I testi degli studenti di Padova dedicati al nuovo ministro della Giustizia Il Mattino di Padova, 11 giugno 2018 Abbiamo un sogno: che il nuovo ministro della Giustizia legga i testi degli studenti, che hanno incontrato le persone detenute e affrontato con loro un percorso di riflessione sui reati, sulle pene, sul carcere. Perché se li leggesse si convincerebbe di quello che tanti studenti hanno capito: che la pena “cattiva” rende le persone più pericolose, mentre i percorsi di reinserimento con le misure alternative rendono la società più sicura. 500 studenti, con i loro insegnanti, hanno partecipato il 5 giugno alla Giornata finale del progetto “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere”. Al cinema MPX questo importante percorso si è concluso con una intervista a Benedetta Tobagi, giornalista e scrittrice, che ha parlato della sua esperienza di vittima. Vorresti urlare “Sono cambiato” (Primo classificato scuole medie) “Siamo persone, non siamo reati che camminano”; quando Bruno, uno dei detenuti che ci è venuto a parlare, ha pronunciato questa frase ho subito pensato: “Però! Non siamo stati educati fino ad ora, abbiamo fatto solo domande come: “Cosa avete fatto per finire in carcere?” - O un altro compagno: “Com’è spacciare?” - oppure: “Quanti soldi guadagnavate a settimana? Come vi sentivate a commettere reati?”. Ho provato un po’di vergogna per tanta spudoratezza. Sinceramente non so quanto le persone che sono venute a trovarci siano abituate a parlare in pubblico del loro vissuto, credo che comunque per loro sia un grande sforzo; in ogni caso, da quello che ho potuto osservare, ho però visto che li gratificava in un certo senso. Ancora più difficile deve essere, a parer mio, tornare nel proprio paese o nel proprio quartiere, dove si è cresciuti. Dove tutti ti guardano, ti riconoscono e ti indicano, pensando che tu non te ne accorga. Tornare nel proprio paese o quartiere dove, prima di diventare quello che eri, tutti ti riconoscevano come il bambino che a dieci anni aveva ricevuto per il compleanno un paio di scarpe rosso fiammanti con le saette ai lati, e che, quando la mamma le aveva buttate via tanto erano consumate, si erano dovuti sorbire i tuoi lamenti e i tuoi pianti. E ora, una volta tornato, ti sparlano alle spalle perché tu hai ucciso uno sconosciuto, o hai rapinato le loro case, e quando passi cambiano strada, direzione, ti evitano e ti girano al largo. E dentro di te sai che hanno tutti i motivi del mondo per fare così e non puoi più fare niente se non dimostrargli che sei cambiato. Credo che questo sia il momento più brutto, quando gli altri ti identificano in qualcosa che non sei più e allora vorresti urlare al mondo: “Sono cambiato! Io sono cambiato”. Personalmente non ho mai vissuto un’esperienza del genere, né da una parte né dall’altra, ma credo che se mi trovassi in una di queste situazioni farei così. Forse poi mi fermerei a riflettere e a cambiare opinione. Spero di riuscire in futuro, se mai mi capitasse una situazione così, a fermarmi, voltarmi, andare dall’ex-detenuto e dirgli: “Sono felice che tu sia cambiato”. Probabilmente, se io mi trovassi in carcere, una volta uscita non avrei il coraggio di tornare a casa mia, nel mio quartiere. Questo perché non mi piace e non mi è mai piaciuto deludere gli altri, e le aspettative che ripongono in me. Ho sempre tenuto molto a fare bella figura con coloro che pensano che io possa raggiungere grandi risultati. Quindi probabilmente non avrei il coraggio di farmi vedere, mi sentirei troppo sfacciata, troppo spudorata. Cambierei vita. Un’altra cosa con cui dovrei fare i conti è la mia coscienza, non credo che riuscirei a perdonarmelo mai. Come ha detto Pasquale: “Se ci fosse un modo per perdonarmi per ciò che ho fatto e farmi perdonare veramente per quello che ho commesso, l’avrei già fatto sicuramente, ma purtroppo non c’è”. Dopo questa frase forse ho veramente capito qual è la parte più dura. Se penso che ancora mi vergogno al solo pensiero di certe frasi che mi hanno, a parer mio, fatto sembrare un po’ sciocca anni fa, come potrei perdonarmi un reato? Questo non lo so, ma soprattutto non so come farei a conviverci. Emma F., Classe 3aB Scuola Secondaria di Primo Grado “Falconetto” Padova Una persona va aiutata per il cambiamento (Primo classificato scuole superiori) Non mi ero mai chiesto, prima di essere coinvolto in questo progetto, come fosse davvero un carcere e cosa volesse dire perdere la propria libertà. Penso che sia importante per noi studenti conoscere ed imparare per non commettere gli stessi sbagli degli altri, sbagli che a volte sono gravi o errori che sembrano piccoli, ma che sommati insieme portano alla reclusione. Nella mia mente il carcere è sempre stato un posto chiuso, e lo è davvero, fisicamente chiuso, ma solo all’interno di quelle mura; nel corso degli ultimi due anni ho potuto scoprire un mondo che a piccoli passi e grazie allo sforzo di tante persone cerca di guardare oltre quelle mura e dentro le pareti che racchiudono i sentimenti delle persone, ho scoperto che non è mai giusto pensare ai detenuti come cibo in attesa di marcire, con la data di scadenza, è stato importante realizzare che il carcere deve essere un percorso rieducativo, e non sempre ci riesce, ma se questo progetto ci sta riuscendo è perché sta applicando questo principio. Attraversare i corridoi del carcere Due Palazzi di Padova non è stato semplice, il nostro passo era dettato da quello della Polizia Penitenziaria, ma forse era toppo lento per i loro ritmi; sono rimasto colpito dal primo istante dall’odore, né familiare né sconosciuto, i miei passi veloci scandivano il ritmo del mio sguardo che non riusciva a focalizzare nessun punto in particolare, in un corridoio spoglio e dai muri colorati mi sono perso, e tutti i cancelli che abbiamo passato rendevano in me sempre più forte l’emozione di quel momento. Ci siamo seduti a non più di due metri dai detenuti e la prima cosa che mi è saltata all’occhio è stato il loro abbigliamento, non era diverso dal nostro, e i colori che indossavano mi mettevano allegria, ognuno aveva il suo stile, chi elegante, chi casual, chi comodo e mi affascinavano i loro vestiti perché li rendevano così umani, come non me lo sarei mai aspettato e le loro facce erano così normali, così comuni, e allo stesso tempo particolari, che mi sembrava di averli già conosciuti tutti, mi ricordavano tutti la persona con cui sei in fila per prendere il gelato o con cui aspetti il caffè al bar; la redazione di Ristretti poi è diversa dal carcere, è dipinta di un blu che somiglia al cielo poco prima che il sole tramonti, quella luce che i fotografi chiamano “blue hour” e quel contesto cosi opprimente e soffocante si è trasformato in pochi istanti in una comune sala di ritrovo. I loro volti, il loro sguardo mi trasmettevano fiducia, sapevo che per loro quei pochi minuti di esposizione non erano un’interrogazione dal posto, per loro erano e sono un momento di riflessione e servono a mandare un messaggio a noi, perché non si ripetano gli stessi loro errori e servono molto anche a loro per comprendere ogni giorno di più cosa possono fare per rimediare e per cambiare, in certi sensi è stato come ascoltare le storie di un anziano che racconta la sua vita. Quelle poche ore passate insieme alle persone che vivono dentro al carcere hanno segnato per sempre la mia visione di esso e mi hanno reso una persona consapevole delle condizioni che i detenuti sono costretti a sopportare, ma la cosa più importante che ho imparato è che una persona non va giudicata solo per quello che ha fatto, ma va vista e aiutata per quello che sta facendo, per il cambiamento che sta attuando dentro di sé. Ho compreso che le punizioni e l’odio non portano l’uomo a comprende i propri sbagli ma solo a coltivare una grande rabbia, e che l’unico modo per cui il carcere possa davvero essere utile alla società e alle persone che ci entrano è quello di rieducare alla vita i detenuti con percorsi come quelli di Ristretti Orizzonti. Il Bene genera Bene. Davide L, Classe 4a ATGC IIS G., Valle Il “governo del cambiamento” e la confusione sulle carceri di Maria Giovanna Cogliandro larivieraonline.com, 11 giugno 2018 Nel contratto per il “governo del cambiamento” di M5S e Lega, da un lato si prova a “rispondere al problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari con un piano per l’edilizia penitenziaria”, dall’altro si parla di una ripenalizzazione dei reati lievi, come ad esempio furti e scippi. Quindi, se la matematica non è un’opinione, il sovraffollamento, almeno in un primo momento, dovrebbe aumentare. I due leader, nel redigere il contratto, avranno pensato di accontentarsi a vicenda e sono giunti a una… confusione. Viene, poi, invocata a gran voce la certezza della pena, viene detto addio alla “sorveglianza dinamica” nelle carceri (che sostanzialmente significa tenere tutti chiusi in cella 22 ore su 24), mentre le pene alternative sono viste come gentili e imperdonabili concessioni alle persone detenute (se pensiamo che oggi ogni detenuto costa 137 euro al giorno e appena 95 centesimi sono destinati alla rieducazione, di gentile concessione vedo ben poco). Si prevede, inoltre, una “revisione sistematica e organica di tutte le misure premiali”, introdotte nel 1986 con la legge Gozzini, nata con l’intento di valorizzare l’aspetto rieducativo della carcerazione rispetto a quello punitivo, in linea con l’art.27 della Costituzione, che vieta una pena detentiva in violazione dei diritti umani. Ciliegina sulla torta, la revisione delle “linee guida sul cd. 41-bis così da ottenere un effettivo rigore nel funzionamento del regime del carcere duro”. Tradotto: quel girone infernale, che negli anni crea mostri vegetali, sarà ulteriormente avvolto dalle fiamme. Chiara è, dunque, l’impronta forcaiola e giustizialista del contratto gialloverde: pene schiacciate sul solo uso del carcere, considerato mera discarica sociale, e al bando ogni misura alternativa alla detenzione e riabilitativa, tanto ciò che importa non è dare giustizia alle vittime ma giustiziare il colpevole! Un’idea