratto di governo” tra lega e 5 Stelle, in materia di giustizia: la retorica secondo cui pene più severe e più “certe” garantiscono più sicurezza per i cittadini; la necessità che il carcere diventi più duramente punitivo, perché chi sbaglia deve effettivamente pagare. L’inasprimento di pene viene invocato non solo per la microcriminalità diffusa (furto, scippo, truffa, rapina), per i quali l’allarme sociale è facilmente evocabile, ma anche per reati (a sfondo sessuale, crimini ambientali) per i quali l’efficacia dello strumento penale è da sempre messo in discussione anche tra le vittime dirette degli stessi, trattandosi di problematiche più adeguatamente contrastabili con altri mezzi. Ma soprattutto una distorta interpretazione del principio della “certezza della pena” induce a ritenere essenziale “riformare i provvedimenti emanati nel corso della legislatura precedente tesi unicamente a conseguire effetti deflattivi in termini processuali e carcerari, a totale discapito della sicurezza della collettività”. Segue un’improbabile e approssimativa enumerazione degli stessi, il cui unico senso è quello di affermare la totale espiazione della pena in regime detentivo, senza alcuna forma di abbreviazione o di alternatività. Infatti il concetto emerge più nettamente qualche paragrafo dopo, in cui, in nome della solita “maggior tutela della sicurezza dei cittadini” si afferma la necessità di “riscrivere la riforma dell’ordinamento penitenziario”, con particolare attenzione alla “rivisitazione sistematica e organica di tutte le misure premiali” e ciò al fine di “garantire l’effettività del principio di rieducazione della pena”. Dunque non solo si invoca la cancellazione di tutte le misure recentemente introdotte per far fronte al sovraffollamento, che ci ha meritato la condanna della Corte Europea dei Diritti Umani, per il carattere disumano e degradante delle nostre carceri, (misure peraltro rivelatesi gravemente inefficaci, tanto che la popolazione reclusa sta decisamente tornando a crescere), ma si arriva a pretendere la cancellazione delle misure alternative, già introdotte nella riforma del 1975, mirate a implementare fattivamente un percorso rieducativo finalizzato a una effettiva reintegrazione sociale, con la consapevolezza che la pena detentiva in sé è totalmente insufficiente, se non controproducente, a questo fine. Infatti da almeno una decina d’anni si è dimostrato il crollo della recidiva per chi gode di misure premiali alternative al carcere, con effetti ovvi di maggiore sicurezza, contro il 70% di recidiva di chi espia la pena fino in fondo. Così i nostri “innovatori” vogliono cancellare oltre quarant’anni di riforme in questo campo, ansiosi solo di agitare luoghi comuni che, in contrasto con evidenza e conoscenza, parlano alla pancia della pubblica opinione, per incrementare il consenso. Ma se è ovvio che tali indicazioni porteranno a un drammatico incremento della popolazione reclusa e al riesplodere del sovraffollamento, il rimedio c’è: costruire nuove carceri; ignorando che da sempre tutto lo spazio utilizzabile nelle strutture, per quanto incrementato, si riempie fino alla saturazione secondo il noto “effetto spugna”. Non solo più carceri, ma soprattutto un carcere più duro, a partire dalla cancellazione dal regime aperto della “sorveglianza dinamica”, quello che ha aperto spazi di socialità e implementazione di attività formative, disincentivando atteggiamenti passivizzanti e regressivi, come restare tutto il giorno a giacere in cella, imbottirsi di psicofarmaci, per non parlare di autolesionismo. E poi la chiusura dei settori “a custodia attenuata”, quelli che consentono ai tossicodipendenti di intraprendere percorsi terapeutici di recupero; un regime di 41bis, per i reati più gravi, ancora più rigido e irreversibile, con totale ignoranza delle istanze rieducative cui ogni detenuto ha costituzionalmente diritto. Ma il “fiele” che sottende queste indicazioni esplode con tutta evidenza su due punti: l’abbassamento dell’età imputabile per i minori, insieme all’estensione effettiva, per gli stessi, dell’incarcerazione, con cancellazione di trent’anni di riforme in campo minorile, spazio proficuo e promettente di elaborazioni teoriche e pratiche sperimentali, decisamente innovative. Per arrivare in un gran finale, che per la verità è significativamente posto all’inizio del capitolo, all’estensione del principio della “legittima difesa” finalizzata a rimuovere gli “elementi di incertezza” riferiti al principio di proporzionalità tra difesa e offesa. A dire che se un estraneo mi entra anche solo in cortile sono legittimato a sparargli, dove il valore della proprietà è evidentemente più alto di quello della vita umana: è una vera cartina di tornasole della cultura che sottende tutte queste proposte: quella della vendetta, del giustizia come mera ritorsione, fino a poter farsi giustizia da soli, della fiducia, tutta da acclarare, nel potenziale deterrente della minaccia penale. È da chiedersi come un governo che si vuole “del cambiamento”, a tutela dei cittadini più colpiti e depauperati dalle politiche precedenti, possa concepire di sottoporre a un simile tritacarne proprio le fasce più vulnerabili e deprivate della società, che affollano le nostre carceri, fino a regredire a livelli premoderni. Se l’avvocato Conte si promette difensore di tutti gli italiani, se il presidente Mattarella ribadisce la centralità della Costituzione, lo dimostrino, a partire dall’attenzione verso le fasce più marginali. Una buona occasione data a noi tutti per riflettere su significati e valori delle scelte auspicabili. *Ordinario di sociologia del Diritto, Presidente di Antigone Veneto Caro Travaglio, in Italia si va in cella anche solo per un giorno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 giugno 2018 Le argomentazioni sbagliate del direttore del “Fatto Quotidiano” ai rilievi di due professori di diritto processuale. “Cari amici, se volete il mio parere, io trovo assurdo che i condannati a pene fino a quattro anni (oltre il 90% dei condannati dai tribunali italiani) non finiscano in carcere neppure per un giorno, salvo rarissime eccezioni. Per me, la certezza della pena si ha soltanto se la condanna a X anni di reclusione comporta davvero X anni di reclusione. In carcere, non a casa o ai servizi sociali. Altrimenti il sistema diventa criminogeno ed è quello che purtroppo accade da decenni in Italia, dove le regole penali sono un incentivo a delinquere”, così ha risposto il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio a un interessante commento ospitato dal suo giornale a firma di due professori di diritto processuale penale dell’università di Ferrara e Bologna, Stefania Carnevale e Daniele Vicoli. Hanno spiegato che la sospensione dell’ordine di esecuzione “non mina alla radice la certezza della pena”, perché “è un meccanismo che, di regola, consente al condannato (se non già detenuto) di attendere in libertà la decisione della magistratura sull’eventuale applicazione di misure alternative, i cui presupposti sono vagliati caso per caso, senza automatismi di favore”. I professori sottolineano quindi che “la pena non verrà poi evitata, ma scontata in carcere o con diverse modalità sanzionatorie”. Hanno inoltre approfondito il discorso dell’affidamento in prova e della sentenza della Consulta che ha allineato la disparità che si era creata con il cosiddetto “decreto svuota-carceri” convertito in legge nel 2014. Ma torniamo alla risposta di Travaglio. In realtà ha fatto un po’ di confusione perché ha sbagliato completamente il piano di discussione, facendo anche intravvedere che non conosce evidentemente i dati reali, non quelli percepiti a causa di una certa informazione. Quando scrive “io trovo assurdo che i condannati anche fino a 4 anni non finiscano in carcere neppure per un giorno, salvo rarissime eccezioni” dimostra di non aver inteso che la materia di cui sta parlando non attiene alla riforma dell’ordinamento penitenziario, bensì ad una norma di carattere procedurale del nostro ordinamento, quella cioè contenuta nell’art 656 cpp, che prevede che l’ordine di esecuzione notificato al condannato, purché libero, debba essere sospeso. Del resto la finalità dell’istituto è proprio quella di evitare che un condannato libero faccia ingresso in carcere. Il fatto che sia libero, e questo Travaglio non lo considera, presuppone che a lui non sia stata applicata la carcerazione preventiva e dunque che egli non sia stato ritenuto socialmente pericoloso; infatti, se fosse in custodia cautelare in carcere, una pena al di sotto dei 4 anni non comporterebbe la sospensione dell’esecuzione, ma solo la possibilità per il condannato di richiedere l’affidamento secondo le regole dell’ordinamento penitenziario. I dati relativi ai detenuti presenti condannati (con almeno una condanna definitiva) per pena inflitta riportati dal ministero della Giustizia sono chiari. È l’anno 2017. Sui 37.451 detenuti condannati, si nota che parecchi sono i detenuti presenti in carcere con pene ben al di sotto dei 4 anni, anche nell’arco del solo anno di reclusione: questo perché, al contrario di quanto scrive Travaglio, in Italia in carcere si va anche solo per un giorno. A dire il vero, il problema è un altro. L’esatto opposto di quello che denuncia il direttore de Il Fatto. Spesso la carcerazione preventiva è invece abusata e pertanto, se anche poi si verrà condannati a un solo anno di pena (quasi 2000 detenuti scontano una pena che va da pochi giorni a un anno), lo stesso viene scontato interamente in carcere perché l’ordine non è sospeso e la detenzione prosegue, salvo ovviamente il diritto di richiedere al Tribunale di Sorveglianza una misura alternativa. A questo aggiungiamo il restante dei detenuti che non compaiono nella tabella, perché non hanno subito ancora nessuna condanna e sono in carcere in attesa di giudizio. Nella tabella infatti vediamo un numero di 37.451 detenuti aventi almeno una prima condanna. In totale però, sempre a fine anno del 2017 erano presenti 50.499 ristretti. Cosa significa? Più di 13 mila detenuti sono in attesa della condanna di primo grado. La risposta del direttore del Fatto Quotidiano non tiene in conto che la pena deve essere rieducativa e che il carcere non sempre lo è, soprattutto per chi è a digiuno da pregresse esperienze. Al contrario di quanto osserva, in carcere si va anche per eseguire pene al di sotto di 4 anni e si fa ingresso anche da liberi, laddove l’ordine sia notificato per una condanna a un reato di quelli contenuti nell’art 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Basti pensare al caso di un giovane che, strattonando un altro ragazzo, gli rubi un i-phone così commettendo una rapina: egli, seppur lasciato in stato di libertà durante il processo per assenza di esigenze cautelari, non appena divenuta definitiva la sentenza, sarà costretto a entrare in carcere non potendo beneficiare della sospensione dell’ordine di esecuzione per aver commesso una rapina, ovvero uno di quei reati ostativi dell’art 4bis o.p. Ecco perché nella tabella i detenuti per condanne al di sotto dei 4 anni sono ben oltre la metà, almeno l’80%: perché la sospensione dell’ordine di esecuzione non opera sempre, e comunque quando lo fa è in conformità al principio dell’art 27 della Costituzione che mira a rieducare il condannato, non per forza a chiuderlo dietro le sbarre. Quindi Travaglio ha sbagliato completamente piano e non ha inteso l’argomentazione dei due professori universitari. L’Ordinamento penitenziario individua tre tipi di misure alternative: l’affidamento in prova al servizio sociale, la semi- libertà, la detenzione domiciliare. La misura più utilizzata resta, come detto, l’affidamento in prova al servizio sociale, ossia quella sanzione penale che consente al condannato di espiare la pena detentiva inflitta o residua in regime di libertà assistita e controllata, sulla base di un programma di trattamento. Con l’introduzione della messa alla prova il nostro paese si è allineato a una tendenza diffusa in molti paesi europei a utilizzare strumenti di sospensione della fase processuale. E nei paesi dove viene implementata, si pensi in Olanda, la recidiva si abbassa così rapidamente e accade che le carceri vengono chiuse perché vuote. Altro che sistema criminogeno. Il nostro Paese, con la mancata riforma dell’ordinamento penitenziario, rimane indietro e se mai venisse messo in pratica il punto del contratto legastellato relativo al sistema penitenziario e giudiziario, rischia anche di ritornare ai tempi delle condanne da parte della Cedu. Grimaldi (Ispettore Generale Cappellani): nelle carceri è emergenza sanitaria di Giovanna Pasqualin agensir.it, 14 giugno 2018 Negli istituti di pena del nostro Paese è emergenza sanitaria. A delinearne lo scenario è l’ispettore generale dei cappellani auspicando maggiore attenzione da parte della politica. La salute è un diritto fondamentale riconosciuto dalla Costituzione, eppure ammalarsi in carcere è una disgrazia. Visite, esami diagnostici e specialistici, interventi chirurgici diventano estremamente difficoltosi e alla perdita della libertà personale si aggiunge in molti casi anche quella della salute e talvolta della vita. Un’emergenza che don Raffaele Grimaldi, per 23 anni cappellano nel carcere di Secondigliano (Napoli) e da un paio d’anni Ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, conosce molto bene. Come è la situazione della salute in carcere? L’emergenza sanitaria nel nostro Paese riguarda tutte le fasce deboli della società, ma negli istituti di pena è ulteriormente acuita perché la popolazione carceraria è estremamente vulnerabile. I detenuti sono realmente gli ultimi