La riforma dell’ordinamento e la certezza della pena di *Stefania Carnevale e **Daniele Vicoli Il Fatto Quotidiano, 13 giugno 2018 Sulla riforma dell’ordinamento penitenziario sono del tutto legittime critiche mosse da diverse sensibilità. La materia, per la natura tecnica, tende però a essere fraintesa: alcune precisazioni, compatibili con le esigenze editoriali, sono opportune. La sospensione dell’ordine di esecuzione non mina alla radice la certezza della pena. È un meccanismo che, di regola, consente al condannato (se non già detenuto) di attendere in libertà la decisione della magistratura sull’eventuale applicazione di misure alternative, i cui presupposti sono vagliati caso per caso, senza automatismi di favore. La pena non verrà poi evitata, ma scontata in carcere o con diverse modalità sanzionatorie. Dal dicembre 2013 l’affidamento in prova può essere concesso ai condannati fino a quattro anni, previa valutazione del comportamento tenuto anche in libertà. La Corte costituzionale, di recente, ha allineato a tale soglia la norma sulla sospensione dell’ordine di esecuzione. La detenzione, subito seguita da un provvedimento che stabilisse forme diverse di espiazione, comporterebbe restrizioni inutili, un ingiustificato aggravio del circuito penitenziario e costi evitabili. La riforma, più che sui destinatari, inciderebbe sul ventaglio delle misure applicabili, ampliando la fruibilità di quella più restrittiva (la detenzione domiciliare) nell’intento di offrire alla magistratura un’opzione in più. Il decreto legislativo interverrebbe, come mai si era fatto dal 1975, per rendere più pregnanti le alternative al carcere: incrementando la base della decisione (grazie all’osservazione della personalità anche in ambiente esterno); arricchendo gli obblighi e i divieti in cui le misure si concretano (con accento sulle pratiche riparatorie e sullo svolgimento di attività a beneficio della collettività); potenziando i controlli sul loro rispetto. Si tratta di un’ottica antitetica a quella del paventato svuota-carceri. *Professore di Diritto Processuale Penale - Università di Ferrara **Professore di Diritto Processuale Penale - Università di Bologna Risponde Marco Travaglio Cari amici, se volete il mio parere, io trovo assurdo che i condannati a pene fino a quattro anni (oltre il 90% dei condannati dai tribunali italiani) non finiscano in carcere neppure per un giorno, salvo rarissime eccezioni. Per me, la certezza della pena si ha soltanto se la condanna a X anni di “reclusione” comporta davvero X anni di “reclusione”. In carcere, non a casa o ai servizi sociali. Altrimenti il sistema diventa criminogeno ed è quello che purtroppo accade da decenni in Italia, dove le regole penali sono un incentivo a delinquere. Il Presidente della Camera Fico: “tutelare i diritti dei detenuti” Ansa, 13 giugno 2018 “Il modo in cui sono tutelati i diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale è un tratto qualificante di uno Stato democratico, rispetto al quale la riflessione del Parlamento sarà centrale”. È quanto dichiara il presidente della Camera Roberto Fico riferendosi al suo incontro con Mauro Palma, che è il Garante nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale. “Nel nostro incontro - spiega Fico - ci siamo concentrati in particolare sulle condizioni dei migranti negli hotspot, ma anche su come avvengono concretamente i rimpatri. Fra i temi affrontati anche quello delle misure alternative alla detenzione, del carcere duro e dell'edilizia penitenziaria”. Giudice boccia bando per i mediatori culturali nelle carceri Ansa, 13 giugno 2018 Non possono essere solo italiani, decisione dopo ricorso Asgi. Non possono essere solo italiani i mediatori culturali, destinati ad operare all'interno del sistema carcerario per facilitare i rapporti con i detenuti stranieri. Lo ha stabilito il Tribunale di Milano che, su ricorso di Asgi (Associazione studi giuridici sull'immigrazione), Avvocati per niente e di una cittadina spagnola ha bocciato il bando di concorso promosso a febbraio dal Ministero di Giustizia per l'assunzione di 15 mediatori culturali per i quali era previsto il requisito della cittadinanza italiana. Un decreto prevede infatti che tutti i posti di lavoro del Ministero della Giustizia (oltre a quelli del Ministero della Difesa, degli Interni e delle Finanze) siano riservate ai cittadini italiani. Ora il Ministero, come ordinato dal giudice, dovrà riaprire il bando e, spiegano le associazioni, procedere alle prove solo dopo aver dato anche agli stranieri (purché cittadini Ue oppure lungo-soggiornanti, titolari di protezione o familiari di cittadini Ue) la possibilità di presentare domanda Rems, presìdi sanitari o prigioni bianche? di Vanessa Seffer L'Opinione, 13 giugno 2018 Nella Asl Roma 5 di Tivoli si è tenuto il primo tavolo italiano di discussione sulle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), con la significativa partecipazione di una rappresentanza delle persone assistite nelle strutture, oltre che dei sindaci in rappresentanza della cittadinanza ospitante le strutture, degli operatori sanitari e aziendali, del Garante dei detenuti. Per la prima volta ci si è seduti tutti insieme allo stesso tavolo per valutare le attività in corso e per discutere dei problemi da affrontare. Purtroppo a questo tavolo, per una problematica improvvisa, mancava la Procura che ha un ruolo importante in questa vicenda; non bisogna dimenticare inoltre che sebbene la riunione fosse in una Asl specifica, quella di Tivoli, nelle Rems ci vanno persone provenienti da ogni parte della regione. È importante la partecipazione degli organismi giudiziari, anche quelli che istruiscono i procedimenti, perché uno dei problemi più gravi è di lavorare sempre nella più stretta necessità. Abbiamo chiesto al Garante dei detenuti, Stefano Anastasìa, presente alla riunione, una sua opinione sulla situazione obiettivamente anomala che vivono buona parte delle persone ospitate nelle Rems, molte delle quali ancora in attesa di una decisione definitiva da parte della magistratura sulle loro condizioni di salute mentale, sulla loro pericolosità sociale, come se fossero, diciamo, in una sorta di misura cautelare. “È una situazione effettivamente anomala - spiega Anastasìa - rispetto alla quale c’è una difficoltà degli stessi operatori delle Rems ad avviare un piano terapeutico significativo, perché si tratta di persone che l’indomani potrebbero essere pienamente giudicate responsabili del fatto, tornare nell’istituto penitenziario, oppure addirittura essere prosciolte, assolte ed essere liberate, quindi questa è una difficoltà vera, che incide notevolmente sulla lista d’attesa, e su questo versante è importante una sensibilizzazione da parte della magistratura, quella che istruisce i procedimenti e decide sull’incapacità di intendere e di volere per evitare che troppo facilmente ci sia un’associazione tra malattia mentale e pericolosità sociale. Di fronte al presunto autore di reato che abbia problemi di salute mentale più o meno evidenti, la reazione in qualche modo immediata da parte degli organi giudiziari è quella di predisporre una misura cautelare, in questo modo le Rems si saturano facilmente”. Ma è una mancanza di sensibilità governativa o degli organi giudiziari? Secondo me è una preoccupazione da parte della magistratura che quando c’è un reato commesso da un presunto malato mentale ha come naturale propensione di mettere in qualche modo in sicurezza e sotto custodia queste persone e si ricorre con eccessiva facilità all’internamento nelle Rems, quindi è un problema culturale della magistratura; ma anche la società ha questi timori. Ci sono poche Rems? Come si risolve il problema delle liste d’attesa? Per un versante riducendo le persone indirizzate alle Rems, che sono immaginate dal legislatore come un’estrema ratio, quindi non tutti i malati di mente e gli autori di reato devono andarci. Bisogna avere una particolare pericolosità sociale, tale per cui non possono essere seguiti attraverso altre forme di cure e terapia o magari altre strutture. Qui si apre un altro versante: accanto alle Rems i dipartimenti di salute mentale devono in qualche modo sostenere una capacità di accoglienza da parte di residenze e strutture terapeutiche sul territorio che non necessariamente devono avere le caratteristiche delle Rems, cioè non necessariamente devono essere delle strutture chiuse. È chiaro che in assenza di questa capacità di presa in carico sul territorio tutto finisce sulle Rems e le Rems non reggono. Perché al Nord non ci sono liste d’attesa? Questo dipende da una diversa capacità di organizzazione dei servizi sul territorio. Non è che al Nord ci sia una maggiore capienza nelle Rems. La regione Lazio ha 91 posti in Rems sui 600 che ci sono in Italia, parliamo di una regione che non avendo 1/6 della popolazione italiana ha quasi 1/6 dei posti in Rems. Laddove ci sono servizi di salute mentale sul territorio che possono prendere in carico persone che abbiano commesso reati minori, seguirli e se necessario ospitarli in strutture terapeutiche territoriali, le Rems non si affollano. Viceversa, laddove il territorio non offre queste possibilità tutto viene rivolto alle strutture contenitive delle Rems. Si rischia di cadere dalla padella alla brace, in fondo gli ospedali giudiziari che sono stati chiusi erano questo. Se si vuole dare seguito a quella riforma bisogna essere capaci di costruire una capacità di presa in carico del territorio nel suo complesso, che riduca i tempi di permanenza per esempio in Rems. Quando gli operatori della Rems ritengono che il paziente sia maturo per lasciare la struttura in assenza di una struttura familiare solida, di una ospitalità, non si sa dove mandarle queste persone. Dopo 6 mesi-un anno si può rivalutare la pericolosità sociale e riconoscere che la persona può stare in una struttura residenziale terapeutica sul territorio, ma per far questo è necessario che il territorio sia attrezzato, accogliente. Quanti incontri sono previsti, a quando il prossimo tavolo? Non abbiamo uno scadenziario preciso, ma realisticamente quattro volte l’anno. Tra i partecipanti al tavolo tecnico anche una rappresentanza dei pazienti. Si rendono conto dell’importanza data loro in questa circostanza? Mi è sembrato che fossero ben consapevoli dell’importanza di questa partecipazione, che hanno utilizzato per rappresentare i problemi che hanno dentro. Ci hanno costretto ad ascoltare le loro problematiche di ordine pratico e organizzativo, della possibilità di svolgere attività di studio e di formazione al lavoro. Dopo aver superato i momenti di scompenso ritengono di dover superare anche queste sfide. La riforma della chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) e la nascita delle Rems non si può esaurire in questo semplice cambiamento, da quei grandi istituti a queste piccole strutture. Ma comporta una diversa modalità di funzionamento di tutti i servizi di salute mentale. Il lavoro è molto lungo e va esteso a tutti i servizi di salute mentale, sul territorio, dentro gli istituti di pena, dentro le Rems. La riforma è a tutto campo, questa è la sfida che abbiamo davanti, con tutta la fatica del caso. Per adesso il passo del “tavolo del dialogo” delle parti in causa, voluto dal Commissario straordinario della Asl Roma 5, Giuseppe Quintavalle, ha dato stimoli a una nuova forma di collaborazione che certamente porterà maggior chiarezza, obbligando ciascuno degli attori in campo a fare il suo lavoro, al meglio. Raccontare la giustizia di Francesco Occhetta francescoocchetta.it, 13 giugno 2018 Per il giornalismo, narrare la giustizia è come aggiungere un mattone alla costruzione di una casa comune. Oppure, può essere come far cadere una goccia d’acqua dopo l’altra sulla roccia della convivenza sociale, per frantumarla e farla saltare. È noto, anche il giornalismo si divide tra permissivismo e giustizialismo per essere il megafono del clima sociale. Non occorre fare esempi di reti televisive o testate che “incastrano” i fatti in un modello scelto a priori. Tuttavia, questo approccio dura fino a quando il giornalista non è toccato nella carne, quando è in carcere un collega, un familiare o un amico, o quando sul suo conto è in corso un’indagine giudiziaria. L’esperienza di essere toccati dalla giustizia, dai suoi limiti, dai costi e dal dolore che essa provoca, cambia anche l’approccio al racconto. Cambiano le parole, il tono di voce, la scelta delle immagini. Tutto questo, però, non basta. Il ruolo pubblico del giornalismo è chiamato a una riflessione culturale ancora più alta: in quale modo è possibile garantire la certezza della pena insieme alla certezza della rieducazione? Partiamo da qualche dato. Nei 195 istituti