Il volontariato in carcere, tra gratuità, direttive e controlli di Stefano Anastasia huffingtonpost.it, 12 giugno 2018 In occasione della XI Assemblea della conferenza nazionale del volontariato della giustizia, svoltasi venerdì scorso a Roma, io e Gabriella Stramaccioni, Garante delle persone private della libertà di Roma Capitale, siamo stati chiamati a esprimerci sulla possibilità di una nuova competenza per i Garanti dei detenuti, quella di essere i Garanti anche del volontariato, perché "oggi i tempi non sono facili neppure per la presenza e le attività dei volontari" in carcere. Non è la prima volta che mi capita di ricevere sollecitazioni a un ampliamento di orizzonte e di competenze nel mandato di Garante delle persone private della libertà. Tra il serio e il faceto, me lo hanno proposto direttori, sanitari e operatori penitenziari: tutte persone capacissime di garantirsi da sé o, al più, con una buona rappresentanza sindacale. Non ho mai avuto difficoltà, quindi, a declinare questi inviti a varcare i confini del mio mandato. Tanto più che direttori e operatori, sanitari e penitenziari sono frequentemente interlocutori istituzionali che stanno "dall’altra parte" nelle doglianze dei detenuti: non avversari, ma coloro a cui si deve chiedere che ne è di un adempimento, di una decisione, di un diritto invocato da una persona privata della libertà. Eppure la richiesta del volontariato non può essere ignorata, se non altro per riconoscenza della gratuità del loro impegno, offerto nell’esclusivo interesse delle persone di cui siamo stati chiamati a essere niente un po’ di meno che "garanti". Il Volontariato della giustizia ha ormai una lunga storia: più di trent’anni di presenza in carcere, venti da quando il Ministero della giustizia ne ha riconosciuto ruolo e funzione sottoscrivendo il primo protocollo con la sua Conferenza nazionale. E quindi va da sé che il Volontariato della giustizia possa rappresentarsi autonomamente, senza bisogno dei Garanti dei detenuti. Nel corso dell’Assemblea romana è intervenuto anche il capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, e non ha mancato di spendere parole di elogio nei confronti del volontariato. Dunque, se i tempi si fanno difficili e qualcuno chiude porte che si dovrebbero aprire, i primi garanti dei volontari sono la Conferenza nazionale e le Conferenze regionali che li rappresentano nei confronti dell’Amministrazione penitenziaria. Ciò nonostante, se il tema è posto, qualche problema ci deve essere e tocca da vicino i detenuti e i loro garanti. Negli ultimi mesi mi è capitato più volte, anche in contesti tutt’altro che nuovi o chiusi all’azione del volontariato di ricevere segnalazioni di attività interrotte o di iniziative rinviate a causa di revoche o di mancate concessioni di permessi all’ingresso dei volontari in carcere. E lì, quando viene limitato o precluso il rapporto con la comunità esterna, quando salta una iniziativa culturale o ricreativa, o anche il semplice sostegno morale o materiale che i volontari garantiscono ai detenuti, mi sento chiamato in causa in prima persona. Non aiuta il vecchio articolo 17 dell’ordinamento penitenziario, che non solo sottopone al parere favorevole del direttore e all’autorizzazione del magistrato l’accesso in carcere del volontariato, ma ne subordina l’azione alle direttive dello stesso magistrato e al controllo del medesimo direttore. Non una pur necessaria regia di iniziative basate sul principio di volontarietà, ma vere e proprie direttive e un vero e proprio controllo. Capita così che una volta un direttore non dia parere favorevole o lo revochi a seguito di un sospettoso "controllo" e un’altra che il magistrato non autorizzi o prescriva direttive vessatorie. Nei casi che mi sono capitati, non vengono autorizzate persone il cui nome risulta in banche dati di polizia per fatti di venti, trenta o quarant’anni prima, come se la finalità rieducativa della pena non valga anche per chi si offra volontario, magari essendo stato assolto o non essendo mai andato a processo per quell’antico accertamento; oppure vengono revocati permessi per condotte non vietate, ma non consentite espressamente, e dunque, in dubbio... o ancora al cambio di direttore o di magistrato si sospende tutto, così, di default, per rivalutare tutto e vedere chi veramente se lo merita di operare in carcere. Certo, questi sono casi limite e sono convinto che generalmente direttori e magistrati facciano il possibile per agevolare l’ingresso e la presenza della comunità esterna in carcere. Ma laddove ciò non avvenga, nell’esclusivo interesse delle persone private della libertà, penso che i Garanti debbano richiamare direttori e magistrati alle loro responsabilità di tutori (loro sì, "effettivi") della finalità rieducativa della pena, dell’apertura del carcere alla comunità esterna e del ruolo attivo del volontariato all’interno degli istituti di pena. *Coordinatore dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Garante per le Regioni Lazio e Umbria Il carcere è "luogo aperto al pubblico" di Valeria Citraro deiurecriminalibus.altervista.org, 12 giugno 2018 Ai fini della configurabilità del reato di oltraggio ex art. 341-bis c.p., la cella e - più in generale - il carcere è luogo aperto al pubblico e non di privata dimora: tali ambienti, infatti, si trovano nella piena e completa disponibilità dell’amministrazione penitenziaria, che ne può fare uso in ogni momento per qualsiasi esigenza di istituto; viceversa, non possono considerarsi nel “possesso” dei detenuti, ai quali non compete alcuno ius excludendi alios. Così la Cassazione sez. VI, con sent. n. 26028/18, depositata lo scorso 7 giugno. Centrale, nella definizione delle celle ed delle altre parti degli istituti penitenziari come luoghi aperti al pubblico, nella più risalente giurisprudenza di legittimità, è il rilievo che tutte le parti degli stabilimenti carcerari sono aperte ad una quantità indeterminata di persone, cioè a coloro che debbono esercitare la vigilanza sui detenuti stessi (cfr., in particolare, Sez. III, n. 2144 del 1979, Strambelli). In linea generale, infatti, la giurisprudenza tende a ritenere che il luogo aperto al pubblico è anche quello al quale può accedere una specifica categoria di persone che abbia determinati requisiti; tale nozione è stata affermata, a titolo esemplificativo, anche con riguardo al reato di atti osceni in luogo pubblico, in relazione al pronto soccorso di un ospedale (Sez. III, n. 12988 del 03/12/2008, dep. 2009, Bruno); al gabinetto di radiologia di un ospedale pubblico, cui poteva accedere solo il personale infermieristico e medico (Sez. III, n. 8616 del 01/06/1983, Scope). Tale nozione non può che essere ribadita nel caso di specie, avuto riguardo alla natura ed alla destinazione, giuridica e di fatto, dell’istituto penitenziario poiché, anche se non aperto all’accessibilità non generalizzata e libera per tutte le persone che vogliano introdurvisi, ne è consentita la fruizione, anche se limitata, controllata e funzionalizzata ad esigenze non private, ad un numero indeterminato di soggetti, che hanno qualificato titolo di accedervi, senza legittima opposizione di chi sull’ambiente stesso eserciti un potere di fatto o di diritto. Ai fini definitori non rileva l’ossimoro linguistico (luogo aperto/carcere) denunciato dalla difesa, né che i soggetti ristretti nell’istituto penitenziario siano soggetti determinati (e non chiunque); né, ancora, che i detenuti non vi accedano liberamente e di loro spontanea iniziativa, ma coattivamente, e per la soddisfazione di un interesse pubblico, quale quello del trattamento punitivo, e non di un interesse voluttuario - associato alla fruizione di un film, di una rappresentazione teatrale, di una mostra, di una celebrazione liturgica, ovvero per assolvere ad altre incombenze sociali e civili, se si pensa all’ospedale, alla scuola, ad una caserma - poiché ciò che rileva è che, nel rispetto dei criteri che regolano l’accesso e la permanenza, un numero indeterminato di soggetti si trovino a convivere nella struttura. Conclusivamente, ciò che è essenziale, ai fini della qualificazione dell’ambiente come luogo aperto al pubblico, è la sua destinazione alla fruizione di un numero indeterminato di soggetti che abbiano la possibilità pratica o giuridica di accedervi, a condizioni poste, come, appunto, si verifica per i detenuti e per il personale di Polizia Penitenziaria nell’ambito dell’Istituto. No a un nuovo processo per bancarotta dopo l’assoluzione per appropriazione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 giugno 2018 Corte di cassazione, Quinta sezione penale, sentenza 6 giugno 2018, n. 25651. Non può essere processato per bancarotta chi è già stato assolto, per i medesimi fatti, dall’accusa di appropriazione indebita. Si tratta infatti di una violazione del principio del ne bis in idem, così come interpretato di recente dalla Corte costituzionale. Lo afferma, ed è la prima volta, la Corte di cassazione con la sentenza 25651/2018 della Quinta sezione penale. La pronuncia ha così annullato senza rinvio la condanna inflitta nel 2016 per bancarotta fraudolenta patrimoniale a carico dell’amministratore di fatto di una srl dichiarata fallita. Secondo l’accusa, l’imputato aveva distratto 35.000 euro, corrisposti attraverso assegni da debitori della società, ma destinati poi a terzi che con la società nulla avevano a che fare. Tra i motivi di ricorso, la difesa aveva ricordato come per il medesimo fatto, l’appropriazione di quella cifra, l’imputato era già stato giudicato e assolto anni prima, nel 2012. La Cassazione, nell’affrontare la questione, ha anch’essa fatto ricorso alla memoria, questa volta dei precedenti, ricordando che in passato si sono avvicendati 2 orientamenti: uno, più risalente, assolutamente favorevole alla coesistenza tra bancarotta e appropriazione, imperniato sulla considerazione che all’unicità di un fatto storico può riferirsi una pluralità di eventi giuridici, e un altro, più recente, per il quale solo l’avvio del procedimento per bancarotta esclude la possibilità di un secondo giudizio per l’appropriazione e non viceversa. Ora però entrambi questi indirizzi devono essere abbandonati. Decisiva in questo senso è stata la sentenza della Corte costituzionale numero 200 del 2016, con la quale è stata fatta una serie di puntualizzazioni sulla fisionomia del medesimo fatto anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Per concluderne l’illegittimità dell’articolo 649 del Codice di procedura penale, nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che esiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza irrevocabile e il reato per il quale è iniziato il nuovo procedimento. Un nuovo giudizio cioè è possibile solo se il fatto che si intende punire è “naturalisticamente” diverso “e non già perché con la medesima condotta sono state violate più norme penali e offeso più interessi giuridici”. E allora la diversità della bancarotta per distrazione rispetto all’appropriazione indebita sta piuttosto nell’offesa provocata all’interesse dei creditori per la diminuzione della garanzia patrimoniale; ma si tratta di una diversità estranea all’identificazione del fatto, come fotografata dalla Consulta. Confisca non definitiva: il locatario non si può cacciare se in regola con le spese di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 