di giustizia che va a minare le già risibili conquiste di civiltà ottenute in questo ambito nel nostro Paese. Un allarmante arretramento che, tra le altre cose, si propone di abrogare la cosiddetta norma “Consolo” con cui oggi viene consentito a chi è sottoposto a regime di 41-bis di poter avere colloqui con i propri familiari e abbracciare i propri figli, mogli, padri, madri e nipoti (proibire un abbraccio servirà a sconfiggere la mafia?). Conformemente all’ideologia oscurantista e reazionaria fin qui emersa, nel contratto non si fa accenno a quelle che sono le ombre del sistema carcerario italiano, una tra tutte le “celle zero”, le celle del sopruso, dell’abuso di potere, della sospensione dei diritti, in cui detenuti di tutte le età vengono vessati da guardie penitenziarie. Nessun riferimento neppure alle vere e proprie torture subite dai detenuti nelle carceri italiane, che sono valse all’Italia la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Ma sì, chi se ne frega dell’Europa. La doppiezza del contratto di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 11 giugno 2018 La parola contratto, nelle questioni politiche, può avere significati diversi. Si cita spesso il Koalitionsvertrag tedesco, il “contratto di coalizione” del 14 marzo di quest’anno concordato fra tre partiti (Cdu, Csu e Spd), come esempio di prassi politica virtuosa. È un documento di 173 pagine che contiene un progetto politico onnicomprensivo, in vista d’un governo di lunga durata e d’una società integrata in una visione comune. Se ne sono celebrate le virtù, come modello valido anche per il nostro Paese, senza considerare le profonde differenze di struttura e di quadro costituzionale in cui esso è stato elaborato. In primo luogo, il “cancellierato” tedesco non è il sistema parlamentare italiano. Il contratto può in effetti essere cosa diversa da quel “contratto di coalizione”. Può essere cioè la sistemazione di interessi particolari che, per realizzarsi, richiedono l’assenso di altre parti. Questo è il significato “privatistico” di contratto: accordo attraverso scambi e concessioni reciproche per realizzare propri propositi, propositi che restano parziali anche a stipulazione conclusa. Si potrebbe dire: una tregua consensuale in vista non della pace, ma del consolidamento temporaneo delle posizioni. La mera sommatoria di interessi è dissolutiva della Costituzione, come visione e concezione d’insieme della vita della pòlis. Sorprende che su questa incompatibilità non sia stata richiamata l’attenzione che essa avrebbe meritato. Non stiamo parlando qui del “contratto con gli italiani”, quell’artificio retorico e propagandistico che nella sostanza era solo una serie di promesse rivolte a sedurre l’elettorato. Si parla di qualcosa che vorrebbe essere un vero contratto tra parti politiche rappresentate dai loro capi, con tanto di stipula davanti a un notaio, firmata da due persone, contenente una clausola che demanda la risoluzione dei contrasti interpretativi a un organo detto “comitato di conciliazione”: una sorta di giurisdizione, analogamente al “foro competente” che gli stipulanti nei contratti di diritto privato individuano per il caso di lite. I punti di vista e le visioni restano distinti. Per quanto in ogni contratto politico le aspettative delle parti non riguardino solo utilità particolari, ma anche le misure da prendere per il governo della società, resta il fatto che il risultato è una sommatoria di progetti che restano distinti dall’inizio alla fine. La fragilità e la provvisorietà sono insite in questo genere di accordo. Il vero cemento che unifica non è il progetto comune (che si stenta a vedere), ma il potere: un cemento resistente. Se fosse un vero programma politico comune, non avrebbe bisogno di notai. Semmai - come nel “contratto” tedesco - richiederebbe verifiche nel corso della vigenza, e non “fori competenti” per la soluzione dei contrasti che già dall’inizio si mettono nel conto, come nei matrimoni d’interesse. In effetti, alla semplice lettura il contratto nostrano mostra la sua duplicità, anzi la sua doppiezza. È facile identificare l’esistenza del doppio imprinting che segna non solo visioni di società distinte, ma addirittura aspirazioni territorialmente localizzate in latitudini diverse, corrispondenti alla localizzazione delle rispettive forze elettorali. La doppia anima del contratto, se ce ne fosse bisogno, è stata confermata dal dibattito parlamentare. Ciascuna parte contraente ha parlato principalmente di ciò che le stava particolarmente a cuore, ignorando il resto. Non avrebbe potuto essere diversamente. Su ciò da cui potranno nascere contrasti per l’avvenire, è stato meglio rifugiarsi nel silenzio o in formule fumose, in compromessi lessicali. Il pensiero corre al reperimento delle risorse necessarie a realizzare i programmi rispettivi o alla collocazione nazionale nel contesto sovranazionale e internazionale. Al netto del potere, l’equilibrio è precario ma aggressivo sulle istituzioni costituzionali. Lo spostamento del programma politico in una sede contrattuale del tipo anzidetto ha implicato una serie di esautoramenti. Non c’è bisogno di molte parole, bastano i fatti. Il Parlamento ha ricevuto un programma in cui non ha avuto voce alcuna ed è chiamato ad attuarlo, non a discuterlo. Il governo si configura come una propaggine del contratto, anche visivamente rappresentata dalla presenza dei due firmatari seduti l’uno a sinistra e l’altro a destra del presidente del Consiglio. Il quale, a sua volta, per impossibilità logica prima che politica, non è figura autonoma che possa fare ombra ad alcuno dei due contraenti. È lì per esporre, eseguire o al massimo mediare, mentre la Costituzione gli attribuisce un ben diverso compito di direzione della politica generale e di garanzia dell’unità dell’indirizzo politico e amministrativo del governo. Perfino il presidente della Repubblica è stato sottoposto a una pressione mai vista, culminata nella minaccia d’incriminazione per “alto tradimento e attentato alla Costituzione” avendo sollevato obiezioni circa la composizione della compagine ministeriale dal punto di vista della tutela dell’interesse nazionale: evitare il rischio di qualcosa come il “fallimento” dello Stato. La minaccia era velleitaria secondo il diritto costituzionale vigente ed è caduta. Non però per scrupoli giuridici ma per sopravvenute diverse strategie politiche che l’hanno fatta apparire controproducente rispetto alla tenuta del contratto di governo. Le tensioni che si sono manifestate possono facilmente essere viste come primizie di ciò che potrebbe accadere se e quando in futuro misure necessarie all’attuazione del contratto fossero sottoposte al controllo della Corte costituzionale. Lo si comprende: il contratto non può essere “smontato” pro parte. Verrebbe meno il punto d’incontro tra gli interessi divergenti delle parti che lo hanno sottoscritto. Verrebbe meno l’interesse congiunto a mantenerlo in piedi. Si dirà: tuttavia in ogni governo di coalizione deve esistere un programma e il programma deve pur essere oggetto di trattative e compromessi. Ciò è ovvio. Ma non è indifferente chi prende l’iniziativa e chi la conduce avanti. Una cosa è il programma steso in colloqui riservati e tra soggetti operanti in forma privata (come in effetti è stato) e poi presentato ultimativamente agli organi costituzionali per la sua ratifica ed esecuzione; un’altra cosa è se, secondo procedure consolidate nel sistema di governo parlamentare, si procede a partire dal presidente della Repubblica che individua il soggetto idoneo a formare un governo sostenuto da una maggioranza in Parlamento. Questo è il proprium del governo parlamentare. Nella sostanza della procedura seguita nella formazione del governo oggi in carica, questa fase è stata di fatto soppressa. Il presidente della Repubblica ha atteso che altri operassero per incontrarsi in sede per così dire privata, arrivando a individuare vincolativamente il presidente del Consiglio che il capo dello Stato ha poi nominato. Gli organi costituzionali si sono ristretti e il potere di fatto di due capi politici si è allargato. Impossibile negarlo: la Costituzione arranca. Sono giustificate le previsioni funeste per l’avvenire? Davvero la Costituzione è una nozione dépassée, secondo la formula usata tanti anni fa da un costituzionalista come Georges Burdeau? Le previsioni sono sempre rischiose e tuttavia pare di intravedere qualcosa che, con tutte le differenze del caso, sotto l’aspetto del post-moderno sembra celare qualcosa di pre-moderno. La Costituzione, come l’intendiamo, è un progetto che mira a sottoporre le forze politiche e sociali a un ordine voluto e progettato secondo un qualche piano razionale d’insieme, scritto in un documento riconosciuto come fondamento; prima dell’epoca delle Costituzioni, solo due secoli e mezzo fa, la Costituzione era un’altra cosa: era l’insieme di quelle forze, dei loro equilibri, della loro lotta per migliorare le proprie posizioni a scapito delle altre. Non ci vuol molto per comprendere che in questa lotta si riversavano le prepotenze dei più forti, cioè precisamente ciò che noi consideriamo propriamente anticostituzionale. La vita delle potenze del nostro tempo mira non alla loro costituzionalizzazione, ma alla propria de-regolazione politica e alla loro libera competizione. Tuttavia, se prendiamo in considerazione la disgregazione sociale, la riduzione dei diritti e la crescita delle disuguaglianze e le tensioni distruttive che ne derivano: se consideriamo tutto ciò, a che cosa d’altro potremo allora rivolgerci, quando verrà il momento, per tentare di mettere un qualche ordine nelle nostre società, come già fu al tempo del crollo dell’Antico Regime, due secoli e mezzo or sono? A che cosa d’altro, se non a una costituzione politica, sia essa nazionale o sovranazionale ma comunque una Costituzione, ripeto, politica? Giustizia. Alessandro Barbano: “rischio barbarie processuale” di Manuela Galletta giustizianews24.it, 11 giugno 2018 “Nel Paese c’è un clima di rabbia preoccupante”. Verso il tema dei migranti, verso l’alterità, la