penitenziari italiani, alla fine del 2017 sono presenti 57.600 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 49.480. Il dato più simbolico riguarda il tasso di recidiva, che si aggira intorno al 69%. Dei 170 euro che rappresentano il costo diario di un detenuto, lo Stato spende solo 95 centesimi per l’educazione dei detenuti. Il carcere, e tutta la narrazione che vi ruota intorno, non rieduca. È semplicemente considerato una discarica sociale, come lo definiva Bauman, e serve per anestetizzare gli umori più violenti. Il modello vigente, quello della “giustizia retributiva”, risponde a tre interrogativi: quale legge è stata infranta; chi l’ha infranta; quale punizione dare. Questo modello ha portato a difendersi dal processo e non nel processo: lunghi tempi per una sentenza, la prescrizione dei reati, l’interesse degli attori del processo ad aumentare la tensione senza riconciliazione. Qui trovano terreno fertile i tanti processi mediatici, in cui la sentenza sociale viene data prima di quella della magistratura. Ma quante vite di innocenti o di familiari di rei sono state distrutte nella loro reputazione? La preoccupazione degli ergastolani che ho incontrato in questi ultimi mesi riguarda i figli, spesso macchiati dalle colpe dei padri anche a causa di un giornalismo poco responsabile. Chiediamoci: è davvero l’unico modello possibile questo modello di giustizia, che ripaga con altro male il male fatto, moltiplicandone gli effetti ed esasperando la soglia delle tensioni sociali? Verso un nuovo modello di giustizia - A questo modello si va affiancando quello della “giustizia riparativa”: un “prodotto culturale” anzitutto, che pone al centro dell’Ordinamento il dolore della vittima e la riparazione del reo. Questo capovolgimento della giustizia interpella anche il fondamento dell’agire del giornalismo. Cambia la prospettiva del racconto, chiamato a rispondere a tre domande: chi è colui che soffre? Qual è la sofferenza? Chi ha bisogno di essere guarito? Nell’ambito della giustizia riparativa la stessa definizione di reato non si limita all’infrazione del bene giuridico protetto dall’Ordinamento, come se l’offesa si limitasse allo Stato e alle sue leggi, ma considera anche e anzitutto una “rottura di relazioni” tra cittadini. La figura del detenuto persona è posta al centro dell’Ordinamento e le pene devono concretamente rispondere al principio di umanizzazione e avere una finalità rieducativa. Tecnicamente, il percorso si articola in alcuni fondamentali passaggi: 1. Il riconoscimento, da parte del reo, della propria responsabilità davanti alla vittima e alla società. 2. L’incontro con la vittima. 3. L’intervento della società attraverso la responsabilità diretta e la figura del mediatore. 4. L’elaborazione, nella vittima, della propria esperienza di dolore. 5. L’individuazione della riparazione, che può essere la ricomposizione di un oggetto o di una relazione. A chiederlo è la Raccomandazione n. 19/1999 del Consiglio d’Europa. Solo un giornalismo maturo può far fiorire una pianta che è già piena di gemme. Il diritto minorile in Italia funziona già secondo questo modello, in alcuni Stati europei l’idea si va consolidando: il salto culturale è passare dall’intimidazione della pena alla riabilitazione del detenuto, che incontra il dolore della vittima, prende coscienza del male fatto e concretamente ripristina un oggetto o una relazione rotta o distrutta. In Italia va fatta crescere, anche grazie all’aiuto del giornalismo, non la cultura dello scontro ma quella della mediazione. E occorre investire di più e meglio sulla formazione dei mediatori penali. Giustizia: rottura e ricostruzione della relazione - La giustizia è intesa come una relazione fra individui o gruppi e, attraverso l’idea classica della bilancia, esprime un’idea di equilibrio tra le parti che, in termini sia giuridici sia morali, rimanda ad un aspetto di doverosità verso gli altri e di esigibilità verso se stessi. È per questo che, nella storia, le varie definizioni di giustizia sono condizionate da una domanda fondamentale: chi è l’altro per me? Il fondamento rimanda sempre a una relazione da custodire o da guarire, come ci ricorda il termine ebraico sedaqah, “solidarietà con la comunità”. La responsabilità sociale di soddisfare tale bisogno è la pietra angolare della moralità sociale, e l’accettazione di tale responsabilità è il principio che ci permette di diventare persone morali. Tutto questo al netto da forme di buonismo, perché quelle della Genesi sono spesso storie di conflitti violenti tra fratelli: così i racconti che vedono come protagonisti Caino e Abele, Isacco e Ismaele, Esaù e Giacobbe, Giacobbe e Labano, Giuseppe e i suoi fratelli. Proprio grazie al realismo di Israele il modello è servito per regolare anche i rapporti fra gruppi e Stati, tribù e nazioni che si impegnano a trattarsi come fratelli, per ristabilire l’alleanza e il reciproco riconoscimento. Narrare la giustizia riparativa significa costruire, anziché distruggere, il tessuto sociale. In occasione di un convegno in Campidoglio, Anna Laura Braghetti, che freddò con 11 colpi Vittorio Bachelet, ricorda l’incontro avuto con suo figlio: “Ci siamo riconosciuti. Mi ha parlato e mi ha detto che bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato. Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”. La vicepresidente di Libera, Daniela Marcone, a cui è stato ammazzato il padre, spiega così la riparazione: “Ogni volta che viene commesso un crimine, questo coinvolge direttamente il reo e la vittima, ma in realtà si crea uno strappo anche ai danni della comunità in cui reo e vittima vivono: questo strappo occorre ripararlo”. Agnese Moro scrive ai terroristi del padre dopo aver riletto le terribili pagine dell’autopsia che parlano della sua agonia: “Dopo questa lettura - ha raccontato - sono stata davvero sicura di non aver annacquato nulla; che il mio cammino verso di voi, come il vostro verso di noi, è stato fatto senza semplificare e senza mettere niente tra parentesi”. Lina Evangelista, moglie di un poliziotto assassinato dai neofascisti dei Nar nel 1980, ci insegna: “Perdonare non significa dimenticare il passato, si ricorda tutto, ma in modo diverso”; e, dopo aver incontrato gli assassini del marito, confida: “I mostri si sono rivelati tutt’altro”. Il modello della giustizia riparativa non sostituisce quello classico e nemmeno fa sconti sulla pena, ma permette al reo di ritornare a essere persona. Gli esempi citati lo insegnano, è il fondamento spirituale a consentire un nuovo inizio, quello del ritorno alla coscienza: qui è possibile capire il bene e il male che si sono compiuti. È stato scritto che “un vero viaggio di scoperta non è cercare nuove terre ma avere nuovi occhi”. Vedere in modo diverso è l’inizio di una giustizia capovolta, in cui l’espiazione è volta, per il reo, a restituire la dignità perduta; per la vittima, a ritrovare ragioni per vivere. Per i cittadini, a essere responsabili della propria comunità. Intercettazioni. Spataro contro l’Anm: riforma giusta di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 13 giugno 2018 Se l’Associazione nazionale magistrati chiede di fermare l’entrata in vigore a luglio della legge Orlando sulle intercettazioni, e il neoministro 5 Stelle Bonafede assicura lo stop, va in contropiede il procuratore di Torino, Armando Spataro: “Sulla legge sento dire le più grandi fregnacce, l’Anm sbaglia profondamente a partire lancia in resta contro. Il presidente Anm Minisci parla come se non conoscesse la realtà, le sue sono parole che non rappresentano l’opinione prevalente dei magistrati: chi dice che la polizia porterà a spasso il pm, o non ha mai fatto il pm o lo ha fatto in maniera approssimativa”. Invece “io ringrazio il ministro della Giustizia uscente, e mi auguro che il nuovo non faccia un passo indietro, ma si attivi per le dotazioni tecniche utili a far funzionare la legge. La tutela della privacy comporterà a tutti qualche fatica in più, che però non danneggia le indagini ma serve a tutelare i diritti”. Il carabiniere raccontò alla moglie “A Cucchi quante botte gli abbiamo dato” di Edoardo Izzo La Stampa, 13 giugno 2018 “Raffaele D’Alessandro si sentiva come Rambo. Con quella divisa addosso diventava aggressivo, una volta mi disse “a Cucchi quante botte gli abbiamo dato”. A parlare è Anna Carino, ex moglie del carabiniere D’Alessandro accusato di omicidio preterintenzionale e di abuso di autorità, davanti ai giudici del tribunale di Roma nell’ambito del processo bis per il pestaggio e la morte del giovane geometra romano, Stefano Cucchi. La Carino ha ricordato che in occasione di un servizio tv su Cucchi D’Alessandro avrebbe confessato: “Quante gliene ne abbiamo datè, però Cucchi era un drogato di merda. “Me lo disse in dialetto. Dopo alcuni mesi ricevette una convocazione e mi aggiunse che anche altri erano stati pestati da lui ed altri, specie extracomunitari”. La storia della morte del giovane geometra arrestato per spaccio di droga provocava divertimento in D’Alessandro. “Non era certo preoccupato sino a quando non ricevette la lettera”. Poi sempre rispondendo alle domande del pm Giovanni Musarò ha detto: “Quando venni convocata dai magistrati avevo paura. Lui, in seguito alla separazione, aveva avuto reazioni violente. Faceva continue telefonate, minacce, atteggiamenti intimidatori. Litigavamo tantissimo”. In una occasione D’Alessandro avrebbe anche cercato di togliersi la vita. “Gli tolsi la pistola dalle sue mani. Lo convinsi a lasciar perdere. Lui non è aggressivo nei miei confronti. Una volta però mi prese per la maglietta e mi spostò vicino ad una finestra, lì si che ebbi paura”. I rapporti adesso sono interrotti. “È venuto il 6 maggio scorso alla comunione di uno dei figli. Non ci siamo salutati. Da circa un anno e mezzo non mi passa l’assegno di mantenimento. Comunque anche io dalla mia scelta di verità non ho avuto certo premi”. “All’inizio non parlai della storia dell’arresto di Cucchi per paura - ha continuato Anna - perché Raffaele era mio marito. Poi perché in fondo non gli credevo. Pensavo dicesse quelle cose per darsi delle arie in qualche modo”. In una occasione D’Alessandro avrebbe fatto vedere le foto di Cucchi cadavere ad un amico, in casa. “Diceva che era secco, secco e pieno di lividi e poi ha aggiunto che lui così lo aveva lasciato”. Il processo è quello che vede imputati cinque carabinieri in relazione alla morte di Cucchi avvenuta a Roma il 22 ottobre del 2009. I militari dell’Arma coinvolti sono, oltre a D’Alessandro: Alessio Di Bernardo e Francesco Tedesco, accusati di omicidio preterintenzionale e di abuso di autorità. Tedesco è accusato anche di falso e calunnia Roberto Mandolini, mentre della sola calunnia risponde Vincenzo Nicolardi. Minori: la lunga detenzione della madre giustifica lo stato di adottabilità di Mario Finocchiaro Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2018 Corte di cassazione - Sezione I civile - Sentenza 19 gennaio 2018 n. 1431. Lo stato detentivo di lunga durata (nella specie: sedici anni) della madre costituisce una causa di forza maggiore non transitoria che, oggettivamente, impedisce un adeguato svolgimento delle funzioni genitoriali, incidendo negativamente sul diritto del minore di vivere in un contesto familiare unito e sereno negli anni più delicati della sua crescita e giustifica pertanto la declaratoria dello stato di adottabilità del minore stesso. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza 1431/2018. Analogamente, per l'affermazione che in tema di adozione, lo stato di detenzione del genitore non integra gli estremi della forza maggiore di carattere transitorio (ipotizzata dall'ultima parte del comma 1 dell'art. 8 della l. n. 184 del 1983), la cui sussistenza, trascendendo la condotta e la volontà del soggetto obbligato, giustifica la mancata assistenza del minore, in quanto tale stato deve ritenersi imputabile alla condotta criminosa dal genitore stesso, volutamente posta in essere nella consapevolezza della possibile condanna e carcerazione, Cassazione, sentenze 10 giugno 1998, n. 5755; 11 marzo 1998, n. 2672; 22 luglio 1997, n. 6853 e 27 maggio 1995, n. 5911. Sempre sulla questione specifica (peraltro con riferimento a una ipotesi di temporaneo stato di detenzione del genitore), nel senso che il diritto del minore a crescere ed essere educato nell'ambito della famiglia di origine, considerata l'ambiente più adatto per un armonico sviluppo psicofisico, pur dovendo essere garantito anche mediante la predisposizione di interventi diretti a rimuovere situazioni di difficoltà e di disagio familiare, incontra i suoi limiti in presenza di uno stato di abbandono, ravvisabile allorché i genitori e i parenti più stretti non siano in grado di prestare, in via non transitoria, le cure necessarie, né di assicurare l'adempimento dell'obbligo di mantenere, educare e istruire la prole, cosicché la rescissione del legame familiare costituisca l'unico strumento idoneo a evitare al minore un più grave pregiudizio e a garantirgli assistenza e stabilità affettiva, Cassazione, sentenza 2 ottobre 2015, n. 19735, in Guida al diritto, 2015, f. 48, p. 57, ove la precisazione che la configurabilità di tale situazione non può essere esclusa in virtù dello stato di detenzione al quale il genitore sia temporaneamente assoggettato, trattandosi di una circostanza che, in quanto imputabile alla condotta criminosa del genitore stesso, volutamente posta in essere nella consapevolezza della possibile condanna e carcerazione, non integra gli estremi della causa di forza maggiore di carattere transitorio individuata dall'articolo 8 della legge n. 184 del 1983 quale causa di giustificazione della mancanza di assistenza. Sempre in argomento, in altra occasione, si è osservato (in una ottica parzialmente diversa) che in tema di adozione, l'art. 1 legge 4 maggio 1983 n. 184 (nel testo sostituito dalla legge 28 marzo 2001 n. 149) sancisce il diritto del minore di crescere e di essere educato nell'ambito della propria famiglia naturale, e mira a rendere effettivo questo diritto attraverso la predisposizione di interventi solidaristici di sostegno in caso di difficoltà della famiglia di origine, onde rimuovere le cause, di ordine economico o sociale, che possano precludere, in essa, una crescita serena del bambino. In questo contesto - di valorizzazione e di recupero, finché possibile, del legame di sangue, e anche dei vincoli, come quelli con i nonni, che affondano le loro radici nella tradizione familiare, la quale trova il suo riconoscimento nella Costituzione (art. 29) - si rende necessario un particolare rigore, da parte del giudice del merito, nella valutazione della situazione di abbandono del minore quale presupposto per la dichiarazione dello stato di adottabilità, a essa potendosi ricorrere solo in presenza di una situazione di carenza di cure materiali e morali, da parte dei genitori e degli stretti congiunti (e a prescindere dall'imputabilità a costoro di detta situazione), tale da pregiudicare, in modo grave e non transeunte, lo sviluppo e l'equilibrio psico-fisico del minore stesso, e sempre che detta situazione sia accertata in concreto sulla base di riscontri obiettivi, non potendo la verifica dello stato di abbandono del minore essere rimessa a una valutazione astratta, compiuta ex antea, alla stregua di un giudizio prognostico fondato su indizi privi di valenza assoluta. Da tanto consegue che - ove la madre del bambino sia impedita, a causa del suo stato di detenzione, destinato a protrarsi per un periodo di lunga durata, a prendersi cura del proprio figlio (non riconosciuto dal padre), ma si mostri sensibile alle esigenze affettive di questo, tanto da determinarsi a chiederne l'affidamento alla propria madre, già affidataria di altro figlio della donna, onde evitare di recidere definitivamente ogni legame con lui - la dichiarazione dello stato di abbandono del minore non può discendere dal mero apprezzamento negativo della personalità della nonna materna, in ipotesi anche di età avanzata, con la quale il bambino abbia convissuto instaurando significativi rapporti, ove non risultino elementi concreti realmente in grado di incidere negativamente sul processo di evoluzione, fisica e intellettuale, del bambino, impedendone una crescita serena e un accudimento adeguato, Cassazione, sentenza 14 maggio 2005 n. 10126, in Giustizia civile, 2006, I, p. 2487. Per la giurisprudenza costituzionale, nel senso che “questa Corte ha già avuto modo di affermare che la garanzia della convivenza del nucleo familiare si radica nelle norme costituzionali che assicurano protezione alla famiglia e in particolare, nell'ambito di questa, ai figli minori; e che il diritto e il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, e perciò di tenerli con sé, e il diritto dei genitori e dei figli minori ad una vita comune nel segno dell'unità della famiglia, sono (...) diritti fondamentali della persona che perciò spettano in via di principio anche agli stranieri, cui si riferisce l'art. 4 della legge n. 943 del 1986, Corte cost., sentenza 26 giugno 1997, n. 203, in Guida al Diritto, 1997, f. 26, p. 28, con nota di Giacalone, Il diritto del minore ad abitare con la famiglia è una timida apertura verso le unioni di fatto. L’omicidio stradale assorbe la guida in stato di ebbrezza di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2018 Chi causa un incidente mortale o con feriti mentre guida sotto effetto di alcol o droga ora risponde solo di omicidio stradale, sia pure nella misura aggravata prevista proprio nei casi di abuso di alcolici o alterazione da stupefacenti. Quindi, rispetto alla normativa precedente alla legge sull’omicidio stradale (la 41/2016), non si deve più venire imputati anche per guida in stato di ebbrezza o sotto effetto di droghe: la Cassazione, nella sentenza 26857/2018 depositata ieri, ritiene che altrimenti si violerebbe il principio del ne bis in idem. Questa pronuncia consolida l’indirizzo espresso dalla stessa sezione (la Quarta penale) un anno e mezzo fa (sentenza 2403/2017) a proposito di un omicidio stradale commesso guidando in stato di ebbrezza quando ancora non era in vigore la legge 41/2016 che ha introdotto nel Codice penale gli articoli 589-bis e 590-bis. Ora viene affermato esplicitamente che il principio vale nei casi cui si applica la norma attuale, compresi quelli in cui il reato è quello di lesioni stradali e l’alterazione è dovuta non ad alcol ma a droghe. In sostanza, la precedente normativa (articoli 589 e 590 del Codice penale su omicidio e lesioni colpose) prevedeva aggravanti per fatti commessi violando le norme sulla circolazione stradale da soggetti con tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi/litro. La normativa attuale, invece, ha un ambito delineato in modo più preciso: si applica non a tutti i conducenti ma solo a quelli di veicoli a motore e precisa esplicitamente che circostanze come lo stato di ebbrezza sono aggravanti dell’ipotesi-base di omicidio stradale. Da ciò si può ritenere che la legge 41/2016 abbia introdotto un reato complesso, che quindi ne assorbe altri, cioè quelli relativi alle aggravanti. Essi sono la guida in stato di ebbrezza (articolo 186 del Codice della strada) e quella sotto effetto di droghe (articolo 187), che quindi non vanno contestati separatamente al conducente. Infatti, questi li “paga” in termini di aggravanti dell’omicidio stradale o delle lesioni stradali. Toscana: suicidi in carcere, la Regione vara un piano di prevenzione cesda.net, 13 giugno 2018 Il suicidio è la seconda causa di morte in carcere. E le scelte suicidarie, e anche quelle autolesive, sono in molti casi conseguenza non necessariamente di condizioni di patologia, quanto delle condizioni di vita all’interno degli istituti di pena. Nel luglio 2017 il governo ha varato il “Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti”. La Toscana, con una delibera approvata dalla giunta nel corso della sua ultima seduta, ha recepito il Piano nazionale, varando ora il proprio “Piano per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti della Toscana, e linee di indirizzo per i Piani locali”. Il Piano, che è stato sottoscritto dal Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per la Toscana e l’Umbria, da rappresentanti dell’Agenzia regionale di sanità (Ars) della Toscana e dai referenti per la salute in carcere delle tre Asl toscane, comprende anche gli strumenti clinici utili per gli operatori sanitari al fine di individuare il livello di rischio suicidario dei detenuti negli istituti penitenziari della Toscana. Per essere attuato, il Piano necessita di un articolato e sistematico programma di informazione e formazione diretto a tutti gli operatori coinvolti, in particolare quelli più a diretto contatto con la quotidianità dei detenuti, per aumentare la consapevolezza e fornire elementi di conoscenza teorica e operativa, che consentano di adottare comportamenti e interventi adeguati ed efficaci, sia nel momento della prevenzione che nelle situazioni di emergenza. Il Piano, finanziato con 32.900 euro per attività di formazione e per un’indagine epidemiologica curata dall’Ars sullo stato di salute nelle carceri, impegna le Asl a redigere, entro tre mesi dall’approvazione del Piano, concordemente con l’amministrazione penitenziaria e avvalendosi dei propri referenti per la salute in carcere, il Piano locale per la prevenzione delle condotte suicidarie negli istituti penitenziari del proprio territorio. Suicidio in carcere, i fattori di rischio - Nel Piano si individuano varie tipologie di fattori di rischio per il suicidio in carcere. Fattori organizzativi: capienza, organico del personale, livelli igienico-sanitari delle strutture, alcune procedure e abitudini come l’uso dei fornelli a gas, l’uso eccessivo di alcol, l’uso, in dose non terapeutica, di psicofarmaci prescritti. Fattori situazionali: ritenersi vittima di un giudizio iniquo e/o offensivo; collocazione in isolamento; notizie traumatiche che arrivano dall’esterno, spesso dalla famiglia; relazioni affettive e sessuali; contatti con la famiglia o le persone affettivamente importanti per il detenuto e difficoltà ad ottenere i permessi. Aspetti sociosanitari: necessità di aumentare la capacità di risposta ai bisogni socio-familiari delle persone detenute; aumentare l’assistenza psicologica negli istituti penitenziari. I dati sul suicidio in carcere in Europa e in Italia - Il 25% di tutti i decessi che avvengono negli istituti penitenziari europei sono dovuti a suicidio (che è la seconda causa di morte in carcere). Nel 2014 il tasso medio europeo di suicidio in carcere era di 7 ogni 10.000 detenuti, rispetto a 1,1 ogni 10.000 persone registrato nella popolazione generale europea. Sempre in Europa, i Paesi in cui si registra il più alto tasso di suicidio in ambito penitenziario (oltre 15 suicidi ogni 10.000 detenuti) sono Portogallo, Norvegia e Cipro. In Italia nel corso del 2016 (ultimo dato disponibile) si sono verificati 39 suicidi in ambito penitenziario. Considerando che in quell’anno il numero di detenuti mediamente presenti è stato di 53.984, il valore medio di suicidi è pari a 7,2 ogni 10.000 detenuti. Per valutare l’importanza del fenomeno, il tasso di suicidio registrato in Italia nella popolazione generale (anno 2015) è di 0,7 ogni 10.000 residenti. La rilevanza del fenomeno ha fatto sì che l’Organizzazione Mondiale della Sanità dedicasse alla prevenzione del suicidio nelle carceri uno specifico documento rivolto al personale sanitario e penitenziario responsabile della salute e della sicurezza dei detenuti. Nel documento si individuano numerosi fattori di rischio che, interagendo in varia misura tra di loro, conferiscono all’individuo un rischio elevato di suicidio: fattori socio-culturali, disturbi psichiatrici, substrato biologico, fattori genetici, stress. A questo proposito, uno studio austriaco ha indicato cinque fattori di rischio individuali e ambientali: storia di tentativo o comunicazione di intento suicidario; diagnosi psichiatrica; trattamento psicofarmacologico durante la detenzione; reato ad alto indice di violenza; sistemazione in cella singola. Il fenomeno in Toscana - La Toscana, con 16 istituti per adulti e 2 per minori, rappresenta una delle regioni con il maggior numero di strutture detentive presenti sul territorio italiano. Al 31 dicembre 2017 erano presenti 3.281 detenuti adulti, di cui 129 donne (3,7%) e 1.617 cittadini stranieri (49,6%). Complessivamente la percentuale di affollamento risulta inferiore al 5%, ma si registra una grande disomogeneità territoriale, con strutture (tra cui Sollicciano a Firenze), dove il valore è molto elevato. Da un punto di vista demografico, si tratta di una popolazione mediamente giovane (il 48,7% ha meno di 40 anni), con titolo di studio medio basso, celibe nel 33,4% dei casi. In linea con i dati internazionali, il principale gruppo di patologie è quello dei disturbi psichici (34,9% delle diagnosi), e in particolare il disturbo da dipendenza da sostanze. L’altro grande gruppo di patologie riguarda le malattie infettive e parassitarie (11,4% dei detenuti). Il terzo, i disturbi dell’apparato digerente (9,7% dei detenuti). Dal 2012 al 2017, nelle strutture detentive della Toscana sono avvenuti complessivamente 23 suicidi: 7 nel 2012, 1 nel 2013, 5 nel 2014, 3 nel 2015, 6 nel 2016, 1 nel 2017. Molto più numerosi i tentati suicidi: dal 2012 al 2017, sono stati 737: 211 nel 2012, 162 nel 2013, 112 nel 2014, 132 nel 