degli ultimi. I direttori dei penitenziari conoscono bene le grosse difficoltà per far venire uno specialista, per sottoporre i reclusi a visite, esami diagnostici e specialistici esterni, ricoveri e/o interventi chirurgici. Le procedure per autorizzazioni e permessi da parte dei magistrati e dei tribunali rallentano molto gli interventi sanitari e il problema si aggrava ulteriormente in presenza di detenuti in regime di alta sicurezza (41bis). I tempi talvolta si allungano anche per mancanza di mezzi o personale per la scorta, pure in caso di interventi di emergenza. Quali sono i numeri? Gli istituti di pena sono in totale 198 con una presenza di circa 58 mila detenuti a fronte di 50 mila posti. Solo una quindicina di questi istituti dispone di un centro clinico-diagnostico, alcuni dei quali non funzionano per mancanza di personale e/o di attrezzature. Quali le patologie più frequenti? Malattie croniche come cancro, leucemie, diabete, Alzheimer, depressione. Il 40% dei detenuti soffre di disturbi psicologici ma si riscontrano anche gravi patologie psichiatriche. Con la chiusura degli Opg (ospedali psichiatrici giudiziari, ndr) circa 600 internati hanno trovato posto nelle Rems (residenze per l’applicazione delle misure di sicurezza, una trentina con 20 posti letto ciascuna. ndr), ma in queste strutture il numero dei posti è sottodimensionato e altri 450 sono in lista d’attesa: o in carcere - dove non ricevono le cure di cui avrebbero bisogno - o per strada dal momento che spesso le famiglie non li accolgono. Collegata al disagio è la tragica realtà dei suicidi... Il dossier “Morire di carcere” di Ristretti Orizzonti, aggiornato allo scorso 24 maggio, ne registra 18 nei primi cinque mesi di quest’anno e 52 nel 2017. Sono causati da fragilità personale e/o durezza del regime carcerario. Di salute e disagio psichico si era parlato nel decimo dei 18 tavoli degli Stati generali dell’esecuzione penale del 2016, era emersa una grande attenzione verso il tema. Purtroppo la riforma dell’ordinamento penitenziario che avrebbe migliorato le condizioni detentive “umanizzando” tutto il sistema non è decollata e non sappiamo che cosa accadrà con il nuovo governo. Non si tratta di un provvedimento “svuota carceri”, come qualcuno sostiene, ma di un ampliamento delle misure alternative che comunque, insieme ai permessi premio, non verrebbero concesse in automatico bensì dopo un’attenta valutazione della condotta del detenuto da parte di operatori penitenziari e magistratura di sorveglianza. Una riforma necessaria: la precedente risale al 1975. Il 1° aprile 2008 la competenza della medicina penitenziaria è stata trasferita dal ministero della Giustizia al Ssn, quindi alle Regioni. Che cosa è cambiato? Nelle regioni più “virtuose” dal punto di vista sanitario la struttura carceraria ne ha risentito in positivo; in negativo in quelle “in affanno”. Tuttavia per visite specialistiche ed esami esterni, i tempi di attesa rimangono lunghi. Se poi i detenuti vengono nel frattempo trasferiti in istituti di altre regioni occorre ricominciare tutto daccapo perché cambiando le Asl cambiano anche le procedure. A complicare la situazione sono inoltre le continue modifiche delle norme che disciplinano l’attuazione dei diversi protocolli d’intesa con le Regioni. Secondo lei, la società è sensibile ai diritti dei detenuti? Il carcere è visto da molti come giusto luogo di punizione dei delinquenti e come fattore di sicurezza per la società. Oggi la gente è stanca di violenze, aggressioni, spaccio di droga. È impaurita e quando si parla di attenzione ai carcerati si avverte una certa resistenza. C’è chi ritiene che occorra dare la precedenza ai “buoni cittadini” perché chi ha commesso un reato, il castigo e la sofferenza in fondo se li merita. Invece l’uomo non è mai il suo errore: anche se si è macchiato di gravi crimini, conserva la sua dignità. Non possiamo avere verso chi ha sbagliato lo stesso atteggiamento che ha avuto chi ha commesso un reato. Ingiustizia chiama ingiustizia e violenza chiama violenza. Cosa chiede alla politica? Auspico da parte del nuovo governo apertura e attenzione al mondo del carcere, l’impegno di comprendere le problematiche dei reclusi che troppo spesso vengono considerati scarti della società. Da alcuni segnali temo che potrebbero esservi alcune chiusure, ma un conto sono i proclami, un conto quando si inizia a governare e a verificare con mano la realtà. I nostri governanti sono in fondo persone, hanno un cuore, possono anche rivedere qualche posizione. Prima di giudicare i carcerati bisognerebbe rileggerne la storia e interrogarsi sulle cause che li hanno spinti a delinquere. Quando uno è povero, senza lavoro e senza prospettive per il futuro, il rischio di delinquere, soprattutto al sud, è dietro l’angolo. Ciò che occorre sono misure di sostegno e di prevenzione, bisogna agire prima, non dopo il carcere. Cosa può fare la Chiesa? Noi cappellani siamo 250, nessun istituto rimane scoperto, e possiamo avvalerci della collaborazione di volontari e associazioni. La Chiesa è chiamata ad essere voce degli ultimi. Con le sue visite in momenti “forti”, i suoi gesti e le sue parole, Papa Francesco ha riacceso i riflettori su questo mondo invisibile e dimenticato dando un segnale forte anche alla politica. Durante il Giubileo le carceri hanno visto una massiccia presenza di sacerdoti. Ora i vescovi le visitano con maggiore frequenza e al loro interno associazioni e parrocchie promuovono attività. Cominciano ad entrare anche cappellani giovani, ed è importante. Di questa chiesa sofferente e “imprigionata” dobbiamo tutti essere responsabili e farcene carico. Lattanzi: “porto i giudici costituzionali in carcere a parlare di diritti” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 14 giugno 2018 Il presidente della Consulta: una detenzione disumana nuoce alla società. “La Costituzione appartiene a tutti, anche ai detenuti, e la dignità umana è uno di quei valori che vanno salvaguardati pure in carcere”, dice il presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi annunciando un’iniziativa senza precedenti nella storia repubblicana. Dopo gli incontri con 8.000 studenti, disseminati in 36 scuole da Nord a Sud, il “viaggio in Italia” dei giudici costituzionali continua nei penitenziari: dal prossimo autunno i quattordici componenti della Corte (ne manca uno che il Parlamento tarda ad eleggere) andranno fra i detenuti per parlare di diritti e doveri sanciti dalla carta costituzionale; ascoltare e dialogare come hanno fatto nelle scuole. “È la prosecuzione di un’esperienza nata dalla volontà di far uscire la Corte dal palazzo, per incontrare i cittadini e farci conoscere non solo attraverso le sentenze, ma anche personalmente. È un modo per avvicinare l’istituzione al Paese reale e viceversa, molto utile anche a noi”. Perché ripartire dal carcere? “Perché è un’altra istituzione collettiva, forse la più distante che si possa immaginare da questo palazzo. Tuttavia non è strano che giudici come noi, che non hanno solo il compito di giudicare le leggi ma sono le “sentinelle” dell’ordinamento costituzionale, vadano tra chi è accusato di aver violato la legge. Credo sia utile dialogare anche con queste persone, non per discettare della “Costituzione più bella del mondo” bensì per ribadire che secondo quella Costituzione la legittima privazione della libertà personale non cancella la tutela dei diritti. Il messaggio è: la Costituzione e la Corte ci sono per tutti, anche per voi”. Proprio in carcere, però, spesso i diritti non vengono garantiti. Il sovraffollamento non consente condizioni di vita dignitose. “Certo, ma è importante che lo Stato abbia gli strumenti per correggere le proprie mancanze. Anche attraverso la Corte. Per esempio, con una “sentenza monito” abbiamo sollecitato il legislatore a risolvere il problema del sovraffollamento, avvertendo che in caso contrario saremmo legittimati a soluzioni estreme, come quella di evitare l’ingresso in carceri di fatto invivibili. Grazie ad alcuni provvedimenti l’emergenza è cessata, anche se adesso i detenuti stanno di nuovo aumentando”. Il programma annunciato dal nuovo governo è costruire nuove carceri, lei che ne pensa? “Non entro nel merito delle decisioni politiche. Dico solo che la Costituzione stabilisce che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”, anche se io preferisco il termine risocializzazione. Per ottenere questo risultato bisogna da un lato far capire a chi ha violato il “patto sociale” che quel patto è giusto e per questo va rispettato, e dall’altro garantire una detenzione rispettosa dei diritti. Un carcere più umano è più utile alla società di un carcere disumano, o comunque inutilmente afflittivo, perché restituisce persone migliori”. Oggi tuttavia si discute di “certezza della pena” più che di condizioni di vita migliori nei penitenziari. “Io credo che, in generale, per deliberare occorre conoscere; vale per i politici, ma anche per i loro consiglieri, i cosiddetti tecnici. Si può assumere qualunque decisione, ma partendo dalla conoscenza di dati oggettivi, non basandosi solo su enunciazioni di principio o sull’emotività. Quando si dice certezza della pena bisognerebbe tenere presente che non esiste solo la pena detentiva, e che altri tipi di misure punitive, in alcuni casi, possono essere percepite dal condannato come sanzioni gravi tanto quanto il carcere. Procedere solo sull’onda di emergenze, di pulsioni securitarie o di un presunto “sentire comune” può dare luogo a decisioni che risultano incostituzionali, com’è accaduto più volte”. Ad esempio? “Ad esempio quando, con la legge ex-Cirielli, è stato esaltato il valore della recidiva, con effetti sulla determinazione della pena giudicati talvolta incostituzionali”. Una delle critiche del nuovo ministro della Giustizia al nuovo ordinamento penitenziario, che rischia di essere definitivamente cancellato, è la sospensione della pena ai condannati fino a 4 anni, garantita anche da una vostra recente sentenza. Qual è la sua opinione? “Intanto vorrei ricordare che non c’è alcun automatismo. La legge non prevede che per una condanna fino a 4 anni non si vada in carcere, ma che il giudice debba valutare caso per caso se sia più opportuno il carcere o una sanzione alternativa. Dopodiché ripeto che sarebbe opportuno ancorarsi a dati concreti per capire qual è il risultato migliore per la società, visto che la funzione della pena non è tanto la punizione quanto il recupero del condannato”. Dopo la vostra sentenza che ha dichiarato illegittima la disparità di trattamento per l’accesso agli asili nido in Veneto, il neo-ministro Salvini ha detto che evidentemente “il buon senso è incostituzionale”. Che cosa risponde? “Tutte le sentenze possono essere criticate, anche le nostre. La critica può essere persino utile, purché non vada a incidere sul dovere di osservare le sentenze, in primo luogo quelle costituzionali, perché ciò minerebbe uno dei principi fondamentali della Costituzione. Come ho già detto bisognerebbe conoscere per deliberare, ma anche per giudicare. Aggiungo che il buon senso è un concetto soggettivo. Nel caso specifico noi abbiamo ritenuto che regolare l’accesso agli asili nido sulla base del periodo di residenza sul territorio, anziché su altri criteri come le situazioni di bisogno o di disagio, non fosse rispettoso dei principi costituzionali. E secondo me nemmeno del buon senso”. Bonafede ha parlato ma non si capisce che giustizia vuole di Claudio Martelli Panorama, 14 giugno 2018 Una fiducia al buio. Così si può definire il voto con cui la maggioranza del Parlamento ha salutato à esordio del governo. E al buio restiamo sulle ormai incombenti decisioni di una compagine ministeriale inesperta e incerta tra il nazional populismo di Matteo Salvini e il populismo trasformistico di Luigi Di Maio. Siamo al buio sulla personalità di un presidente del Consiglio scelto per non averne una riconoscibile e destinato a esercitarsi nella mediazione tra i due diarchi capipartito. Qualche notizia rassicurante viene dal nuovo ministro dell’Economia, Giovanni Tria, che nelle sue prime dichiarazioni ha messo il sigillo della continuità piuttosto che della rottura con i precedenti governi. Diverso il caso del nuovo ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che nella sua intervista augurale con “Il Fatto Quotidiano” riesce a dribblare ogni richiesta di chiarire le sue reali intenzioni. Gli domandano, “Non pensa che si sia anche abusato dell’uso delle intercettazioni in questi anni? C’è gente che ne è uscita devastata”. E lui, definito “dimaiano di ferro” (evidentemente esistono anche quelli di latta) prima risponde in perfetto politichese: “Una regolamentazione più chiara può essere utile”. Poi precisa che più chiara significa che “non può mai comprimere la libera informazione”. Che vuoi dire? Che giornali, tv, web sono liberi di infangare la reputazione e di devastare la vita non solo degli indagati ma anche di chi, estraneo alle indagini, finisca intercettato incidentalmente? E come interpretare il trattamento riservato ai detenuti? L’intervistatore domanda: “Non crede che allargare l’applicazione del le misure alternative sia una misura di civiltà nonché un modo di decongestionare le carceri?” E il ministro dimaiano di ferro - forse nel senso che si spezza ma non si spiega - risponde: “Sono solo interventi deflattivi. Servono provvedimenti strutturali”. Sembra intenda nuove carceri visto che il ministro ormai passato al plurale maiestatis, chiosa: “Crediamo nella funzione rieducativa della pena che, per noi, passa innanzitutto attraverso il lavoro (forzato?) in carcere”. Quanto alla legittima difesa all’intervistatore