12 giugno 2018 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 11 giugno 2018 n. 26603. Nel caso in cui sull’immobile non sussista un provvedimento definitivo di confisca, con il conseguente passaggio del bene allo Stato della proprietà del bene attualmente in sequestro, anche al soggetto che non sia proprietario dell’immobile ma vanti un diritto reale di godimento (la locazione) deve essere garantita la continuità a poter godere del bene. Questo il principio sancito dalla Cassazione sentenza 26603/2018. La vicenda - La Corte, in particolare, ha chiarito che sul beneficiario ricade esclusivamente l’onere di adempiere le spese condominiali e questo per non lasciare delle situazioni incerte al momento in cui il bene tornerà nella disposizione dell’amministrazione. Quindi quando il sequestro di prevenzione ha per oggetto un bene immobile, il potere di sgombero, cioè di allontanarne coattivamente gli occupanti con la forza pubblica, può essere esercitato nella fase di esecuzione del provvedimento impositivo del vincolo. E così estendere tale potere a soggetti e a casi diversi da quelli tassativamente previsti, rappresenterebbe un’indebita estensione in malam partem di una disposizione invasiva della sfera di libertà dei singoli. Secondo la Cassazione pertanto l’adozione del provvedimento di sgombero da parte del giudice delegato non trova una valida giustificazione. Infatti, se è vero che rientra tra i compiti del giudice delegato quello di provvedere alla custodia, conservazione e amministrazione dei beni sequestrati, non è previsto dal vigente sistema normativo anche che il suo potere si estenda sino al punto di ordinare l’allontanamento coattivo dell’immobile di cui si discute, posto che l’unica procedura ammessa dalla legge per ottenere l’adempimento dell’obbligazione di pagamento delle spese e oneri immobiliari, consiste nell’ordinaria azione giudiziaria da instaurarsi dinanzi al giudice competente. Grazie alla disciplina dettata dalla recente legge 161/2017 di modifica dell’articolo 40 del Dlgs 159/2011 nel caso previsto dal comma 2 dell’articolo 47 del Rd 16 marzo 1942 n. 267, “il tribunale, e non quindi il giudice delegato con decreto revocabile in ogni momento, dispone il differimento dell’esecuzione dello sgombero non oltre il decreto di confisca definitivo. Il beneficiario, pena la revoca del provvedimento, è tenuto a corrispondere l’indennità eventualmente determinata dal tribunale e a provvedere a sue cure alle spese e agli oneri inerenti all’unità immobiliare”. Conclusioni. Per concludere viene formalizzato il principio che il mancato pagamento delle spese condominiali giustifica l’allontanamento coattivo del proposto dell’abitazione familiare sottoposta a sequestro. Reati stradali: prelievo ematico e consenso dell’interessato Il Sole 24 Ore, 12 giugno 2018 Circolazione stradale - Reato stradale - Accertamento del reato - Prelievo di sangue - Consenso dell’interessato - Necessità - Condizioni. In tema di reati stradali, in caso di prelievo ematico richiesto dall’autorità giudiziaria e finalizzato all’accertamento della presenza di alcol o sostanze stupefacenti nel sangue, il conducente può opporre un espresso dissenso al prelievo, fatte salve le conseguenze penali di tale dissenso. Diverso il caso di prelievo ematico effettuato per le terapie di pronto soccorso successive all’incidente stradale, non preordinato a fini di prova della responsabilità penale, ma di cura e di assistenza, i cui risultati possono essere utilizzati per l’accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza senza che rilevi la mancanza di un preventivo consenso dell’interessato. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 5 giugno 2018 n. 25127. Circolazione stradale - Guida in stato di ebbrezza - Accertamento dello stato di ebbrezza - Prelievo ematico - Utilizzabilità - Condizioni - Limiti. In tema di accertamento ematico utilizzabile per la dimostrazione del reato di guida sotto l’influenza dell’alcool, possono verificarsi due distinte situazioni a seconda che il prelievo ematico venga eseguito nell’ambito di un protocollo medico di pronto soccorso, ovvero a mera richiesta della polizia giudiziaria qualora i sanitari abbiano ritenuto invece di non sottoporre il conducente a cure mediche e a prelievo ematico. Nel primo caso, l’acquisizione del risultato dall’accertamento ematico è prevista espressamente dalla legge (articolo 186, comma 5, C.d.s.) onde non è affatto necessario che l’interessato venga avvertito, a tutela del diritto di difesa, della facoltà di nominarsi un difensore, mentre un suo eventuale rifiuto al prelievo ematico, se informato previamente della finalità del prelievo medesimo, potrebbe condurre alla configurazione del reato di rifiuto di cui al comma 7 del citato articolo 186.Diversamente, nella seconda ipotesi, la richiesta degli organi di polizia giudiziaria di effettuare l’analisi del tasso alcolemico per via ematica, in presenza di un dissenso espresso dell’interessato, è illegittima e, quindi, l’eventuale accertamento, comunque effettuato a mezzo del prelievo ematico da parte dei sanitari, sarebbe inutilizzabile ai fini della responsabilità per una delle ipotesi di reato previste dal comma 2 dell’articolo 186 C.d.s. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 30 gennaio 2017 n. 4234. Circolazione stradale - Stato di ebbrezza - Analisi del sangue - Inutilizzabilità - Trasgressore - Assistenza di un legale. Nell’ipotesi di guida in stato di ebbrezza sono inutilizzabili le analisi del sangue effettuate in ospedale dopo il sinistro su richiesta della polizia se non viene comunicato al trasgressore che può farsi assistere da un legale. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 30 maggio 2016 n. 22711. Guida in stato di ebbrezza - Accertamento dello stato di ebbrezza - Prelievo ematico richiesto dalla polizia giudiziaria in assenza di esigenze sanitarie - Utilizzabilità - Condizioni - Limiti - Previo avviso delle facoltà difensive - Omissione - Nullità - Deducibilità - Fattispecie. In tema di guida in stato di ebbrezza alcolica, se i sanitari abbiano ritenuto di non sottoporre il conducente a cure mediche e a prelievo ematico, la richiesta degli organi di polizia giudiziaria di effettuare l’analisi del tasso alcolemico per via ematica presuppone l’avviso all’indagato della facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia, in mancanza del quale si configura una nullità a regime intermedio, non più deducibile, secondo le regole generali, dopo la deliberazione della sentenza di primo grado, alla stregua di quanto previsto dall’articolo 180 del C.p.p., richiamato dall’articolo 182, comma 2°, secondo periodo, del C.p.p. (da queste premesse, la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna basata solo su un accertamento ematico irritualmente effettuato senza il previo avviso all’interessato delle garanzie defensionali, sul rilievo che l’eccezione di nullità era stata tempestivamente sollevata dal difensore nell’udienza celebrata in primo grado con giudizio abbreviato). • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 23 novembre 2015 n. 46386. Circolazione stradale - Guida in stato di ebbrezza - Accertamenti preliminari all’effettuazione dell’alcoltest - Avviso della facoltà di nominare un difensore - Necessità - Esclusione - Ragioni. In tema di disciplina della circolazione stradale, la polizia giudiziaria non ha l’obbligo di dare avviso della facoltà di nominare un difensore di fiducia alla persona sottoposta agli accertamenti qualitativi non invasivi e alle prove previsti dall’art. 186, comma terzo, cod. strada, in quanto gli stessi hanno funzione meramente preliminare rispetto a quelli eseguiti mediante etilometro e, come tali, restano estranei alla categoria degli accertamenti di cui all’art. 354 cod. proc. pen. • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 5 febbraio 2015 n. 5396. Taranto: in cella con problemi psichiatrici, tenta il suicidio e muore di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 giugno 2018 Alla fine è riuscito nel suo intento. È morto domenica scorsa in ospedale dopo aver tentato di suicidarsi nel carcere di Taranto. Si chiamava Michele La Neve e presentava gravi problemi psichiatrici. Nel tardo pomeriggio di mercoledì scorso, Michele, un tarantino di 38 anni che era agli arresti domiciliari, si presentò al pronto soccorso dell’ospedale SS. Annunziata di Taranto, quando all’improvviso si impossessò di ferri chirurgici e di alcune siringhe minacciando pazienti e personale sanitario. Vani sono risultati i ripetuti tentativi dei poliziotti di calmare l’uomo fin quando, approfittando di un momento di distrazione, sono intervenuti per bloccarlo. Le operazioni per portarlo alla calma non erano infatti state semplici. Gli agenti con l’ausilio di altri colleghi arrivati subito dopo sono riusciti finalmente a bloccarlo nonostante i ripetuti tentativi di Michele di liberarsi in maniera violenta provocando numerosi danni ai locali del pronto soccorso. L’uomo, dopo essere stato riportato alla calma anche con l’intervento dei sanitari dell’ospedale, è stato dichiarato in arresto per violenza, resistenza, lesioni e minacce a pubblico ufficiale, per danneggiamento aggravato, interruzione di pubblico servizio e furto aggravato di materiale sanitario e di medicinali ospedalieri. Dopo le formalità di rito, su disposizione dell’autorità giudiziaria è stato condotto nella locale casa circondariale. Il giorno dopo, in carcere, Michele ha tentato di impiccarsi tramite rudimentale cappio al collo legato alla grata superiore della porta di ingresso alla stanza. La dinamica l’ha denunciata Federico Pilagatti della segretaria nazionale del Sappe, il Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria: “Fortunatamente, l’unico poliziotto in servizio nella sezione, peraltro sottoposto a carichi di lavoro massacranti è prontamente intervenuto lanciando l’allarme che ha richiamato l’attenzione sia di altri poliziotti che del sanitari in servizio nel carcere del capoluogo ionico”. In attesa “dell’arrivo del 118 - ha spiegato sempre Pilagatti - i sanitari e i pochi poliziotti in servizio hanno evitato il decesso del detenuto praticando le cure del caso”. Purtroppo non si è potuta evitare la morte. Ha emesso l’ultimo respiro domenica scorsa in ospedale. Ancora una volta, si accendono i riflettori sui disagi psichiatrici nelle patrie galere. Sull’episodio è intervenuta la locale associazione radicale Marco Pannella. “Sicuro che il carcere fosse la scelta migliore per un soggetto che ha evidenti problemi psichiatrici? Quanti sono i soggetti con queste condizioni ristretti nel carcere di Taranto? Dove sono le Rems in Puglia? Sono sufficienti per tutti i detenuti psichiatrici che per legge non devono stare in carcere ma in strutture idonee predisposte dal sistema sanitario regionale? - sono gli interrogativi che vengono posti in una nota dell’associazione - effettueremo queste ed altre verifiche attraverso l’ispezione autorizzata dal Dap e programmata presso il carcere di Taranto per il prossimo 15 giugno”. Sulla situazione carceraria interviene anche il consigliere regionale di Sinistra Italiana/Liberi e Uguali Mino Borraccino. “La condizione dei detenuti del carcere di Taranto, denunciata anche recentemente dal personale operante nella struttura jonica, è al centro dell’agenda politica di