diversità. Verso chi delinque. “Ma la risposta non può essere affidata al giustizialismo”. La risposta alla pur legittima richiesta di sicurezza da parte dei cittadini non può essere una politica della Giustizia che vira tutta sull’inasprimento delle pene, sulla promessa (irrealizzabile dati i costi e i tempi) di nuove carceri, sull’azzeramento della prescrizione (unico argine esistente alla lunghezza esasperante e non costituzionale dei processi). Alessandro Barbano, che durante la sua direzione de “Il Mattino” (finita pochi giorni fa tra le polemiche e lo stupore generale) ha assunto una posizione sempre molto critica verso le strategie di compressione dei diritti di indagati e imputati, guarda con estrema diffidenza ai punti inseriti nel famoso contratto di Governo giallo-verde. Direttore, partiamo dalla prescrizione: l’obiettivo è bloccarla dalla fase del rinvio a giudizio, di fatto rendendo infinita la durata di un processo. Bonafede dice che è la strada giusta per far sì che si arrivi a una condanna… “In realtà è la strada giusta per una barbarie processuale. In termini pratici, significa che per un reato di corruzione si potrà stare sotto il maglio della pubblica accusa per 22-23 anni. Già con la riforma del Pd si è intervenuti sulla prescrizione rendendola di fatto giustizialista e negazionista dei diritti dell’indagato, ma qui si sta andando davvero oltre”. Però in Italia esiste un problema prescrizione. I processi destinati al macero perché non si concludono nei termini di legge sono sempre in aumento secondo le stime del ministero della Giustizia. C’è qualcosa che non funziona… “È l’organizzazione degli uffici che non funziona. Se è vero che molti processi sono estinti perché prescritti, è altrettanto vero che non c’è corrispondenza tra i carichi di lavoro che hanno i Tribunali e il numero delle prescrizioni. Esistono infatti in Italia Tribunali con poco organico e con poche prescrizioni. E Tribunali con molto organico e molte prescrizioni. Non viceversa. Sta dicendo che in alcuni Tribunali si lavora male? “È evidente dai dati che esiste un problema di efficienza dell’organizzazione”. Invece di intervenire su queste disfunzioni, si preferisce intervenire sulla prescrizione, sull’inasprimento delle pene. Sui reati predatori, il Governo promette una stretta. Sui reati commessi dai minori, si riflette sull’abbassamento dell’età imputabile. Si ha la sensazione di una giustizia manettara e populista… “Il problema della Giustizia penale è di avere una misura e fare valutazioni che sono scevre da emozioni. Invece il legislatore si muove sulla scorta delle emozioni. E le affronta in modo inadeguato anche laddove è evidente che ci sono delle disfunzioni sulle quali intervenire” Quali disfunzioni? “Il tema della legittima difesa ad esempio. È indiscutibile che serve una correzione, perché oggi indubbiamente si espone chi si difende al sacrificio di un processo lungo e tormentoso. Tuttavia è pur vero che bisogna fare attenzione a come si interviene su questo tema. Abrogare il contenuto della proporzione tra offesa e difesa, come sembra emergere dal Contratto, significa armare i cittadini e legittimarli ad usare in maniera indiscriminata e spregiudicata le armi. Questo è pericoloso, è contra ius. Ha dei rischi soprattutto in questo clima di rabbia del paese. La risposta a queste emergenze non può essere affidata al giustizialismo”. Un giustizialismo che lei ha già duramente denunciato in riferimento al precedente Governo… “In realtà il racconto degli ultimi venti anni del Paese è figlio del giustizialismo della sinistra italiana. A questo si è poi aggiunta la demagogia di marca populista che ha smontato pezzo pezzo tutte le forme della democrazia. Il giustizialismo e la demagogia populista oggi hanno impedito che l’unica riforma garantista del ministero Orlando (quella sull’ordinamento penitenziario, ndr) entrasse in vigore. È stata azzerata in nome della piazza”. Il nuovo Governo ha già chiarito che quella riforma non verrà ripresa. Anzi, si va nella direzione opposta: la ricetta è più carceri, il che lascia pensare anche ad una stretta sulla detenzione… “Purtroppo la giustizia populista non si rende conto che il punto di partenza di un Paese civile per abbassare la recidiva non è l’inasprimento delle pene, ma un sistema di rieducazione e di reinserimento dei detenuti. E questo sistema di recupero in Italia non funziona. Nel carcere di Poggioreale ci sono più di 2mila detenuti, ma solo 200 di questi partecipano concretamente a programmi di rieducazione. Questo significa che c’è una fortissima zona di esclusione”. La cosa singolare è che a farsi portavoce di riforme che vanno contro il garantismo è un avvocato… “L’altro giorno ho ascoltato l’intervista che Bonafede ha rilasciato alla trasmissione Piazza Pulita. Il ministro ha parlato di Giustizia come io potrei parlare di numismatica. La verità è che una professionalità non la fa solo un titolo di studio”. Sembra di assistere ad un ribaltamento di ruoli e di principi… “Pensiamo alla nomina di Conte. Secondo quanto si racconta, è diventato premier su indicazione di Bonafade. Assistiamo quindi al caso di uno studente che coopta il professore. È la fotografia plastica che siamo davanti a un ribaltamento nella selezione della classe dirigente. Non è più la classe dirigente a formare l’opinione pubblica, ma è il senso comune che si è impadronito della classe dirigente. E questo provoca una distorsione anche del concetto di democrazia. Così accade anche che le élite siano raccontate come casta e il compromesso come inciucio. Nella morale comune non c’è più l’idea del compromesso nobile”. Praticamente un mondo in bianco e nero… “C’è una semplificazione a tutti i livelli in nome di una democrazia perfetta che è strutturalmente una menzogna. La generazione dei nostri padri accettava l’imperfezione della democrazia e anche di fronte a certi suoi compromessi non onorevoli non metteva in discussione la sua sostanza. È chiaro che se, invece, idealizzi una democrazia perfetta e censuri ogni dissonanza, tu costruisci un’opinione pubblica di immaturi, che cercano semplificazioni. Che raccontano la democrazia in bianco e nero, mentre la democrazia nasce dalla necessità di raccontare i grigi”. Pene troppo basse o troppo alte? L’omicidio stradale va alla Consulta di Giulio Isola Avvenire, 11 giugno 2018 A Torino un giudice chiede il parere della Corte costituzionale dopo la revoca della patente per 5 anni per una “colpa lieve”. A Milano comminato l’ergastolo della patente. Omicidio stradale, pene eccessive oppure troppo basse? Per uno dei curiosi giochi del destino, che pure talvolta accadono, venerdì scorso la nuova legge sul cosiddetto ‘omicidio stradalè è finita sotto i riflettori della cronaca in sensi decisamente contrapposti: a Torino un giudice ha sollevato infatti due questioni di legittimità costituzionale sulla norma, a Milano invece grazie alla stessa è stato comminato - circostanza rara - l”ergastolo della patentè a un pirata della strada. Peraltro le eccezioni portate alla Consulta dal Tribunale piemontese (giudice Modestino Villani della sesta sezione penale) vertono proprio sulla quantificazione della pena; la legge, infatti, così come è formulata limiterebbe anzitutto la discrezionalità del giudice nell’applicazione delle circostanze attenuanti o aggravanti, inoltre in caso di condanna - anche dopo un patteggiamento - implica la revoca della patente con l’impossibilità di ridare l’esame di guida per almeno 5 anni: sanzione che potrebbe essere sproporzionata in caso di “colpa minima”, come quella che ha provocato il ricorso alla Corte costituzionale. Il tribunale torinese giudicava appunto il caso di un’anziana signora investita nel 2016 mentre attraversava la strada a Moncalieri, riportando lesioni guaribili in 60 giorni. Secondo il difensore dell’automobilista, avvocato Riccardo Salomone, il trattamento sanzionatorio risulterebbe appunto “sproporzionato e irragionevole “, con un automatismo sulla sospensione del documento di guida che secondo il legale non dovrebbe essere consentito. Tra l’altro, l’incidente stradale in questione è avvenuto mentre sia l’autista sia il pedone stavano passando col semaforo rosso, tanto che la stessa procura nel capo d’accusa ha fatto presente il concorso di colpa. Ben diversa la situazione milanese, dove venerdì il Gup Natalia Imarisio ha inflitto con rito abbreviato 6 anni e sei mesi di carcere e la revoca a vita della patente ad Alessandro Ghezzi, milanese di 45 anni già ai domiciliari dal 27 gennaio; l’uomo - ubriaco (aveva nel sangue un tasso alcolico di 1.58, tre volte il valore consentito di 0.50), con la patente sospesa e la macchina non assicurata - aveva travolto sbalzandolo per 22 metri e ucciso con il suo suv Sandro Orlandi, pensionato di 88 anni al quale non aveva poi nemmeno prestato soccorso. Arrestato poco dopo, Ghezzi si era riconosciuto nelle immagini delle telecamere che avevano ripreso l’investimento, ma sosteneva di avere un vuoto di memoria dal momento in cui era entrato al bar dove, secondo la sua versione, aveva consumato solo due o tre birre. Venerdì l’uomo - che ha anche precedenti penali per condanne definitive: lesioni, resistenza a pubblico ufficiale e ancora guida in stato d’ebbrezza e senza patente - ha cercato di chiedere scusa davanti al giudice, ma sulla pena ha influito soprattutto lo sconto di un terzo previsto dal rito abbreviato (il pm aveva chiesto una condanna a 7 anni). Peraltro il legale di parte civile, avvocato Domenico Musicco che è anche presidente dell’Associazione vittime incidenti stradali, sul lavoro e malasanità, si è detto soddisfatto: “È una condanna in linea con le nuove norme sull’omicidio stradale che anche la nostra associazione ha contribuito a far approvare. Difficilmente si poteva avere una pena maggiore, dato il rito. E ci soddisfa la revoca della patente a vita, il cosiddetto ergastolo della patente, un caso raro”. Diverso il parere dei familiari della vittima (“Credo che servano pene anche più severe”, ha dichiarato il figlio dopo la sentenza), che comunque ora potranno cercare