preoccupato che “cancellare la proporzionalità tra offesa e reazione scatenerà un Far West” il neo guardasigilli replica: “Nell’attuale legge ci sono zone d’ombra che vanno cancellate perché costringono molti cittadini che si sono difesi a essere sottoposti a tre gradi di giudizio”. Cioè? I tre gradi di giudizio non si possono ridurre, dunque o vale il dogma Salvini (chi spara al ladro in fuga non può essere processato, la difesa è sempre legittima) oppure esiste anche l’eccesso di difesa. Infine, per quel che riguarda la riforma della prescrizione, per Bonafede “è nel contratto, c’è la volontà comune di lavorarci”. Se per allungarla o per abbreviarla il ministro, a differenza del contratto di governo, non lo dice. Chissà, forse tanta vaghezza è frutto della presa di coscienza che se tradisce il contratto il governo perde la faccia, se prova a realizzarlo a rimetterci sarà l’Italia. Gli avvocati d’ufficio, Salvini e i diritti (non) presi sul serio di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 14 giugno 2018 Il ministro dell’Interno dice di voler “contrastare la lobby degli avvocati d’ufficio” per ridurre mole e tempi delle domande d’asilo dei migranti. Non sarebbe superfluo che chi fa il ministro dell’Interno conoscesse la differenza tra avvocato d’ufficio e gratuito patrocinio: cioè tra l’avvocato che nel penale lo Stato assegna a chi non ne nomini uno di fiducia (a prescindere dal reddito e con spese sempre a carico del difeso), e invece il legale che in qualunque procedimento lo Stato paga a chi sotto 11.528 euro di reddito sia ammesso dall’Ordine forense. E comunque l’avvocato d’ufficio non andrebbe “né banalizzato né volgarizzato, se non altro - evoca il presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin - per rispetto di chi, come Fulvio Croce, per aver difeso questo istituto fu ucciso nel 1977 a Torino dalle Br”. Ma, soprattutto, quando Matteo Salvini dice di voler “contrastare la lobby degli avvocati d’ufficio” per ridurre mole e tempi delle domande d’asilo dei migranti, in quanto “tutti fanno ricorso in automatico perché lo Stato garantisce un avvocato d’ufficio che paghiamo tutti noi”, mostra di non credere nei diritti presi sul serio, peraltro già compressi nel 2017 dalla legge Minniti-Orlando che solo per i richiedenti asilo cancellò il grado d’appello e restrinse proprio il gratuito patrocinio. O è effettivo o non esiste il loro diritto (art. 10 della Costituzione) di domandare (art. 24 sul diritto di difesa non sacrificabile ad altre esigenze) che almeno una volta siano giudici civili a valutare le ragioni della loro richiesta di protezione, ove negata in prima battuta dalle Commissioni amministrative territoriali espresse dal Viminale (con un membro Unhcr). Salvini conteggia “nel 58% le domande respinte”, ma glissa su quanti rigetti amministrativi siano poi ribaltati dai giudici: 67%, stando alla “proiezione empirica” fornita nel 2017 dal prefetto che al Viminale presiedeva la Commissione per il diritto di asilo. L’avvocato dei poveri: è scontro tra Salvini e Mascherin di Giulia Merlo Il Dubbio, 14 giugno 2018 Il ministro dell’Interno ha attaccato “la lobby” che difende i migranti. Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, nello spartire le colpe del problema migratorio, se l’è presa con “la lobby degli avvocati d’ufficio” che prosperano con i ricorsi alle domande d’asilo respinte. Immediata e sdegnata la replica del presidente del Cnf, Andrea Mascherin, che ha sottolineato che “la difesa d’ufficio è strumento di democrazia che non va volgarizzata”, ma soprattutto “non c’entra nulla con le richieste d’asilo”, dove nel caso il migrante può chiedere di essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato, “espressamente previsto dalla Costituzione”. Contro Salvini hanno preso posizione anche l’Aiga e l’Ocf, ricordando l’alta funzione sociale del ruolo di difensore d’ufficio. Lo stesso ha fatto la vicepresidente del Senato, Anna Rossomando: “L’avvocatura, libera e senza lobby, sarà sempre dalla parte dei senza potere”. Chi lucra sull’accoglienza dei migranti? L’elenco l’ ha stilato il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, e in cima alla lista ha messo le “lobby degli avvocati d’ufficio”. Più compiutamente, alla domanda del Corsera su come rivedere i costi dell’accoglienza, Salvini ha risposto che “In Italia c’è una lobby che si sta arricchendo in modo che non ritengo opportuno” e, a richiesta di chiarimento, ha spiegato che esiste una “lobby degli avvocati d’ufficio”, che prospera grazie ai ricorsi alle domande d’asilo respinte. “Il 99% dei respinti fa ricorso pressoché in automatico, perché lo Stato garantisce un avvocato d’ufficio che paghiamo tutti noi”. L’inutile orpello del diritto alla difesa tecnica nota il Ministro - provoca un’ulteriore effetto negativo: così “si intasano i tribunali: lavorerò con il collega alla Giustizia per intervenire anche su questo”. Alle critiche ha pubblicamente risposto dalle pagine di questo giornale il presidente del Consiglio Nazionale Forense, Andrea Mascherin (nella pagina a fianco). Spontanea, però, sorge la domanda sull’esistenza o meno di una “lobby degli avvocati d’ufficio”, istituto gravemente confuso nell’intervista dal ministro con il patrocinio a spese dello Stato. Gli avvocati d’ufficio - L’istituto della difesa d’ufficio, contemplato nell’articolo 97 del codice di procedura penale, è previsto nel caso in cui “l’imputato non ha nominato un difensore di fiducia o ne è rimasto privo”. Si tratta dunque di una figura che garantisce l’effettività della difesa, in tutto e per tutto identica a quella del difensore di fiducia: l’unica differenza è che il difensore di fiducia viene nominato direttamente dall’imputato, quello d’ufficio, invece, viene individuato e indicato ai fini della nomina “a richiesta dell’autorità giudiziaria o della polizia giudiziaria”, grazie ad “elenchi dei difensori” predisposti dai consigli dell’ordine forense di ciascun distretto di corte d’appello, mediante un apposito ufficio centralizzato. I consigli dell’ordine, inoltre, fissano i criteri per la nomina dei difensori sulla base delle competenze specifiche, della prossimità alla sede del procedimento e della reperibilità. Il patrocinio a spese dello Stato - L’avvocato d’ufficio, esattamente come quello di fiducia, viene pagato dall’imputato, a meno che quest’ultimo non goda del beneficio del patrocinio a spese dello Stato, in quanto cittadino non abbiente. Il patrocinio a spese dello Stato è disciplinato dal Testo Unico spese di Giustizia e consente a coloro che sono titolari di un reddito annuo imponibile, risultante dall’ultima dichiarazione, non superiore a 11.493,82 euro di poter far valere i loro diritti a spese dell’erario nei giudizi civili, tributari e amministrativi (sia promuovendo azioni che resistendo a pretese altrui), nonché di difendersi nel giudizio penale. Il vaglio dell’esistenza dei presupposti per l’ammissione al beneficio (compresa la valutazione di non manifesta infondatezza) spetta al giudice penale per i giudizi penali e solo in via anticipata e provvisoria ai Consigli degli Ordini degli Avvocati per i giudizi civili. Nel giudizio civile il giudice ha quindi la facoltà di revocare il beneficio. Quanto costa? - L’avvocato, di fiducia o d’ufficio, che difende un cliente ammesso al patrocinio a spese dello Stato, riceve dunque il proprio onorario dal Ministero della Giustizia secondo la liquidazione effettuata dal giudice al termine del procedimento. Quanto all’ammontare, la legge impone il dimezzamento automatico degli importi stabiliti dai parametri, anche se nella prassi spesso i magistrati scendono anche al di sotto della metà del minimo, con liquidazioni mortificanti per l’attività del difensore. Nello specifico, in materia di immigrazione il Cnf ha sottoscritto un protocollo per la liquidazione standardizzata degli onorari, sulla base delle diverse tipologie processuali. Per fare un esempio, il difensore che difende un migrante ammesso al patrocinio a spese dello Stato per un rito ordinario o sommario davanti al tribunale civile per una controversia di valore fino a mille euro, percepisce in tutto 400 euro (per lo studio della controversia, la fase introduttiva del giudizio, la fase di trattazione e fase decisionale). Per valore dai mille ai 5.200 euro, si arriva ad un massimo di 1.200 euro per tutte e quattro le voci. Anche in questo, caso, tuttavia, alcuni giudici stabiliscono di liquidare somme inferiori. I tempi - I tempi per incassare il pagamento da parte del Ministero della Giustizia variano da foro a foro: il tempo minimo di attesa nei fori più virtuosi è di 6 mesi, ma in alcuni circondari gli avvocati aspettano anche tre o quattro anni prima di vedersi bonificato il compenso, e ciò sia a causa di disservizi degli uffici deputati a seguire l’iter dei pagamenti che per il rapido esaurimento dei fondi destinati a ciascun Tribunale nell’anno di competenza. Ogni anno, infatti, il Ministero stanzia per ogni circondario una cifra per le spese di giustizia e, quando il fondo si esaurisce, i crediti non pagati slittano all’anno successivo, quando nuove somme verranno messe a bilancio. Proprio per tentare di ridurre questi ritardi, è stato previsto il diritto per gli avvocati di compensare i debiti fiscali (che comprendono ogni imposta o tassa, compresa l’Iva) con gli onorari del patrocinio a spese dello Stato. Toghe e politica: prima o poi tocca anche a te... di Piero Sansonetti Il Dubbio, 14 giugno 2018 Stavolta è toccata ai Cinque Stelle. La bufera giudiziaria che si è abbattuta su Roma ha colpito un po tutti i partiti, ma è chiaro che il prezzo più alto - in termini politici e di immagine - lo pagano i grillini, che sono al governo della città e che hanno investito gran parte della loro credibilità sul progetto-stadio. Ora il progetto del nuovo stadio di Roma sembra svanire. E la giunta Raggi è sempre più nei guai. Dopodiché c’è un altro risvolto, a livello nazionale: in realtà, sebbene gli arresti siano tutti di esponenti - interni o esterni - dei 5 Stelle del Pd e di Forza Italia, l’inchiesta riguarda massicciamente anche la Lega. A leggere l’ordinanza, almeno, si ha l’impressione che il grosso dei soldi sia andato al partito di Salvini. Ma, paradossalmente, anche questa circostanza nuoce più ai 5 Stelle che alla Lega. Perché la Lega ha molti precedenti, e francamente non ha mai puntato le sue carte sull’ “onestà”, mentre i Cinque Stelle si troverebbero alleati con un partito sospettato di corruzione ad alto li- vello, e questa, per loro, è una circostanza molto imbarazzante. A occhio, comunque, l’inchiesta mi pare una cosa un po’ vaga. Come spesso succede quando le inchieste giudiziarie prendono di mira la politica. È abbastanza probabile che gran parte degli imputati sia innocente e che finirà assolta. Ma è anche probabile che come consuetudine - questi imputati nel frattempo vedranno annientata la loro carriera politica. E che l’inchiesta provocherà diversi spostamenti nei rapporti di forza tra i partiti. All’interno della maggioranza e tra maggioranza e opposizione. Tuttavia, a differenza del passato, questa volta nessuno potrà usare l’inchiesta del Procuratore aggiunto Ielo per combattere i suoi nemici politici. I Cinque Stelle, abituati a usare le inchieste giudiziarie come clave per la lotta politica, ora si trovano “dall’altra parte della clava”. Sarà per loro una esperienza importante. Possiamo dire che sin qui il loro principale strumento di lotta politica, soprattutto di attacco ai concorrenti, sono state le inchieste dei magistrati e il grido onestà. I Cinque Stelle per di più hanno sempre rifiutato di distinguere (per i politici) tra sospetto e colpevolezza. Hanno sempre fatto coincidere i due termini, con gran spavalderia. E su questa loro condotta sono stati molto aiutati dalla stampa, da quella amica, e anche da quelli che da qualche anno si chiamano “i giornaloni”. I danni della campagna giustizialista sono stati molti. Li ha pagati quasi tutti quelli il Pd (Forza Italia aveva già pagato abbondantemente in passato). La parabola discendente del Pd a Roma - che poi ha trascinato alla discesa il Pd sul piano nazionale) è iniziata con la caduta della giunta Marino. Il sindaco Marino non aveva fatto proprio niente di male. Forse non era un sindaco bravissimo, almeno, così pareva allora (ora, se confrontato con Virginia Raggi, sembra Batman…). Fu crocifisso dai giornali, dai 5 Stelle e alla fine - ironia della sorte - dai suoi stessi compagni del Pd che decisero abbandonarlo, anzi di metterlo sulla graticola e poi do scotennarlo. E fu l’abbattimento di Marino ad aprire la strada ai 5 stelle che vinsero le elezioni comunali del 2016. E proprio dalla rovinosa sconfitta romana il Pd iniziò la discesa dal 40 ai 18 per cento. E la discesa subì una netta accelerazione con l’inchiesta Consip, anche quella guidata dai 5 Stelle e dal “Fatto quotidiano”, ma poi appoggiata da tutti i grandi giornali e da tutte le Tv. Qual era la tesi? Che Renzi fosse colpevole, anzi molto colpevole. Di cosa? Nessuno lo sapeva bene, ma era colpevolissimo. Poi si scoprì che era tutta una bufala, che alcuni carabinieri avevano contraffatto le informative, che qualche sostituto di Napoli aveva fatto gran pasticci, che le fughe delle notizie (per di più false) e le intercettazioni illegali (persino tra avvocato e cliente) guidate sapientemente da qualche “manina” in Procura avevano intorbidato fino all’inverosimile la lotta politica. Beh, è inutile tornare sul passato. Mettiamoci una pietra. Sarebbe importante che ora che è cambiato il governo, che i partiti populisti hanno vinto le elezioni, che addirittura Salvini è acclamato ormai come il liberatore