Sinistra Italiana Federazione dopo il sit-in del 31 maggio scorso, fatto dagli agenti penitenziari davanti alla casa circondariale, ho inviato formale richiesta di visita alla direttrice, dottoressa Baldassari, per conoscere più da vicino le problematiche dell’istituto penitenziario jonico”. Sabato mattina - all’indomani del tentato suicidio - il consigliere regionale Mino Borraccino, accompagnato da una delegazione del partito composta dal Segretario provinciale SI Taranto, Maurizio Baccaro, dall’avvocato Luana Riso, responsabile del settore Giustizia, dall’avvocato Mimmo Portacci, responsabile Welfare, e da Elisa Tomai, responsabile della Comunicazione, ha visitato il carcere di Taranto. “Con estrema sensibilità cogliamo il grido d’allarme che lanciano gli agenti penitenziari ed i rappresentanti sindacali per il grave disagio che si vive quotidianamente nel carcere di Taranto a causa del sovraffollamento della struttura - aggiunge Borraccino - a fronte di una capienza regolamentare di 315 detenuti, infatti, la casa circondariale di Taranto ospita al momento 554 detenuti: una condizione che i provoca un forte disagio sociale oltre che umano”. Michele La Neve è morto. Si poteva evitare? Il carcere era la soluzione per un uomo che necessitava di cure psichiatriche? La famiglia di Michele, attraverso i loro legali di fiducia ha presentato una denuncia/ esposto alla Procura della Repubblica, affinché venga fatta piena luce sull’episodio. Napoli: muore in carcere Giuseppe Ivone, uno dei boss del Rione Traiano vocedinapoli.it, 12 giugno 2018 Poche settimane fa era stato condannato in primo grado, con rito abbreviato, a 20 anni di carcere nell’ambito del processo che vede coinvolti altri 78 imputati appartenenti, fino a prova contraria, alla criminalità organizzata del Rione Traiano. Ma Giuseppe Ivone, detto ‘o papele, non ce l’ha fatta. È stato stroncato da un malore nel carcere di Poggioreale dove era detenuto dal 31 gennaio 2017, giorno in cui i carabinieri smantellarono le famiglie-pusher del Rione con quasi 100 arresti. Sulla sua morte, come da prassi, è stata aperta un’inchiesta e il magistrato ha disposto l’autopsia. Peppuccio ‘o papele apparteneva a una delle famiglie più attive nella gestione dello spaccio h24 soprattutto in via Tertulliano e via Romolo e Remo. Coinvolto nell’inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli insieme ad altre cinque persone appartenenti alla sua famiglia, Ivone era anche il fratellastro di Raffaele Stolder, ras di Forcella detenuto da anni. Dopo aver vissuto nel centro storico di Napoli per un lungo periodo, Ivone si trasferì nel Rione Traiano dopo il pentimento e gli arresti di buona parte della famiglia Giuliano. Ivone abitava nello stesso palazzo di Carmine Giuliano ed era un fedelissimo della famiglia che ha dominato la scena criminale napoletana per un ventennio. Poi il passaggio nel Rione Traiano prima dell’omicidio del figlio Raffaele avvenuto sempre a Forcella, dove era rimasto a vivere con la madre, nel marzo del 2008. Secondo le dichiarazioni e le accuse dell’ex boss di Forcella, Maurizio Ferraiuolo (tra l’altro parente degli Ivone) proprio Giuseppe Ivone teneva a libro paga alcuni esponenti delle forze dell’ordine corrotti. Livorno: le problematiche del carcere di al centro di una conferenza livorno24.com, 12 giugno 2018 A seguito della visita del Garante Regionale dei detenuti Franco Corleone alla Casa Circondariale delle Sughere, il sindaco Filippo Nogarin ha tenuto a palazzo comunale una conferenza stampa per illustrare le grosse problematiche in cui versa il carcere livornese e le azioni che si intende intraprendere per arrivare a soluzione. Insieme al sindaco Nogarin anche il Garante Corleone e il Garante dei detenuti del Comune di Livorno Giovanni De Peppo. “Il carcere delle Sughere deve essere posto in primo piano all’attenzione del Governo - ha detto Filippo Nogarin. I problemi all’interno sono tanti, la situazione è insostenibile ed anche il suicidio del detenuto del 5 giugno scorso è un suicidio annunciato”. “Non voglio dire che non ci sia la volontà di intervenire - ha precisato il sindaco ricordando tra l’altro le rassicurazioni ricevute dal responsabile del Provveditorato della Amministrazione Penitenziaria di Toscana e Umbria, Antonio Fullone sui tempi dati per l’inizio di lavori di ristrutturazione - ma il nodo sta nel dedalo burocratico di carte e fascicoli che passano da un dipartimento all’altro e che non portano mai a conclusione le procedure di appalto. Questo non è accettabile. Lo Stato deve farsi garante perché invece i lavori possano partire al più presto per la vita dei carcerati e per chi ci lavora”. “Il fatto che siamo qui in questa conferenza a palazzo - ha sottolineato il Garante Corleone - significa che il carcere non è abbandonato dalla città”. Ha quindi aggiunto che “ È troppo tempo che i problemi che lo rendono inadeguato e critico sussistono, quando invece l’istituto penitenziario Le Sughere avrebbe tutti gli spazi per consentire una pena accettabile sul piano dei diritti”. La Casa Circondariale “Le Sughere” che al momento custodisce 248 persone - di cui 106 per detenzione e piccolo spaccio - presenta problemi di ordine strutturale che ostacolano il funzionamento delle attività all’interno dell’istituto, ma anche di mancanza di strategie di trattamento per la riabilitazione dei detenuti dovuta alla carenza di personale addetto. Sono stati ricordati in conferenza i problemi strutturali che riguardano l’inagibilità delle docce per i detenuti del “transito”, costretti a fruire a turno delle due docce dello “smistamento” con disagio sia per loro che per gli agenti di custodia. La questione irrisolta della cucina dell’Alta Sorveglianza, attrezzata e bloccata da una questione di problematica antincendio. Lo stesso problema sussiste per la piccola cucina, non funzionante, (abbandonata, ma ancora attrezzata con strumentazione recuperabile) dell’ex femminile (reparto verde) dove attualmente si registrano notevoli infiltrazioni dovute ai lavori sulle sovrastanti docce. Se non si interviene con urgenza tali infiltrazioni potrebbero determinare gravi danni alle strutture. La cucina in questione potrebbe assicurare il vitto per il reparto ex femminile (media sicurezza) evitando il trasporto all’aperto per centinaia di metri ed evidentemente assicurando “pasti” caldi soprattutto nei mesi più freddi (attualmente tutti i pasti sono confezionati da una cucina centrale in condizioni assai precarie). Tra i problemi urgenti da risolvere anche l’intero sistema di sicurezza che non funziona a seguito dell’alluvione del settembre scorso. Server allagati e telecomandi fuori uso che comportano un grave dispendio di energie e presenze fisiche da parte della polizia penitenziaria. Nell’Alta Sorveglianza il mancato funzionamento dell’ascensore costringe i detenuti a trascinare per le scale i carrelli del vitto con un disagio considerevole. Del tutto fuori uso il grande salone indispensabile per spettacoli, eventi, attività di riabilitazione. Attualmente tutto si svolge nei corridoi con evidente disagio e scoraggiamento da parte del volontariato che avanza proposte. Ultima segnalazione: la ludoteca. Già attrezzata e a disposizione delle famiglie dei detenuti - realizzata con il supporto di Ikea e del Telefono Azzurro - deve essere ancora “inaugurata”. Sul piano delle attività di trattamento è stata inoltre denunciata la mancanza di educatori. Le attività di trattamento di fatto oggi si reggono solo su tre operatrici di cui una ricopre funzioni di responsabile dell’area e assomma quindi innumerevoli competenze, funzioni e responsabilità che non facilitano certo l’attivazione di proposte e iniziative. Genova: i figli dei carcerati salgono sulla "Barchetta Rossa" per incontrare i genitori di Gloria Barbetta farodiroma.it, 12 giugno 2018 I "ragazzi della via Pal" escono dal ghetto grazie a "La barchetta rossa e la zebra", coraggioso progetto per aiutare i figli dei carcerati di Genova ad uscire dall’emarginazione e dalla povertà educativa nelle quali troppo spesso si vengono a trovare. Solo per l’errore di fare ricadere le colpe dei genitori sui figli. Le Case circondariali di Marassi e Pontedecimo con la cooperativa capofila del progetto “Il Cerchio delle Relazioni”, la “Fondazione Francesca Rava N.P.H. Italia Onlus” e numerosi altri partners hanno deciso di togliere dalla strada i figli dei carcerati, che proprio nelle vie situate vicino alle carceri genovesi stazionano mentre uno dei genitori attende l’orario delle visite dell’altro che è rinchiuso. Aspettano fuori, oppure in qualche bar, annoiandosi e rimanendo chiusi nel disagio interiore di non sapere bene qual è la loro storia famigliare, troppo spesso ingarbugliata e poco spiegabile ad un minore. Ma qualcosa si sta muovendo: a parlare del progetto Elisabetta Corbucci del “Cerchio delle Relazioni” e la vice presidente della “Fondazione Rava”, Maria Chiara Roti: “Si tratterà di rendere a misura di bambino le stanze adibite all’attesa dell’incontro coi congiunti detenuti a Marassi o a Pontedecimo - affermano le due organizzatrici del suggestivo progetto di reinserimento sociale dei minori e delle stesse famiglie delle quali fanno parte. Ci sarà una parte del progetto dedicata alla formazione per le persone che lavorano a contatto con la peculiare realtà del carcere, una parte invece sarà a scopo educativo per i ragazzini e per facilitare il rapporto con le famiglie”. Il programma è già stato illustrato lo scorso maggio ad un centinaio di detenuti: il progetto La barchetta rossa e la zebra è finanziato dal Bando Prima Infanzia (da zero a sei anni) ed è approvato dall’Impresa Sociale Con i Bambini. La barchetta rossa e la zebra è una iniziativa sviluppata in sinergia con l’amministrazione penitenziaria locale e dell’esecuzione penale esterna, il Comune di Genova e le associazioni territoriali del terzo settore: la cooperativa sociale Il Biscione, Veneranda Compagnia di Misericordia, il centro medico psicologico pedagogico LiberaMente, Arci Genova e Ceis Genova. Si avvale inoltre del supporto dell’associazione Bambini Senza Sbarre Onlus, impegnata nella tutela dei diritti dei figli dei detenuti. Negli spazi riadattati delle due case circondariali i bambini potranno essere seguiti dagli educatori in varie attività ludiche e formative, in attesa dell’incontro con la mamma o il papà. Elisabetta Corbucci illustra le finalità del progetto evidenziando anche che del team fa parte pure “Manuela Caccioni con la quale da tempo già lavoro al Cerchio delle Relazioni, che gestisce il centro antiviolenza dedicato alle donne, centro che prima si trovava in salita Mascherona ed ora si è trasferito in piazza Colombo 3/7 sempre a Genova; al Cerchio delle Relazioni però gestiamo da qualche tempo pure uno spazio dedicato all’uomo maltrattante e lavoriamo in carcere per aiutare chi agisce violenza contro le donne ed i minori mentre al carcere femminile di Pontedecimo siamo attivi con uno sportello dedicato al tema della violenza”. Il primo step è fatto: adesso occorre proseguire alacremente nella messa in atto del rinnovo dei locali “preposti ad accogliere i figli dei detenuti che sono in attesa di incontrare papà oppure mamma. Questi spazi al carcere di Marassi non esistono e per questo i bambini si trovano costretti ad aspettare la visita fuori dalla prigione, per strada oppure