2015, 125 nel 2016, 103 nel 2017. E davvero tanti gli atti di autolesionismo: dal 2012 al 2017, 6.520: 1.226 nel 2012, 1.191 nel 2013, 1.047 nel 2014, 1.105 nel 2015, 1.103 nel 2016, 848 nel 2017. La consistente riduzione degli atti autolesivi nell’ultimo anno è il risultato delle varie azioni adottate sia a livello regionale che a livello locale. Calabria: Cgm-Centro San Vitaliano, intesa per dare una speranza ai detenuti corrieredellacalabria.it, 13 giugno 2018 Sottoscritto l’accordo tra il Centro di giustizia minorile della Calabria e gruppo Citrigno: al via tirocini formativi e lavorativi per i ragazzi in carico ai servizi minorili. Una speranza concreta per i minori detenuti e anche un esperimento “pilota” che trasmette l’idea di una Calabria che non è malaffare ma è solidarietà e inclusione. A questi obiettivi tende il protocollo d’intesa sottoscritto tra il Centro per la Giustizia minorile per la Calabria, rappresentato dal direttore, Isabella Mastropasqua e il Centro clinico San Vitaliano di Catanzaro, guidato dal rappresentante legale Alfredo Citrigno. L’intesa è finalizzata all’avvio di tirocini formativi-lavorativi a favore dei ragazzi in carico ai servizi minorili della giustizia della Calabria. Il protocollo d’intesa - L’accordo - è stato evidenziato nella presentazione del protocollo tra Cgm e Centro San Vitaliano - “rappresenta una innovativa modalità di reinserimento sociale dei minori e giovani adulti entrati nel circuito penale che si affianca alle numerose attività pedagogico-educative offerte dalla giustizia minorile e rappresenta un’opportunità concreta di sinergie operative tra ente pubblico e il privato sociale; un passo importante verso la costruzione della solidarietà da parte delle imprese che perseguono anche finalità etiche, strumento di crescita e di arricchimento per chi offre il lavoro, per chi ne beneficia e per l’intero contesto sociale”. I minori e i giovani adulti in carico ai servizi minorili - è riportato nel protocollo - parteciperanno ad attività formative e lavorative che saranno individuate tra i servizi gestiti dal Centro San Vitaliano, attraverso l’attivazione da parte della società di tirocini della durata minima di tre mesi. Gli interventi - Secondo Isabella Mastropasqua “con questa intesa perseguiamo due finalità. La prima è molto concreta, pratica: quella di costruire un percorso di reinserimento per i ragazzi che entrano nel circuito penale dando loro l’opportunità per apprendere un mestiere, spendersi con un titolo e acquisire competenze. Poi, c’è una finalità strategica, direi quasi politica. È necessario - ha spiegato il direttore del Centro giustizia minorile - investire di più nel costruire solidarietà diffuse sul territorio, costruire alleanze e strategie a livello primo tutto culturale, sotto questo aspetto va apprezzato lo sforzo del San Vitaliano di accogliere nel suo interno un ragazzo che ha commesso un reato. Spero che questo protocollo sia da stimolo anche ad altre realtà e ad altre imprese di questo territorio, che è molto sensibile, affinché facciano comunità e - ha sostenuto Mastropasqua - dimostrino di essere capaci di essere vicine le une alle altre e di prendersi a cuore le esigenze delle future generazioni”. Il direttore del Cgm ha inoltre lanciato un appello a tutte le componenti della società calabrese “anche perché è fondamentale smantellare nei giovani detenuti e in generale nelle giovani generazioni il senso di grande sfiducia verso le istituzioni”. Alfredo Citrigno ha illustrato la genesi del progetto, partito con un’esperienza fatta in un’altra struttura del gruppo aziendale, Villa Adelchi a Longobardi: “Abbiamo ospitato un detenuto del carcere di Paola, laureato in Scienza dell’educazione, al quale abbiamo dato la possibilità di un tirocinio formativo di sei mesi nella nostra struttura. Il tirocinio - ha ricordato Alfredo Citrigno - è stato molto positivo sia per lui, sia per i nostri pazienti sia i nostri collaboratori. Da qui è nata la nostra volontà di proseguire in questa linea di impegno sociale e l’intenzione di coinvolgere il Centro di giustizia minorile. E siamo riusciti anche ad abbattere i tempi e a superare le solite pastoie della burocrazia completando l’iter nel giro di nemmeno un mese. E questo è stato possibile perché - ha detto ancora il rappresentante legale del Centro San Vitaliano - in questa sfida abbiamo messo il cuore”. Ora - ha concluso Citrigno - “la nostra mission è quella di non far perdere la speranza ai giovani detenuti e soprattutto di non farli diversi, ed è quella di fare da sprone anche ad altre realtà a perseguire la strada dell’impegno sociale”. Bolzano: “Il carcere è esausto” di Sarah Franzosini salto.bz, 13 giugno 2018 Il radicale Valcanover scrive al presidente Kompatscher e al vescovo Muser: “Venite a vedere come si vive nella struttura di via Dante”. Foppa: “Esperienza sconvolgente”. Una lettera al presidente della Provincia Arno Kompatscher e al vescovo Ivo Muser per smuovere le coscienze. L’avvocato radicale Fabio Valcanover (e non solo lui) le tenta tutte per cercare una soluzione alla cronica inadeguatezza della Casa Circondariale di Bolzano finché il nuovo carcere sarà operativo. È trascorso un anno e poco è cambiato. Nel 2017 furono Riccardo Dello Sbarba (Verdi), l’allora senatore Francesco Palermo e lo stesso Valcanover a visitare il carcere di via Dante certificandone le evidenti lacune strutturali, fra casi di autolesionismo e problemi di carenza di personale. Ieri (11 giugno) il gruppo consiliare provinciale verde (Dello Sbarba, Brigitte Foppa e Hans Heiss), insieme all’immancabile avvocato trentino, hanno ripetuto l’esperienza. Il colloquio con la direttrice Rita Nuzzaci ha confermato i problemi relativi alla scarsità di agenti di polizia penitenziaria (60 sono in servizio ma dovrebbero essere 75), di personale amministrativo (situazione ancora più drammatica: solo 11 a fronte delle 23 unità che dovrebbero comporre la pianta organica) e di educatori (sono 2, ma sono sull’orlo della pensione, e dovrebbero essere 4). Rinnovata quindi, da parte della compagine, la richiesta di istituire la figura del Garante dei detenuti e di un Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (mozione già approvata in consiglio regionale). Si preme inoltre perché si manifesti la volontà politica da parte della Provincia, attraverso la relativa norma di attuazione, di coprire il costo degli stipendi del personale civile. “Era la prima volta nella mia vita che entravo in un carcere e vedere le condizioni in cui vivono i detenuti, gli spazi ristretti in cui passano le loro giornate, mi ha toccata profondamente. L’impegno della direttrice Nuzzaci è indubbio ma la struttura è fatiscente, rispecchia il cliché di una prigione d’altri tempi”, racconta a salto.bz la consigliera provinciale dei Verdi Foppa. “La cosa più sconvolgente è la dimensione del tempo, il giorno e la notte trascorrono lenti, alle 18 le celle vengono chiuse, anche l’estate, i detenuti sono autorizzati a stare in cortile, una striscia d’asfalto, 4 ore al giorno. Non so come si possa pensare di uscire sani dopo un’esperienza del genere”, osserva ancora Foppa sottolineando infine: “È inconcepibile questa discrepanza fra realtà decadenti come questa, di cui si sa ancora troppo poco all’esterno, e il benessere di cui gode la nostra Provincia”. L’appello - Per sollecitare un intervento da parte della Provincia Valcanover si rivolge direttamente al Landeshauptmann Kompatscher, ma anche al vescovo Muser, invitandoli, a visitare il carcere, certo che la loro visita possa “arrecare un po’ di sollievo” ai detenuti e agli impiegati della struttura. Questo il contenuto della missiva inviata alle due autorità: “Ieri, durante la visita ispettiva con i consiglieri dei Verdi del Südtirol l’Alto Adige, la Casa Circondariale di Bolzano mi è apparsa “esausta” (intendo dire le mura, il contenitore, la struttura; non certo le persone che vi lavorano). Nonostante la buona volontà, immensa, gli sforzi pregevoli di quanti vi lavorano quotidianamente. La struttura è piena. Le persone che vivono il carcere (perché lì lavorano o perché stanno scontando una pena) risentono dell’assenza di importanti interventi di manutenzione e che permettano il funzionamento del trattamento secondo le finalità che l’Ordinamento penitenziario e la Costituzione attribuiscono alla pena. Interventi che - forse - si ritardano, si posticipano, in vista di una futura nuova struttura carceraria. E intanto, ogni giorno, il carcere ospita detenuti e personale dell’Amministrazione penitenziaria, tutte persone che condividono la stessa condizione. Ma l’impegno rimane saldo ai valori della Costituzione. Gentile presidente, Arno Kompatscher, Sua Eccellenza, Ivo Muser, vi chiedo di poter entrare in visita alla Casa Circondariale di Bolzano (eventualmente permettendomi di accompagnarvi) sapendo che la Vostra visita potrebbe arrecare un po’ di sollievo a tutti loro. E forse accelerare i lavori per la costruzione della nuova Casa Circondariale e forse anche garantire qualche lavoro di manutenzione. Attendo una Vostra risposta. Con distinti saluti”. Avv. Fabio Valcanover Livorno: carcere Le Sughere, urgono interventi concreti costaovest.info, 13 giugno 2018 A seguito della visita del Garante Regionale dei detenuti Franco Corleone alla Casa Circondariale delle Sughere, il sindaco Filippo Nogarin ha tenuto a Palazzo Comunale una conferenza stampa per illustrare le problematiche in cui versa il carcere livornese e le azioni che si intende intraprendere per arrivare a soluzione. Al suo fianco anche il Garante Corleone e il Garante dei detenuti del Comune di Livorno Giovanni De Peppo. “Il carcere delle Sughere deve essere posto in primo piano all’attenzione del Governo - ha detto Filippo Nogarin- I problemi all’interno sono tanti, la situazione è insostenibile ed anche il suicidio del detenuto del 5 giugno scorso è un suicidio annunciato. Non voglio dire che non ci sia la volontà di intervenire - ha precisato il sindaco ricordando tra l’altro le rassicurazioni ricevute dal responsabile del Provveditorato della Amministrazione Penitenziaria di Toscana e Umbria, Antonio Fullone sui tempi per l’inizio di lavori di ristrutturazione - ma il nodo sta nel dedalo burocratico di carte e fascicoli che passano da un dipartimento all’altro e che non portano mai a conclusione le procedure di appalto. Questo non è accettabile. Lo Stato deve farsi garante perché invece i lavori possano partire al più presto per la vita dei carcerati e per chi ci lavora”. “Il fatto che siamo qui in questa conferenza a palazzo - ha sottolineato il Garante Corleone - significa che il carcere non è abbandonato dalla città”. Ha quindi aggiunto: “È troppo tempo che i problemi che lo rendono inadeguato e critico sussistono, quando invece l’istituto penitenziario Le Sughere avrebbe tutti gli spazi per consentire una pena accettabile sul piano dei diritti”. La Casa Circondariale “Le Sughere” che al momento custodisce 248 persone - di cui 106 per detenzione e piccolo spaccio - presenta problemi di ordine strutturale che ostacolano il funzionamento delle attività all’interno dell’istituto, ma anche di mancanza di strategie di trattamento per la riabilitazione dei detenuti dovuta alla carenza di personale addetto. Sono stati ricordati in conferenza i problemi strutturali che riguardano l’inagibilità delle docce per i detenuti del “transito”, costretti a fruire a turno delle due docce dello “smistamento” con disagio sia per loro che per gli agenti di custodia. La questione irrisolta della cucina dell’Alta Sorveglianza, attrezzata e bloccata per una problematica antincendio. Lo stesso problema sussiste per la piccola cucina, non funzionante, abbandonata, ma ancora attrezzata con strumentazione recuperabile, dell’ex femminile. E ancora il reparto verde, dove attualmente si registrano notevoli infiltrazioni dovute ai lavori sulle sovrastanti docce. Occorrono interventi urgenti poiché le infiltrazioni potrebbero determinare gravi danni alle strutture. La cucina potrebbe assicurare il vitto per il reparto ex femminile (media sicurezza) evitando il trasporto all’aperto per centinaia di metri ed evidentemente assicurando “pasti” caldi soprattutto nei mesi più freddi. Attualmente tutti i pasti sono confezionati da una cucina centrale in condizioni assai precarie. Tra i problemi urgenti da risolvere anche l’intero sistema di sicurezza che non funziona dopo l’alluvione del settembre scorso. Server allagati e telecomandi fuori uso comportano un grave dispendio di energie e presenze fisiche da parte della polizia penitenziaria. Nell’Alta Sorveglianza il mancato funzionamento dell’ascensore costringe i detenuti a trascinare per le scale i carrelli del vitto con un disagio