dal passato decadente, si ristabiliscano le regole dello stato di diritto e tutti accettino di non usare più le inchieste giudiziarie contro gli altri. Quando dico tutti, però, dico tutti. È probabile che questa inchiesta non sarà usata da nessuno contro gli altri. Probabilmente neppure dal Fatto Quotidiano che non ama infangare i 5 Stelle. Il problema però è che non succeda che la prossima volta che viene incriminato qualche vicesindaco del Pd, probabilmente innocente, il partito dei presunti onesti torni a battere la grancassa. Come ha fatto negli ultimi mesi col sindaco di Mantova, con il segretario campano del Pd, con la Guidi, con Lupi, con Sala, con... con... con... Perché la “regola Taricco” non si può applicare di Enrico De Mita Il Sole 24 Ore, 14 giugno 2018 Il diritto Ue non può fissare al giudice italiano obiettivi di risultato in violazione del principio di legalità e tassatività della fattispecie penale (articolo 25 Costituzione). I giudici nazionali non sono tenuti ad applicare la “regola Taricco” sul calcolo della prescrizione (Corte Ue, sentenza 8 settembre 2015) per i reati in materia di Iva. L’inapplicabilità della “regola Taricco” ha la propria fonte nello stesso diritto Ue: la Corte Ue (sentenza 5 dicembre 2017) ha disposto che l’articolo 325 Tfue, come interpretato dalla Corte Ue, non è applicabile né ai fatti anteriori all’8 settembre 2015 né quando il giudice nazionale ravvisi un contrasto con il principio di legalità in materia penale. Tale decisione è stata fatta propria dalla Corte costituzionale che, con sentenza 115, ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale con riguardo all’articolo 2, legge 130/08, nella parte in cui autorizza alla ratifica l’articolo 325 del Tfue integrato dalla sentenza Taricco. Come osservato dalla Consulta, la pronuncia della Corte Ue opera su due piani connessi: a) chiarisce che la “regola Taricco” non può essere applicata ai fatti commessi prima dell’8 settembre 2015; b) demanda all’autorità giudiziaria nazionale il compito di saggiarne la compatibilità con il principio di determinatezza in materia penale: per disapplicare la normativa nazionale in tema di prescrizione, il giudice nazionale effettua uno scrutinio favorevole quanto alla compatibilità della “regola Taricco” con il principio di determinatezza. L’autorità competente a svolgere il controllo sollecitato dalla Corte Ue è la Corte costituzionale alla quale compete la valutazione circa l’applicabilità della “regola Taricco” nel nostro ordinamento. Nei due giudizi pendenti innanzi ai giudici remittenti nazionali, su reati “gravi” previsti dal Dlgs 74/2000 prescritti in applicazione del Codice penale, si sarebbe dovuto pervenire a una sentenza di condanna in applicazione della regola Taricco in contrasto con il rispetto inalienabile della persona umana e con i nostri principi costituzionali di legalità e tassatività della fattispecie penale, con aggravamento retroattivo della punibilità, ope iudicis, in assenza di alcuna specificazione della gravità della frode e dei casi in cui debba ricorrere la richiesta disapplicazione del Codice penale. La Corte costituzionale, nell’escludere l’applicabilità della “regola Taricco”, ricorda che tale esito è riconosciuto dalla sentenza della Corte Ue per il profilo temporale (reati commessi ante 8 settembre 2015) e richiama la sua costante giurisprudenza sulla premessa costituzionale inderogabile del rispetto del principio di legalità sostanziale. Se appare evidente il deficit di determinatezza che caratterizza sia l’articolo 325, paragrafi 1 e 2, Tfue, sia la “regola Taricco” in sé, allora, a prescindere dalla collocazione temporale dei fatti, il giudice comune non può applicare la “regola Taricco”, perché essa è in contrasto con il principio di determinatezza in materia penale, che realizza il principio di legalità penale sostanziale consacrato dall’artcolo 25, comma 2, della Costituzione. La violazione del principio di determinatezza in materia penale sbarra la strada all’ingresso della “regola Taricco” nel nostro ordinamento. Non divulga le generalità della vittima di abusi il legale che fa solo il nome di battesimo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 14 giugno 2018 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 6 giugno 2018 n. 25610. Non commette il reato di indebita divulgazione delle generalità di una persona offesa da un reato sessuale l’avvocato della presunta responsabile che, in una trasmissione televisiva, fa il solo nome di battesimo della parte lesa. La Corte di cassazione, con la sentenza 25610 del 6 giugno scorso, accoglie il ricorso del legale che chiedeva un’assoluzione nel merito essendo il reato prescritto. Alla base della condanna, inflitta sia in primo grado sia in appello, una dichiarazione fatta nel corso di un programma Rai, in cui il difensore aveva fatto il nome della vittima, una minore, per affermare che non risultavano lesioni. Ad avviso dei giudici i telespettatori erano nelle condizioni di identificare la bambina, perché il padre della piccola era intervenuto in un programma di Radio Radicale, presentandosi con il suo cognome e aveva fatto riferimento all’asilo in cui erano avvenuti i fatti che avevano coinvolto la maestra, poi scagionata. Per la Cassazione, l’avvocato va assolto almeno per due motivi. Non c’è alcuna prova che il ricorrente sapesse delle affermazioni fatte dal padre della parte lesa in radio, e la sola rivelazione del nome di battesimo non può rientrare nel concetto di divulgazione. Secondo la sentenza impugnata erano invece irrilevanti le precedenti condotte del padre della vittima. Malgrado la Corte d’Appello avesse, implicitamente riconosciuto che il solo nome di battesimo non poteva integrare la nozione di “generalità”, il fatto sarebbe stato comunque commesso per la possibilità che l’utente aveva di associare i “dati”. Questo in assenza di qualunque prova che il legale sapesse delle esternazioni del genitore. Misure di accoglienza revocabili se il richiedente asilo non rispetta le regole delle strutture di Ulderico Izzo Il Sole 24 Ore, 14 giugno 2018 È legittimo il provvedimento del Prefetto del luogo che revoca le misure di accoglienza se il richiedente asilo viola le più elementari regole di pacifica convivenza. Questo è il principio che emerge dalla recente sentenza del Tar Lombardia n. 1403/2018. Il fatto - Un cittadino straniero, ospite di una struttura di accoglienza sita in un comune lombardo ha impugnato il decreto di revoca delle misure di accoglienza emesso dalla Prefettura di Monza-Brianza, per la reiterata violazione della regola della struttura, di non introdurre estranei nell’appartamento. Rispetto alla predetta violazione, il Tar meneghino ha respinto il ricorso, ritenendo legittimo il provvedimento prefettizio, il quale, poi, ha determinato l’espulsione dello straniero dal territorio italiano. La decisione - La sentenza del Tribunale amministrativo lombardo ha posto l’accento sulla norma che regola la fattispecie in esame, quale l’articolo 23, comma 1, lett. e), del Dlgs n. 142/2015, che, espressamente, stabilisce che il Prefetto della Provincia in cui hanno sede le strutture dispone, con proprio motivato decreto, la revoca delle misure d’accoglienza in caso di violazione grave o ripetuta delle regole delle strutture in cui è accolto il richiedente asilo, compreso il danneggiamento doloso di beni mobili o immobili, ovvero comportamenti gravemente violenti. Il provvedimento del Prefetto è stato adottato in quanto per due volte, gli operatori del centro di accoglienza hanno trovato estranei nell’appartamento, introdotti dal ricorrente. In un caso, invitati ad uscire, gli ospiti hanno anche reagito verbalmente, in modo violento. Conclusioni - Il Giudice amministrativo ha rilevato che la predetta disposizione è posta a presidio della serena convivenza all’interno della struttura d’accoglienza. Il soggetto che fruisce di accoglienza deve mantenere un comportamento irreprensibile sia nell’ambito del contesto di accoglienza, sia nei contatti esterni. Rilevano, ai fini della espulsione, tanto i comportamenti posti in violazione delle regole del centro di accoglienza, quanto quelli violativi delle disposizioni penali. Nel caso in esame il ricorrente ha violato una delle regole basilari per la pacifica convivenza, cioè non introdurre estranei nel centro, regola posta per evitare non solo che aumentino il numero di coloro che alloggiano nella struttura (per la quale è sempre posto un limite di ospiti, anche per motivi igienico-sanitari), ma anche per ragioni di sicurezza, affinché non vengano nascosti clandestini, ovvero soggetti pericolosi o violenti. Si tratta di divieti posti nel regolamento, la cui violazione, specie se ripetuta come nel caso in esame, comporta espressamente l’applicazione di una sanzione a discrezione dell’Amministrazione. Emilia Romagna: il Garante regionale “peggiora la situazione nelle carceri” Dire, 14 giugno 2018 Sovraffollamento, suicidi, carenze organico. È il preoccupante bilancio stilato oggi dal garante regionale dei detenuti Marcello Marighelli, che ha relazionato in commissione sull’attività del suo ufficio nel 2017. Nelle carceri dell’Emilia-Romagna sono rinchiusi 3.488 detenuti (di cui 159 donne), il tasso di sovraffollamento aumenta (è aumentato di più del 20% in tre anni, arrivando al 124%) e crescono anche gli stranieri. In tre anni la loro presenza è aumentata del 5% e rappresentano più della metà dei detenuti con 1.770 presenze. Nel 2017 i casi di suicidio in strutture della regione sono stati otto, il doppio rispetto al 2016 (il 18% sul totale nazionale), mentre i tentativi di suicidio sono stati 125 e 1.383 gli atti di autolesionismo. È il preoccupante bilancio stilato oggi dal garante regionale dei detenuti Marcello Marighelli, che ha relazionato in commissione sull’attività del suo ufficio nel 2017. Marighelli, nella sua relazione, ha poi affrontato il tema delle criticità nelle strutture della regione: “La condizione degli istituti penitenziari in Emilia-Romagna risente della mancanza di una adeguata programmazione della manutenzione ordinaria, inoltre Forlì e Ravenna richiederebbero interventi importanti di manutenzione straordinaria”. Un aspetto preoccupante nelle carceri della regione, ha poi evidenziato, “riguarda il manifestarsi di carenze di organico nel personale di custodia, ma ancor di più nel personale educativo e amministrativo, comprese le direzioni”. Il garante regionale, nel solo 2017, ha eseguito 76 colloqui all’interno delle strutture carcerarie, 32 le visite (15 nei primi sei mesi del 2018). L’ufficio ha trattato complessivamente 220 pratiche. Pratiche che riguardano condizione detentiva, rapporti del ristretto con l’amministrazione penitenziaria e la magistratura, trasferimenti e relazioni con i familiari. L’ufficio di Marighelli ha programmato anche un’attività di formazione rivolta agli operatori dell’amministrazione penitenziaria e ai volontari (87 gli operatori coinvolti), sui temi della residenza e documenti d’identità, permessi di soggiorno e rimpatrio volontario assistito, ricerca del lavoro, curriculum, valorizzazione delle esperienze lavorative e formative in carcere e misure alternative alla detenzione. L’organismo ha elaborato anche la mappatura di tutti i luoghi di restrizione (camere di sicurezza, luoghi dove si svolgono trattamenti sanitari obbligatori e strutture sanitarie terapeutiche residenziali accreditate per dipendenze patologiche). Durante il dibattito tra i consiglieri Daniele Marchetti della Lega ha affrontato il tema dell’aumento delle presenze in carcere di detenuti stranieri: “È necessario continuare sulla strada dei rimpatri, senza tralasciare il problema della radicalizzazione religiosa nelle carceri”, ha detto. Silvia Prodi (Mdp) e Antonio Mumolo (Pd) hanno invece posto l’accento sul problema dei suicidi e degli atti di autolesionismo nelle strutture carcerarie dell’Emilia-Romagna, avanzando la proposta di coinvolgere direttamente l’Assemblea legislativa su queste tematiche. Mentre Nadia Rossi, altra dem, si è soffermata sulla questione del sovraffollamento nelle carceri durante il periodo estivo e ha parlato delle condizioni di lavoro degli operatori penitenziari. Mantova: morto in ospedale il detenuto che sabato scorso tentò il suicidio La Gazzetta di Mantova, 14 giugno 2018 È deceduto in ospedale il detenuto del carcere di Mantova che sabato scorso aveva cercato di togliersi la vita in cella. Non ce l’ha fatta il detenuto del carcere di Mantova che sabato scorso aveva tentato di togliersi la vita in cella. L’uomo, poco meno che 30enne, è morto martedì pomeriggio nel reparto di rianimazione del Carlo Poma dove era stato ricoverato in gravissime condizioni subito dopo il ritrovamento. Per farla finita il giovane detenuto aveva utilizzato i lacci delle scarpe. Quando è stato soccorso nella sua la situazione era già disperata. Il dramma si era consumato sabato mattina nella casa circondariale di via Chiassi. L’uomo si trovava in carcere da pochi mesi, ma tanto è bastato per provocare in lui uno stato d’animo tale da voler chiudere con la vita. In suo soccorso sabato mattina intorno alle 10.30 erano arrivate in via Chiassi l’automedica del 118 con il rianimatore e un mezzo della Croce Rossa. All’arrivo dei sanitari il detenuto era già in coma, anche se il suo cuore batteva ancora. Poi la corsa al Carlo Poma, durante la quale sono stati eseguiti vari tentativi di rianimazione, e l’immediato ricovero in terapia intensiva, dove i medici lo hanno tenuto sotto costante monitoraggio. Martedì pomeriggio è sopraggiunto il decesso. Pordenone: detenuto morì a 29 anni, a giudizio il medico del carcere di Ilaria