in qualche bar”. Complesso il procedimento per riuscire a rendere a misura di bambino le stanze per l’attesa dell’incontro col carcerato: perché alla fine è di questo che si tratta: un bambino spesso piccolo deve incontrare un genitore che ha infranto più o meno pesantemente le regole del vivere civile nella nostra società e per questo motivo si trova rinchiuso. Una situazione spesso “non chiara ai bambini stessi, che molte volte vivono portando con sé un segreto pesante - dice Corbucci. Il genitore che deve crescere da solo il figlio racconta per comodità che l’altro è via per lavoro, ma i dubbi si stratificano nella mente e nell’anima del piccolo, perché il genitore non telefona e poi non torna mai a casa”. Materiale per giocare dunque, mobili simili a quelli che si possono trovare in un’abitazione normale, peluche e colori soft, tutto al fine di creare un ambiente adatto ad ospitare le famiglie dei carcerati e a ricreare un rapporto “tra il genitore che è dentro ed il suo ragazzo, visto che si tratta di situazioni spesso peculiari dove il rapporto tra padre e figlio è tutto da costruire”. Colloqui psicologici educativi direttamente nel carcere coi genitori fanno parte delle strategie del progetto La barchetta rossa e la zebra: ma quanto costa questo suggestivo piano? “600.000 euro per tre anni, messi a disposizione dall’Impresa Sociale con i Bambini, una piattaforma delle fondazioni bancarie che possiedono fondi da destinare al sociale -spiega Corbucci- Molte ore del progetto saranno dedicate alla formazione ed allo scambio di esperienze fra i vari operatori, tra i quali gli assistenti sociali, la polizia penitenziaria e U.E.P.E. che si occupa delle persone dopo la detenzione”. L’idea è quella di facilitare il rapporto tra essere ‘dentro’ le mura carcerarie e l’esserne fuori. Le cooperative coinvolte già lavorano all’interno del carcere, la rete sociale quindi era già pronta e dopo i tre anni “bisognerà trovare i modi, i fondi, per andare avanti. La ristrutturazione degli spazi è in fase di partenza, abbiamo iniziato a contattare gli enti per la formazione ed anche il Comune di Genova è partner importante di questa iniziativa”. E i carcerati come hanno preso tale prospettiva? Pare “molto bene: potranno esserci alcune difficoltà sui singoli casi, ad esempio vi sono uomini agli arresti domiciliari e lì bisognerà vedere come riuscire ad incontrarli tutti assieme coi loro bambini”. Corbucci ha infatti ribadito: “I genitori spesso si vergognano di dire che papà o mamma sono in carcere: il lavoro da eseguire sulle famiglie e i ragazzi è proprio quello di riuscire ad avvicinarli alla realtà: troppi segreti impediscono di avere una relazione di fiducia, però un genitore che si dice lavori, non telefona e soprattutto non torna mai a casa la sera mette solo confusione nella testa dei piccoli. Se sa il motivo per cui il genitore non può essere presente, allora sarà più facile lavorarci sopra”. A volte esistono anche “episodi di violenza non detti -affermano dal Cerchio delle Relazioni- Bisogna che le persone arrivino a confidarsi per aiutarci a trovare per loro un’adeguata forma di protezione. Molte donne ad esempio hanno paura che poi la violenza si ritorca contro di loro”. Soddisfatta Maria Chiara Roti della ‘Fondazione Rava’: “Lavoriamo per l’infanzia - ha dichiarato con una punta di orgoglio - sia in Italia che nel mondo. A Genova siamo in partnership con l’ospedale pediatrico Gaslini e con Casa del Re, struttura per il bambino collocata nel centro storico; la direttrice del carcere di Marassi Maria Milano ci ha chiesto aiuto per accogliere i bambini che aspettano di parlare coi genitori in un luogo congruo: l’attesa per le visite è spesso lunga e i controlli prima di entrare in carcere sono minuziosi”. Importante lavorare in team tra operatori vari coinvolti dalla detenzione dei genitori al fine di “spiegare agli operatori stessi i diritti che hanno sia i figli che i genitori di potersi incontrare con la giusta serenità -spiega Roti- L’associazione Bambini Senza Sbarre per prima ha promosso i diritti della prole dei carcerati, i piccoli non possono vivere col segreto che spesso portano, dicendo al mondo che papà o mamma sono malati, oppure lontani per lavoro. È un carico troppo grande sulle loro esili spalle”. Serve conoscere i bisogni di queste famiglie particolari e spesso occorre pure orientarli nella scelta di servizi sanitari e scolastici: “Quando un detenuto viene preso in carico da un team di educatori ed operatori del settore, la recidiva si abbassa quando tornerà ad essere un uomo libero” spiega Roti. I detenuti di Marassi e Pontedecimo hanno partecipato al progetto disegnando il loro logo ideale, che, con l’aiuto di altri esperti facenti parte del gruppo attivato, è stato trasformato nella barchetta rossa e nella zebra che danno nome al progetto in questione. I carcerati parteciperanno ai lavori di ripristino degli spazi dedicati ai loro ragazzi con apposite borse lavoro: il colore predominante sarà il rosso, la barchetta vuole essere idealmente un omaggio a Genova e al mare, il rosso sarà quello tipico delle facciate liguri, la zebra una punta di ironia e un animale simpatico ai bambini: “Sarà una zebra colorata che girerà quindi per le mura del carcere - conclude la vice presidente della Fondazione Rava. Su questa improvvisata Arca di Noè saliranno anche altri animali, il tema dei figli dei detenuti è un argomento piuttosto nuovo per il sociale, un ambito dove si tratta di lavorare molto per affrontarlo. Per la nostra fondazione fare parte di questo progetto è una sfida nuova ed entusiasmante”. Ancona: incontro formativo “La speranza oltre le sbarre” diocesiancona.it, 12 giugno 2018 Si è tenuto presso l’auditorium Stella Maris in Ancona l’incontro formativo promosso da Ucsi Marche, Ordine dei Giornalisti e dall’Arcidiocesi di Ancona-Osimo sul tema: “La speranza oltre le sbarre”. È stata l’occasione per presentare il libro di Maurzio Gronchi e della giornalista Rai Angela Trentini del libro “La speranza oltre le sbarre”, viaggio in un carcere di massima sicurezza in cui per la prima volta gli assassini dei giudici Borsellino, Falcone e Livatino si raccontano. Non un libro scoop, ma un libro inchiesta che non guarda all’indulgenza, ma alla conoscenza degli uomini e dei fenomeni che li hanno resi “mostri” da prima pagina. All’incontro ha preso parte l’arcivescovo Spina che ha trattato il tema: “Papa Francesco e i detenuti. La Chiesa per una pena riabilitativa e non solo detentiva”. Di seguito viene riportata la relazione dell’Arcivescovo: “È a tutti evidente come il pontificato di papa Bergoglio è segnato dalla cifra della misericordia. In lui è evidente una misericordia del cuore e una misericordia delle mani. Quella con le mani è fatta di incontri, di ascolto, di ponti verso tutti soprattutto verso gli “scartati” e tra questi ci sono i detenuti che lui in diverse occasioni ha visitato nelle carceri. Nei diversi incontri sui giornali sono apparsi grossi titoli: “Il Papa abbraccia i detenuti; il Papa prega per i detenuti, il Papa lava i piedi ai detenuti islamici”. L’incontro con loro è stato sempre un ascoltare le loro domande e poi parlare cuore a cuore. Nel Piazzale della Casa Circondariale di Castrovillari (Cosenza) sabato 24 giugno 2014, rivolgendosi ai detenuti ha detto: “Cari sorelle e fratelli, il primo gesto della mia visita pastorale è l’incontro con voi, in questa Casa circondariale di Castrovillari. In questo modo vorrei esprimere la vicinanza del Papa e della Chiesa ad ogni uomo e ogni donna che si trova in carcere, in ogni parte del mondo. Gesù ha detto: “Ero in carcere e siete venuti a trovarmi” (Mt 25,36). Nelle riflessioni che riguardano i detenuti, si sottolinea spesso il tema del rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e l’esigenza di corrispondenti condizioni di espiazione della pena. Questo aspetto della politica penitenziaria è certamente essenziale e l’attenzione in proposito deve rimanere sempre alta. Ma tale prospettiva non è ancora sufficiente, se non è accompagnata e completata da un impegno concreto delle istituzioni in vista di un effettivo reinserimento nella società (cfr Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti alla 17ª Conferenza dei Direttori delle Amministrazioni penitenziarie del Consiglio d’Europa, 22 novembre 2012). Quando questa finalità viene trascurata, l’esecuzione della pena degrada a uno strumento di sola punizione e ritorsione sociale, a sua volta dannoso per l’individuo e per la società. E Dio non fa questo, con noi. Dio, quando ci perdona, ci accompagna e ci aiuta nella strada. Sempre. Anche nelle cose piccole. D’altra parte, un vero e pieno reinserimento della persona non avviene come termine di un percorso solamente umano. In questo cammino entra anche l’incontro con Dio, la capacità di lasciarci guardare da Dio che ci ama. È più difficile lasciarsi guardare da Dio che guardare Dio. È più difficile lasciarsi incontrare da Dio che incontrare Dio, perché in noi c’è sempre una resistenza. E Lui ti aspetta, Lui ci guarda, Lui ci cerca sempre. Questo Dio che ci ama, che è capace di comprenderci, capace di perdonare i nostri errori. Il Signore è un maestro di reinserimento: ci prende per mano e ci riporta nella comunità sociale. Il Signore sempre perdona, sempre accompagna, sempre comprende; a noi spetta lasciarci comprendere, lasciarci perdonare, lasciarci accompagnare. Auguro a ciascuno di voi che questo tempo non vada perduto, ma possa essere un tempo prezioso, durante il quale chiedere e ottenere da Dio questa grazia. Così facendo contribuirete a rendere migliori prima di tutto voi stessi, ma nello stesso tempo anche la comunità, perché, nel bene e nel male, le nostre azioni influiscono sugli altri e su tutta la famiglia umana. Durante la visita pastorale alla casa circondariale “Giuseppe Salvia” di Napoli, meglio conosciuto come Carcere di Poggioreale-Napoli, nel marzo del 2015, Papa Francesco ha incontrato e ha pranzato con una delegazione di detenuti. “Cari fratelli, conosco le vostre situazioni dolorose: mi arrivano tante lettere - alcune davvero commoventi - dai penitenziari di tutto il mondo. I carcerati troppo spesso sono tenuti in condizioni indegne della persona umana, e dopo non riescono a reinserirsi nella società. Ma grazie a Dio ci sono anche dirigenti, cappellani, educatori, operatori pastorali che sanno stare vicino a voi nel modo giusto. E ci sono alcune esperienze buone e significative di inserimento. Bisogna lavorare su questo, sviluppare queste esperienze positive, che fanno crescere un atteggiamento diverso nella comunità civile e anche nella comunità della Chiesa. Alla base di questo impegno c’è la convinzione che l’amore può sempre trasformare la persona umana. E allora un luogo di emarginazione, come può essere il carcere in senso negativo, può diventare un luogo di inclusione e di stimolo per tutta la società, perché sia più giusta, più attenta alle persone. Vi invito a vivere ogni giorno, ogni momento alla presenza di Dio, a cui appartiene il futuro del mondo e dell’uomo. Ecco la speranza cristiana: il futuro è nelle mani di Dio! La storia ha un senso perché è abitata dalla bontà di Dio. Pertanto, anche in mezzo a tanti problemi, anche gravi, non perdiamo la nostra speranza nella infinita misericordia di Dio e nella sua provvidenza”. “A volte capita di sentirsi delusi, sfiduciati, abbandonati da tutti: ma Dio non si dimentica dei suoi figli, non li abbandona mai! Egli è sempre al nostro fianco, specialmente nell’ora della prova; è un Padre “ricco di misericordia” (Ef 2,4), che volge sempre su di noi il suo sguardo sereno e benevolo, ci attende sempre a braccia aperte. Questa è una certezza che infonde consolazione e speranza, specialmente nei momenti difficili e tristi. Anche se nella vita abbiamo sbagliato, il Signore non si stanca di indicarci la via del ritorno e dell’incontro con Lui”. Ecco le parole di Papa Francesco al Giubileo della Misericordia di domenica 6 novembre 2016. “Cari detenuti, è il giorno del vostro Giubileo! Che oggi, dinanzi al Signore, la vostra speranza sia accesa. Il Giubileo, per la sua stessa natura, porta con sé l’annuncio della liberazione (cfr Lv 25,39-46). Non dipende da me poterla concedere, ma suscitare in ognuno di voi il desiderio della vera libertà è un compito a cui la Chiesa non può rinunciare. A volte, una certa ipocrisia spinge a vedere in voi solo delle persone che hanno sbagliato, per le quali l’unica via è quella del carcere. Io vi dico: ogni volta che entro in un carcere mi domando: “Perché loro e non io?”