di ottenere un risarcimento dal Fondo di garanzia per le vittime della strada. E diversa - come si diceva all’inizio - anche l’opinione di altri giuristi: prima di Torino, una questione di legittimità costituzionale sull’omicidio stradale era stata sollevata pure a Roma nel maggio 2017 da un giudice per le indagini preliminari. Ora toccherà dunque alla Consulta dirimere la questione, almeno per quanto riguarda l’entità delle pene. Carcere ingiusto, Petrilli s’arrende Il Centro, 11 giugno 2018 La motivazione: “Ho provato a coinvolgere l’Onu con Putin, ma è stato inutile”. “La mia lunga battaglia per avere il risarcimento per ingiusta detenzione, termina oggi. Avevo promesso che il tentativo di avere un aiuto da parte del presidente della Russia Vladimir Putin sarebbe stata l’ultima spiaggia e sarà così”. Lo rende noto Giulio Petrilli, che da anni conduce una battaglia per ottenere dallo Stato italiano il risarcimento per ingiusta detenzione, dopo essere stato in carcere per sei anni e alla fine assolto dalla Cassazione. “Avevo cercato in questo modo, tramite la Russia, di coinvolgere sul problema anche le Nazioni Unite” aggiunge, “posizione velleitaria, ma dopo aver portato la questione in tutte le istanze possibili, fino alla corte europea dei diritti dell’uomo, non mi rimaneva che questo. Nei primi incontri avuti, con l’ambasciata russa in Serbia, tutto sembrava possibile, c’era un’attenzione positiva da parte loro, ma dopo una riflessione approfondita nel corso di un incontro con il diplomatico Nikita Suchodolov, che ha parlato anche a nome dell’ambasciatore russo in Serbia, in relazione alla mia richiesta, mi ha comunicato ufficialmente che al di là delle mie ragioni, ritenevano come ambasciata e di conseguenza come governo russo di non interferire con le leggi e le normative di un altro stato, in questo caso lo Stato italiano. Devo riconoscere che almeno correttamente mi hanno risposto. In Italia in tutti questi anni a livello istituzionale non ho mai avuto una risposta. Ho provato con tutte le mie forze in questi ultimi quindici anni a provare ad affermare il diritto di avere un risarcimento dopo sei anni di carcere ingiusto sancito con l’assoluzione. Non ci sono riuscito. La battaglia non era solo per me, ma anche per altri che nonostante il carcere e poi l’assoluzione si sono visti rigettare l’istanza per il risarcimento da ingiusta detenzione per “cattive frequentazioni” o perché hanno “tratto in inganno gli inquirenti” e quindi corresponsabili del proprio arresto. Una legge anticostituzionale ma nessuno ha il coraggio di portarla davanti la Consulta o di cambiare la norma in parlamento”. Più facile provare il danno per ingiusta detenzione di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 11 giugno 2018 Corte di Cassazione, sentenza 23362/2018. Con sentenza 11 maggio 2018 n.23362, la Cassazione disegna la disciplina dell’onere della prova e dei criteri di valutazione della stessa in materia di indennizzi per la detenzione sofferta in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Premesso che il ricorso di cui all’articolo 35-ter, della legge 354/75 ha natura indennitaria e non risarcitoria e che la domanda introduttiva non deve essere corredata dalla precisa e completa allegazione degli elementi di fatto posti a fondamento della stessa, la Corte ha ulteriormente affermato che, instaurato il procedimento, qualora l’amministrazione non fornisca le informazioni richieste dal giudice ovvero non produca elementi atti a confutare adeguatamente le affermazioni del ricorrente, il reclamo va accolto in base al principio della “ vicinanza della prova”, così applicando un criterio di matrice giurisprudenziale nato nel processo civile (per esempio, in tema di tutela del credito del lavoratore, di colpa medica, etc.). Le informazioni dell’amministrazione - Infatti, nel caso di assenza di “informazioni ufficiali” (i dati, cioè, relativi alla superficie delle celle, al numero delle presenze, alla sezione di assegnazione del detenuto all’interno dell’istituto e alle altre condizioni materiali di detenzione) che l’amministrazione penitenziaria è tenuta a fornire al giudice e sempre che sia accertata l’esistenza del periodo detentivo, la decisione non si fonderà sulla disciplina del rito camerale partecipato (articolo 666 del codice di procedura penale e articolo 185-bis di attuazione del Cpp), che non contiene alcuna disposizione in materia di criteri di valutazione della prova. Di qui, secondo la Cassazione, la necessità di ricorrere ai principi generali dell’ordinamento, prendendo posizione tra l’orientamento per cui varrebbe anche in materia di “rimedi risarcitori” il principio dell’onere di provare pienamente il fatto costitutivo della domanda (Cassazione, sentenza 11313/2018) e l’indirizzo per cui, nelle materie in cui l’iniziativa parta da un soggetto detenuto (per esempio, misure alternative) vi sarebbe una parziale attenuazione di tale onere (Cassazione, sentenza 31690/2017). L’accesso alle prove - Nel caso dei “rimedi risarcitori” per il ristoro del pregiudizio subito in violazione dell’articolo 3 Cedu, l’obiettivo di assicurare al ricorso quei caratteri di celerità ed effettività che la Corte di Strasburgo ha indicato con la sentenza Torreggiani e la Corte costituzionale ha validato (sentenza 204/2016) impone di modellarne la disciplina alla luce dell’asimmetria delle posizioni delle parti contrapposte sotto il profilo dell’accesso alle fonti di prova, nel senso di attenuare il rigore del principio per cui l’onere della prova incombe sull’attore (articolo 2697 codice civile), poiché, nel caso dei ricorsi di matrice europea, la domanda potrebbe non superare il vaglio giudiziale non per sua intrinseca infondatezza bensì per l’assenza di collaborazione dell’amministrazione, privando così di effettività il rimedio. Nel caso dei procedimenti per violazione dell’articolo 3 Cedu, laddove le allegazioni del ricorso abbiano sufficiente carattere di specificità e non siano smentite da elementi portati dall’amministrazione (o comunque acquisiti di ufficio dal giudice), la bilancia dovrà, quindi, pendere in favore del ricorrente, in ragione “dell’esistenza di una ragionevole presunzione relativa di veridicità delle affermazioni rese dal soggetto detenuto” che bilancia l’asimmetria derivante dalla situazione che vede l’amministrazione “unico soggetto detentore di quel complesso di informazioni idonee ad apprezzare la legalità del trattamento” ed alla quale può, pertanto, essere imposto “lo sforzo di introdurre nel procedimento la conoscenza eventualmente impeditiva”. Conversione della pena in sanzioni pecuniarie, giudice fissa il tasso giornaliero di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 11 giugno 2018 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 21 maggio 2018 n. 22458. In tema di decreto penale di condanna a pena pecuniaria sostitutiva di quella detentiva, dal combinato disposto dell’articolo 459, comma 1-bis, del codice di procedura penale, che consente al giudice di “determinare” la pena sostituita, e dell’articolo 460, comma 2, del codice di procedura penale, laddove si vincola il giudice ad “applicare” la pena nella misura richiesta, deve ritenersi che la “misura della pena” che vincola il giudice quando emette il decreto è solo quella detentiva indicata dal pubblico ministero richiedente, utilizzata come moltiplicatore per il ragguaglio che il giudice, appunto, “applica”, mentre la pena “irrogata” cui si riferisce l’articolo 459, comma 1-bis, è quella sostituita all’esito del calcolo, con la conseguenza che il giudice resta libero di rideterminare il tasso giornaliero che, moltiplicato per i giorni di pena detentiva indicati dal pubblico ministero, individua l’ammontare della pena pecuniaria sostitutiva. Il principio di diritto è stato espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 22458 del 21 maggio 2018. Il comma 1-bis dell’articolo 459 del Cpp, nel testo introdotto dalla legge n. 103 del 2017, stabilisce il criterio di ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive, nel caso di irrogazione di una pena pecuniaria in sostituzione di una pena detentiva, avendo riguardo al parametro giornaliero di 75 euro (“il valore non può essere inferiore alla somma di euro 75 di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva e non può superare di tre volte tale ammontare”), in tal modo derogando a quanto disposto in via generale dall’articolo 135 del Cp in ordine al ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive, laddove si dispone che il computo vada effettuato calcolando euro 250 o frazione di euro 250 di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva. Tale più innovativa disposizione si spiega, secondo la Corte, con le esigenze, ricavabili dai lavori parlamentari, di ridurre il numero dei detenuti presso le strutture carcerarie e di incamerare maggiori somme di denaro sebbene non quantificabili; nonché con l’ulteriore finalità di diminuire il numero delle opposizioni al decreto penale di condanna. Rubare sigarette poggiate sul bancone della tabaccheria non è furto in abitazione di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 11 giugno 2018 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 30 maggio 2018 n. 24377. Rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi, anche destinati ad attività lavorativa o professionale, nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare. In altri termini, la disciplina dettata dall’articolo 624-bis del codice penale è estensibile ai luoghi di lavoro soltanto ove essi - secondo accertamento riservato al giudice di merito - abbiano le caratteristiche proprie dell’abitazione, in quanto cioè in essi, o in parte di essi, il soggetto compia atti della vita privata in modo riservato e precludendo l’accesso a terzi (ad esempio, retrobottega, bagni privati, spogliatoi, area riservata di uno studio professionale o di uno stabilimento. Nella specie la Suprema corte, con la sentenza n. 24377 del 30 maggio 2018, relativamente a un furto commesso in una tabaccheria, ha riqualificato il fatto ex articoli 624, 