Purassanta La Nuova Venezia, 14 giugno 2018 Il decesso di Stefano Borriello nell’agosto 2015: l’imputazione è di omicidio colposo. Il giudice Pergola si è preso del tempo per valutare con attenzione il caso. La decisione è arrivata ieri mattina. Si andrà a dibattimento. Morte in carcere, il processo si farà. Il giudice per le indagini preliminari, Eugenio Pergola, ha rinviato ieri mattina a giudizio il medico del penitenziario di Pordenone Giovanni Capovilla, 65 anni, assistito dall’avvocato Paolo Lazzaro. Si tratta di un’imputazione coatta per omicidio colposo. Riguarda il decesso al castello di Pordenone del giovane portogruarese, Stefano Borriello, morto a 29 anni il 7 agosto 2015. L’arresto cardiocircolatorio è stato accertato all’ospedale Santa Maria degli Angeli di Pordenone, ma un’ora prima, in cella, il giovane detenuto era stato colto da malore e soccorso dagli infermieri in servizio. Il personale medico del carcere aveva cominciato a praticare la rianimazione cardiopolmonare fino all’arrivo del 118. Per due volte è stata chiesta l’archiviazione del procedimento penale e per due volte i familiari di Stefano Borriello, con l’avvocato Daniela Lizzi, si sono opposti. L’ultima richiesta di archiviazione risale al 2017, peraltro dopo un corposo supplemento di indagini, che ha portato a una nuova perizia e all’acquisizione di ulteriori sommarie informazioni testimoniali, dalla quali però non era emerso, a detta degli inquirenti, alcun nesso di causalità fra il decesso del paziente e eventuali condotte omissive da parte del personale medico. Il supplemento investigativo era stato disposto proprio dal gip. Alla fine di marzo il giudice per le indagini preliminari Rodolfo Piccin ha disposto l’imputazione coatta per omicidio colposo. All’indagato è stato contestato di non aver diagnosticato in tempo un’infezione polmonare che avrebbe portato in seguito al drastico peggioramento delle condizioni cliniche di Stefano Borriello, fino alla morte. La mancata diagnosi avrebbe implicato, stando all’imputazione coatta, la mancata somministrazione della terapia antibiotica. Gli inquirenti fissano una data, quella del 6 agosto 2015, come possibile spartiacque per poter scongiurare la tragedia, tramite gli opportuni esami. All’udienza preliminare cominciata l’8 maggio la Procura ha chiesto il non luogo a procedere nei confronti del medico. L’avvocato Lizzi, per conto della madre del ragazzo, ha invece osservato come Stefano Borriello sia deceduto per una comune polmonite, che avrebbe potuto essere curata senza particolari difficoltà somministrando per tempo un antibiotico ad ampio spettro. L’avvocato del medico, Paolo Lazzaro, ha chiesto invece il proscioglimento. Ariano Irpino (Av): rivolta in carcere, agente sequestrato per un’ora dai detenuti di Pierluigi Melillo La Repubblica, 14 giugno 2018 Nel penitenziario campano si è vissuta un’ora di grande tensione: polizia e carabinieri sono intervenuti per sedare la rivolta. È rientrata la rivolta nel carcere di massima sicurezza di Ariano Irpino, dove un gruppo di detenuti aveva sequestrato un agente di polizia penitenziaria. Un’azione voluta dai reclusi per segnalare le difficili condizioni che si registrano all’interno del penitenziario. Per circa un’ora - dalle 15 alle 16 - si sono vissuti momenti di grande tensione. Tra lanci di oggetti e minacce i detenuti hanno costretto un agente di custodia in servizio a rifugiarsi all’interno di un gabbiotto per evitare il peggio. All’interno del penitenziario sono subito intervenuti agenti di polizia e carabinieri in assetto antisommossa che hanno riportato la situazione alla normalità. Sul posto era presente il procuratore aggiunto di Benevento Giovanni Conzo, che ha coordinato le indagini in contatto anche con il procuratore capo Aldo Policastro. Il direttore del penitenziario Gianfranco Marcello ha cercato di isolare il padiglione dove si è registrata la protesta. L’agente di polizia penitenziaria che era stato sequestrato dai detenuti è stato poi costretto alle cure dei medici dell’ospedale di Ariano, dove è stato ricoverato in un comprensibile stato di choc. Alcuni dei detenuti protagonisti della rivolta saranno ora trasferiti in altre strutture detentive. Il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria parla di “sequestro annunciato in un carcere praticamente in mano ai detenuti” e denuncia una “situazione esplosiva” all’interno della casa circondariale di Ariano Irpino. Torino: carcere e lavoro, un’esperienza positiva di Federico Dagostino comune.torino.it, 14 giugno 2018 Sono poco più di 1.400 i detenuti della casa circondariale “Lo Russo e Cutugno” di Torino. Duecentotrenta lavorano per l’Amministrazione penitenziaria, una trentina nelle cooperative. Sono un centinaio coloro per i quali si sono aperte le condizioni per un lavoro, al di fuori del carcere, seppure nell’ambito di precisi protocolli, seppure limitato nel tempo. È il caso, ad esempio, di una trentina di detenuti che da tre anni collaborano con Amiat, affiancando gli operatori dell’azienda torinese, che si occupa della raccolta e dello smaltimento di rifiuti, in particolare nella pulizia delle aree verdi. Secondo il direttore del carcere, Domenico Minervini, presente alla riunione della commissione Legalità presieduta da Carlotta Tevere, il progetto è stato positivo. Solo a 6 detenuti è stata revocata questa possibilità. I vertici di Amiat hanno sottolineato come i detenuti si attengano agli stessi orari dei dipendenti Amiat e svolgano il lavoro con le medesime modalità e dotazioni di abbigliamento e attrezzature, dopo un periodo di formazione. Il lavoro si svolge su 38 ore settimanali tre quarti delle quali retribuite mentre le rimanenti svolte a titolo volontario e gratuito. Soddisfazione è stata espressa anche dagli stessi detenuti ai consiglieri della commissione. “In Amiat abbiamo trovato un ambiente che ci ha messo a nostro agio, non c’è stato alcun problema di inserimento, ci siamo sentiti parte integrante di un progetto tanto da diventare quasi aziendalisti”, hanno sottolineato. “L’esperienza ci ha offerto un’opportunità di riscatto, hanno ancora evidenziato, ma sarebbe importante avere la possibilità di continuare l’attività lavorativa anche una volta usciti dal carcere”. Molti i consiglieri intervenuti nel dibattito dal quale sono emersi un apprezzamento del progetto realizzato in collaborazione con Amiat e la volontà di ampliarlo, sempre in ambiti ambientali legandolo ad attività con le scuole, con la tutela degli animali nonché l’ipotesi di esplorare anche altre strade legate a cooperative o a varie categorie produttive, approfittando anche, come ha sottolineato Minervini, degli sgravi fiscali previsti dalle normative nazionali per gli imprenditori che decidano di assumere ex detenuti. Bergamo: il carcere e il decoro di Davide Ferrario Corriere della Sera, 14 giugno 2018 Da vent’anni io sono, per il Ministero della Giustizia, un “articolo 17”. In linguaggio comune, un volontario in carcere. Non c’è buonismo (né bontà…), in questo: credo che passare del tempo “dentro” dovrebbe far parte dell’educazione civica di ogni italiano. Giusto per capire cosa intendiamo davvero quando si parla di galera, in questo Paese: e se ne parla quasi sempre a sproposito. Il carcere assomiglia alla società che lo produce. Nella mia esperienza, ci si trova così di fronte a situazioni opposte. Innanzitutto, ci sono istituti in cui direttore e personale sono dei veri “eroi civili”: gente che fa funzionare una baracca senza speranza (e senza soldi) cercando di minimizzare il danno di un sistema che, così com’è, è un inutile spreco di risorse umane e di soldi pubblici. Non dimentichiamo che sopra di noi pende una condanna della Corte Europea proprio per lo stato delle patrie galere: condanna alla quale sono curioso di vedere come risponderà il nuovo governo, così fiero di alzare la voce contro Bruxelles. E poi ci sono carceri come quello di Bergamo, dove l’inchiesta conclusasi con l’arresto dell’ex direttore Porcino e di altri indagati ha scoperchiato una situazione indecorosa. Intendiamoci: Porcino non è un sadico come certi personaggi da film americano, col ghigno malefico di un Donald Sutherland. La vita dei detenuti è grama, ma non in questi termini. È molto più facile, invece, trasformare un luogo come via Gleno in un piccolo regno dove mettere a profitto un sistema di potere fatto di furberie, scambi di favori, intrallazzi con gli appalti. E di peculati di piccolo cabotaggio, come l’asportazione di due water da sistemare in casa della moglie. Vien da ridere, lo so: ma poi quando entri nei cessi di un carcere e li trovi in condizioni che vi evito di descrivere, cominci a pensare che i discorsi sulla civiltà della pena non partono dai massimi sistemi, ma dalle piccole indegnità di ogni giorno. Il carcere, com’è quasi sempre oggi in Italia, produce abbrutimento. Non solo dei detenuti, ma anche di chi ci lavora, come dimostra la rete di complicità di cui si sarebbe avvalso Porcino. Ecco perché questa dovrebbe essere l’occasione per un pensiero fuori dai luoghi comuni. Non si tratta di processare un direttore disonesto. Si tratta del rapporto tra carcere e città. Non a caso Porcino, negli ultimi anni, aveva progressivamente dismesso le attività dei volontari. Che via Gleno rimanesse così, un pianeta a parte: un luogo a cui, da sempre, Bergamo non ha sentito la necessità di dare nemmeno un nome. Padova: cronista pubblica l’immagine del figlio di Riina, per la procura è “favoreggiamento” di Corrado Zunino La Repubblica, 14 giugno 2018 Ha fatto uno scoop. La cronista giudiziaria del Mattino di Padova, ora, è indagata per aver favorito la mafia. È una storia di quasi cinque anni fa, 27 settembre 2013. Con i carabinieri del nucleo radiomobile che si appostano dall’altra parte di Piazzetta Buonarroti e inquadrano i clienti di un noto bar. Seduto sul dehor c’è il figlio di Toto Riina, Giuseppe Salvatore detto Salvuccio, sorvegliato speciale al Nord dopo otto anni e dieci mesi trascorsi in galera. Riina junior è in compagnia di due pregiudicati per mafia. Dovrebbe essere a casa a quell’ora, dicono le restrizioni: sta reiterando un reato. I carabinieri in borghese scattano foto: viene aperto un fascicolo, trasmesso presto alla Direzione antimafia di Venezia. Per quattro anni la procura di Venezia e i carabinieri di Padova indagheranno in silenzio: Salvuccio, si scopre, organizza in salotto festini con la cocaina, preleva escort in aeroporto con l’auto a disposizione (cosa vietata). E mantiene rapporti a distanza con i mafiosi di Corleone. La cronista giudiziaria del Mattino di Padova, Cristina Genesin, all’inizio del febbraio 2017 scopre la storia e l’appostamento, ottiene uno scatto. Il 3 febbraio 2017, e poi ancora il 4, il giornale pubblica l’evidente notizia: “Gli incontri proibiti di Salvuccio a Padova”, titola il primo giorno. La città è sbigottita, la Lega e il Pd si sollevano: “Salvuccio Riina continua a ricevere permessi per muoversi nel Paese”. La Dda viene chiamata in causa dall’Osservatorio delle mafie in Veneto: “Nessuno fa niente?”. Sedici mesi dopo, cioè martedì scorso, il giornale viene perquisito. Dalla prima mattina alle sette di sera, otto finanzieri del Gico. All’autrice del colpo giornalistico, privata a casa di due smartphone e in redazione del computer e diverse carte, viene notificata una contestazione pesante: “Violazione del segreto istruttorio con l’aggravante dell’aver commesso il fatto al fine di agevolare l’attività di soggetti appartenenti all’associazione di tipo mafioso”. Avrebbe, sostiene la procura di Venezia autrice del decreto di perquisizione, rovinato un’indagine lunga quattro anni: “Consentiva a Riina di apprendere che a suo carico erano state svolte indagini inducendolo a modificare i suoi comportamenti”. Si apre, da martedì, la caccia alla fonte della cronista. Per omesso controllo il pm Fabrizio Celenza indaga anche il direttore del Mattino di Padova, Paolo Possamai, e il condirettore Paolo Cagnan. In redazione si preferisce il silenzio, ma si teme l’escalation dei controlli di procura. Pochi mesi prima un cronista di nera è stato intercettato per un servizio su una violenza sessuale: cercavano i suoi informatori. Nel 2015, si ricorda, la procura di Trieste mise sotto inchiesta il capo della squadra mobile locale, due ufficiali dei carabinieri e un giornalista. Gli investigatori furono sospesi dal servizio, l’inchiesta venne archiviata. “Un episodio grave, di intimidazione e limitazione della libertà a una cronista che nient’altro ha fatto se non il proprio lavoro”, scrive il Comitato di redazione dei giornali veneti. A ruota la Federazione nazionale della stampa, il sindacato e l’Ordine dei giornalisti del Veneto: “Il reato contestato è a dir poco sconcertante”. Salvuccio Riina, nel frattempo, è stato trasferito in una Casa di lavoro a Vasto, Abruzzo. “Non aveva assolutamente mutato indole e comportamento”. Augusta (Sr): dalla Caritas condivisione a accoglienza per i detenuti webmarte.tv, 14 giugno 2018 La Caritas cittadina dedica 2 giorni alla condivisione e ai detenuti. Domani e venerdì incontro per raccontare confrontarsi e ipotizzare nuovi percorsi. A tale scopo il coordinatore delle Caritas di Augusta, don Angelo Saraceno dà appuntamento al Centro Utopia. Domani pomeriggio il coordinamento delle Caritas traccerà, a partire dalle 16, una sintesi del lavoro svolto che riguarda il servizio ai carcerati e di volontariato, l’assistenza fornita ai senza tetto e ai pensionati, il sostegno scolastico offerto agli alunni a Talità Kum, l’attività di Anspi Sport e i mercoledì di “condivisione”. “Il senso autentico dell’essere Caritas e il rapporto con le istituzioni” sarà