. Tutti abbiamo la possibilità di sbagliare: tutti. In una maniera o nell’altra abbiamo sbagliato. E l’ipocrisia fa sì che non si pensi alla possibilità di cambiare vita: c’è poca fiducia nella riabilitazione, nel reinserimento nella società. Ma in questo modo si dimentica che tutti siamo peccatori e, spesso, siamo anche prigionieri senza rendercene conto. Quando si rimane chiusi nei propri pregiudizi, o si è schiavi degli idoli di un falso benessere, quando ci si muove dentro schemi ideologici o si assolutizzano leggi di mercato che schiacciano le persone, in realtà non si fa altro che stare tra le strette pareti della cella dell’individualismo e dell’autosufficienza, privati della verità che genera la libertà. E puntare il dito contro qualcuno che ha sbagliato non può diventare un alibi per nascondere le proprie contraddizioni. Sappiamo infatti che nessuno davanti a Dio può considerarsi giusto (cfr Rm 2,1-11). Ma nessuno può vivere senza la certezza di trovare il perdono! Il ladro pentito, crocifisso insieme a Gesù, lo ha accompagnato in paradiso (cfr Lc 23,43). Nessuno di voi, pertanto, si rinchiuda nel passato! Certo, la storia passata, anche se lo volessimo, non può essere riscritta. Ma la storia che inizia oggi, e che guarda al futuro, è ancora tutta da scrivere, con la grazia di Dio e con la vostra personale responsabilità. Imparando dagli sbagli del passato, si può aprire un nuovo capitolo della vita. Non cadiamo nella tentazione di pensare di non poter essere perdonati. Qualunque cosa, piccola o grande, il cuore ci rimproveri, “Dio è più grande del nostro cuore” (1 Gv 3,20): dobbiamo solo affidarci alla sua misericordia”. “Acqua di resurrezione, sguardo nuovo, speranza: questo vi auguro. So che voi ospiti avete lavorato tanto per preparare questa visita, anche imbiancare le pareti: vi ringrazio. È per me un segnale di benevolenza e di accoglienza, e vi ringrazio tanto. Vi sono vicino, prego per voi, e voi pregate per me e non dimenticatevi: l’acqua che fa lo sguardo nuovo, e la speranza”. La Chiesa in ogni situazione è chiamata ad annunciare il Vangelo, a portare speranza e per questo chiamata a sporcarsi le mani. Un giorno, dopo la morte un tale si presentò al Signore per essere giudicato. Alla domanda del Signore: Come è stata la tua vita? Lui presentò le mai e disse: Ecco le mie mani, Signore, sono pulite. E il Signore di rimando, sì sono pulite, ma sono vuote”. Grazie Eboli: (Sa): in carcere l’evento conclusivo del progetto Pon "Top skills for job" di Laura Naimoli lacittadisalerno.it, 12 giugno 2018 Si è tenuto nella serata di ieri, presso l’Istituto di Custodia Attenuata, I.C.A.T., l’evento conclusivo del progetto Pon “Top skills for job” organizzato dal Cipia, Centro provinciale per l’istruzione degli adulti e che ha coinvolto i detenuti. Il progetto ha previsto due corsi: pasticceria e benessere. Grazie alla lungimiranza della direttrice dell’istituto penitenziario, Rita Romano, i detenuti, ancora una volta, hanno avuto la possibilità di accrescere le loro competenze. Il connubio tra scuola e carcere riesce a un significato diverso al periodo della detenzione all’interno di un istituto penitenziario: costretti alla reclusione, per lo più a causa di reati legati alla tossicodipendenza, coloro che si trovano privati della libertà hanno almeno l’opportunità di prepararsi a tornare nella società civile con competenze nuove che potranno tornare utili a cercare nuove strade da percorrere nel segno della legalità. Lo spettacolo è stato entusiasmante: il gruppo di ballo, sapientemente guidato da Rita Di Gregorio, si è esibito in una performance sulla musica coinvolgente della pizzica e della taranta. La musica e il ballo, attraverso un processo catartico, liberano mente e cuore dagli affanni. Il pesante fardello del passato si alleggerisce fornendo spazi per riconsiderare se stessi, quello che si è diventati e, soprattutto, ciò che si vorrà diventare una volta fuori le mura del penitenziario. Il gruppo dei pasticcieri si è esibito nel più dolce dei modi: un ricco buffet, realizzato con maestria dalla referente del corso, Carmen Autuori, in collaborazione con l’associazione “Le amiche buongustaie” ha concluso la serata deliziando i palati. Sono stati consegnati ai partecipanti gli attestati di fine corso. Ivrea (To): Pinocchio e le maschere in scena dietro le sbarre di Vanessa Vidano La Sentinella del Canavese, 12 giugno 2018 Nel carcere di Ivrea un gruppo di detenuti, diretti dal regista Luca Vonella Spettacolo sul racconto di Collodi, rendendolo metafora di vita e riflessione. “Mi hai commosso ragazzo, raccontami da dove vieni, qual è la tua storia”. Con queste parole Mangiafuoco trattiene la furia che vorrebbe castigare Pinocchio. E si commuove. Si commuove per la sua ingenuità, che lo porta a sbagliare e perdersi. Ma non è un Collodi qualunque quello di cui parliamo, bensì la versione di Luca Vonella - del teatro A Canone - adattata al gruppo di teatro del distretto carcerario di Ivrea. “Pinocchio dal Maghreb”, questo il titolo dello spettacolo che i ragazzi hanno portato in scena il 4 e 5 giugno scorso. E il perché è presto spiegato: praticamente tutti gli attori sono di origine marocchina, eccetto un saudita, un italiano, un nigeriano e un rumeno. Come mai si sia approdati alla messa in scena di questo racconto, lo spiega il regista Vonella. “Sono stati quattro mesi di laboratorio molto intensi. Dopo un po’ di esercizio teatrale volevo trovare una storia che tutti conoscessero e sentissero propria e, dopo un lungo ragionare, abbiamo capito che l’unica era Pinocchio”. Il racconto di Collodi è stato infatti tradotto in arabo e in Marocco in molti l’hanno letta. Così il gruppo ha iniziato a lavorarci intensamente. “Il teatro in carcere assume un senso completamente nuovo. Diventa un mezzo per parlare di sè, per esprimere sentimenti e parole che altrimenti devono rimanere nascoste”, spiega il regista. Ci sono tante gioie e tanti dolori che non si riescono a incanalare e rappresentare delle storie diventa per i detenuti un atto quasi magico, terapeutico. L’associazione volontari per i detenuti Tino Beiletti (Avp) da anni si occupa dell’ascolto e dell’assistenza dei carcerati nella struttura di Ivrea, ma non di rado organizza laboratori finanziati da fondazioni o dal Comune. I volontari sono a stretto contatto con i detenuti, li conoscono, li chiamano per nome. Da loro la proposta del corso di teatro. “Come associazione, cerchiamo di essergli il più vicino possibile” spiega il presidente Paolo Revello. Ma ovviamente il carcere limita e delimita dimensioni che non si possono superare. “In loro c’è molta tristezza e depressione”, aggiunge Vonella. Tutto è pronto per andare in scena. I costumi - recuperati dall’associazione - e le maschere - fatte a mano dai ragazzi - sono semplici ma efficaci. Apre la presentazione Paolo Revello, che ringrazia il personale dell’istituto penitenziario, continua il regista ringraziando la sua assistente Anna e ovviamente i ragazzi del laboratorio: “Vi siete impegnati con grande serietà, questo è il vero teatro”. Nella storia rivisitata non ci sono solo Pinocchio, Mangiafuoco, Geppetto (interpretato dal volontario Enzo Bertone), il Grillo Parlante e la Fata Turchina (volontaria Beata Kalis), ma anche Scaramuccia, Pulcinella, Arlecchino, Pantalone, Coviello, il Capitano, Zanni, Trappolino, Scapino e Tartaglia. Tutte maschere che rappresentano personaggi spesso corruttibili, ma che finiscono con il capire cosa la società gli chiede di essere e sono disposti a cambiare. Gli interpreti? Jbili, Jalal, Traigui, Messaudi, Madic Mohamed, Bad, Mehdi, Giovanni, Lotf, Issam, Trifam, Molla Nasser, Moussa, Salim e Amin. Pinocchio si risveglia, Geppetto lo manda a scuola, lui incontra le altre maschere sulla sua strada e viene catapultato nel mondo di Mangiafuoco, burattinaio onnipotente che governa i movimenti delle marionette. La metafora è sottile ma parla della debolezza umana, del fatto che in determinate situazioni tutti possiamo sbagliare. E quando Mangiafuoco - prima commosso, ma poi deciso a condannarlo a morte - è sul punto di uccidere Pinocchio, i compagni lo proteggono. Così come nella vita reale l’amicizia può aiutare a restare a galla. La recitazione è sostenuta, il tono delle loro voci coraggioso. L’accento si percepisce, ma l’italiano è scorrevole, segno di uno studio approfondito. Fra il pubblico a sinistra del palco volontari e familiari, a destra altri detenuti e qualche guardia in pausa. Gli spettatori dal carcere sono incuriositi, diffidenti e alla fine della presentazione anche un po’ inorgogliti dai loro compagni. E dopo gli applausi e i saluti ecco che avviene una magia, nel vero senso della parola. La musica si alza intonando le note di Despacito e pubblico e attori si compongono assieme in una danza, regalando loro un vero momento di libertà. Salerno: “Liberare la pena”; favole dietro le sbarre, così la pena riabilita di Giuseppe Pecorelli Il Mattino, 12 giugno 2018 “Quando ho incontrato per la prima volta i ragazzi, gli ho detto: ho intenzione di raccontarvi favole. Pensate alla reazione. A ben vedere, però, le raccontiamo sempre. Anzi, l’unico modo per sopravvivere è raccontarle. Abbiamo iniziato con “La bella e la bestia”. La bestia non è forse un prigioniero, un condannato? E viene imprigionata anche Bella, che paga le colpe del padre come tanti detenuti condannati per le proprie origini. Ma quando Bella vede la Bestia, capisce che in lui c’è del buono”. Lo spiega lo psicologo cetarese Pietro Crescenzo, nel secondo convegno sul tema “Liberare la pena”, organizzato, alla colonia San Giuseppe, dalla cappellania della casa circondariale di Fuorni, la Caritas diocesana e l’associazione “Migranti senza frontiere”, i cui aderenti fanno volontariato attivo in carcere. Il titolo dell’incontro è anche il nome del progetto che la Caritas italiana ha lanciato nel 2016 come proposta per agevolare il reinserimento sociale dei detenuti e rendere più efficace l’attuazione di misure come la detenzione domiciliare, le pene alternative al carcere, l’affidamento. Ebbene Crescenzo, da qualche mese, incontra gli ospiti della Domus Misericordiae di Brignano, struttura di accoglienza e ospitalità per detenuti soggetti a misure a pene alternative alla detenzione. “Dal racconto - prosegue - da quella che noi chiamiamo “narratologia”, siamo passati alla creazione di gruppi, in cui i partecipanti hanno potuto spiegare il dolore di non vedere i propri figli, la famiglia. È sorta una domanda: ne è valsa la pena?”