625, comma 1, numero 2, del codice penale, non risultando dagli atti che la tabaccheria avesse un locale con le caratteristiche sopra indicate, in cui potessero svolgersi atti della vita privata del titolare, in modo riservato e senza possibilità di accesso da parte degli estranei, ed emergendo piuttosto che i pacchetti di sigarette oggetto del furto erano stati prelevati dal bancone di vendita al pubblico, vale a dire in luogo accessibile al pubblico. Sulla questione cfr. la sentenza delle Sezioni unite, 23 marzo 2017, D’Amico, che, affrontando la questione se rientra nella nozione di privata dimora, ai fini della configurabilità del reato di furto in abitazione, il luogo dove si esercita un’attività commerciale o imprenditoriale (nella specie, trattavasi di un ristorante), hanno fornito risposta negativa, salvo che il fatto non sia avvenuto all’interno di un’area riservata alla sfera privata della persona offesa. Al riguardo, con affermazione qui ripresa dalla sentenza massimata, precisandosi che rientrano nella nozione di privata dimora solo i luoghi, anche destinati ad attività lavorativa o professionale, nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare. In altri termini, al fine di individuare il discrimine tra la più grave fattispecie incriminatrice occorre accertare se il luogo in cui è stato perpetrato il furto avesse, per sua struttura o per l’uso che se ne faccia in concreto, una destinazione legata e riservata all’esplicazione di attività proprie della vita privata della persona offesa, ancorché non necessariamente coincidenti con quelle propriamente domestiche o familiari, ma identificabili anche con attività produttiva, professionale, culturale, politica. Deve cioè trattarsi di luoghi deputati allo svolgimento di attività che richiedano una qualche apprezzabile permanenza, ancorché transitoria e contingente, della persona offesa, per talune di dette finalità, con esclusione quindi dei luoghi di pubblico accesso. Calabria: Radicali; dopo la legge regionale si nomini il garante dei detenuti quicosenza.it, 11 giugno 2018 È dal 2014 che si chiede l’istituzione della fondamentale figura di garanzia che ancora manca nella regione per i diritti delle persone private della libertà. “Apprendiamo con molta soddisfazione che finalmente si procede ad applicare la legge regionale n°1/2018 del 29 gennaio scorso, istitutiva del Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà e che la Calabria continua sulla strada del ripristino della legalità e dello Stato di diritto, pubblicando il bando per la presentazione delle candidature per questa fondamentale figura di garanzia che ancora manca nella nostra regione. Purtroppo non basta fare leggi istitutive senza poi procedere alla relativa nomina di così importanti figure”. Lo affermano, in una nota congiunta, Giuseppe Candido, segretario dell’Associazione Radicale Nonviolenta “Abolire la miseria-19maggio” e Rocco Ruffa, membro del comitato nazionale di Radicali Italiani. “È dal 2014 - proseguono - che continuiamo a chiedere l’istituzione di questa fondamentale figura di garanzia che ancora manca nella nostra regione e adesso non molliamo finché non sapremo il nome e il cognome del garante per i diritti delle persone private della libertà al quale i detenuti possano presentare le proprie istanze”. Ruffa annuncia anche di interrompere il suo digiuno per salutare la pubblicazione del bando. Ruffa e Candido, comunque, annunciano che proseguiranno la lotta “affinché la vicenda non si risolva come avvenuto per il Garante regionale per la Salute, il cui bando è stato pubblicato, i curricula furono valutati e 8 dichiarati idonei a svolgere il ruolo, ma a dieci anni dalla sua istituzione, manca ancora di essere nominato”. Taranto: 38enne suicida in carcere dopo l’arresto per il “raid” al pronto soccorso lojonio.it, 11 giugno 2018 I familiari del 38enne hanno presentato un esposto in Procura. È morto nel pomeriggio di sabato scorso nell’ospedale Santissima Annunziata di Taranto il 38enne tarantino arrestato nella tarda serata di mercoledì e condotto nella casa circondariale di via Speziale a Taranto dove, nel pomeriggio di giovedì, si è impiccato nella cella in cui si trovava in regime di isolamento. Trasportato nel reparto di rianimazione purtroppo non ce l’ha fatta. Il giovane, con problemi psichici, aveva colpito all’impazzata, domenica scorsa, dodici fra sanitari e agenti di polizia, tutti feriti, nessuno in maniera grave, sempre stando alla ricostruzione dell’accaduto al pronto soccorso dell’ospedale “Santissima Annunziata” di Taranto. Trasportato al nosocomio tarantino da Massafra l’uomo, pregiudicato (e protagonista di violenze in famiglia, ha raccontato il padre a un giornalista) si era anche barricato in una stanza del pronto soccorso, iniettandosi anche un farmaco. Quindi l’aggressione generalizzata ad astanti ed agenti. Il 38enne, trasportato al carcere, ha tentato il suicidio nel penitenziario formando un cappio. Era stato salvato dall’agente in servizio. Ma poi non ce l’ha fatta. L’associazione Marco Pannella sul caso aveva espresso perplessità sulla giustezza della misura carceraria nei confronti di un uomo con evidenti problemi psichici. La famiglia del giovane, attraverso gli avvocati Claudio Percolla e Cosimo Nesca, ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica affinché si faccia chiarezza sul triste episodio verificatosi all’interno del struttura penitenziaria. Porto Azzurro (Li): Open Day in carcere, il Polo di Pisa presenta i corsi di Irma Annaloro tenews.it, 11 giugno 2018 Il progetto, che va avanti da anni, permette ai detenuti di laurearsi. Un Open Day a tutti gli effetti. I docenti universitari presentano i corsi di laurea, gli studenti ascoltano. E in questo caso gli studenti sono i detenuti del Carcere di Porto Azzurro che, grazie ad un progetto attivo ormai da diversi anni, hanno l’opportunità di poter studiare all’interno del carcere per giungere al conseguimento della laurea. Così, all’interno della struttura, una ventina di detenuti ha partecipato attivamente alla giornata di presentazione dell’offerta formativa di Pisa, o almeno i corsi che non prevedono la frequenza obbligatoria, per ascoltare le proposte dell’Università presente con il delegato del Rettore per il Polo Universitario Andrea Borghini. Tutto questo è stato possibile grazie al progetto Universazzurro-Universitari in carcere ormai da diversi anni attivo grazie alla collaborazione che si è instaurata tra la Casa di Reclusione e il Polo di Pisa e al contributo prezioso dell’associazione di Volontariato Dialogo e della Fondazione Livorno. “L’istruzione nel carcere - ha detto Francesco D’Anselmo, direttore Casa di Reclusione Porto Azzurro - ha un ruolo preponderante perché riesce a creare la consapevolezza del disvalore delle proprie azioni. La presenza dell’Università è di fondamentale importanza”. Al momento la Casa di Reclusione di Porto Azzurro conta sei detenuti iscritti ad un corso di studio. Di questi, due sono prossimi al conseguimento della laurea e presto si aggiungeranno agli altri quattro detenuti che in questi anni sono riusciti a laurearsi con ottimi risultati. All’Open Day hanno partecipato i detenuti già diplomati ma anche quelli che al momento stanno frequentando il liceo in carcere. Due di loro, tra l’altro, hanno già espresso l’intenzione di iscriversi e iniziare, a settembre, gli studi universitari. “È stato un incontro interessante e proficuo - ha spiegato Andrea Borghini, delegato del Rettore per il Polo Universitario - Sono arrivati anche importanti suggerimenti come l’idea che un polo penitenziario possa aprirsi qui a Porto Azzurro e ribadisco che quello di oggi non sarà un episodio isolato. Cercheremo di potenziare la presenza dell’Università qui”. Borghini pensa già anche ad un evento, presumibilmente da mettere in calendario nell’autunno, che consenta di far conoscere le molteplici attività che vengono scolte da questa struttura. La formazione, tra l’altro, si è ritagliata un ruolo di spicco dato che oltre al progetto Universazzurro c’è anche un’attività di istruzione che riguarda la scuola superiore. Ma ci sono anche i corsi di alfabetizzazione per i detenuti stranieri presenti a Porto Azzurro. In fondo, questa Casa di Reclusione un tempo, almeno fino al 2007, era un piccolo polo riconosciuto dalla Regione. E chissà che non possa tornare ad esserlo. Firenze: carcere di Sollicciano, visita ispettiva di una delegazione del Partito Radicale Ristretti Orizzonti, 11 giugno 2018 A distanza di due mesi dall’ultima visita, lunedì 11 giugno una delegazione del Partito Radicale, insieme a esponenti del mondo politico e associazionistico fiorentino, tornerà a visitare il carcere di Sollicciano. Prosegue, quindi, il lavoro di controllo e verifica che il Partito Radicale sviluppa costantemente in tutte le situazioni carcerarie particolarmente critiche, con l’autorizzazione del Dap. Lo scorso aprile, infatti, la situazione dell’istituto penitenziario fiorentino aveva destato forte preoccupazione tra i membri della delegazione. La delegazione sarà composta da Rita Bernardini (Presidenza del Partito Radicale), Donella Verdi, (consigliere comunale - Firenze riparte a Sinistra), Sandra Gesualdi (Fondazione Don Lorenzo Milani), Grazia Galli, Emanuele Baciocchi, Maurizio Morganti e Massimo Lensi, militanti radicali dell’Associazione “Andrea Tamburi”, e da due studenti universitari, Beatrice Laurita e Carlo Resta. Alle ore 15, sempre lunedì 11 giugno, a conclusione della visita, è prevista una conferenza stampa della delegazione davanti all’uscita del carcere. In caso di pioggia la conferenza stampa si svolgerà sotto la tettoia sempre di fronte all’ingresso del carcere. Nuoro: “perdono dopo vent’anni l’assassino di mio fratello” di Stefania Vatieri La Nuova Sardegna, 11 giugno 2018 La sorella di don Muntoni in piazza con i detenuti di Badu e Carros e Mamone Nuova tappa del progetto “Giustizia riparativa” della coop Ut Unum Sint. “Vorrei tanto che qui tra di voi ci fosse l’assassino di mio fratello. Questo è un pensiero che mi ha attraversato tante volte in questi