il tema dell’incontro che vedrà relazionare Maurilio Assenza, responsabile Fondazione Val di Noto e Caritas di Noto. Venerdì si svolgerà “La Giornata del carcerato” al Centro Utopia saranno accolti i detenuti e i loro familiari. Alle 20 si svolgerà uno spettacolo musicale che vedrà esibirsi la “Swing Brucoli’s Brothers Band” diretta da Maria Grazia Morello Da lunghi anni la Caritas cittadina si prende cura dei carcerati accogliendoli durante i periodi in cui essi godono dei permessi premio. Il container allocato nell’area ex Saline Regina, in via Pietro Frixa, nella porzione di terreno che appartiene alla Chiesa accoglie i detenuti senza famiglia, mentre nei locali di via Alabo trovano ospitalità i carcerati con i loro cari. Nell’immobile, sito in Augusta Isola, vengono accolti, appunto anche i parenti dei condannati che per buona condotta sono autorizzati di vivere fuori dal carcere per 4 giorni a mese. Ad assisterli sono i volontari delle parrocchie. L’accoglienza dei carcerati durante i permessi premio da parte della Caritas cittadina prosegue da circa 15 anni nei locali di via Alabo 100, presi in affitto e pagati sempre con i proventi dell’8 per mille destinati alla Chiesa. E a beneficio di quanti hanno lasciato temporaneamente il carcere, non sanno dove andare (stranieri tra i quali extracomunitari, ma anche siciliani le cui famiglie risiedono dall’altra parte dell’isola), si è attivata creando un’altra struttura, quella allocata nell’ex campo container, zona che per circa un ventennio ha accolto i terremotati e che in gran parte è stata riqualificata. La struttura è stata per ben 2 volte incendiata e ricostruita con caparbietà per l’alto valore che essa rappresenta. Milano: l’attesa e la speranza dal palcoscenico del carcere di Opera unimi.it, 14 giugno 2018 Concluso il laboratorio di scrittura e narrazione teatrale per studenti e detenuti, il racconto sulla capacità del carcere di formare ed educare. Il 23 maggio, presso la Casa di Reclusione di Milano Opera, si è concluso il laboratorio di scrittura e narrazione teatrale L’attesa e la speranza. Storie di confini, promosso dal dipartimento di Filosofia Piero Martinetti dell’Università Statale di Milano, che ha coinvolto 20 studenti e 17 detenuti in regime di alta sicurezza, condannati all’ergastolo per reati di mafia (41bis). Da ottobre 2017 a maggio 2018, per 21 incontri settimanali di due ore ciascuna, studenti e detenuti hanno abitato il palcoscenico del teatro del carcere di Opera, moderni personaggi in cerca di una storia e di un senso sui grandi dilemmi dell’uomo e sulla vita ai confini: della società, della legalità, della giustizia, dell’etica e della morale. “Per oltre sette mesi - racconta Stefano Simonetta, insieme a Elisabetta Vergani, referente del laboratorio per l’Università Statale - abbiamo lavorato settimanalmente su temi come l’attesa, la speranza (o la sua mancanza), la responsabilità, il tempo, le circostanze, il rispetto della legge, facendo emergere poco alla volta porzioni di vissuto dei partecipanti interni e, nel contempo, facendo crescere un dialogo fra loro, gli studenti esterni e i docenti”. “Volevo vivere questa esperienza - afferma Alice P., una delle studentesse dell’Università Statale - perché sentivo che ai miei studi di filosofia mancava il confronto diretto con alcune tematiche affrontate nei libri di morale. Il carcere è uno dei luoghi in cui il filosofo può misurare se stesso in relazione con l’altro e con le leggi della società su cui è spesso chiamato a esprimersi”. Brani di letteratura, testi filosofici e teatrali, poesie - da Socrate alla Hannah Arendt, da Sofocle a William Shakespeare, da Emily Dickinson ad Antonia Pozzi, da Fëdor Dostoevskij a Italo Calvino - sono stati il filo conduttore di un laboratorio che ha voluto superare i confini fisici del libro, dell’aula universitaria, per entrare in carcere e lasciar “parlare” anche chi ne ha perso il diritto. Frequenti le incursioni nelle ore di lezione del mito della caverna di Platone che - come ricorda Davide N., un ‘veterano’ dei laboratori in carcere dopo la prima esperienza in quello di Bollate lo scorso anno accademico - “i detenuti hanno spesso citato sia per esprimere la loro condizione di uomini ombra, sia per spiegare il lavoro del filosofo e la sua attitudine a uscire fuori per vedere la realtà”. Un laboratorio dal profondo impatto emotivo per tutti “gli attori” in scena - I lunghi controlli all’ingresso e all’uscita, il senso di straniamento nel ritrovarsi in un non luogo, stereotipato e impersonale, incidono profondamente sugli “studenti venuti da fuori”. Le persone “dentro” lo sentono, regalano cioccolati e caramelle, unico bene con cui accompagnare i ringraziamenti ai compagni per continuare a essere lì con loro tra quelle mura. “In uno dei nostri incontri - racconta Ginevra C. - ci è stato fatto dono di buonissimi biscotti fatti in camera, evento che ci ha toccato profondamente perché sappiamo bene come ai nostri compagni in carcere sia difficile reperire beni alimentari, dalla trafila per la spesa ai prezzi maggiorati”. Riabilitazione, rieducazione, capacità di perdonare sono i concetti più ricorrenti durante un laboratorio che per Marina B. si è addirittura rivelato “un’occasione unica per uno sguardo nuovo sull’umanità, non solo da parte degli ospiti delle strutture penitenziarie, ma anche da parte di chi frequenta l’Università, che ha saputo abbassare le barriere difensive della vita quotidiana, guardando in maniera nuova alle persone, alle loro storie e al loro futuro Un veliero per prendere il largo insieme - Il 23 maggio, è il giorno dei saluti per i 40 studenti del laboratorio. “Grazie per quello che fate e grazie per essere stati qui con noi in questi sette mesi” è il canto che accompagna la fine del laboratorio e l’uscita di scena degli attori al carcere di Opera. I detenuti, però, hanno un’ultima sorpresa, prima dei saluti: un modellino di veliero in legno, costruito dai più abili tra loro in questo genere di lavori di piccolo artigianato, ma destinato a Elisabetta Vergani e Stefano Simonetta, i due docenti del laboratorio, con la speranza di “poter prendere il largo insieme, in qualche modo”. Oltre a Stefano Simonetta ed Elisabetta Vergani, ringraziamo Virginia D., Davide N., Marina B., Alice P., Sofia Q., Virginia B. e Ginevra C., per le loro testimonianze e tutti gli studenti e detenuti del laboratorio di scrittura e narrazione teatrale L’attesa e la speranza. Storie di confini. Migranti. I numeri veri degli sbarchi in Italia: non c’è alcuna invasione di Alberto Magnani Il Sole 24 Ore, 14 giugno 2018 I migranti che “premono sulle nostre coste”? Dal primo gennaio del 2018 ad oggi, secondo dati del ministero dell’Interno, gli stranieri sbarcati in Italia sono stati 14.330:?un calo del 76,8% rispetto al 2017 (61.799) e del 72,37% rispetto al 2016 (51.863). In particolare, quelli provenienti dalla Libia sono scivolati dai 59.277 dei primi sei mesi del 2017 ai 9.832 dell’anno in corso:?l’83,4% in meno nell’arco di 12 mesi. I numeri, aggiornati quotidianamente dal Viminale, fotografano una dinamica che sembra sposarsi male con gli allarmi sulla “invasione” e il “traffico di esseri umani” pubblicizzati nel vivo della campagna elettorale. A questo ritmo, è inverosimile che il bilancio dell’intero 2018 riesca anche solo ad avvicinarsi agli standard del biennio precedente:? 181.436 migranti sbarcati nel 2016 e 119.369 nel 2017. Il calo è avvenuto sotto al governo guidato dall’allora premier Matteo Renzi, quando il ministero dell’Interno era presieduto da Marco Minniti. Calano anche i minori non accompagnati - In rapporto ai numeri, anche la diminuzione di minori non accompagnati ha conosciuto una flessione abbastanza poderosa:?dai 25.846 del 2016 ai 2.171 registrati all’11 giugno, a un paio di settimane dalla chiusura del primo semestre dell’anno. I tre porti più interessati dagli sbarchi sono stati Pozzallo (Ragusa) con 2.457 migranti, Messina con 2.273 migranti e Augusta (Siracusa)?con 2.227 persone. L’isola di Lampedusa, diventata uno dei luoghi simbolo dell’emergenza umanitaria, è ferma a 1.057 stranieri approdati dall’inizio dell’anno ad oggi. Le nazionalità più rappresentate al momento dell’arrivo in Italia sono Tunisia (2.940, il 21%), Eritrea (2.228, il 16%), Sudan (1.066, il 7%) e Nigeria (1.052, sempre al 7%). Il meccanismo di ricollocazione è scattato finora su un totale di 12.719 persone, prevalentemente in direzione di Germania (5.435), Svezia (1.408) e Paesi Bassi (1.020). Il blocco della riforma di Dublino - La chiusura dei porti imposta dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, per impedire lo sbarco della nave Aquarius, fa seguito al fallimento delle trattative del consiglio degli Affari interni Ue sulla riforma del regolamento di Dublino:?la legge europea che avrebbe disciplinato la redistribuzione delle quote di migranti “in eccesso” tra i vari paesi dell’Unione. L’Italia si è affiliata al blocco formato dai paesi dell’Est (come l’Ungheria di Viktor Orban) e dell’Austria nel respingere la revisione del regolamento, giudicato sfavorevole nei propri riguardi. Il risultato è che il testo è rimasto fermo alla sua versione del 2013, elaborata in un periodo distante dai picchi migratori degli ultimi anni. Salvini ne ha parlato come “una vittoria”, anche se lo stallo della riforma equivale al blocco del meccanismo delle quote (e alla possibilità di smaltimento delle emergenze in maniera più strutturata di quella attuale). Migranti. Salvini taglia le spese per l’accoglienza di Carlo Lania Il Manifesto, 14 giugno 2018 Il ministro rischia di trovarsi contro i prefetti, che finora hanno gestito l’emergenza. Finora sono rimasti in silenzio, ma quando deciderà di procedere davvero al taglio dei finanziamenti destinati all’accoglienza dei migranti Matteo Salvini potrebbe trovarsi di fronte l’opposizione degli oltre cento prefetti italiani. È da loro, infatti, che dipende la gestione dei bandi per le cooperative e gli enti privati che sul territorio gestiscono i Cas, i Centri di accoglienza straordinaria dove trova posto il maggior numero di migranti. Su un totale di 174 mila richiedenti asilo, ben 138.504 sono ospitati nei Cas, 25.657 nel sistema Sprar (Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati) gestito dai Comuni e 8.990 nelle strutture di prima accoglienza. “Credo che dei 35 euro attuali ne possiamo limare almeno 10”, ha ripetuto ancora una volta il ministro degli Interni nel suo intervento di ieri al Senato. I 35 euro di cui si parla rappresentano la cifra spesa quotidianamente per ogni migrante ospitato nei Cas (gli Sprar sono finanziati sulla base dei progetti presentati dai Comuni), soldi che nella pressoché totalità servono a pagare i servizi offerti, a partire da vitto e alloggio per finire con i corsi di italiano, l’assistenza sanitaria e legale e i corsi professionali per l’avviamento al lavoro. E naturalmente, per pagare gli stipendi del personale. Soldi che quindi non finiscono nelle tasche del migrante, che può contare solo un pocket money giornaliero di 2,5 euro per le piccole spese. Da luglio dello scorso anno gli sbarchi nel nostro paese sono costantemente in calo, al punto che oggi si registra una diminuzione del 78% rispetto ai primi sei mesi del 2017. Ma nei mesi in cui gli arrivi si contavano a decine di migliaia a settimana, sono stati proprio i prefetti a gestire l’emergenza cercando e trovando strutture sul territorio nelle quali trasferire i richiedenti asilo e scontrandosi spesso con l’opposizione dei sindaci. Anche per questo quello tra il nuovo ministro degli Interni e i prefetti è un rapporto a dir poco complicato, che rischia adesso di peggiorare ulteriormente. Tra i motivi che Salvini porta a giustificazione del taglio c’è la convinzione che 35 euro al giorno rappresentino la spesa più alta in Europa destinata all’accoglienza. Non è così. Secondo uno studio dell’Emn, l’European migration network del Consiglio dell’Unione europea, più di noi spendono il Belgio, che destina all’accoglienza 51,14 euro al giorno, la Finlandia (49 euro) l’Olanda (63 euro), la Svezia (40 euro) e perfino la Slovacchia (40 euro), paese che con Ungheria, Polonia, e Repubblica Ceca forma il gruppo di Visegrad da sempre ostile all’accoglienza dei migranti. Meno di noi, invece, spendono Francia (24 euro al giorno), Polonia, Austria, Repubblica Ceca, Irlanda e Croazia. La spesa per l’accoglienza rappresenta il 68,4% dei quasi 5 miliardi di euro destinati nel Def alla gestione dei migranti. Il restante 31,5% copre invece le spese per i salvataggi in mare (18,9%) e l’istruzione e la sanità (12,7%). Il contributo che arriva dall’Ue è minimo, visto che per il 2018 ammonta ad appena 80 milioni di euro, ma va detto che quelli investiti dal governo italiano non sono soldi sottratti agli italiani, come invece vuol far credere Salvini. Si tratta infatti che il Def inserisce all’interno della cosiddetta “clausola di eventi eccezionali” e in quanto tali scorporabili dai vincoli di bilancio previsti dal trattato sulla stabilità. Detto in altri termini, se non venissero spesi per l’immigrazione i 5 miliardi finirebbero con l’essere conteggiati nel computo del debito e del disavanzo pubblico aggravando la posizione dell’Italia. Immigrati nei campi per 3 euro l’ora e pane duro: arrestati due caporali a Marsala di Rino Giacalone La Stampa, 14 giugno 2018 I lavoratori chiamavano i loro datori “padrone”. E venivano prelevati direttamente dai centri d’accoglienza. L’altra faccia della realtà, di quello che dopo l’accoglienza può accadere agli immigrati una volta arrivati nella nostra terra. Altro che immigrati pagati per non far nulla, o dediti a