. Gli incontri con lo psicologo, una terapia di gruppo, sono uno degli strumenti utilizzati alla Domus, guidata da don Rosario Petrone, cappellano del carcere e fondatore di Migranti senza frontiere, per recuperare ed includere nella società chi ha commesso un errore. “Quando parlavamo di liberazione della pena - ricorda ai presenti, tra gli altri il direttore del carcere di Salerno, Stefano Martone, ed il vice commissario della polizia penitenziaria, Grazia Salerno - mi prendevano in giro: volete liberarli tutti? Quello che posso dire, da sacerdote, è che Dio si incontra anche in carcere, forse ancora di più. Qui trovi l’umanità che ha sperimentato il male, ma cerca il Signore. Le confessioni più belle della mia vita le ho fatte in prigione”. E racconta un’esperienza simile anche don Virgilio Balducchi, sacerdote bergamasco che ha ricoperto il ruolo di ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, ideatore, a livello nazionale, del progetto “Liberare la pena”, che oggi la Caritas italiana porta avanti in 35 città italiane. “Quando ho iniziato la mia esperienza - dice il sacerdote, per vent’anni cappellano al carcere di Bergamo - sono partito da una domanda: che ci sto a fare io qua, in prigione, da prete? Alcuni mi dicevano: non perdere tempo con questa gente. L’interrogativo sul mio ruolo continua a tormentarmi. Ho riflettuto sul fatto di credere in un maestro, Gesù, giunto per cercare la riconciliazione. In carcere, chiedevo ai detenuti: hai parlato con qualcuno del male commesso? Sai come riparare? E tutti mi dicevano di no”. La chiave per il reinserimento sociale è concedere una responsabilità minima. “Dobbiamo evitare - spiega don Balducchi - che il carcerato resti relegato alla propria cella, concedendogli la possibilità di essere migliore. Vale per tutti: per chi espia la propria pena in cella e chi ai domiciliari. Se la detenzione non fa comprendere il male fatto e non suscita la voglia di tirar fuori la parte migliore di sé non serve. Ma per percorrere questo cammino occorre accettare le sconfitte e le contraddizioni di alcuni detenuti, il ritorno all’errore”. “Il diritto (non) ci salverà”, di Patrizio Gonnella. Un uso strategico della giustizia recensione di Stefano Anastasia Il Manifesto, 12 giugno 2018 Di fronte alle prime esibizioni di sé del neo-Ministro dell’Interno e ai contenuti del contratto di governo in materia di giustizia penale, sicurezza e immigrazione, non pochi si sono chiesti se il diritto ci salverà dalla politica che ne viene sbandierata: revisione della già claudicante disciplina sul diritto d’asilo, respingimenti e confinamenti, misure discriminatorie nei confronti dei rom, innalzamenti di pene e abbassamento della responsabilità penale per i minori, difesa armata sempre legittima, limitazioni alle alternative al carcere e via elencando. Un immaginario claustrofilo ed espulsivo che, non a caso, sembra spostare il nostro Paese nell’orbita del premier ungherese Orban. Aiuta a muoverci in queste plumbee prospettive l’ultimo libro di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone e della Coalizione Italiana per le libertà e i diritti civili, dedicato - appunto - al diritto e alla sua (presunta) capacità salvifica: Il diritto (non) ci salverà, pubblicato da manifestolibri (pp. 112, euro 8). Nella sua prima parte sono individuati “i problemi”: la sovranità, il realismo politico, la legalità e la sicurezza. Nella seconda “ciò che resta”, ovvero le strategie di resistenza e di cambiamento possibile: la denuncia, la disobbedienza e l’uso strategico della giustizia. Il libro è fortunatamente retrodatato, così che non se ne possa immaginare una scrittura d’occasione. Anzi, trova la sua origine in riflessioni suscitate dal passato Governo, e dalla sua propensione verso politiche in cui il pubblico decoro e la percezione della sicurezza aprivano ampi spazi a iniziative politiche e amministrative discriminatorie. Se qualcuno, a fin di bene, pensava in tal modo di addomesticare la bestia, dovrebbe ammettere ora di aver sbagliato i suoi conti. D’altro canto, la legittima critica del totem legalitario mette in discussione la stessa capacità salvifica del diritto: la legalità è quel che è, una misura dello stato delle relazioni sociali e dei valori dominanti in una società. Può piacere, ma anche no: erigerla a parametro di valutazione dell’azione politica o, finanche, della giustizia significa condannarsi alla conservazione di quel che è, dei rapporti sociali esistenti e dei valori dominanti. Dunque il diritto ci salverà se ci avrà già salvati, oppure se - almeno - non coincide con il potere di fare le leggi. E qui entrano in campo i principi dello stato costituzionale di diritto e la tutela sovranazionale dei diritti. È dura la critica di Gonnella al sovranismo che si sottrae alla giurisdizione internazionale e al realismo politico che lo motiva. Il diritto internazionale dei diritti umani può salvarci solo se piega la resistenza dei poteri nascosti all’ombra della sovranità nazionale sul proprio territorio. Ma il diritto ci salverà (per quanto ci può salvare) solo se sarà capace di un proprio realismo politico. “Non sarà la legge perfetta - scrive Gonnella - a impedire la pratica criminale della tortura”, e se nel caso del Muslim Ban voluto da Donald Trump è bastato “cambiare “legalmente” un giudice nella composizione della Corte Suprema per far passare una legge palesemente discriminatoria, vorrà dire che la vittoria si costruisce nella società e non nei tribunali e che lo Stato di diritto si realizza nelle scuole, nelle università, nelle piazze, nei social, nei media prima ancora che nelle aule di giustizia”. L’uso strategico della giustizia, cui Gonnella affida qualche possibilità che il diritto ci salvi, non può allora che fare i conti con il cambiamento sociale che deve accompagnarlo. Non a caso il caso di studio proposto nelle pagine finali da Gonnella è quello della lunga strada percorsa dai movimenti Lgbt per il riconoscimento del matrimonio egualitario negli Stati Uniti: una strada in cui il mutamento sociale ha imposto il tema e la sua soluzione giuridica. Anche quando innova, come in questo caso, il diritto viene dopo. E dunque, certo, principi e valori costituzionali andranno agiti contro politiche liberticide e discriminatorie, ma mai in forma di un passato che resiste, bensì in nome di una società che esiste e che chiede diritti e libertà. Solo così, forse, il diritto può aiutarci a salvarci. L’Europa Fortezza ringrazia Matteo Salvini di Guido Viale Il Manifesto, 12 giugno 2018 “Tutta l’Europa si fa gli affari suoi”, dice Salvini. Ma in realtà è lui che fa gli affari sporchi per conto dei governi europei. “Garantiamo una vita serena a questi ragazzi in Africa e ai nostri figli in Italia”. Così il ministro della Repubblica Salvini, nell’atto di negare l’accesso ai porti italiani a una nave di Sos Mediterranée con a bordo con 629 profughi (non tutti “ragazzi”; ci sono anche 7 donne incinte, 11 bambini e 123 minori non accompagnati). Ora ad accoglierli sarà la Spagna e non sarà facile, anzi. Ma poi c’è in vista anche il blocco di una seconda nave, la Sea Watch, in attesa di altri naufraghi salvati da navi mercantili e di decine di gommoni stracarichi che non troveranno più navi delle Ong a raccoglierli, per le quali si prospettano ulteriori e drammatiche strette. La “vita serena in Africa” che Salvini offre a quei ragazzi è il ritorno in Libia. Con le donne stuprate in modo seriale, gli uomini venduti come schiavi e tutti e tutte torturate, affamati, ricattate, ammazzati come insetti. Quanto a quella garantita ai “nostri figli”, anche per loro c’è l’emigrazione; certo in condizioni di maggiore sicurezza, ma per andare a fare i lavapiatti dopo una laurea o un diploma. Così si svuotano i paesi “periferici” - dell’Africa, con il politiche coloniali tutt’altro che finite; ma anche dell’Europa, con l’”austerità” - delle forze migliori; purché quelle peggiori continuino a governare. “Tutta l’Europa si fa gli affari suoi”, aggiunge “vittorioso” Salvini. Ma in realtà è lui che fa gli affari sporchi per conto di tutti coloro che sono al governo dei paesi europei. Perché per difendersi dal “nemico” - che ormai sono i profughi, e solo loro - la Fortezza Europa ha tracciato due distinti confini: uno alle frontiere esterne dell’Unione: muri, reticolati, filo spinato, guardie, cani, hot spot, eserciti, navi militari, leggi, regolamenti di polizia, accordi e laute mance per i governi dei paesi di transito, truppe mascherate da consiglieri e chilometri di costosissimi impianti di sorveglianza. L’altro alla frontiera delle Alpi (e a Idumeni o a Lesbo), per impedire a chi è già arrivato in Europa senza affogare di raggiungerne il cuore: i paesi dove ha parenti, amici, compatrioti che lo aspettano e forse persino la possibilità di trovare lavoro. Per questo le alternative, per l’Italia e il suo governo, sono due: o rafforzare ulteriormente il primo di questi confini o cercare di “sfondare” il secondo. Salvini, in perfetta continuità con il predecessore Minniti, ha scelto la prima, aumentando la dose con il blocco dei porti e rivendicando per sé una responsabilità che i suoi colleghi europei non hanno il coraggio di assumersi: di far affogare, morire di fame e di sete, respingere e rinchiudere nel lager libico i fuggiaschi che l’Europa non vuole accogliere. Ma Salvini sostiene, con questa sua scelta, di voler mettere alle strette il resto d’Europa: non rivendicando l’apertura dei confini alle Alpi, la libera circolazione di profughi e richiedenti asilo, un grande piano di investimenti - magari, per la rigenerazione ambientale dell’Europa - che offrirebbe occasioni di impiego anche a tutti i nuovi arrivati e ne favorirebbe l’accettazione da parte delle comunità locali (preparando magari anche le condizioni per un ritorno volontario, dopo qualche anno, nei paesi da cui sono scappati, per ricostruirlo). Senza un piano del genere, infatti, anche l’accoglienza non ha futuro. Invece Salvini chiede un maggior impegno europeo nel rafforzamento dei confini “esterni”: più soldi a chi si impegna nei respingimenti, più navi a sbarrare le rotte marine, più leggi e regolamenti liberticidi, più deroghe alle convenzioni internazionali, più campi di concentramento fuori dei confini dell’Unione, ecc. Per questo, di fronte a una timida proposta di riforma della convenzione Dublino 3 - che impone ai profughi di rimanere nello stato di approdo - Salvini si è alleato con i governi più ferocemente ostili ai migranti, quelli capeggiati dall’ungherese Orbán, le cui politiche comportano di fatto un aggravamento degli oneri che gravano sull’Italia. Salvini queste cose le sa, come sa che i respingimenti su cui ha basato tutta la sua campagna elettorale sono impossibili e si risolvono solo in più “clandestinità”, lo “stato giuridico” dei senza diritti istituito dalla legge Bossi-Fini. Centinaia di migliaia di profughi e migranti senza permesso di soggiorno, o perché “denegati” per le spicce, o perché rimasti senza