considerevole. Del tutto fuori uso il grande salone indispensabile per spettacoli, eventi, attività di riabilitazione. Attualmente tutto si svolge nei corridoi con evidente disagio e scoraggiamento da parte del volontariato che ha già avanzato proposte. Ultima segnalazione: la ludoteca. Già attrezzata e a disposizione delle famiglie dei detenuti- realizzata con il supporto di Ikea e del Telefono Azzurro - deve essere ancora “inaugurata”. Sul piano delle attività di trattamento è stata inoltre denunciata la mancanza di educatori. Le attività di fatto oggi si reggono solo su tre operatrici di cui una ricopre funzioni di responsabile dell’area e assomma quindi innumerevoli competenze, funzioni e responsabilità che non facilitano certo l’attivazione di proposte e iniziative. Forlì: nuovo carcere, “percorso da rifare col nuovo governo” forlitoday.it, 13 giugno 2018 Si spera sul nuovo Governo per far ripartire il calvario del cantiere infinito del nuovo carcere del Quattro. Lo spiega il sindaco Davide Drei in Consiglio Comunale. Si spera sul nuovo Governo per far ripartire il calvario del cantiere infinito del nuovo carcere del Quattro. Lo spiega il sindaco Davide Drei in Consiglio Comunale in risposta ad un question time di Fabrizio Ragni, capogruppo di Forza Italia. Drei ricorda che “si è sempre insistito negli anni presso il Governo per il completamento dei lavori, con la collaborazione dei deputati locali fino ad un incontro con l'allora sottosegretario Migliore”. All'epoca si parlava del 2018 per la riassegnazione dei lavori, nel 2019 il completamento dell'opera. Ma ora, continua Drei, “c'è un nuovo governo e nuovi rappresentanti locali in Parlamento, riprenderemo l'argomento del cantiere”. Il sindaco si lancia anche nelle idee per il futuro del complesso della Rocca, anche se di progetti all'orizzonte - finché c'è il carcere - non se ne vedono. Il sindaco ricorda la difficoltà delle due proprietà: “La Rocca è del Comune e deve essere rimessa in sicurezza, mentre la cittadella è proprietà del Demanio, ed ogni utilizzo dovrà essere concordato con lo Stato. La mia idea è che in futuro la Rocca di Caterina torni ad essere un bene culturale rivissuto dai forlivesi, mentre sulla cittadella non c'è alcuna ipoteca, ricordo che è adiacente al grande investimento del campus universitario e potrebbe essere funzionale alla cittadella della conoscenza”. Ragni ricorda i “tempi lunghi, lunghissimi, biblici … visto che dal lontano 2005 si attende l’attivazione del nuovo carcere nel quartiere Quattro e con i cantieri che ripartiranno non prima del 2019 dovremo attenderci l’utilizzo dell’area della Rocca non prima di 6 anni”. Il capogruppo comunale di Forza Italia chiede “che la voce dell’amministrazione comunale si faccia sentire più forte” presso i nuovi parlamentari, il governo centrale, il ministero della giustizia ed il Provveditorato dell'amministrazione penitenziaria regionale “per accelerare l’iter e procedere in tempi più celeri - anche stante il sovraffollamento carcerario - al trasferimento dell’istituto di pena nell’altra area già individuata”. Per il futuro lontano Forza Italia chiede la Rocca di Caterina Sforza sia destinata a più congrui utilizzi di tipo culturale-artistico-museale come ideale secondo polo culturale ed espositivo della città di Forlì dopo l'area del San Domenico. Genova: 20enne ucciso da un agente durante il Tso di Giuseppe Gaetano Corriere della Sera, 13 giugno 2018 La madre: “L’ha ammazzato come un cane, indegno della divisa”. Le accuse della madre del 21enne ecuadoriano ucciso domenica da un poliziotto durante il trattamento sanitario obbligatorio chiesto proprio dalle madre: “Non merita quella divisa, se la tolga”. Il giovane ucciso da 5 colpi sparati al torace. “All’agente che ha sparato a mio figlio dico che è un incompetente e non merita la divisa, se la deve togliere”. È il duro atto d’accusa di Lourdes, madre di Jefferson Tomalà, il ragazzo di 21 anni ucciso in casa a Genova da un poliziotto, domenica pomeriggio, dopo aver ferito a coltellate un suo collega. La donna, accompagnata da due figli e dalla compagna di Jefferson, madre di una bimba di due mesi, ha parlato nello studio del legale di famiglia, chiedendo giustizia per il ragazzo. Dalla Procura del capoluogo ligure al capo della polizia Franco Gabrielli, dal ministro dell’Interno Matteo Salvini al governatore ligure Giovanni Toti è arrivata finora una levata di scudi attorno ai due agenti. La ricostruzione: cinque colpi sparati al torace - I poliziotti erano intervenuti nello stabile a seguito della telefonata al 112 proprio della madre, preoccupata per la crisi di nervi del figlio, che aveva litigato con la compagna. La donna però avrebbe chiesto all’operatore del centralino solo l’intervento dell’ambulanza medica, per sollecitare un trattamento sanitario obbligatorio, e non anche quello della volante della squadra mobile. La situazione sarebbe precipitata quando, nel tentativo di placare l’ira scatenata nel giovane alla loro vista, gli agenti gli hanno spruzzato addosso dello spray al peperoncino, proprio durante il tso; col risultato di aizzare ancor più il ragazzo e costringere uno dei due agenti ad aprire il fuoco uccidendolo - secondo quanto emerso dall’esame esterno del cadavere effettuato dal medico legale - con almeno cinque colpi di pistola sparati all’altezza del torace che hanno colpito più punti vitali. La tesi dell’accusa - L’autopsia vera e propria verrà eseguita lunedì ma il numero e la direzione dei colpi esplosi “ci fanno porre delle domande - spiegano gli avvocati Andrea e Maurizio Tonnarelli, che assistono i familiari di Jefferson: era necessario tutto questo, sparare a un ragazzo di 20 anni armato solo di un coltellino da cucina?”. La Tac e la perizia balistica che si terranno nei prossimi giorni individueranno la traiettoria dei 5 proiettili che hanno raggiunto il giovane, nella speranza che basti a far luce sull’esatta dinamica dei fatti. “Non era un delinquente - proseguono i legali, gli agenti in casa erano almeno otto e Jefferson è stato colpito ad altezza uomo, non alle parti basse o alle braccia per disarmarlo”. Il poliziotto che ha estratto l’arma di ordinanza è indagato, attualmente, per omicidio colposo. Genova: Gabrielli in visita all’agente ferito “presto i taser ai poliziotti” La Stampa, 13 giugno 2018 “Presto i poliziotti avranno in dotazione i “taser” (pistole elettriche) così potranno agire in ulteriori condizioni di sicurezza e potranno non arrecare danno eccessivo alle persone in certi interventi”. Lo ha detto il capo della polizia Franco Gabrielli uscendo dall’ospedale San Martino dove questa mattina, accompagnato dal questore, ha incontrato i due agenti di polizia feriti domenica nella colluttazione all’interno dell’abitazione di via Borzoli a Sestri Ponente in cui ha perso la vita il giovane Jefferson Tomalà. “Abbiamo terminato tutto l’iter per dotare il nostro personale dei taser o pistole elettriche”; la procedura è partita “nel 2014 e ora è alla firma del ministro dopo tutta una serie di autorizzazioni richieste”. Dunque “via alla sperimentazione operativa sul campo perché queste armi devono essere dotate con una certa modalità. L’amministrazione è attenta che il personale sia posto in una situazione di sicurezza senza arrecare danno alle persone che potrebbero trovarsi dall’altra parte della barricata”, ha spiegato Gabrielli. “Stanno entrambi bene. Il collega ferito è ancora un po’ scosso come credo una situazione di questo genere imponga - ha aggiunto Gabrielli - Ringrazio la struttura sanitaria: direttore, medici e infermieri che sono stati particolarmente premurosi, perché c’è un aspetto chirurgico e un aspetto psicologico che è molto importante”. C’era inoltre “l’altro giovane collega che è stato risolutivo anche se queste vicende lasciano sempre un aspetto di amarezza perché quando muore una persona anche se delinque, anche se si è posta in una condizione di offesa nei nostri confronti credo che non sia mai una cosa positiva e mi fa piacere che di questo ne abbia contezza anche il collega, perché mai dobbiamo perdere quel profilo di umanità che contraddistingue in positivo la nostra attività”. Il capo della Polizia assicura che “siamo ovviamente molto fiduciosi dell’iter giudiziario”. Stamattina “mi sembrava giusto portare l’abbraccio dell’amministrazione a due colleghi che hanno vissuto una vicenda sicuramente molto importante e molto impegnativa”. Toti: “Auguri di pronta guarigione all’agente di polizia ferito” - Il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti stamani via Facebook ha fatto “un augurio di pronta guarigione all’agente di Polizia ferito a Genova domenica scorsa e ancora ricoverato al San Martino”. L’augurio del governatore è arrivato a margine della visita di Gabrielli. “Grazie di cuore a tutti coloro che quotidianamente rischiano la propria vita per proteggerci”, ha aggiunto Toti. Il tweet di Salvini - “Non solo da ministro, ma da cittadino italiano e da papà sarò vicino in ogni modo possibile a questo poliziotto che ha fatto solo il suo dovere salvando la vita a un collega”, ha scritto il ministro dell’Interno Matteo Salvini su Twitter con l’hastag #iostoconchicidifende riferendosi al caso del poliziotto che ha sparato a Jefferson Tomalà che lo aveva ferito dopo una colluttazione a Genova. Firenze: “basta campi rom, case a chi lavora, carcere per chi delinque” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 13 giugno 2018 Palazzo Vecchio accelera sullo smantellamento del campo del Poderaccio. Che sarà chiuso, annuncia il sindaco, “in 18 mesi e non in quattro anni, come previsto finora”. Una chiusura che trova d’accordo il presidente della Regione, Enrico Rossi, - “occorre chiudere i campi rom e istituire poliziotti di quartiere per più controlli sul territorio” - mentre il centrodestra attacca sull’assegnazione delle case popolari ad alcuni dei protagonisti della tragica morte di Duccio, che hanno una lunga lista di precedenti penali. Sulla chiusura del Poderaccio, Nardella ha prima riunito la giunta, con i tecnici che si occupano già del progetto, e poi è andato al campo rom, dove ha dato l’annuncio. “Abbiamo deciso di accelerare - ha spiegato con un video su Facebook - chiuderemo il campo in 18 mesi e non in 4 anni, abbattendo le trenta case, e trovando soluzioni abitative senza alcun privilegio: non saranno interessate le case popolari, e non faremo altri villaggi ad hoc. La nostra linea è che non c’è accoglienza senza legalità”. L’idea è forzare i tempi, trovando anche le necessarie risorse, e affrontare la sistemazione delle famiglie, di anziani e bambini, caso per caso, come quando avvengono gli sgomberi, senza alcuna procedura di “emergenza”. Anche Rossi ha ribadito che i campi vanno chiusi e che chi ha commesso reati deve pagare. “I campi rom devono essere smantellati con soluzioni abitative alternative e deve essere favorita l’integrazione di chi è per bene. I criminali devono essere assicurati alla giustizia e devono pagare - ha spiegato - la rabbia e la protesta dei cittadini, dei commercianti, delle famiglie, del quartiere e di chi conosceva il giovane, è comprensibile ma non può tradursi in vendetta”. “La via giusta è l’accoglienza, l’integrazione ed il rispetto della legge - ha concluso - aggiungere alla drammaticità dei problemi l’odio razziale trasformerebbe la nostra regione in un Far West”. Forza Italia e Fratelli d’Italia hanno invece attaccato Nardella per la concessione delle case popolari, nonostante i tanti precedenti penali di alcuni degli assegnatari e Rossi per “lo spudorato ribaltone”. “Le nostre case popolari vengono assegnate solo alle persone che sono in graduatoria e che hanno i requisiti di legge. Non facciamo assegnazioni irregolari”, ha replicato Palazzo Vecchio. La polemica, come si diceva, è nata dai tanti precedenti dei rom macedoni. Ramzi Amet, alla guida del mezzo, è stato condannato nel 1992 in Assise a Milano per concorso in riduzione in schiavitù a 7 anni e ha precedenti di polizia per immigrazione clandestina, oltre che per guida senza patente. Dehran Mustafa, il passeggero, è stato condannato nel 2003 per 5 rapine commesse nel 2001 a 4 anni, ma la pena gli è stata condonata. Nel 2006 gli è stato inflitto un anno per scippo, ma la pena gli è stata condonata. Nel 2015 altra condanna per rapina a tre anni, ma è stato scarcerato per fine pena. Anche gli altri protagonisti della vicenda hanno precedenti di polizia. Antonio Mustafa, indagato a piede libero, è stato condannato a 4 mesi nel 1996 per falsità e guida senza patente. Nel 2007 è stato rinviato a giudizio per furto: assolto in primo grado, ora ha il processo di Appello. Bajaram Rufat, l’uomo che scappava, è stato condannato nel 2008 a un anno per usura