anni, perché mi sarebbe piaciuto fargli capire che dietro all’uomo che ha ammazzato, un prete amorevole e dedito alla sua comunità, c’è una famiglia che ancora oggi a distanza di vent’anni continua a soffrire. Ma soprattutto avrei voluto dirgli che nonostante il grande dolore che ha provocato e che mai potrà essere riparato, lo perdono. Spero che questi miei sentimenti gli possano essere di aiuto per capire ciò che ha fatto e intraprendere un percorso di espiazione”. Stringe il microfono tra le mani Caterina Muntoni, sorella di don Graziano, il sacerdote ucciso vent’anni fa a Orgosolo la vigilia di Natale, mentre dal palco di piazza Sebastiano Satta racconta la sua storia a un’attenta platea, tra questi anche 11 detenuti di massima sicurezza del carcere di Badu e Carros e tre provenienti dalla colonia penale di Mamone. Nel corso della terza tappa del progetto “Giustizia riparativa: dopo la vittima, dopo il reo, c’è la società”. Un percorso da qualche anno portato avanti dalla cooperativa sociale Ut Unum Sint guidata da don Pietro Borrotzu, parroco della chiesa di Beata Maria Gabriella, che punta a superare l’idea della sanzione come pena e mira invece a ricostruire una relazione tra le persone coinvolte: vittime e colpevole. “Una giornata che ha come obiettivo quello di favorire il dialogo e il confronto tra i detenuti e la comunità con l’aiuto di esperti - spiega don Borrotzu. L’incontro di oggi è frutto di un percorso che ci ha visti impegnati in due tappe fondamentali: a luglio scorso con un laboratorio di riflessione tra vittime e autori di reato e a novembre con un seminario di studi organizzato nel salone della Camera di commercio - sottolinea il parroco. Anche stavolta abbiamo coinvolto gli studenti dell’Istituto Ciusa perché il nostro messaggio arrivi anche alle nuove generazioni”. Di giustizia riparativa hanno parlato anche i detenuti coinvolti nell’iniziativa è convinti del fatto che “guardarsi dentro aiuta a cambiare vita - raccontano alcuni di loro nel corso dell’evento. Eravamo vuoti, sordi e impassibili di fronte alla vita umana, ora il dolore per ciò che abbiamo commesso è venuto fuori, una sofferenza che purifica grazie al percorso fatto con don Borrotzu”. Un tema sul quale ruota l’attività della parrocchia di via Biasi, da anni punto di riferimento con il suo Centro di aggregazione sociale per il mondo carcerario dove attraverso l’accoglienza dei familiari e dei detenuti in permesso premio e di quelli che accedono alle misure alternative, sta portando avanti il progetto sulla giustizia riparativa. “Ormai da un po’ di tempo stiamo facendo questo percorso che rientra a pieno titolo nell’ordinamento giudiziario - sottolinea don Borrotzu - si tratta del completamento di una serie di attività che ci vedono impegnati ormai da otto anni con le problematiche dei reclusi. Tutt’oggi sono 15 i detenuti che abbiamo in affidamento e che sono anche coinvolti in importanti momenti formativi, tra questi appunto il tema caldo della giustizia riparativa”. La giornata è stata anche l’occasione per mettere in scena alcuni estratti dello spettacolo teatrale scritto e interpretato dalla compagnia dei detenuti di Badu e Carros Nuova Jobia, diretta dall’educatore Pieteo Era, dal titolo “Pane e cipudda”. Oltre che una raccolta di fondi per sostenere il progetto “Gemma”, del Centro di aiuto alla vita come azione riparativa alle vite offese dai reati. Roma: il “Teatro a righe” entra in carcere, uno spettacolo dentro Regina Coeli Corriere della Sera, 11 giugno 2018 Dalle performance di teatro-danza, ai video, alle visite guidate con attori. Dal workshop in carcere per i detenuti ai laboratori per bambini, ai reading bilingue in libreria, al teatro in casa. Coinvolge l’intero rione di Trastevere Teatro a Righe, a cura di Artestudio fino al 4 agosto con la direzione artistica di Riccardo Vannuccini. Nell’Estate Romana, una fitta programmazione diluita fra il carcere di Regina Coeli, dove si terranno incontri mattutini, la Casa internazionale delle donne (via San Francesco di Sales 1), la libreria Odradek (via dei Banchi Vecchi 57), Porta Settimiana, alcune case del primo municipio. “Partendo dalla rigatura delle vesti medievali che individuava gli esclusi, il teatro a righe - viene spiegato - scambia e allinea il teatro con il carcere, il gioco con il castigo”. Ecco dunque appuntamenti ricorrenti, al servizio della città: oggi alle 17 nel giardino della Casa internazionale delle donne le lezioni di danza di Eva Grieco, domani alle 18.30 a Porta Settimiana una visita teatrale guidata. Venerdì s’inaugurerà alle 10.30 in carcere la mostra di Daniele Cappelli Le righe, un racconto fotografico sulle attività nell’istituto. Odradek sarà lo scenario, alle 18, di reading letterari con aperitivo, il primo lunedì 18 sulle poesie giovanili di Brecht. E laboratori di Vannuccini alla Casa delle donne, performance “private” in streaming (il 6 luglio alle 19 focus su Natalia Ginzburg in una casa). Info.artestudio@libero.it. Ingresso libero. Benevento, “Dentro”, gli studenti del liceo “Rummo” incontrano i detenuti di Carmen Chiara Camarca ilquaderno.it, 11 giugno 2018 Si è concluso questa settimana, presso la casa circondariale di Benevento, sita in Capodimonte, il progetto “Dentro”, che ha visto coinvolti la classe 5 sez. E del liceo “Rummo” di Benevento e due gruppi di costrette e costretti sul tema della condizione carceraria. “Quando si pensa ai problemi che affliggono i reclusi si pensa immediatamente al sovraffollamento, alle strutture fatiscenti, al personale numericamente insufficiente a gestirne la conduzione. E i media non propongono altro”. Questo il background del progetto, nelle parole di Sonia Caputo, docente di inglese presso il Rummo e responsabile del progetto “Dentro”, che prosegue: “Ma a quanti la condizione carceraria evoca la devastazione dell’anima che consegue alla carcerazione? Inclusività è parola di attualità nella narrazione scolastica attuale: il riconoscimento dei BES, ovvero dei portatori di bisogni educativi speciali, sta prendendo la giusta e dovuta piega nella scuola; non è scontato e neanche immediato invece pensare ad un’inclusività più ampia, che abbracci gli emarginati che si collocano agli estremi della società. Eppure, a ben pensarci, è proprio la scuola il luogo per eccellenza che deve farsi carico, per la capacità educativo-progettuale che la connota, di abbracciare realtà a latere, forse troppo ai margini finanche per pensare di considerarle. “I grandi temi però irrompono nelle tematiche scolastiche e sanno farsi strada nell’anima dei discenti”, sostiene la docente. “Stavamo affrontando il “De Profundis” e “La ballata dal carcere di Reading” di Oscar Wilde. “L’esperienza di docenza già effettuata in anni addietro oltre le sbarre del carcere mi ritornava prepotentemente alla mente, ma soprattutto all’anima. Volevo che l’approccio all’autore e alle tematiche si trasformassero in esperienza di “service learning” pei i miei ragazzi di quinta, ovvero meta-riflessione sulla condizione umana di una parte dell’umanità”. La docente ha tratto ispirazione dalla normativa e dalla letteratura sulla rieducazione carceraria: “La scuola è ritenuta non solo privilegio di pochi ma necessaria per tutti”(Benelli,2004), “indispensabile al reinserimento sociale”(Canepa e Merlo, 2002) e alla necessità di “proiettare il detenuto come soggetto che sarà “fuori”; un soggetto che “dentro” dovrà acquisire delle competenze che gli permettano di progettare e proiettarsi all’esterno del carcere” (Berti,2004). Per poter operare in tal senso occorrono una visione lungimirante, come quella della direttrice dell’istituto penitenziario, dott.ssa Carmela Campi e della dirigente scolastica, prof.ssa Teresa Marchese, che hanno creduto nell’alta valenza educativa e didattica del progetto; nella collaborazione fattiva di chi opera quotidianamente, nella fattispecie le educatrici, dott.ssa Patrizia Fucci e Cristina Ruccia. Si è trattato, per i costretti, di un lavoro terapeutico atto a elaborare a livello profondo, meta-cognitivo, l’esperienza della detenzione. Oscar Wilde si prestava magnificamente allo scopo, nelle parole della docente, avendo l’esteta vissuto la prigionia e il lavoro forzato per due anni, a seguito di condanna per omosessualità nell’Inghilterra vittoriana. La forza evocativa della parola da lui magistralmente usata si presta particolarmente, alla promozione del percorso di ricostruzione identitaria dei detenuti. La parola che, facilitata dalla docente e da tutti gli attori del percorso, è riuscita a tradurre le emozioni e il vissuto in parole, complice anche la lettura suadente di un passo tratto dalla “Ballata dal carcere di Reading” ad opera di Michelangelo Fetto della Solot, compagnia teatrale di Benevento. Dopo alcuni incontri di lettura dialogica delle opere di Wilde, che hanno coinvolto in separata sede le recluse ed i reclusi di Capodimonte, è intervenuta la classe 5 E in un incontro emozionante e di immediato coinvolgimento empatico. Entrambe le parti erano cariche di interrogativi legate ai passi delle opere trattate da rivolgere gli uni agli altri sui temi dell’esistenza, dell’identità, che i ragazzi temono si possa perdere al di là del muro; se è nella sofferenza che si può trovare il senso della reclusione; se la fede o un ritrovato senso della morale, qualora la si percepisca smarrita, possono aiutare a ritrovarsi. Lo stereotipo si è stemperato, superato da un gioco di sguardi su cui si è giocato il rapporto, immediatamente empatico, al di là di quanto potessero o riuscissero a comunicare le parti. Dal canto loro le detenute ed i detenuti sono riusciti a colorare di emozione le loro parole e ad arrivare al cuore e all’anima degli studenti. “Sono persone circondate da aridità affettiva, cui la privazione della liberà non ha fatto perdere l’umanità”. Queste, in sintesi, le parole degli stessi studenti che riassumono un’esperienza di poche ore, ma che diventerà sempre più consapevole e si connoterà di significati più articolati col trascorrere degli anni. Se ne dice certa la docente che non è nuova all’esperienza di