lavoro; tutti messi per strada e costretti ad arrangiarsi: a cader vittime della tratta, a raccogliere arance e pomodori o mungere vacche nei tanti lager dispersi in tutte le campagne del paese, a rischiare la vita nei cantieri illegali, ad elemosinare o a farsi reclutare dalla malavita, ad accamparsi sotto i viadotti. È questa la situazione che “crea allarme” nel paese e su cui Salvini e i partiti come il suo stanno costruendo le proprie fortune elettorali - ma non solo - in tutta Europa; nel doppio ruolo di vittime e di persecutori di un popolo di persone private di tutto: nella speranza che nessuno possa o voglia più guardare negli occhi quegli esseri umani senza diritti. I migranti dell’Aquarius saranno portati a Valencia su navi italiane di Domenico Agasso La Stampa, 12 giugno 2018 Lo dice Sos Mediterranée e lo conferma Toninelli. Nel frattempo è previsto per domani l’arrivo a Catania di un’altra nave con 937 immigrati a bordo. Lo annuncia Sos Mediterranée, lo conferma il ministro Toninelli e fornisce i dettagli Medici senza Frontiere. I naufraghi a bordo dell’Aquarius saranno trasferiti “su navi italiane e condotti a Valencia”. La Ong, a cui appartiene l’imbarcazione, afferma che è questo il piano predisposto dal Mrcc (Maritime Rescue Coordination Centre) di Roma. L’Italia, tra l’altro, fornisce rifornimenti. Nel frattempo è previsto per domani l’arrivo a Catania di altri 937 emigranti a bordo della “Diciotti” della Guardia costiera. In un tweet Medici senza Frontiere parla di un trasferimento di “alcune persone” dall’Aquarius a navi italiane per fare rotta su Valencia insieme. Poi arriva la precisazione del programma: una parte dei migranti a bordo della Aquarius saranno trasferiti su due navi: una della Marina militare e una della Guardia costiera. Lo si legge sul quotidiano spagnolo El Pais: chi parla è il coordinatore di Medici senza Frontiere che si trova a bordo dell’Aquarius. Il viaggio richiederà quattro giorni. Sull’Aquarius resterà un centinaio di migranti. Ieri, di fronte al rifiuto di Malta e dell’Italia di accogliere la nave con 629 migranti a bordo, si era fatta avanti la Spagna. L’imbarcazione, aveva fatto sapere nel pomeriggio il neo premier Pedro Sanchez, verrà accolta nel porto spagnolo di Valencia: “È nostro dovere contribuire a evitare una catastrofe umanitaria e offrire un porto sicuro a queste persone”, aveva dichiarato Sanchez. Ma il porto di Valencia è lontano e richiede diversi giorni di navigazione. Troppi per una nave carica di persone. E con le “condizioni meteo in peggioramento la situazione può diventare critica”, avvertiva Sos Mediterranée. L’incolumità delle persone a bordo “della nave Aquarius deve restare la priorità” aveva invocato l’Ong. Questa mattina, 12 giugno 2018, arrivano nuove dichiarazioni dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Danilo Toninelli, che parla a “Circo Massimo” su Radio Capital: sulla vicenda dell’Aquarius c’è stato “il giusto pragmatismo politico che prima non c’era. Nessuno prima parlava di Malta che rispondeva negativamente” alle richieste di accoglienza. Per Toninelli non si è messo in pericolo la vita di nessuno e i migranti sono stati “soccorsi da navi italiane”. Conferma poi che parte dei migranti imbarcati sulla nave Aquarius verranno trasferiti su navi italiane per essere trasportati verso il porto di Valencia: “È stato l’esito della decisione presa stanotte con il premier e le capitanerie - spiega - Oggi manderemo altre navi per prendere a bordo parte dei 629 e accompagnarli verso Valencia. Non si potevano far navigare sulla Aquarius in sicurezza con queste condizioni di mare”. Il Ministro informa che “stamattina abbiamo mandato viveri, monitorato la situazione dei passeggeri per mettere in sicurezza le donne incinte ma hanno rifiutato. Stamane manderemo vedette e navi per portarli verso Valencia”. Toninelli commenta anche uno dei principali dubbi circolati in questi giorni sulla vicenda della nave Acquarius: se non abbia prevalso la linea del ministro dell’Interno, Matteo Salvini: “Capisco che da un punto di vista giornalistico, si vuole creare sempre la figura del vincitore e di chi comanda”, dice, ricordando che “il Movimento 5 Stelle ha sempre lottato fortemente con il business dell’immigrazione”. Ora, “abbiamo messo i nostri tecnici al lavoro per trovare quelle soluzioni che finora non sono state date”. C’è stata una “condivisione all’interno del governo totale”, assicura, per trovare soluzioni al problema dei migranti. E “la chiusura dei porti non è mai stata all’ordine del giorno. Una volta salvati i migranti l’area più vicina era La Valletta”. Toninelli chiarisce che “Salvini non ha mandato nessuna lettera. La lettera di Salvini è una totale fake news. Esiste una mail inviata dalla guardia costiera al porto della Valletta per chiedere di aprire i porti. La chiusura dei porti italiani non è mai stata all’ordine del giorno”. L’Italia è il paese “che ha salvato il maggior numero di vite. Nessuno si deve permettere - attacca - di abbinare la parola xenofobia all’Italia e a questo governo. Il torto sta nelle case degli altri, negli altri paesi. L’Italia è stata lasciata sola”. Quella del governo italiano sull’immigrazione è “una strategia molteplice”, continua Toninelli. La prima mossa “è politica. In Italia il business dell’immigrazione non è più tale. Sembrava tutto normale: oggi si sa che le cose possono cambiare: basta a chi diceva che con l’immigrazione si guadagna più che con la droga. L’immigrazione verrà gestita nella legalità”. C’è poi il fronte della “nuove relazioni internazionali con la Libia” e di quello della politica europea. Ma, ha aggiunto Toninelli, c’è anche “un piano normativo del diritto del mare che è ambiguo. Stiamo cercando di agire su tutti i fronti per condividere un problema che non è solo italiano ma europeo”. Con la vicenda dell’Aquarius è “stata messa una prima pietra. Altrimenti, oggi l’Italia sarebbe ripartita come è avvenuto per i governi precedenti. Siamo persone pragmatiche e vogliamo risolvere i problemi. Non è più possibile che l’Italia debba impegnare così tante risorse per risolvere un problema che non è solo suo”. E quindi le prossime navi? “Ogni situazione è diversa. Dipenderà da dove sono stati salvati e da chi”. E a proposito di prossime navi, è previsto per domani mattina alle 8 l’arrivo a Catania di nave “Diciotti” della Guardia costeria, con 937 persone a bordo. I migranti sono stati soccorsi in diversi interventi nel Mediterraneo centrale. Recuperati anche due cadaveri. La nave, in considerazione del gran numero di persone e del peggioramento delle condizioni meteo, procede con maggiore cautela. La disponibilità della Corsica - Nel frattempo su Twitter il presidente dell’Assemblea di Corsica, l’indipendentista Jean-Guy Talamoni, in merito alle condizioni della nave Aquarius scrive: “L’Europa deve affrontare la questione umanitaria in modo coeso. Tenuto conto della posizione della nave e dell’urgenza, la mia opinione è che sarebbe naturale aprire un porto corso per aiutare queste persone in difficoltà”. Aquarius. Solidarietà alla deriva, un appello delle Ong Internazionali Il Manifesto, 12 giugno 2018 Le convenzioni internazionali sul diritto del mare si fondano sull’obbligo di solidarietà in mare. Il Cini, Coordinamento Italiano delle Ong Internazionali, esprime forte preoccupazione per la decisione del ministro degli Interni Salvini di chiudere i porti italiani alla nave Aquarius, in navigazione con 629 naufraghi provenienti dal Nordafrica, tra cui 123 minori non accompagnati e 7 donne incinte. Chiede a tutti i soggetti politici italiani di prendere una posizione forte in proposito, che metta al centro i principi di umanità e di solidarietà e che richiami il Governo - e in particolare il Ministro delle Infrastrutture Toninelli, responsabile ultimo della decisione sulla chiusura dei porti - agli obblighi inderogabili che l’Italia ha assunto in materia di rispetto dei diritti umani. Le convenzioni internazionali sul diritto del mare si fondano sull’obbligo di solidarietà in mare, che sarebbe disatteso nel caso in cui fosse negato l’accesso al porto di una nave con persone appena soccorse e bisognose di assistenza immediata. Il rifiuto a priori di far approdare la nave in porto comporta l’impossibilità di valutare le situazioni individuali delle persone a bordo, dal punto di vista sia del loro status che, in modo appropriato, della loro salute: viola dunque il divieto di espulsioni collettive (art. 4 del Protocollo n. 4 alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, Cedu), e può comportare la violazione degli articoli 2 (diritto alla vita) e 3 (proibizione della tortura) della Cedu, qualora le persone soccorse abbiano bisogno di cure mediche urgenti, o di generi di prima necessità (cibo, acqua, medicinali), e queste necessità non possano essere soddisfatte per effetto del rifiuto. Invece di creare un sistema lungimirante di migrazioni regolari e ordinate che metta a disposizione percorsi sicuri, e di promuovere il rispetto dei diritti umani nei paesi colpiti da guerre, povertà o persecuzioni, l’Italia - insieme agli altri paesi europei - sembra concentrarsi sempre più sulla chiusura delle frontiere, sul rifiuto del principio di solidarietà e su negoziati con governi che violano i diritti umani, allo scopo di impedire le partenze, come recentemente documentato dal Cini. Non così la pensano i cittadini di tante città italiane, come dimostrano le dichiarazioni di disponibilità ad accogliere i naufraghi dell’Aquarius rese dai sindaci di Napoli, Messina, Palermo e Reggio Calabria in queste stesse ore, disponibilità che ancora una volta intende supplire dal basso alle mancanze della politica nazionale. L’annuncio della chiusura dei porti avviene nel contesto di recenti dichiarazioni rivolte contro le Ong, che si ricollegano a precedenti campagne denigratorie: tali campagne nell’ultimo anno sono rapidamente passate da accuse di “buonismo” a accuse di complicità con i trafficanti - che non hanno mai trovato riscontro - travolgendo e danneggiando tutte le organizzazioni che svolgono iniziative di solidarietà e tutela dei diritti umani. ***Cini, Coordinamento Italiano Ngos Internazionali “Il mio nemico”, docu-drama sulla Libia ferita dalla guerra di Aldo Grasso Corriere della Sera, 12 giugno 2018 Luigi Pelazza, regista in campo e al tempo stesso narratore, racconta il conflitto libico in Cirenaica. Tra combattimenti e traversate pericolose. L’idea era quella di infiltrare qualcuno nell’Isis per vedere come quelle milizie armate vivono, pensano, fanno propaganda e uccidono. È una storia di guerra, dove la cronaca di una Libia squassata fa da sottofondo alla testimonianza di Mohamed, infiltrato nelle milizie dello Stato Islamico, ma anche a quella di Luigi Pelazza, regista in campo e al tempo stesso narratore delle vicende al seguito delle truppe del generale Haftar. Prodotta da Showlab, “Il mio nemico” è una narrazione embedded degli scontri tra i terroristi islamici e il governo “regolare” libico che nel luglio 2017 hanno portato alla liberazione della città di Bengasi, in Cirenaica, dopo tre anni di combattimenti (Sky Atlantic, domenica, ore 23.15, tre puntate). Pelazza ha seguito da vicino l’attività dell’insider, condividendo con lui insidie e pericoli, per trasmettere al pubblico tutte le emozioni e le tensioni vissute sul campo