continuata e nel 2018 a sei mesi per furto aggravato, oltre a 11 mesi di condanna nel 1995 per falsa testimonianza. Milano: l’arte entra a San Vittore, per integrarlo con la città di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 giugno 2018 L’arte entra al carcere milanese di San Vittore grazie alla Fondazione Maimeri. Lo fa con un progetto finalizzato a incentivare i percorsi di recupero e reinserimento. Debutterà giovedì con un concerto e nei giorni seguenti sarà un susseguirsi di iniziative come l’educazione alla arte attraverso la realizzazione di opere all’interno del carcere create da importanti artisti con il supporto dei detenuti. Saranno realizzate opere d’arte di grande formato che trasformeranno il lato interno delle mura in una sorta di galleria di arte contemporanea aperta ai cittadini e organizzeranno conferenze, seminari ed eventi per sensibilizzare e promuovere il progetto. “Il carcere San Vittore - scrive la fondazione in una nota -, di grande pregio architettonico, situato nel centro di Milano rappresenta un riferimento non solo topografico nell’immaginario di tutti i cittadini. È il carcere, della città, un luogo della memoria, di storia, di presente. Un luogo di cui tanti chiedono la chiusura ma che esiste al centro della città, che difficilmente sarà dismesso e che esercita su tutti, una incredibile forza attrattiva”. La Fondazione Maimeri spiega che San Vittore è “un luogo pieno di fascino, in grado di trasmettere messaggi per il semplice fatto di esserci, al centro della città, con i suoi limiti e le sue incredibili potenzialità. Un luogo, simbolo della legalità, che ospita prevalentemente persone in attesa di giudizio e che sta rielaborando un progetto di medio- lungo periodo che gli restituisca la centralità, anche nel contesto penitenziario cittadino, restituendolo alla città, ai milanesi che da sempre lo ospitano che non sempre lo conoscono per quello che realmente è”. La Fondazione ribadisce la necessità che il carcere non venga dimesso e che sia visibile agli occhi dei cittadini, perché è “un luogo ove oggi si incontrano tutte le culture del mondo, un modello di integrazione possibile che va favorita, accompagnata, supportata, pubblicizzata; che si intende riaprire alla città perché tutti possano comprenderne il significato ed il ruolo, come risorsa, in grado non solo di integrarsi con il contesto metropolitano, ma di supportarlo, promuoverlo, stimolare”. La Fondazione sottolinea che i detenuti stessi possono diventare dei protagonisti con l’aiuto dell’arte, della cultura, del lavoro, della scuola e della formazione, delle intelligenze milanesi, delle istituzioni ed delle forze sociali della città. Tutti questi elementi possono costruire una cultura del bello, del rispetto, di eccellenza ed aiutare le persone che quel contesto vivono ad un approccio diverso a se stesso, all’altro, alle regole, alle istituzioni. La Fondazione ha come obiettivo che le istituzioni al tempo stesso “riescano ad avvicinare la gente al carcere, valorizzare l’importanza e la complessità dei percorsi di recupero, il lavoro difficile degli operatori, l’importanza del ruolo del contesto cittadino, le necessità di una integrazione che parta proprio dal luogo più difficile della città. Un luogo ove la gente possa entrare come in un qualunque quartiere o giardino della città per fare cose che potrebbe fare in qualunque quartiere o giardino della città ma che ha il valore aggiunto del luogo, delle mura, delle sbarre, dei cancelli, dei vincoli, delle conseguenze degli errori e di scelte sbagliate. Un luogo che tutti insieme si possa migliorare, nella struttura, nella percezione dei singoli e della città, ove le persone abbiano occasioni concrete di cambiamento, di educazione, di cambiamento, di scelta, di valorizzazione”. Corsi di formazione, mostre d’arte, eventi culturali, concerti, eventi sportivi, incontri tra detenuti e cittadini cui i primi possano raccontare la propria esperienza, il significato del carcere, confrontarsi e mettersi alla prova. I detenuti che diventano protagonisti, appunto. Libri. “La speranza oltre le sbarre”, di Angela Trentini e Maurizio Gronchi terremarsicane.it, 13 giugno 2018 Laici e religiosi condividono lo stesso percorso: quello di non negare a nessun uomo la propria dignità. Questo vale anche per coloro che hanno commesso i crimini peggiori. Il reinserimento deve necessariamente passare attraverso una riabilitazione morale che implica un rapporto con chi quel crimine lo ha subito: i parenti delle vittime. Si potrebbe sintetizzare così il lungo e intenso intervento del Procurazione Nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho nel corso dell’incontro formativo svoltosi a Chieti su cui si è sviluppato il dibattito nato intorno al libro-inchiesta “La Speranza Oltre le Sbarre” della giornalista della Rai Abruzzo Angela Trentini e il teologo sistematico Maurizio Gronchi presenti all’evento insieme al vicepresidente del Csm Giovanni Legnini e l’Arcivescovo della Diocesi Chieti-Vasto Monsignor Bruno Forte. Appuntamento che venerdì 15 giugno si ripeterà, con altre voci grazie all’Odg, l’Ordine degli Avvocati e la Diocesi dei Marsi, ad Avezzano presso Castello Orsini Colonna a partire dalle ore 9.00 con la presenza, tra gli altri, del Vescovo Pietro Santoro. Se da una parte, ha sottolineato De Raho, la pena e anche il carcere duro rappresentano un elemento fondamentale per la punizione di chi ha commesso il reato per far sì che resti lontano da quelle realtà del malaffare di cui fa parte, dall’altra la tutela della dignità deve essere garantita così come la possibilità di intraprendere un percorso di riabilitazione che se nel profondo si può manifestare solo agli occhi di Dio, agli uomini deve essere trasmesso tramite segnali di ravvedimento tali da manifestarsi come vero. “Un libro - ha sottolineato - quello oggetto delle riflessioni di oggi, complesso e profondo perché tocca molteplici aspetti riuscendo ad approfondirli tutti”. Lontano da ogni forma di indulgenza e perdonismo, “La Speranza Oltre le Sbarre” dà voce per la prima volta a quei “vuoti a perdere”, come li definisce Gronchi, che si sono macchiati dei peggiori omicidi e delle peggiori stragi del nostro Paese. Sei killer responsabili delle morti dei giudici Falcone, Borsellino e Livatino che, per la prima volta, si confessano e si confrontano con i parenti delle vittime. Toccante anche il messaggio giunto da Maria Falcone che ha ricordato le parole del fratello Giovanni: “non bisogna mai dimenticare che in ognuno degli assassini c’è un barlume di umanità”. Questo significa, ha aggiunto, “da un lato tener desta la capacità di discernimento nel bambino/adolescente attraverso la fondamentale azione di educazione alla legalità nelle scuole perché i giovani non possano più dire di non sapere che cosa è la mafia. Allo stesso tempo - ha aggiunto rivolgendosi alla platea - è essenziale il ruolo di informazione svolto dai giornalisti che possono scegliere di raccontare la giustizia alla società civile non solo come sistema, ma anche come apertura a percorsi di riparazione”. Un invito a guardare quel “barlume di umanità”, perché, come hanno sottolineato De Raho, Legnini e Mons. Forte “la pena abbia un senso. Quello della speranza e dunque quello di giungere ad una vera e propria riabilitazione morale”. Processo che, hanno aggiunto tutti, passa inevitabilmente per quella riforma del sistema carcerario che, temono, non si farà mai, e che invece dovrebbe garantire a tutti una vita dignitosa anche dietro le sbarre permettendo ai detenuti di lavorare e soprattutto, ha tenuto a dire Legnini, far sì che la loro cultura si accresca tanto da permettergli di comprendere che un’altra scelta era ed è, per i giovani che vivono quel disagio e troppo spesso causa di un “percorso obbligato”, come uno degli assassini stessi afferma, possibile. “Molti detenuti in regime di 41bis - ha infatti raccontato De Raho - a distanza di 15-20 anni dall’arresto, parlando con i familiari e incontrandoli affermano: se avessi pensato che per me poteva esserci una vita diversa certamente non avrei scelto la vita che ho fatto. La perdita dei beni più preziosi è la più grande”. La pena è il debito che si paga per i propri errori, ma non per questo deve impedire il ravvedimento, purché profondo, che passa per la riconciliazione con i parenti delle vittime e una nuova inclusione sociale. Se la Chiesa “scomunica” i mafiosi, ha ricordato citando Papa Francesco, la giustizia “condanna”. Perché l’esclusione torni ad essere inclusione serve, insomma, una piena presa di coscienza di aver commesso reati atroci. E tutti, ha concluso, abbiamo un ruolo importantissimo in questa società e, dunque, anche nel modo in cui ci rapportiamo a queste realtà. Il dibattito su pena e giustizia e su questo nuovo sguardo che anche la cronaca deve saper volgere al crimine e i criminali trovando il coraggio di indagare le ragioni che hanno spinto questi uomini a sviluppare una coscienza così “sbagliata”, proseguirà dunque mercoledì ad Avezzano con il Vescovo Santoro, i due autori del libro, Ottaviano Gentile, membro del Corecom Abruzzo, il giornalista direttore di “Voci dentro” Francesco Lo Piccolo, il Vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, il Presidente dell’Ordine degli Avvocati Franco Colucci, il Presidente dell’Odg Abruzzo Stefano Pallotta e Maria Teresa Letta, Responabile regionale della Croce Rossa Italiana. Cinema. “Prigioniero della mia libertà”, di Rosario Errico di Chiara Nicoletti Il Dubbio, 13 giugno 2018 Quando la libertà è prigioniera di una giustizia sommaria. È uscito meno di due settimane fa nelle principali sale italiane e continua a girare per l’Italia, il nuovo lungometraggio del regista Rosario Errico, “Prigioniero della mia libertà”. Come era stato per il pluripremiato corto Ballerina che trattava il tema dello sfruttamento e la prostituzione delle ragazze dell’Est in Italia, anche questo lavoro affronta un tema scottante: quello dell’errore giudiziario. Girato con un cast di attori nazionali e internazionali tra cui lo spagnolo Jordi Mollà e gli italiani Martina Stella, Lina Sastri e Giancarlo Giannini, il film parte di impatto, proprio dall’arresto ingiustificato di un giovane architetto, Alejandro Torres, che si troverà da un istante all’altro a vivere un incubo senza sapere il perché. Sul tema dell’ingiusta detenzione Rosario Errico ha scritto anche un libro, che ha lo stesso titolo del film in collaborazione con magistrati e giornalisti. Come nasce l’idea del suo film e perché questo titolo? Ho incontrato un avvocato difensore di persone che avevano subito un’ingiusta detenzione e le ho anche conosciute. Da lì è nata l’idea di farne un film che facesse riflettere sul dramma di persone perbene, vittime di un errore giudiziario che provoca un trauma psicologico notevole. C’è una scena nel film che rende benissimo questa sensazione in cui il protagonista, interpretato da Jordi Mollà, viene assolto in primo grado. La moglie (Martina Stella) gli ricorda che finalmente è tutto finito, ma lui le risponde che questo incubo non finirà mai perché il pubblico ministero chiederà l’appello, poi ci sarà la Cassazione e tutto il processo durerà molti anni. Il titolo spiega le problematiche di chi vive questo dramma, perché sperimentare un’ingiustizia tale fa sentire in effetti prigionieri della propria libertà. Lei sceglie di non raccontare cronologicamente la vicenda di Torres ma di iniziare subito con il suo arresto e con il dubbio sulla sua colpevolezza che si insinua attorno a lui ed anche nello spettatore. Ho voluto da subito creare l’impatto con la vicenda, dare un’impronta forte e incisiva allo spettatore. Credo che quello che rimane più impresso nella mente dello spettatore siano i primi e gli ultimi venti 20 minuti di un film. Ho voluto quindi raccontare l’ar- resto per poi ritornare indietro e spiegare chi era questa persona e che cosa faceva, fino ad arrivare poi al finale, al trauma che può portare alla follia chi lo subisce. La vicenda si svolge in un piccolo centro urbano, come mai questa scelta? Ho voluto ambientare il tutto in una piccola città dove tutti si conoscono, tutti frequentano la piazza principale così che la persona che viene coinvolta in un caso del genere viene subito sbattuta in prima pagina. Anche se assolto in primo grado, il dubbio sulla sua colpevolezza rimarrà sempre negli amici e nelle persone che si incontrano in città. Questa è una condizione permanente che ho riscontrato in tutte le persone vittime di errori giudiziari che ho avuto modo di ascoltare. Quali sono le caratteristiche che accomunano queste vittime di ingiustizia? Nel film ho voluto sottolineare le figure di grandi magistrati, come Falcone e Borsellino, che hanno dato