docenza oltre il muro e non ha mai dimenticato il valore della presenza fisica ed emozionale di cui si può fare dono a chi non può, anche in una maturità affettiva raggiunta o ritrovata, provare a ricostruire legami di reciprocità. Migranti. Scontro Italia-Malta sulla nave Aquarius. Salvini: chiudo i porti di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 11 giugno 2018 A bordo il 629. La Valletta: competenza vostra. Il premier Conte: Bruxelles non affronta l’emergenza. Di Maio: “A Malta si fanno gli affari loro”. Al termine di una domenica drammatica, il capitano della nave Aquarius, Alexsandr Kuzmichev, russo di Sebastopoli, è arrivato all’altezza di Malta e ora tiene i tre motori al minimo in attesa d’istruzioni da Roma. A bordo della nave di Medici senza Frontiere e Sos Mediterranée ci sono 629 migranti, tra cui 123 minori non accompagnati, 11 bambini e 7 donne incinte. È tarda sera quando a Palazzo Chigi termina il vertice d’emergenza del premier Giuseppe Conte con i suoi vice Matteo Salvini e Luigi Di Maio. E Conte alla fine pronuncia parole durissime: “Al premier maltese Joseph Muscat che ho contattato personalmente questa sera - dice - ho chiesto chiaramente che si facesse carico almeno del soccorso umanitario delle persone in difficoltà sull’Aquarius. Muscat non ha assicurato però alcun intervento. Si conferma l’ennesima indisponibilità di Malta, e dunque dell’Europa, a intervenire. L’Italia è in totale solitudine. Il regolamento di Dublino va radicalmente cambiato”. Dopo di lui a parlare è anche Di Maio: “La risposta di Malta? Dimostra quello che abbiamo sempre detto: mentre noi ci siamo fatti carico di una emergenza straordinaria loro si fanno gli affari loro”. Il premier italiano ha anche disposto subito “l’invio di due motovedette con medici a bordo al fine di garantire la salute di tutti gli occupanti dell’Aquarius”. La nave avrebbe dovuto attraccare oggi a mezzogiorno in Sicilia, ma è saltato tutto. Ieri il ministro dell’Interno Salvini ha negato l’approdo della nave con i 629 migranti soccorsi la notte scorsa in acque libiche. Salvini aveva scritto subito alle autorità di Malta per invitarle a farsi carico dello sbarco. Ma da La Valletta è arrivato l’ennesimo diniego: il recupero della nave “è stato coordinato dal centro di Roma. Malta, perciò, non ha competenza”. È iniziato così il braccio di ferro: “Da oggi anche l’Italia comincia a dire no al traffico di esseri umani - ha tuonato Salvini su Facebook - no al business dell’immigrazione clandestina”. E su Twitter ha lanciato l’hashtag: #chiudiamoiporti. Nel governo gialloverde c’è intesa piena: Malta “non può continuare a voltarsi dall’altra parte”, hanno scritto in un comunicato congiunto lo stesso Salvini e il pentastellato Danilo Toninelli, ministro delle Infrastrutture, da cui dipende la Guardia costiera. In sintonia anche l’altro vicepremier, Di Maio: quello dei migranti è stato un “fenomeno incontrollato. Ma per qualche cooperativa fittizia e qualche associazione la pacchia ora sarà finita”. “Ben venga l’iniziativa di Salvini nei confronti di Malta”, plaude Laura Ravetto di Forza Italia, presidente del comitato Schengen. E l’Aquarius? I sindaci di Palermo e Messina, Leoluca Orlando e Renato Accorinti, si dicono pronti ad accoglierla. Intanto, dalla nave, Aloys Vimard capoprogetto di Msf e Nicola Stalla coordinatore di Sos Mediterranée, reclamano ascolto: “Abbiamo scorte di cibo, medicinali e coperte ancora per 4-5 giorni...”. E l’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) avverte: “Gli Stati trovino una rapida soluzione”. Migranti. Salvini può chiudere i porti? 5 domande e 5 risposte di Marta Serafini Corriere della Sera, 11 giugno 2018 Cosa dice il diritto internazionale e quali sono gli obblighi e le norme sui salvataggi in mare. Dopo le dichiarazioni del Ministro degli Interni Matteo Salvini sulla chiusura dei porti italiani alle navi delle ong impegnate nelle attività di soccorso ai migranti davanti alla Libia, pubblichiamo 5 domande e 5 risposte sulla solidarietà in mare nel diritto internazionale tratta dalla Guida della Cild, Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili. A questo link, inoltre, le regole d’ingaggio pubblicate dalla Guardia Costiera italiana. 1) Salvare la vita in mare è un obbligo? Si. Il diritto del mare e la Costituzione italiana (art. 2) si fondano sulla solidarietà quale dovere inderogabile. Il diritto internazionale (convenzione di Montego Bay e altre) impone agli Stati di obbligare i comandanti delle navi che battono la propria bandiera nazionale a prestare assistenza a chiunque venga trovato in mare in pericolo di vita, di informare le autorità competenti, di fornire ai soggetti recuperati le prime cure e di trasferirli in un luogo sicuro 2) Non prestare soccorso ai naufraghi è reato? Si. In Italia, l’ingiustificata omissione di soccorso ai naufraghi costituisce reato ai sensi degli articoli 1113 e 1158 del codice della navigazione. Sono obbligati a prestare soccorso tutti i soggetti, pubblici o privati, che abbiano notizia di una nave o persona in pericolo in mare, qualora il pericolo di vita sia imminente e grave e presupponga la necessità di un soccorso immediato. Secondo la Convenzione di Amburgo tutti gli Stati con zona costiera sono tenuti ad assicurare un servizio di ricerca e salvataggio (SAR). L’acronimo SAR corrisponde all’inglese “search and rescue” ovvero “ricerca e salvataggio”. Con questa sigla si indicano tutte le operazioni che hanno come obiettivo quello di salvare persone in difficoltà. 3) Perché le navi delle ong non sbarcano a Malta? Tutti gli stati costieri del Mediterraneo sono tenuti, alla luce della Convenzione di Amburgo, a mantenere un servizio di SAR, e le SAR dei vari stati devono coordinarsi tra di loro. Il Mar Mediterraneo, in particolare, è stato suddiviso tra i Paesi costieri nel corso della Conferenza IMO (International Maritime Organization) di Valencia del 1997. Secondo tale ripartizione delle aree SAR, l’area di responsabilità italiana rappresenta circa un quinto dell’intero Mediterraneo, ovvero 500 mila km quadrati. Tuttavia il governo maltese, responsabile di una zona vastissima, si è avvalso sinora della cooperazione dell’Italia per il pattugliamento della propria zona di responsabilità: nella prassi il Centro di Coordinamento regionale SAR maltese non risponde alle imbarcazioni che la contattano né interviene quando interpellato dal Centro di Coordinamento regionale SAR italiana. La mancata risposta dell’autorità maltese, tuttavia, non esime la singola imbarcazione che ha avvistato il natante in panne dall’intervenire. Di fatto, a seguito della mancata risposta (o risposta negativa) della SAR maltese, la singola imbarcazione chiederà l’intervento della SAR italiana che coordinerà l’intervento. La Libia e la Tunisia, pur avendo ratificato la convenzione di Amburgo, non hanno dichiarato quale sia la loro specifica area di responsabilità SAR. L’area del Mar Libico confinante con le acque territoriali della Libia non è quindi posta sotto la responsabilità di alcuno Stato. Di fatto, l’unico soggetto che presta soccorso (anche) nelle acque confinanti con le acque territoriali libiche è l’Italia. In Italia l’MRCC di Roma ha il compito di assicurare l’organizzazione efficiente dei servizi di ricerca e salvataggio nell’ambito dell’intera regione di interesse italiano sul mare, che si estende ben oltre i confini delle acque territoriali (circa un quinto dell’intero Mediterraneo, ovvero 500 mila km quadrati). Il Comando Generale, infatti, assume le funzioni di Italian Maritime Rescue Coordination Centre (I.M.R.C.C.), e cioè di Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo, cui fa capo il complesso delle attività finalizzate alla ricerca e al salvataggio della vita umana in mare. L’I.M.R.C.C. mantiene i contatti con i centri di coordinamento del soccorso degli altri Stati per assicurare la collaborazione a livello internazionale, prevista dalla Convenzione di Amburgo. 4) Cosa si intende per luogo sicuro dove condurre i soggetti recuperati? Il luogo di sicurezza (place of safety) è da intendersi come il luogo in cui può essere garantita innanzitutto l’incolumità e l’assistenza sanitaria dei sopravvissuti. In termini pratici questo vuol dire che finito il salvataggio in mare, l’operazione SAR non è ancora conclusa: i naufraghi devono essere condotti in un luogo dove possono essere fornite le garanzie fondamentali agli stessi (non solo le garanzie relative all’assistenza sanitaria, ma anche la garanzia a non essere sottoposto a torture o a poter presentare domanda di protezione internazionale). L’individuazione di tale luogo spetta alla SAR che coordina la singola azione di salvataggio, salvo che ci si trovi nelle acque territoriali dove resta la competenza esclusiva dello Stato costiero. Non sempre il luogo sicuro è lo Stato costiero più vicino al luogo ove avvengono le operazioni di soccorso. Non sono infatti considerati “sicuri” porti di paesi dove si possa essere perseguitati per ragioni politiche, etniche o di religione, o essere esposti a minacce alla propria vita e libertà. Ad esempio, l’UNHCR ritiene che la Libia non soddisfi i criteri per essere designata come luogo sicuro allo scopo di svolgere procedure di sbarco in seguito a salvataggi in mare, alla luce della volatilità delle condizioni di sicurezza in generale e, più in particolare, nei riguardi di cittadini di paesi terzi. Queste condizioni, infatti, contemplano la detenzione in condizioni che non rispettano gli standard - e sono stati dimostrati frequenti abusi nei confronti di richiedenti asilo, rifugiati e migranti. Secondo un esposto dell’ASGI, il territorio libico non può ritenersi “luogo sicuro”, in quanto non ha ratificato la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, né le principali Convenzioni in materia di diritti umani, e numerosi sono i rapporti internazionali che denunciano le gravi violazioni dei diritti umani perpetrate nei confronti dei migranti. 