di battaglia (lo aveva già fatto in passato con alcuni servizi delle “Iene”). Il racconto prende il via da Milano, dove viene ingaggiato Mohamed, ristoratore disoccupato, e si sposta poi in Libia. Il docu-drama fa principalmente uso di due registri narrativi. Il primo è molto didascalico: Pelazza spiega in che maniera lo Stato Islamico arruola i suoi uomini, combatte e usa le armi, soprattutto le armi di propaganda, ma spiega anche come la Libia si senta tradita dall’Occidente (si sta buttando nelle mani della Russia?) e il dopo Gheddafi sia una ferita non più rimarginabile. Il secondo registro è puramente emotivo: combattimenti (le immagini dell’insider infiltrato nello Stato Islamico sono di grande effetto), traversate pericolose, Pelazza stesso che si mette in gioco a rischio di beccarsi qualche fucilata di un cecchino nascosto fra le macerie: “Abbiamo rischiato la vita, sì. Quando siano andati nella parte libica a raccontare i militari al fronte abbiamo vissuto con loro”. Turchia. “Io, candidato in una prigione turca. I curdi non voteranno per Erdogan” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 12 giugno 2018 Demirtas, fondatore del partito Hdp: “Faccio comizi sui social. E sono ottimista”. Il 24 giugno in Turchia si vota per il rinnovo del Parlamento e per l’elezione del capo dello Stato dopo il referendum costituzionale che, nel 2017, ha sancito il passaggio a un sistema presidenziale. Recep Tayyip Erdogan, il leader del partito filoislamico Akp, è dato in ampio vantaggio ma potrebbe non superare la soglia del 50%. In quel caso si andrebbe al ballottaggio, previsto l’8 luglio. La sfida è di quelle impossibili ma lui non smette di crederci. Selahattin Demirtas, 45 anni, co-fondatore del partito filocurdo Hdp, conduce la sua campagna elettorale per le presidenziali da una cella di 12 metri quadrati nel carcere di Edirne. L’ex avvocato per i diritti umani è accusato di terrorismo e rischia una condanna a 142 anni di reclusione. Il suo unico accesso al mondo esterno è rappresentato dai colloqui con la moglie e con il suo avvocato. In questa intervista, concessa in esclusiva al Corriere per iscritto, dimostra di non aver perso grinta e senso dell’umorismo: “Dopo il fallito colpo di Stato — risponde — Erdogan ha trasformato la Turchia in una prigione a cielo aperto ma, a guardare tv e giornali, mi sembra che sia lui il prigioniero numero uno. Il suo tempo sta per scadere”. Il presidente è presente a tutte le ore sui media. Lei può comunicare con l’esterno solo in modo rocambolesco. Come riesce a fare campagna elettorale? “Infatti non posso farla come dovrei: l’unica mia possibilità è appoggiare il lavoro di tutti quelli che dal di fuori aiutano a diffondere il mio programma. Dormo solo 4 ore a notte, cerco di rispondere a tutti i messaggi ed essere aggiornato su quello che accade. Ma fuori la vita scorre veloce e l’agenda cambia in continuazione. Sono svantaggiato in qualsiasi senso rispetto agli altri candidati. Comunque mi sono lanciato in questa impresa sapendo quello cui andavo incontro. Per me, per i curdi, per tutta la gente che è oppressa, nulla è facile ora. Ma come capirà io sono ben addestrato e continuerò a fare campagna elettorale nonostante le limitazioni fisiche della prigione”. Erdogan la chiama terrorista... “Il presidente sa benissimo che non sono un terrorista ma vuole utilizzare questo mezzo per lanciare una campagna di linciaggio nei miei confronti. Ma non credo gli servirà, il suo declino è già iniziato”. Nel caso in cui lei non arrivasse al ballottaggio pensa che il suo elettorato appoggerebbe un candidato della coalizione di opposizione? Anche se fosse una donna di destra come Meral Aksener? “Io spero di arrivarci al secondo turno ed è per questo che sto lavorando giorno e notte. Però voglio che sia chiaro: i sostenitori dell’Hdp voteranno seguendo i principi della democrazia”. Mi può descrivere la sua giornata in prigione? “Sono un detenuto in isolamento, divido la cella con il mio collega deputato Abdullah Zeydan. Abbiamo 12 metri quadrati a disposizione. Di solito leggo e scrivo. Qualche volta posso vedere i giornali e la tv. Alla mia famiglia è concessa una visita di un’ora a settimana e una telefonata di 10 minuti una volta ogni 15 giorni”. Nel suo primo comizio via social network lei si è dichiarato prigioniero politico e ha detto che tutti i cittadini sono vittime di ingiustizia. Ha perso la speranza? “No. Anzi. Sono ottimista come non mai. Il governo, specialmente negli ultimi anni, ha compiuto una serie di atti violenti, ingiusti e fuori dalle regole. Sono i cittadini le vittime principali. Ed è proprio basandoci su questo che chiediamo un no all’Akp di Erdogan. Se dovessimo perdere la speranza dovremmo abbandonare la politica ma quando sentiamo la gente capiamo che non c’è motivo di perdere la speranza. Il cambiamento è d’obbligo ed è molto vicino”. Cos’è successo esattamente il 15 luglio 2016? “C’è stato un vero tentativo di colpo di Stato che poi è stato controllato. Poteva essere un’opportunità per avere più pace e democrazia e per mitigare la polarizzazione in Turchia, invece Erdogan ha scelto di vederlo come “un dono di Dio” e di trasformare il Paese in una prigione a cielo aperto”. I curdi rappresentano un importante segmento elettorale, pensa che l’alleanza con i nazionalisti dell’Mhp e quello che accade in Siria li allontanerà da Erdogan? “Sembra che sia così. Penso che la maggioranza dei curdi non voterà Akp alle prossime elezioni”. Tanzania. Bavaglio ai blogger: il governo di Magufuli li costringe a chiudere di Raffaella Scuderi La Repubblica, 12 giugno 2018 "È davvero triste essere arrivati a questo punto", ha detto a Repubblica il fondatore di Jamii Forums, Maxence Melo. La legge che limita la libertà di espressione su blog e social è entrata in vigore l’11 giugno, e il giorno stesso il blog più navigato e conosciuto del Paese africano, è stato costretto a sospendere le sue attività. "Se nutri un grande sogno o ambizione per il tuo futuro, il fallimento è inevitabile. Il fallimento dovrebbe essere il nostro maestro, non il nostro carnefice. Il fallimento è un ritardo, non una sconfitta. È una deviazione temporanea, non un vicolo cieco". Così Melo due giorni fa sul suo profilo Instagram, prima che la sua creatura si spegnesse. "The home of great thinkers", la casa dei grandi pensatori, così si racconta online Jamii Forums, ha sospeso la pubblicazione delle discussioni più seguite in Tanzania. Il forum ha chiuso l’11 giugno, il giorno in cui è entrata in vigore la legge contro social e blogger, voluta dall’amministrazione del presidente John Magufuli. Jamii Forums, anche definito il "Swahili Wikileaks", per aver diffuso informazioni sulle malefatte del governo con tanto di prove, è stato costretto a fermarsi temporaneamente per rispettare il decreto governativo, ha riferito alla stampa Maxence Melo. Icona del dissenso, Melo solo nel 2017 è apparso in tribunale 51 volte, con le accuse di ostacolo alla giustizia, gestione di un sito web non registrato e per essersi rifiutato di rivelare l’identità degli utenti che avevano condiviso informazioni sensibili. 38 anni, ha fondato Jamii Forums nel 2006. E da allora è sempre stato minacciato, detenuto e interrogato. Prima dall’ex presidente Jakaya Kikwete e ora dall’amministrazione Magufuli. A marzo il governo di Dodoma ha dato l’ok a un decreto legislativo che prevede una dura regolamentazione per chiunque intenda pubblicare contenuti online, che siano utenti YouTube, blogger o proprietari di forum online: il possesso di una licenza, un canone annuo di 900 dollari (in un Paese con un reddito pro capite di 879 dollari). Ma non finisce qui. Per avere l’autorizzazione di postare contenuti online, i candidati devono compilare un modulo che specifichi il costo stimato dell’investimento, il numero dei direttori e impiegati nella piattaforma, la loro quota di capitale, le qualifiche del personale, le date previste per l’inizio delle operazioni, e che si impegni a identificare la fonte dei contenuti. Anche dopo aver fornito questa documentazione, le autorità si riservano comunque il diritto di revocare il permesso nel caso in cui un sito pubblichi contenuti che "possano causare fastidio, minacce, danni, o incoraggiare al crimini", pena, multe non inferiori a cinque milioni di scellini (2200 dollari) o un anno di carcere. La valutazione è chiaramente a discrezione di un governo che da tre anni è in mano a un presidente che sembra non gradire la libertà di stampa. In tre anni ha chiuso giornali, stazioni radio e arrestato giornalisti. Tutti molto critici nei confronti della sua amministrazione. L’anno scorso ha chiuso lo stesso giornale per due volte in tre mesi e bandito per due anni il settimanale Mwana Halisi perché "incitava alla violenza". Gli attivisti digitali affermano che la legge fa parte della repressione del dissenso e della libertà di parola da parte del governo, che da parte sua sostiene che le nuove regole mirano a contrastare l’incitamento all’odio e ad altri crimini online, tra cui il cyber-bullismo e la pornografia. "Tutti i fornitori di contenuti online non registrati devono essere autorizzati prima del 15 giugno. A partire da oggi, dall’11 giugno al 15 giugno, è vietato pubblicare nuovi contenuti sui loro blog, forum o radio e televisioni online", ha detto l’Autorità di controllo in una nota. "Siamo rattristati per essere stati costretti a intraprendere all’improvviso questa azione, ma speriamo che voi, come nostri utenti, in questo periodo sarete pazienti", così si legge aprendo oggi il link di Jamii Forum. Lo slogan del sito è "il luogo dove osiamo parlare apertamente". La maggior parte degli utenti di Jamii postano sotto anonimato. Non potrebbero fare altrimenti con tutte le denunce di corruzione e loschi affari che sostengono siano in atto nel loro Paese. Dall’approvazione della legge ad oggi c’è stato un lieve spiraglio di luce. All’inizio di maggio i blogger avevano vinto la prima battaglia. Il tribunale sentenziò il blocco della legge, salvo poi essere rimessa in pista a fine mese da un altro tribunale. Il sito di Melo ha dato al suo Paese un grande stimolo a guardare avanti, a mettersi al passo con i tempi e soprattutto a riappropriarsi della propria identità. Istituito in un periodo in cui i mezzi di informazione indipendenti subivano regolari restrizioni in Tanzania, quando solo l’1,3% della popolazione aveva accesso a Internet, Jamii Forums ha anche e soprattutto il merito di avere usato sin dall’inizio solo la lingua swahili, rendendosi accessibile a decine di migliaia di persone escluse dal mondo digitale. "Quando lo spazio civico si sta chiudendo, noi che siamo membri dei media, associazioni di volontari, partiti politici, sindacati, comunità religiose, fondazioni private e organizzazioni non profit dobbiamo unirci - ha detto Melo a Repubblica - Se siamo uniti davvero, lo siamo per il nostro lavoro al di là del governo e dello Stato, con lo scopo comune di far progredire il bene comune. Poiché lo spazio di cui abbiamo bisogno per questo lavoro si sta chiudendo, dobbiamo unirci, comprendere la nostra reciproca dipendenza e interrelazione e sostenerci a vicenda. Dobbiamo creare una nuova solidarietà". Anche l’Uganda e il Kenya hanno deciso di regolamentare l’uso di Internet con nuove leggi, nonostante le loro regole siano meno severe della Tanzania.