la propria vita per una giustizia vera e giusta, per difendere gli altri e parallelamente evidenziare le défaillance nel condurre delle indagini, e in alcuni casi addirittura l’accanimento come è accaduto per Enzo Tortora. Su 100 persone che ho ascoltato, coinvolte in un dramma simile, alla domanda su cosa desideri e cosa vorresti dimostrare hanno risposto due cose: cercare la verità fino all’ultimo, battersi per dimostrare che non hanno fatto ciò di cui li accusano e che al loro posto finissero quelle persone che non gli hanno dato la possibilità di spiegarsi, di discolparsi e li hanno arrestati nelle loro case, davanti alle loro famiglie senza spiegare il perché. In Italia ci scontriamo spesso con una giustizia che o fallisce nel giudicare chi ha veramente commesso un reato oppure, magari sotto pressione, giudica sommariamente e punisce spesso gli innocenti. Dopo queste sue ricerche che idea si è fatto? Bisogna fare più attenzione durante le indagini e, prima di arrivare alla custodia cautelare, ricordarsi di rileggere bene fascicolo e storia dell’accusato soprattutto se questi è una persona fino a quel momento incensurata. Mentre il suo film racconta una storia di finzione, il suo libro analizza degli errori giudiziari eclatanti. Quello più famoso è sicuramente quello di Enzo Tortora, ma nel mio libro cito il caso di Giuseppe Gullotta che ha vissuto 22 anni in carcere da innocente. Ha lasciato i suoi bambini che avevano 6 anni e li ha ritrovati adulti. Sono onorato che al libro abbiano collaborato Andrea Orlando ex ministro della Giustizia, Guido Raimondi, Presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo, Giuseppe Tesauro, Presidente emerito della Corte Costituzionale, magistrati e avvocati ai quali ho chiesto pareri e confronti. Migranti. Come funzionano i salvataggi e perché non basta chiudere i porti di Alberto Magnani Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2018 Matteo Salvini sembra aver pochi dubbi sull’esito della suo veto allo sbarco in Italia di Aquarius, la nave della Ong italo-francese Sos Méditerranée dirottata sulla Spagna con 629 migranti a bordo. Il respingimento è stato una “vittoria (in maiuscolo, ndr)”, ha scritto su Twitter il ministro dell’Interno, incassando il plauso di diversi ex alleati del centrodestra e annunciando la chiusura di altri porti in futuro. La soddisfazione non si è incrinata neppure alla notizia dell’arrivo di altri 900 migranti al porto di Catania, in questo caso traghettati da un’imbarcazione della Guardia costiera italiana. Anzi, l’operazione ha permesso di tracciare una linea di demarcazione fra chi potrà attraccare e chi no sulle nostre coste.? “Per le navi delle missioni ufficiali i porti sono aperti, per le Ong no. Lo Stato fa lo Stato, i privati facciano i privati”, ha detto Salvini ai cronisti che gli chiedevano conto di come si sarebbe comportato in futuro. In realtà la gestione delle cosiddette operazioni Sar (search and rescue, ricerca e soccorso)in mare dipende proprio dalla cooperazione di soggetti statali e privati. E si regge su una procedura più complessa di quanto traspaia dai tweet di Salvini e dal messaggio di fondo della sua misura:?”basta” chiudere i porti per ridurre l’afflusso di migranti e, prima ancora, allontanare l’Italia dalle rotte delle Ong. Come funzionano i salvataggi - L’accusa, sposata anche dall’alleata francese Marine Le Pen, è che gli attori privati facciano da “taxi del mare”, trasportando i migranti da una costa all’altra in cambio di denaro. In realtà le imbarcazioni delle Ong intervengono esclusivamente in fase di salvataggio, in coincidenza con le già citate operazioni di ricerca e soccorso. Seguendo la stessa procedura che mette in moto le “nostre” navi di Guardia costiera e Marina militare. L’intervento non è figlio di iniziative private ma di un coordinamento curato dal Maritime rescue coordination centre (Mrcc), un organismo internazionale rappresentato in Italia dal Comando generale della Guardia costiera di Roma. L’area di responsabilità italiana si estende per 500mila metri quadri, un quinto del mare Mediterraneo, ma questo non esclude operazioni esterne al proprio perimetro: il primo Mrcc che riceve notizia di un’emergenza deve mettersi in moto di conseguenza, anche se l’evento si verifica fuori da suo raggio di azione. Il salvataggio deve essere poi affidato a qualsiasi imbarcazioni che si trovi in area utile, tramite comunicazioni del Mcrr. È la stessa Guardia costiera, ricorda l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, a dichiarare che le operazioni di soccorso “fanno affidamento su qualsiasi nave per qualsiasi ragione presente nell'area interessata:?navi governative, incluse quelle militari, quelle mercantili, ivi compresi i pescherecci, il naviglio da diporto e le navi adibite a servizi speciali - quali sono ad esempio quelle battenti bandiera italiana utilizzate da alcune Ong”. Chi è in zona utile ha l’obbligo giuridico di muoversi, pena l’accusa di omissione di soccorso (disciplinata dagli articoli 113 e 1158 del codice di navigazione). Nel 2017, sempre secondo dati della Guardia costiera, sono state soccorse 114.286 persone:?46.601 solo dalle 10 Ong operative allora, 28.814 dalla Guardia costiera, 7.657 da Frontex e 5.913 dalla Marina militare, più altri attori (inclusa la Guardia di Finanza, che ha tratto in salvo 1.703 persone). In pratica le Ong hanno soccorso il 41% delle persone a rischio sul Mediterraneo. “Ma è assurdo considerare un fattore di attrazione economica il salvataggio in mare - spiega Carlotta Sami, portavoce per l’Italia dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati - Il traffico degli essere umani inizia ben prima, a terra, attraverso network che prendono in ostaggio persone. Molte di queste non volevano neppure andare in Europa. E neppure in Libia”. Il “luogo sicuro” e la chiusura dei porti - Oltretutto, il salvataggio non equivale alla fine dell’impegno. L’operazione Sar, spiegano sempre dall’Alto commissariato Onu, si esaurisce solo con l’approdo in un “luogo sicuro” (calco dall’inglese place of safety): un luogo dove si possano fornire garanzie di sicurezza, soddisfazione dei bisogni primari e ricollocazione futura. Il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli ha detto che “non c’è scritto da nessuna parte che il place of safety debba essere un porto”, anche se in realtà è vero il contrario:?il luogo finale di destinazione deve essere uno scalo marittimo, come centro di snodo per i futuri spostamenti dei migranti. L’ipotesi di scaricare tutte le responsabilità di gestione sulle navi delle Ong, paventata sempre da Toninelli, rischia di essere più che altro insostenibile. “Non solo dal punto di vista umanitario, ma proprio in termini logistici” spiega Giorgia Linardi, portavoce della Ong tedesca Sea Watch. In caso di una “serrata” dei porti italiani, prosegue Linardi, le navi sarebbero costrette a “vagare per almeno 10 giorni”, riproducendo una situazione simile a quella che ha appena coinvolto Aquarius. “Dal nostro punto di vista non è in discussione che il meccanismo della distribuzione delle quote debba essere discusso in Europa - aggiunge - Ma non lo si fa certo intervenendo sulla fase di salvataggio”. Un ultimo aspetto è quello della gestione economica. Il niet su Aquarius si è comunque concluso con l’invio di due navi di Guardia costiera e Marina mercantile per affiancare il trasporto degli oltre 600 passeggeri verso Valencia. Costo totale? Secondo un calcolo di Gianfranco Librandi, un deputato del Pd, si parla di circa 2 milioni di euro (250mila euro al giorno per ciascuna delle due imbarcazioni). Migranti. Salvini e il diritto alle navi-galera di Fulvio Vassallo Paleologo* Il Manifesto, 13 giugno 2018 Le responsabilità dell’Italia potrebbero ricorrere sul piano internazionale e su quello interno. Con il trasferimento dei naufraghi dell’imbarcazione verso la frontiera di Valencia potrebbe infatti realizzarsi un vero e proprio respingimento illecito, come quelli verso la Grecia e condannati dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo con la sentenza Sharifi (2014). Il blocco delle navi umanitarie e il respingimento di centinaia di persone, già duramente provate dagli abusi subiti in Libia, dopo essere state soccorse in alto mare, anche da mezzi della Guardia costiera italiana, viene spacciato come una pressione sugli stati europei per una modifica del Regolamento Dublino. Che stabilisce la competenza del primo paese di ingresso, per l’esame delle istanze di protezione internazionale e per l’accoglienza dei richiedenti asilo. In realtà alleandosi con i paesi del gruppo di Visegrad le proposte italiane sono destinate a fallire perché sono proprio questi paesi, con l’Ungheria di Orbán, ai quali si aggiunge adesso l’Austria di Kurz, i più strenui avversari del superamento del principio della competenza del primo paese di ingresso. Le proposte migliorative avanzate dal Parlamento europeo appaiono ormai accantonate per lo spostamento degli equilibri politici nel Consiglio Europeo. Va ricordato che nel voto sulle proposte di un parziale superamento del regolamento Dublino, con l’introduzione di quote vincolanti per ciascun paese, proprio i parlamentari della la Lega e del M5 Stelle si erano astenuti. Adesso si prospetta un dibattito che vedrà divisioni accentuate tra i diversi paesi, accresciute dalle nuove posizioni italiane, che si esaurirà senza modifiche sostanziali, prima delle prossime elezioni europee. Al nuovo governo italiano, ed al suo capo “di fatto”, il ministro dell’interno Salvini, non resta dunque che ricorrere sistematicamente a veri e propri argomenti di distrazione di massa, per distogliere l’attenzione del suo elettorato dai fallimenti e dalle crisi diplomatiche nelle quali si è cacciato prima ancora di entrare al Viminale. Uno stile di governo che oggi riscuote consenso, un decisionismo violento rivolto contro le Ong, domani contro gli operatori umanitari ed i difensori dei diritti umani, poi verso tutti i segmenti d’opposizione sui territori. La disponibilità offerta dalla Spagna per accogliere le 629 persone a bordo della nave Aquarius non è una vittoria da parte dell’Italia sull’Unione Europea, ma costituisce soltanto il risultato insperato di una esibizione muscolare di Salvini, che ha pagato nel giorno del silenzio elettorale, ma che contribuirà a portare all’isolamento il nostro paese. Basti pensare alle dichiarazioni di Macron e del responsabile di “En Marche” che ha definito “vomitevole” la posizione del governo italiano, e della ministra della giustizia spagnola Delgado secondo cui l’Italia rischia “responsabilità penali internazionali”. Per quanto la Francia si sia distinta nei respingimenti sommari al confine italo-francese (Ventimiglia, Bardonecchia) anche a danno di minori, e per parte sua la Spagna non può dimenticare la brutalità dei respingimenti alle frontiere di lame di Ceuta e Melilla. Ora le responsabilità dell’Italia potrebbero ricorrere anche sul piano del diritto interno, visto che dopo i soccorsi operati dalla Guardia costiera italiana, ed il trasbordo dei naufraghi a bordo di Aquarius, adesso gli stessi migranti si trovano in territorio italiano, a bordo di navi militari che li dovrebbero accompagnare verso Valencia, scortando anche la nave Aquarius. Con il trasferimento dei naufraghi dell’Aquarius verso la frontiera di Valencia potrebbe infatti realizzarsi un vero e proprio respingimento illecito, come quelli realizzati dall’Italia verso la Grecia e condannati dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo con la sentenza Sharifi (2014) perché queste persone, già soccorse in parte proprio dalla Guardia costiera italiana, hanno fatto comunque ingresso in territorio italiano, trovandosi sottoposte alla giurisdizione esclusiva del nostro stato e non possono essere consegnate, in assenza di un provvedimento formale, ad altri stati, senza avere la possibilità di chiedere asilo in Italia. Occorre anche ricordare che nel nostro ordinamento è ancora in vigore l’articolo 19 del Testo unico sull’Immigrazione che vieta il respingimento di donne in stato di gravidanza e di minori. Le Convenzioni internazionali di diritto del mare ed i loro emendamenti non possono essere applicate a seconda della convenienza politica dei governi perché sono preordinate alla salvaguardia della vita umana e della dignità della persona, oltre che alla sicurezza della navigazione. I migranti che il governo italiano ha deciso di “scaricare” nel porto di Valencia, a differenza di altri più fortunati che una nave militare sbarcherà nel porto di Catania, sono tutte ormai persone vulnerabili rispetto alle quali le convenzioni internazionali impongono lo sbarco nei tempi più rapidi possibili. Non solo quelle del