compiere gesta criminose. Accade che uomini che per il colore della pelle finiscano sfruttati, costretti a chiamare “padrone” chi li ha resi schiavi, pagati 3 euro all’ora lavorando anche più di 12 ore al giorno, cominciando alle 5 del mattino in campagna tra vigneti e oliveti, o raccogliendo verdura e frutta, per poi essere rifocillati con pane duro e scarso. I poliziotti della Squadra Mobile di Trapani, diretti dal vice questore Fabrizio Mustaro, hanno arrestato all’alba i “padroni” di questi uomini, due imprenditori agricoli marsalesi, padre e figlio di 68 e 35 anni. Gli agenti hanno eseguito una ordinanza emessa dal gip di Marsala a conclusione delle indagini coordinate dalla Procura. I due spregiudicati “caporali” sono finiti ai domiciliari con l’accusa di sfruttamento della manodopera aggravato e in concorso. Il Giudice ha disposto anche il sequestro preventivo di due vigneti e di un vasto oliveto, di proprietà degli arrestati, dove venivano fatti lavorare gli immigrati. I terreni, secondo le nuove previsioni di legge contro il caporalato, adesso sono destinati alla confisca. Le indagini sono durate sei mesi e hanno accertato che i due “caporali” sfruttavano gli immigrati facendoli lavorare non solo nelle loro aziende, ma anche mettendoli a disposizione di altri agricoltori di Mazara del Vallo e di Marsala. Gli immigrati venivano prelevati da un capannone nelle campagne di Marsala, dove vivevano in pessime condizioni igienico sanitarie, o erano reclutati direttamente nei centri di accoglienza per migranti. Quasi ogni mattina andavano a prenderli con le loro auto e li portavano nei campi. Sono state le intercettazioni e le telecamere messe dagli investigatori della Squadra Mobile di Trapani a inchiodare i “caporali” le cui condotte andavano avanti da almeno tre anni. I due arrestati si comportavano anche da “sportelli (illeciti) del collocamento”: altri imprenditori agricoli si rivolgevano a loro per trovare manodopera “facile”, che non avesse tante pretese. I due arrestati facevano rapide contrattazioni con gli immigrati sulla paga oraria, sulle ore di lavoro e sul cibo e decidevano quale lavoratore impiegare: chi “faceva troppe storie” sul compenso o sul cibo veniva subito “scartato”. Tre euro era la paga oraria massima oltre alla “mangiarìa”, cioè il panino che i due “caporali” davano ai lavoratori come pasto della giornata, non sempre previsto se la paga era un po’ più alta. Spesso, però, il pane era duro e scarso; per questo motivo, alcuni degli immigrati sfruttati si lamentavano, chiedendo almeno più pane e pure morbido, ma chi si lamentava già dall’indomani poteva dire addio al lavoro. I lavoratori si rivolgevano ai due uomini chiamandoli “padrone” e, questi, a loro volta li chiamavano con i nomi della settimana: “giovedì” era uno degli uomini sfruttati. La radicalizzazione islamica nelle carceri europee di Lorenza Formicola analisidifesa.it, 14 giugno 2018 Mentre l’Europa non smette di piangere le vittime del terrorismo islamico, allo stesso tempo trascura l’emergenza della radicalizzazione islamica nelle carceri del Vecchio Continente. Neanche l’ultima aggressione al grido di “Allahu Akbar”, a Liegi, ha smosso i sistemi di giustizia che dovrebbero essere lo strumento per contenere i terroristi poiché è proprio nelle carceri - oltre che nelle moschee e sui social media - che l’islam s’infiltra nei cuori e nelle menti di individui permeabili. Le antenne già erano state rizzate tempo addietro, quando nel 2014 un rapporto del Daily Caller con l’allora direttore dell’FBI Robert Mueller denunciò al comitato del Senato l’emergenza carceri per la radicalizzazione in Occidente. Provando così a scoperchiare un vaso di Pandora in realtà già ben noto e dovutamente ignorato: è la galera il nuovo terreno fertile per i jihadisti che indottrinato e reclutano altri detenuti al progetto politico dell’islam. E se negli Usa le cose iniziano a cambiare, è in Europa che la situazione è quanto mai tragica. Il disastro delle carceri francesi - Le carceri francesi sono in subbuglio da tempo e a inizio 2018 gli agenti della polizia penitenziaria hanno vissuto, per circa due mesi, uno dei momenti peggiori tanto da scioperare per le continue aggressioni che erano costretti a subire da islamici reclusi per reati di terrorismo. Detenuti che al grido di “Allahu Akbar” minacciavano muniti di coltelli gli altri reclusi e continue aggressioni agli agenti stessi hanno contraddistinto l’inizio dell’anno. Eppure era tutto fin troppo prevedibile. Nel 2015 un rapporto ufficiale sulle carceri del senatore francese Jean-René Lecerf citava uno studio secondo il quale in quattro dei più grandi penitenziari francesi, oltre il 50 per cento dei detenuti è musulmano. Secondo il ministero della Giustizia, erano già 500 i musulmani detenuti per reati legati al terrorismo e altri 1200 erano i criminali identificati come islamici radicali. E se la popolazione carceraria dietro le sbarre viene abbandonata a se stessa, che gli agenti di custodia diventino le prime vittime di quella stessa violenza per la quale quei soggetti hanno conosciuto la galera non è che uno scontato effetto collaterale. E che il passo successivo sarebbero stati i civili - vedi Liegi - non era un azzardo di qualche malpensate. Entro il 2020 poi il 60 per cento dei jihadisti detenuti nelle carceri uscirà di prigione. Già entro qualche mese di 50 terroristi e 400 pericolosi radicalizzati che avranno scontato la loro pena torneranno a piede libero. Un’inchiesta del giornale “Le Parisien” rivela che a tutt’oggi sono 510 i detenuti in Francia condannati per fatti legati al terrorismo, ai quali si devono aggiungere i 1.200 detenuti per reati comuni che risultano “radicalizzati”. Buona parte dei 50 che saranno liberati a breve termine non hanno commesso veri e propri atti di terrorismo ma sono risultati legati a filiere di reclutamento per la jihad in Siria o in Iraq o sono stati individuati come fiancheggiatori. Ma se i veri dati della radicalizzazione dietro le sbarre sfuggono, gli infiniti segnali che hanno decretato anche il fallimento del programma di de-radicalizzazione dei jihadisti, fiore all’occhiello del nuovo governo francese, non sono passati invece inosservati. Le conclusioni iniziali della commissione parlamentare d’inchiesta già a gennaio 2017 chiedevano di aggiornare urgentemente i piani di de-radicalizzazione visto il naufragare di ogni buon proposito. Il piano ha investito 40 milioni di euro nella costruzione di 13 centri per la de-radicalizzazione dei jihadisti sul suolo francese: uno in ogni area metropolitana della Francia. L’emergenza è tale che il progetto voluto dal governo aveva tentato di isolare ben 3.600 individui per due anni in modo che il pericolo di radicalizzare i colleghi detenuti venisse evitato. Ma il ministro della Giustizia, Jean-Jacques Urvoas, ha ammesso poco più tardi che ospitarli in carceri separate li ha resi anche più violenti. Il rapporto ha inoltre denunciato, come accaduto già per l’accoglienza degli immigrati illegali, la creazione di un “business” anche per la de-radicalizzaione: associazioni e organizzazioni non governative - prive di qualunque esperienza in materia - si sono aggiudicate lucrosi appalti pubblici per sanare la piaga nazionale. “Diverse associazioni, in cerca di finanziamenti pubblici si sono orientate senza reale esperienza verso il settore della de-radicalizzazione”, ha ammesso la senatrice Benbassa. Propaganda jihadista nelle carceri britanniche - A svelare come avvenga la radicalizzazione dietro le sbarre sono invece le notizie che arrivano dalla Gran Bretagna, ove la minaccia è forse ancor più grave che in Francia. Anjem Choudary, uno dei più famosi esponenti del mondo islamico nel Regno Unito, per oltre vent’anni ha cercato in tutti i modi di promuovere i movimenti islamici più radicali, annunciando tranquillamente, “se mi arrestano e mi mettono in prigione, proseguirò in prigione, radicalizzerò là”. Una promessa che poi ha mantenuto continuando quanto già iniziato da altri. La normale prigione è l’ultimo posto dove dovrebbero essere inviati tutti coloro che hanno affiliazioni terroristiche e radicali. Nell’aprile 2016, una revisione ordinata dal ministero della Giustizia di Michael Gove rivelò il materiale estremista era stato trovato in oltre dieci carceri nel solo novembre 2015. Fu il Telegraph a pubblicare estratti del rapporto in cui si leggeva che “la letteratura sull’istinto islamico estremista è disponibile sugli scaffali delle prigioni britanniche e distribuita ai detenuti dai cappellani musulmani”. Le librerie degli imam che lavorano in prigione sono, infatti, riempite da opuscoli misogini e che approvano l’uccisione di apostati. L’esistenza di frange radicali tra i cappellani islamici autorizzati a entrare nelle prigioni britanniche e impegnati a reclutare nuovi adepti nel progetto politico dell’islam, non sorprese più di tanto. Gli innumerevoli collegamenti con le organizzazioni radicali come Hizb ut Tahir, Jamaat-e Islami, Al-Hikma Media e molti altri erano stati denunciati già nel 2009 dalla Quilliam Foundation in un rapporto dal titolo “Unlocking al-Qaeda”, che tra le altre cose metteva in evidenza proprio gli stretti legami con al-Qaeda identificati tra cappellani musulmani e detenuti. Nel rapporto veniva chiesta la rimozione di tutti i libri, giornali, opuscoli e trasmissioni televisive volti all’islamizzazione e alla radicalizzazione. Eppure, veniva chiesto di farlo con estrema cautela, visto e considerato che la qual cosa avrebbe messo una certa “fame” ai prigionieri che, già altamente alfabetizzati e pienamente consapevoli di ogni cosa, non avrebbero voluto esser privati del loro pane quotidiano. Quasi dieci anni più tardi i rapporti del governo rivelano che la famosa “letteratura radicale” è tranquillamente a disposizione dei detenuti. E dietro le sbarre ai detenuti viene proposto l’islam politico come “nuovo inizio”, come estensione del modus vivendi che li aveva portati al carcere, capace, però, di cambiare ancor più drammaticamente la destinazione e lo scopo dei loro gesti. Nel momento in cui si avvicinano per la prima volta al nuovo credo, da perfetti neofiti, iniziano infatti a seguire pedissequamente le regole dell’islam. Aiutati dalla letteratura messa loro a disposizione e dalla convivenza con individui già islamici fino al midollo e che fungono da modelli esistenziali, le carceri inglesi sfornano i terroristi di domani. Coadiuvati, inoltre, da quella correttezza politica che “permette all’estremismo di prosperare perché le guardie hanno troppa paura di affrontare i musulmani”, come denunciava ancora nel 2016 Peter Dominiczak, sul Telegraph, e citando un rapporto redatto dall’ex governatore della prigione, Ian Acheson, per il Ministero della Giustizia britannico. Acheson, nel 2016, avvertiva che il personale di supervisione veniva - e da allora nulla è cambiato - “spinto” a lasciare le sale di preghiera in nome di una libertà di culto e di espressione alla quale lo staff carcerario non poteva sottrarsi, temendo lo stigma sociale del razzismo. Il rapporto concludeva, poi, che la “sensibilità culturale” nei confronti dei prigionieri musulmani “si estendeva oltre i requisiti di base dell’osservanza della fede, e poteva inibire ogni tentativo di smorzare le opinioni estremiste”. Il rapporto aveva provato a mettere in guardia, inoltre, sul fatto che “i prigionieri estremisti islamici carismatici agiscono come ‘emiri’ sedicenti e esercitano un’influenza radicalizzante nella più ampia popolazione carceraria”. Segregazione volontaria e incoraggiamento a “conversioni aggressive”, l’ovvia conseguenza. Secondo la BBC, i detenuti musulmani rappresentavano già nel 2015 il 14,4% della popolazione carceraria del regno rispetto al 7,7% nel 2002. Nei dieci anni tra il 2004 e il 2014, il numero di musulmani nelle carceri è passato da 6.571 a 12.106. La prima reazione delle autorità inglesi rispetto a simili percentuali di islamici in carcere fu dare fiducia agli imam: saranno loro a offrire un aspetto dell’islam più “morbido”, sostenevano. O sono forse loro parte del problema? Il 12 maggio la BBC ha trasmesso un’indagine sulla radicalizzazione dei detenuti. Il documentario ha mandato in onda anche interviste a ex detenuti come Michael Coe, che “è andato in prigione come un gangster e l’ha lasciata come Mikaeel Ibrahim, convertito all’Islam”. Coe, nel reportage, attribuisce la sua conversione alla sua amicizia in prigione con il terrorista di al-Qaeda Dhiren Barot, incarcerato a vita da un tribunale britannico nel 2004 per aver complottato diversi attentati terroristici con bombole a gas. Ma a fare compagnia in carcere al signor Coe c’era, per esempio, anche Mizanur Raham, arrestato nel 2007 con l’accusa di “aizzare all’omicidio” la folla durante una manifestazione contro i vignettisti danesi in cui chiedeva “un altro 11 settembre in Danimarca, e poi in Spagna, in Francia … in tutta Europa”. “O Allah”, continuava, “distruggili tutti. Non vogliamo vederli a Baghdad e in Iraq mai più. Vogliamo vederli tornare a casa come cadaveri nei sacchi, vogliamo vedere il loro sangue scorrere a Fallujah”. Il rapporto della BBC faceva notare poi che i terroristi britannici come Richard Reid - passato alla storia come “l uomo delle scarpe bomba”, Jermaine Grant e Abdul Muah, si erano tutti radicalizzati in prigione. Secondo Ahtsham Ali, il consigliere musulmano per il servizio carcerario, “203 cappellani musulmani sono stati assunti dal servizio carcerario nel 2009”. Mentre un documento del Ministero della Giustizia del 2013 denunciava oltre 80 imam che a tempo pieno predicavano dietro le sbarre. Oggi sono molti di più. Le migliori menti del jihad - Ma quel che va detto con più forza è che dietro l’islamizzazione d’Europa e allo scopo di radicalizzare i criminali in carcere non lavorano degli sprovveduti. Se l’accademica britannica Sophhie Gilliat-Ray denunciava come in Gran Bretagna venissero spediti i soggetti migliori usciti dai seminari Deobandi, movimento indiano wahhabita noto per controllare le più eccellenti scuole giuridiche per imam e centri di formazione religiosi islamici di tutto mondo, il Times nel 2007 riportava l’importante diffusione del movimento Deobandi in Gran Bretagna. “Quasi la metà delle moschee britanniche è sotto il controllo di una setta islamica il cui principale predicatore odia i valori occidentali e ha invitato i musulmani avspargere sangue per Allah”, si leggeva sulle pagine del Times undici anni fa. E, ancora, veniva riportato che il movimento Deobandi, definito dal giornale come “ultra-conservatore” e che ha dato i natali alle migliori menti talebane, allora gestiva più di 600 delle 1.350 moschee britanniche. Su quante siano oggi, nessun rapporto della polizia ci viene in aiuto. In Germania il jihad cresce nelle carceri - In Germania a febbraio di quest’anno l’Ufficio federale di polizia criminale (BKA) lanciò lo stesso allarme di Francia e Inghilterra: sarebbero circa 150 i detenuti considerati tra i più pericolosi islamici nelle carceri tedesche secondo i dati ufficiali. Al Die Welt il ministro della Giustizia tedesco annunciava, da un lato un’imminente “ondata di estremisti nelle nostre carceri”, e dall’altro puntava il dito contro l’enorme numero di islamici già inquilini delle carceri: un numero tale da rappresentate “una delle più grandi sfide del Paese nella lotta alla de-radicalizzazione e prevenzione”. A dicembre, le autorità tedesche ammettevano di aver avviato indagini antiterroristiche nelle prigioni in un numero cinque volte superiore a quello dell’anno precedente e l’80 per cento di esse aveva una connessione con l’islam. Sempre il Die Welt ha citato l’associazione degli agenti penitenziari tedeschi, che temono per la loro incolumità. E che da tempo si limitano al minimo indispensabile, nei loro turni di lavoro, dopo l’episodio del detenuto islamico che aveva aggredito con le forbici le guardie cui era stato affidato, riducendole in condizioni gravissime. Le porte del carcere presto si apriranno per ognuno dei jihadisti e per quanti hanno indottrinato dietro le sbarre. Cosa succederà in Europa da qui a un paio d’anni? Egitto. Caso Regeni senza verità, da un governo all’altro di Riccardo Noury* Il Manifesto, 14 giugno 2018 Da Alfano a Salvini la valutazione dell’Egitto è la stessa: partner ineludibile. A nove mesi dal rientro del nostro ambasciatore al Cairo si sono susseguiti una serie di eventi che dimostrano come l’Italia non sia stato in grado di fare alcuna pressione sul piano del rispetto dei diritti. Nove mesi fa, l’ambasciata italiana al Cairo tornava in pieno servizio. Da allora, ogni 14 del mese, c’interroghiamo e interroghiamo le istituzioni del nostro paese: il ritorno dell’ambasciatore in Egitto ha reso più vicina la verità sul sequestro, sulla sparizione forzata, sulla tortura e sull’uccisione di Giulio Regeni? E ha messo il nostro paese maggiormente in grado di intervenire sulla drammatica situazione dei diritti umani in Egitto? Per rispondere a questa seconda domanda è sufficiente la cronologia degli eventi accaduti in queste ultime cinque settimane. Nella notte tra il 10 e l’11 maggio, Mohamed Lotfy, sua moglie Amal Fathy e il loro figlioletto subiscono un’irruzione in casa e sono portati in una stazione di polizia. Lotfy e suo figlio, che hanno anche cittadinanza svizzera, vengono rilasciati ore dopo. Amal Fathy è ancora in carcere. L’appello per chiedere la sua scarcerazione è qui: https://www.amnesty.it/appelli/annullare-le-accuse-amal-fathy/ È sempre antipatico parlare di un’attivista come “la moglie di…”. Ma in questo caso, è evidente che Fathy è in prigione per punire il marito, direttore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, Ong più volte perseguitata, insieme ai suoi attivisti (tra i quali Ahmad Abdallah, 120 giorni in prigione nel 2016) per aver deciso di fornire assistenza legale alla famiglia Regeni. Il 16 maggio viene arrestato, con l’accusa di “diffusione di notizie false”, l’attivista Shadi Ghazali, uno dei leader della rivoluzione del 2011. Il 22 maggio agli arresti finisce Haitham Mohamadein, sindacalista rivoluzionario. Il giorno dopo è la volta di Wael Abbas, blogger e giornalista, famoso per le sue denunce contro le violenze della polizia. Il 1° giugno termina, dopo 70 udienze, il processo nei confronti del fotogiornalista Mahmoud Abu Zeid, arrestato nell’agosto 2013 per aver scattato foto durante il massacro dei sit-in della Fratellanza musulmana al Cairo (oltre 800 morti): il verdetto è atteso il 30 giugno e potrebbe essere quello estremo della pena di morte. Il 6 giugno finisce in carcere Waleed Salim al-Shobakky, ricercatore statunitense, accusato di “terrorismo”. Quanto alla prima domanda, la risposta è che la verità non è più vicina. A meno che non si vogliano definire “passi avanti decisivi” la consegna di centinaia di pagine inscatolate in ordine casuale che dovrebbero contenere gli atti delle indagini condotte dalle autorità inquirenti del Cairo dal 3 febbraio 2016. O la messa a disposizione, 28 mesi dopo, delle immagini (o di quel che ne resta) riprese dalle telecamere a circuito chiuso lungo il percorso compiuto a piedi da Giulio Regeni la sera del 25 gennaio di due anni fa. La società civile italiana, nel frattempo, non molla e rilancia. Nell’ultimo mese altri Comuni italiani hanno aderito alla campagna “Verità per Giulio Regeni” e il 22 sarà la volta di Lucca e Capannori, rispettivamente il 254° e il 255°. Il numero delle università aderenti è salito a 39: il 21 maggio quella di Parma ha intitolato a Giulio l’aula studi e tra gli studenti in città è già diventata popolare l’espressione “Ci si vede alla Regeni!”. Il numero delle persone che hanno aderito al digiuno a staffetta promosso dai familiari di Giulio per sollecitare il rilascio di Amal Fathy ha superato il migliaio e dopo un mese non accenna a diminuire. Quanto alle rinnovate istituzioni politiche italiane, dal governo, quasi, non pervengono ancora notizie. Non è chiaro quale sarà, se ve ne sarà uno, il ruolo della difesa e della promozione dei diritti umani nella politica estera della Farnesina né tanto meno è noto se lo slogan “prima gli italiani” varrà anche per quelli assassinati all’estero. Da un governo all’altro, la valutazione dell’Egitto sembra pressoché la stessa: “Partner ineludibile” (Alfano dixit) o “paese troppo importante perché l’Italia non abbia relazioni stabili”, ha detto Salvini, 48 ore fa a Otto e mezzo: parole quest’ultime che, essendo però le prime di un rappresentante del governo su Giulio Regeni, sono un’aggravante, puzzano di realpolitik e davvero non lasciano presagire nulla di buono. La speranza è che un uomo dell’università qual è il presidente del Consiglio Giuseppe Conte abbia un riguardo umano specifico per il destino orribile (non casuale, ma frutto di un delitto di stato) di un uomo che dell’università aveva fatto il suo ambiente e luogo di ricerca. Nel frattempo, parole importanti sono state espresse dal presidente della Camera, Roberto Fico, che ho incontrato venerdì 8 insieme a una delegazione di Amnesty International Italia. Fico ha sottolineato come non sia il tempo della memoria bensì quello della ricerca di una verità da perseguire a ogni costo, sostanziale, forte e definitiva. Parole incoraggianti. Ci dicono che, almeno per alcuni rappresentanti delle istituzioni (e qui stiamo parlando della terza carica dello stato), Giulio fa ancora parte dell’interesse nazionale. *Portavoce Amnesty International Italia Francia. Suicida in carcere un complice dell’attentatore di Nizza di Giovanni Giacalone Il Giornale, 14 giugno 2018 È il secondo detenuto accusato di terrorismo che si toglie la vita nel carcere francese di Fleury-Mergois. Uno dei soggetti arrestati per l’attentato di Nizza del 14 luglio 2016 si è suicidato in carcere; si tratta del trentottenne cittadino albanese Aleksander Hassala. L’uomo, noto anche in Italia dove aveva vissuto, era detenuto nel carcere di Fleury-Merogis dal dicembre del 2016 ed è stato trovato venerdì scorso impiccato nella propria cella dove era da solo ma non in isolamento. La sua custodia cautelare era stata prorogata pochi giorni fa, ma l’accusa di terrorismo era in procinto di essere lasciata cadere. Hassala era stato accusato di aver fornito armi a una coppia di albanesi, precisamente Enkeledja Zace e Artan Henaj, entrambi residenti a Nizza, i quali le avrebbero poi rivendute a un amico di Mohamed Lahouaiej Bouhlel, l’attentatore di Nizza che uccise 86 persone utilizzando un camion come ariete sulla Promenade des Anglais. Nella vendita sarebbe stato coinvolto anche un franco-tunisino, tale Ramzi Arefa, uno spacciatore di cocaina e piccolo trafficante che era in contatto con la Zace. Nell’inchiesta era poi entrato anche un cugino di Henaj, un cittadino albanese di 24 anni. La Zace era tra l’altro già nota alle autorità italiane per traffico di immigrati. Il 28 maggio 2015 la donna era infatti stata arrestata nell’area dell’autoporto di Ventimiglia assieme al tunisino Mohamed Elhoui Aimen. A bordo della monovolume su cui viaggiavano erano stati trovati dieci immigrati clandestini (siriani ed eritrei) che avevano dovuto pagare 50 euro a testa per un passaggio in Francia. Un investigatore occupatosi dell’inchiesta ha reso noto che non era ancora stato stabilito se Hassala fosse al corrente del fatto che le armi sarebbero finite in mano a dei terroristi. Aleksander Hassala è il secondo detenuto accusato di terrorismo che si toglie la vita nel carcere francese di Fleury-Mergois; il 22 dicembre 2015 si era infatti suicidato Yassin Salhi, autore dell’attentato di Saint-Quentin-Fallavier del 26 giugno 2015, quando aveva decapitato il suo datore di lavoro e aveva fatto schiantare un furgone contro delle bombole di gas, ferendo due persone. Yemen. Attacco al porto di Hudaydah. Onu: rischio di grave crisi umanitaria Corriere della Sera, 14 giugno 2018 La coalizione araba a guida saudita ha iniziato l’offensiva alla roccaforte dei ribelli Huthi, unica via di accesso degli aiuti umanitari alla popolazione stremata dalla guerra. Nella città intrappolati :almeno 300 mila bambini. La coalizione araba guidata dai sauditi che sostiene il governo yemenita ha lanciato all’alba l’attacco alla città portuale di Hodeida, sulla costa est dello Yemen, roccaforte dei ribelli sciiti Huthi, vicini all’Iran. Le forze della coalizione hanno bombardato le postazioni dei guerriglieri sciiti, da terra e dal mare, dopo che i ribelli Houthi si sono rifiutati di ritirarsi dalla zona del porto, ignorando l’ultimatum di 48 ore lanciato lunedì. Il presidente Abdrabbuh Mansour Hadi, costretto all’esilio dagli Houthi nel febbraio 2015, ha dischiarato di “aver usato tutti i mezzi politici” per convincere gli sciiti a lasciare la città ma ormai tutti gli strumenti diplomatici “si sono esauriti”. L’allarme di Onu e Oxfam - La battaglia si annuncia la più sanguinosa di una guerra che in oltre tre anni ha raso al suolo lo Yemen:a Hodeidah ci sono ancora circa 700 mila abitanti che rischiano di rimanere intrappolati: l’Unicef avverte che fra centro e periferia sono presenti almeno 300 mila bambini, già in serie difficoltà per la mancanza di cibo, acqua e farmaci. L’Onu aveva tentato una mediazione per evitare l’assalto. L’inviato Martin Griffiths aveva proposto di mettere il porto sotto “controllo neutrale” e usarlo solo per aiuti umanitari ma la mediazione è fallita e ora si rischia “una catastrofe umanitaria senza precedenti”: il porto è la principale via di accesso degli aiuti umanitari alla popolazione yemenita, che da anni - a causa della guerra - si trova in condizioni di assoluta emergenza: oltre otto milioni di persone soffrono la fame. “All’emergenza più grave al mondo, potrebbe aggiungersi un massacro” è l’allarme lanciato da Oxfam. L’attacco, secondo le stime Onu, potrebbe provocare circa 250 mila vittime e centinaia di migliaia di feriti, recando ulteriori e indicibili sofferenze a un Paese sull’orlo della carestia, in cui 3 persone su 4 dipendono dagli aiuti umanitari e metà delle strutture sanitarie sono distrutte o inservibili. Iran. Arrestata Nasrin Sotoudeh, avvocato dei diritti umani e premio Sakharov di Francesca Caferri La Repubblica, 14 giugno 2018 Lo rende noto il marito, Reza Khandan. Ignote le motivazioni. In Iran Sotoudeh ha difeso numerosi prigionieri politici, incluse le donne arrestate di recente per essersi tolte il velo in luoghi pubblici. Nasrin Sotoudeh, nota avvocata per i diritti umani iraniana e premio Sakharov nel 2012, è stata arrestata. Lo rende noto il marito, Reza Khandan, precisando all’Isna di non essere stato informato delle accuse nei suoi confronti. “La polizia ci ha detto che è stata arrestata in base a una sentenza di tribunale già emessa in absentia con la condanna a 5 anni di carcere”, ha spiegato. In Iran Sotoudeh ha difeso numerosi prigionieri politici, giornalisti e donne, inclusi i membri della campagna “Le ragazze di Enghelab Street”, il gruppo di donne arrestate, dallo scorso gennaio, per essersi tolte il velo in luoghi pubblici e averlo sventolato. Sotoudeh era stata arrestata nel 2010 con l’accusa di diffondere propaganda e cospirare contro la sicurezza dello Stato. Nel 2011 fu condannata a 11 anni di carcere e sospesa dal lavoro per 20 anni. La sentenza fu poi ridotta in appello a sei anni e il divieto di lavoro di avvocato a 10 anni.