diritto del mare, ma anche la Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo, alla quale tanto l’Italia quanto Malta sono vincolate, e la Convenzione di Ginevra, per quanto riguarda la possibilità per una persona di chiedere asilo in un Paese alla frontiera. Togliere la possibilità di accesso alla frontiera per chiedere il diritto di asilo va contro la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, e la lunga permanenza in mare, adesso anche a bordo di una nave militare in navigazione per giorni verso il porto di Valencia, potrebbe configurare la violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, affermato dalla Corte europea dei diritti umani. Altro che cantare vittoria. Le norme e le Convenzioni non si possono forzare per atti d’imperio di un ministro dell’interno. *Docente di Diritto di asilo presso l’Università di Palermo No-stop elettorale sulla pelle dei migranti di Vincenzo Vita Il Manifesto, 13 giugno 2018 Domenica, con le urne aperte, Salvini e Di Maio hanno impunemente scorrazzato tra un programma tv e l’altro. Una domenica bestiale, quella passata. Tanto per la vicenda della nave Aquarius, in cui si è appalesata la smania fascistoide dei leghisti, quanto per la clamorosa scorrettezza in tema di comunicazione politica. I fini dicitori obietteranno che le disposizioni della “par condicio”, essendo stata quella dello scorso 10 giugno una consultazione parziale al di sotto del 25% della popolazione complessiva, si applicavano solo sul piano locale, esentando le trasmissioni nazionali. Tuttavia, la delicatezza della stagione istituzionale in corso e il dramma dei profughi avrebbero richiesto un’attenzione particolare. Non c’è stata, né da parte delle emittenti né dal versante dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni cui pure spetterebbero compiti di vigilanza permanente. Non solo gli esponenti politici, a cominciare da Salvini e Di Maio, hanno impunemente scorrazzato tra un programma e l’altro, ma sono stati lungamente intervistati e accolti in pompa magna nei talk. Domenica le urne erano aperte e buona creanza avrebbe voluto che il silenzio elettorale venisse rispettato non solo nei confini territoriali, bensì pure nell’offerta generalista. E fa specie che non ci si sia neppure pensato. Silenzio rotto costantemente, ben al di là di un asciutto commento delle notizie; pluralismo sbeffeggiato nella logica cui i media si stanno assuefanno del bipolarismo Lega-5Stelle. Si è dovuto attendere l’arrivo serale dell’Arena condotta da Giletti per avere qualche voce in più. Sempre, però, nel giorno del voto. Certamente non è dimostrabile il nesso di causa ed effetto tra la bulimia mediatica e le scelte delle persone in cabina. Vecchio e logoro è il dibattito sugli effetti della televisione, sempre regina -però- del condizionamento secondo il Censis. Non è detto che le ore di esposizione dei leader abbia loro portato fortuna: a Salvini forse sì, a Di Maio assai di meno. Ma l’odierna dieta della fruizione è cross -mediale e, se sono i social ad esercitare un ruolo sempre maggiore in particolare tra le generazioni digitali, la vecchia scatola nera rimane in testa ad ogni classifica nel determinare l’agenda delle priorità. Vale a dire, ciò che merita attenzione e cosa no. Le immagini non stop (ovviamente) della nave vagante in un mare mediterraneo diventato crudele e nemico venivano associate alla faccia del capo leghista e a quella del collega-concorrente pentastellato. L’associazione con il voto era inesorabile. Il prossimo 24 giugno vi saranno i ballottaggi ed è augurabile che chi ne ha titolo dia un segno di vita. Si parla costantemente di rivedere la legge del febbraio 2000, che viene spesso evocata come i cavoli a merenda. Si abbia il coraggio civile di proporne un’altra, invece di irriderne il senso profondo. Quest’ultimo va oltre l’articolato giuridico: si evoca in quel testo uno stile di condotta, prima ancora che un dettame burocratico. Si è scritto in questi giorni da parte di professori e avvocati come Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani, nonché del commissario dell’Agcom Antonio Nicita, sulla degenerazione in atto della comunicazione politica, pur fondata sullo schema delle tribune e del contraddittorio. Ora è in uso il siparietto singolo, con il collega amico-nemico che osserva dietro le quinte in attesa del suo turno. Il problema posto è reale, in quanto il racconto della politica deve rispondere all’esigenza primaria di informare i cittadini. I siparietti “privati” assomigliano spesso agli spot pubblicitari, senza copy e senza creativi. Droghe. L’Oms sdoganerà la cannabis medica? di Marco Perduca Il Manifesto, 13 giugno 2018 Oggi, dato il diffuso uso medico della sostanza e dei suoi derivati, l’inclusione nella tabella IV risulta ancor meno giustificabile di 57 anni fa. Non è chiaro quale Stato membro dell’Onu l’abbia richiesta con la necessaria fermezza, fatto sta che a giugno 2018, a 70 anni dalla sua fondazione, l’Organizzazione Mondiale della Salute ha lanciato una pre-revisione dello status internazionale della cannabis. Se il Comitato di esperti sulle droghe dell’Oms troverà elementi sufficienti per arrivare a una vera e propria revisione critica della pianta lo scopriremo nelle prossime settimane, per il momento va preso atto che un altro tabù anti-cannabis è stato infranto. Da almeno due decenni la prescrizione di cannabinoidi aumenta costantemente in molti paesi ricchi, anche grazie all’immissione sul mercato di nuovi preparati a base di cannabis, a partire da quelli a base di Cannabidiolo, Cbd, mentre sempre più governi alleggeriscono le sanzioni per l’uso personale di marijuana. Anche per questi motivi gli esperti dell’Oms hanno deciso di raccogliere studi scientifici e stimoli politici da Stati membri e organizzazioni non governative per raccomandare alla Commissione sulle droghe dell’Onu una vera e propria’revisione critica’ dello status legale della pianta. Attualmente, la cannabis è inserita nella Tabella I (altamente additiva e soggetta ad abuso) e nella Tabella IV (sostanze incluse nella Tabella I raramente utilizzate nella pratica medica) della Convenzione Unica sugli stupefacenti del 1961. Il principale composto psicoattivo della cannabis, delta-9-THC o dronabinol, è anche inserito nella Tabella II della Convenzione del 1971, e molti dei suoi isomeri anche nell’Allegato I. Questo incrocio di collocazioni complica, e di fatto impedisce, la ricerca sui componenti attivi della pianta a causa delle difficoltà amministrative che gli scienziati incontrano per avere accesso alle sostanze. Come abbiamo avuto modo di denunciare più volte anche da qui, l’assegnazione della cannabis nelle Tabelle I e IV della Convenzione del 1961 non avvenne e seguito di una valutazione scientifica da parte dell’Oms; oggi, dato il diffuso uso medico della sostanza e dei suoi derivati, l’inclusione nella tabella IV risulta ancor meno giustificabile di 57 anni fa. Le definizioni ambigue delle sostanze legate alla cannabis e poste sotto controllo internazionale, oltre che la classificazione delle sue infiorescenza, resine ed estratti come “stupefacenti” e i suoi composti attivi come “sostanze psicotrope” sono state stigmatizzate in passato tanto dal Comitato di esperti dell’Oms quanto la giunta internazionale sugli stupefacenti. Per arrivare a una raccomandazione finale il percorso resta lungo, dovranno essere studiati gli aspetti chimici, farmacologici, tossicologici, epidemiologici nonché gli usi terapeutici della pianta. Si prevedono anche contributi della società civile e l’Associazione Luca Coscioni, Forum Droghe e la Società della Ragione hanno presentato un documento sui progressi italiani sostenendo la revisione denunciando violazioni del “diritto alla scienza” perché si impedisce la ricerca su una pianta il cui ultimo studio internazionale risale al 1935. Nei prossimi mesi l’Onu sarà messa di fronte alla necessità di bilanciare il “principio di precauzione” proibizionista con le innovazioni tecno-scientifiche occorse in tutto il mondo recentemente. Sebbene lo avessimo suggerito proprio da queste pagine l’autunno scorso, l’Italia non ha partecipato alla fase di pre-revisione, eppure da 10 anni aggiorna continuamente il proprio quadro normativo sulla “cannabis terapeutica”; vedremo se il sedicentèGoverno del Cambiamento” saprà cogliere questa occasione storica. Stati Uniti. Trump prepara la riforma sulle carceri che l’Italia non ha approvato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 giugno 2018 Riguarda soprattutto le misure alternative, incide sulla qualità della reclusione, prevede il divieto di far partorire le detenute in galera, anche se non rivede le pene per i piccoli reati. Gli Usa puntano sulla riforma dell’ordinamento penitenziario. Non si tratta di una riforma epocale come avrebbe voluto Obama, ma il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si è detto pronto a firmarla soprattutto per quanto riguarda le misure alternative al carcere per alcuni reati di lieve identità. Una “mini riforma” - come ha recentemente definito il presidente di Antigone Patrizio Gonnella - che però in Italia è stata bocciata proprio da un governo composto da forze politiche che non hanno nascosto, in campagna elettorale, simpatia per il presidente conservatore Trump. Quest’ultimo ha dimostrato, a sorpresa, di interessarsi del problema carcerario quando ha firmato la grazia per Alice Marie Johnson, una donna afroamericana di 62 anni condannata all’ergastolo per un crimine di droga non violento, che ha già trascorso 21 anni in carcere. Si tratta della donna per cui si è impegnata la star televisiva Kim Kardashian, che la scorsa settimana ha incontrato alla Casa Bianca il presidente proprio per parlare del suo caso. Kardashian, dopo essere venuta a conoscenza della storia di Johnson, aveva deciso di intervenire e si era messa in contatto con Ivanka Trump, pubblicizzando al tempo stesso la storia della donna; inoltre, sempre Kardashian aveva messo a disposizione della donna il proprio avvocato. Johnson sperava di uscire dal carcere con la precedente amministrazione, ma fu esclusa dalla lista di 231 persone, con simili condanne, graziate dall’allora presidente Barack Obama nel dicembre 2016. Ci ha pensato Trump e in seguito, a proposito della riforma, ha anche twittato “Votate la riforma e la firmo!”. Ma in che cosa consiste? Come già detto non si tratta di una riforma epocale e purtroppo non diminuisce le pene per i piccoli reati - in America altissime - e quindi rimarrebbe la discriminazione nei confronti dei detenuti neri e latinos, la maggioranza. Ma incide molto sulla qualità della detenzione e, in taluni casi, le misure alternative. Il disegno di legge darebbe la possibilità a migliaia di detenuti anziani e malati di tornare a casa e allo stesso tempo dovrebbe stanziare milioni di dollari in programmi di reinserimento. Tra i temi fondamentali c’è anche il divieto di far partorire le detenute in carcere e la possibilità di accedere a una liberazione anticipata. Punti, soprattutto sul discorso della decarcerizzazione, che presentano assonanza con la “mini riforma” nostrana. “Mini”, perché purtroppo il consiglio dei ministri del governo precedente ha vagliato solo alcuni decreti attuativi dell’intero impianto elaborato dalle scorse commissioni presiedute dal giurista Glauco Giostra e istituite dall’ex guardasigilli Orlando. Una riforma che non ha avuto l’ok definitivo dal precedente governo nonostante gli appelli sottoscritti da magistrati, intellettuali, giuristi, personalità appartenenti ad associazioni come Antigone e movimenti politici, Partito Radicale in primis. Il decreto attuativo principale - il quale aveva quasi concluso l’intero iter di approvazione - contiene soprattutto l’allargamento dell’affidamento in prova al servizio sociale per i condannati fino a 4 anni di carcere. Un allargamento che, dopo la recente sentenza della Consulta, diventa un adeguamento visto che gli ermellini hanno dichiarato incostituzionale la disparità che si è creata tra chi è già dentro e chi ha ricevuto una condanna. L’attuale guardasigilli Alfonso Bonafede che sul blog del Movimento Cinque Stelle ha scritto che “la nostra stella polare è la Costituzione”, in una recente intervista sul Fatto Quotidiano ha dichiarato che la riforma penitenziaria minerebbe il principio della certezza della pena. Eppure la pena è già certa, ma si tratta di rivedere l’esecuzione penale che può presentarsi sotto diverse forme. L’affidamento in prova è esattamente una pena da scontare e la riforma, inoltre, prevede addirittura una maggiore responsabilizzazione da parte del condannato. Un mini riforma che, negli Usa, perfino un ultra conservatore come Trump vorrebbe al più presto firmare.