5) È possibile bloccare l’accesso ai porti delle navi private che hanno effettuato il soccorso? Lo stato costiero, nell’esercizio della propria sovranità, ha il potere di negare l’accesso ai propri porti. Le convenzioni internazionali sul diritto del mare, pur non prevedendo esplicitamente l’obbligo per gli stati di far approdare nei propri porti le navi che hanno effettuato il salvataggio, impongono e si fondano sull’obbligo di solidarietà in mare, che sarebbe disatteso qualora fosse negato l’accesso al porto di una nave con persone in pericolo di vita, appena soccorse e bisognose di assistenza immediata. La chiusura dei porti comporterebbe in ogni caso la violazione di norme internazionali sui diritti umani e sulla protezione dei rifugiati, a partire dal principio di non refoulement sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra. Il rifiuto di accesso ai porti di imbarcazioni che abbiano effettuato il soccorso in mare può comportare la violazione degli articoli 2 e 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), qualora le persone soccorse abbiano bisogno di cure mediche urgenti, nonché di generi di prima necessità (acqua, cibo, medicinali), e tali bisogni non possano essere soddisfatti per effetto del concreto modo di operare del rifiuto stesso. Il rifiuto, aprioristico e indistinto, di far approdare la nave in porto comporta l’impossibilità di valutare le singole situazioni delle persone a bordo, e viola il divieto di espulsioni collettive previsto dall’art. 4 del Protocollo n. 4 alla CEDU. Europa e immigrazione, costruire le nuove regole di Ginevra Cerrina Feroni Corriere della Sera, 11 giugno 2018 Sulla riforma del regolamento di Dublino l’Italia dovrà abilmente muoversi con i partner per non rischiare di trovarsi alla fine con un nulla di fatto in mano. Proprio in queste settimane si sta giocando, ai tavoli europei, una partita decisiva per il nostro Paese che riguarda la riforma del c.d. “Dublino III”, ovvero il Regolamento della Ue entrato in vigore il 1 gennaio 2014. Esso definisce i criteri per individuare quale sia lo Stato membro a doversi fare carico della richiesta di asilo di una persona giunta sul territorio europeo da un Paese terzo. Tra i criteri vi è quello dell’unità familiare (ricongiungimento al coniuge, genitori, o figli minori), o il fatto che un Paese abbia già rilasciato un permesso di soggiorno. Si aggiunge ad essi anche quello che individua la competenza dello Stato sulla base del primo ingresso irregolare dello straniero: criterio divenuto, ormai, prevalente. Gli effetti prodotti sono noti. In una situazione emergenziale di sbarchi, come quella vissuta in questi anni, il problema si è scaricato, prevalentemente, sui Paesi di primo approdo, in particolare Italia e Grecia. È in questi Paesi, infatti, che si sono venute a concentrare una gran parte delle domande dei richiedenti protezione internazionale. Non solo. Il meccanismo Dublino ha determinato effetti perversi. Ed infatti è il Paese che istruisce la domanda di protezione a doversi fare carico del richiedente, per la durata del procedimento, contenzioso incluso, e per la sua permanenza successiva. Il sistema complessivo comporta tempi biblici per la valutazione delle domande tantoché, sovente, i migranti scelgono vie di fughe clandestine, dagli esiti anche tragici, per raggiungere i Paesi di destinazione. Ed è, complessivamente, inefficiente. Inequivocabili sono i dati sulle effettive riconsegne tra Stati membri dei richiedenti asilo e dei beneficiari di protezione internazionale: solo l’8%. Vi è poi l’irreperibilità dei richiedenti asilo dopo la notifica della decisione di trasferimento e le difficoltà nella cooperazione tra amministrazioni. Senza contare che delle migliaia di domande che pervengono ogni anno solo una parte ha i presupposti in regola. Ad oggi circa 600.000 sono, ad esempio, gli irregolari nel nostro Paese. Insomma un sistema che sembra non avere mai funzionato, neppure nei periodi di relativa calma (come segnala C. Favilli, 2018). Tale lentezza ha, poi, ulteriori conseguenze: impatta sulla gestione dei centri di accoglienza, favorisce fenomeni di illegalità e di sfruttamento di manodopera, ha negativi effetti sociali. Da mesi è in discussione il c.d. “Dublino IV”. C’è una risoluzione del Parlamento europeo, votata nel novembre del 2017, che, pur migliorabile, rappresenta una interessante base di partenza per la discussione. Essa introduce un meccanismo di ripartizione fisso (le “quote”) dei richiedenti asilo in tutti i Paesi Ue, elaborato sulla base di dati oggettivi (popolazione e Pil) e prevede il superamento del criterio in base al quale la competenza all’esame delle domande di asilo si radica in capo al Paese di primo ingresso. Si da poi rilevanza alla presenza di ulteriori vincoli familiari (ad esempio il ricongiungimento con fratelli e sorelle), o a quella di un “legame” significativo che il richiedente protezione può vantare con un determinato Stato (ad esempio conoscerne la lingua). Ma la discussione è tutta in salita. Nel vertice europeo di qualche giorno fa l’accordo è saltato, anche per volontà del Ministro dell’Interno Salvini. E questo è certamente un bene. Sul tavolo non c’era, infatti, la risoluzione del Parlamento europeo ma una bozza presentata dalla Bulgaria, decisamente peggiorativa, quantomeno per gli interessi italiani: essa, infatti, contemplava di mantenere fermo il criterio della competenza del primo Paese di ingresso, ammettendosi ipotesi di ricollocamento obbligatorio solo a fronte di situazioni di conclamata emergenza (superamento della soglia del 160 per cento e, comunque, sempre passando dal voto del Consiglio). Adesso il tutto è rinviato a fine giugno. E il nostro Paese dovrà abilmente muoversi con i partners europei per non rischiare di trovarsi alla fine con un nulla di fatto in mano. Sul tema dei ricollocamenti obbligatori, infatti, gli interessi dei c.d. Paesi di Visegrád, sono antitetici ai nostri. Ma la partita “Dublino” sarà anche la sede per testare se ha ancora un senso la parola “solidarietà”. L’art. 67, paragrafo 2, del Trattato sul funzionamento della Unione Europea la richiama proprio nel riparto degli oneri della gestione delle politiche comuni dell’asilo. Ma fino ad ora di solidarietà tra Stati membri ce n’è stata ben poca. Come dimenticare, in proposito, la chiusura dei porti da parte di Francia e Spagna la scorsa estate nel silenzio delle istituzioni europee? Il tempo, adesso, è scaduto. Non servono altre parole di circostanza o retoriche europeiste di maniera. O la solidarietà, in punto di immigrazione, diventa un progetto concreto di azione della Unione Europea o è il progetto stesso di integrazione europea ad essere destinato ad un inevitabile fallimento. Albinati: “L’immigrazione? Comporta problemi, ne sono cosciente” di Flavia Piccinni huffingtonpost.it, 11 giugno 2018 “Serve una politica ragionevole”. Intervista ad Edoardo Albinati autore Premio Strega: “Gli accordi con la Libia equivalgono a un respingimento armato”. “Confesso di essere uno di quelli che fino a due mesi fa non distingueva il Niger dalla Nigeria. Mentre a Rebibbia i miei studenti erano chini sul foglio col compito in classe di analisi logica, mi sono studiato bene la cartina dell’Africa appesa al muro. Ed eccola qui, lampante, a colori, la ragione per cui oggi il Niger è il crocevia a cui tutti guardano con allarme”. Inizia così “Otto giorni in Niger” (Baldini e Castoldi, pp. 75), l’ultimo libro di Edoardo Albinati firmato con la compagna, l’attrice e scrittrice Francesca D’Aloja. Un diario a due voci attraverso l’Africa e le migrazioni scandito da un viaggio compiuto dalla coppia l’anno scorso, a metà dicembre, con il supporto dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. “Il libro - puntualizza Albinati - inizia così perché, in generale, trovo sempre interessante quando uno non sa una cosa e poi la sa, senza avere un’idea pregiudiziale”. “I Paesi poveri sembrano disposti ad accogliere altri poveri più di quanto non lo siano i Paesi ricchi”. Così invece si conclude il libro. È forse una morale? È un dato di fatto. Ma anche una scoperta. Un reportage dovrebbe farti vedere dei lati diversi di una questione che viene affrontata quasi sempre in maniera unilaterale. Uno pensa all’Africa come un continente che si sta quasi totalmente riversando in Europa, ma non è così. I movimenti degli africani sono quasi sempre in Africa, dove i confini sono labili e i popoli poveri. Per raccontare le migrazioni ha scelto il Niger, che non ha sbocchi sul Mediterraneo. Si tratta di un luogo che ha la natura del corridoio. È veramente una strettoia quasi inevitabile per chi si sta muovendo verso il Mediterraneo. Tutti noi, io per primo, siamo abituati a vedere il mare, a considerare la Libia, ma non ad andare un poco più indietro nelle caselle delle migrazioni. Se lo facessimo, troveremmo il Niger. Eppure ci fermiamo alla Libia. Gli accordi con la Libia hanno semplicemente tamponato il flusso facendo finire nelle galere libiche persone che poi vengono tirate fuori dopo una lunga serie di sofferenze. Non voglio più sentire parlare di diritti umani chi accetta in cambio della diminuzione degli sbarchi, questo orrore. Non voglio sentire parlare di diritti umani chi, in cambio della diminuzione degli sbarchi, accetta che le persone vengano torturate, violentate, incarcerate. Nel libro racconta degli studenti che scendono in piazza “perché il governo spende nella sicurezza (leggi: repressione) invece che nell’educazione e nella sanità”. Esattamente come accaduto in Ciad, dove il numero dei gruppi jihadisti sommato alle molte spese relative alla sicurezza finiscono per aumentare l’insicurezza. I locali vedono milioni di euro, milioni di dollari girare ma pochi atterrano sulle popolazioni, e in questo modo si favorisce un risentimento crescente nei confronti dell’Occidente. Si crea allora un circolo vizioso. Quando si esagera con l’aspetto repressivo, invece di ottenere i risultati sperati si fomentano coloro contro i quali si vuole combattere. La migrazione in questo modo viene effettivamente scoraggiata? Il risultato è che molte persone invece di morire nel Mediterraneo, si fermano a morire nel deserto. Insomma, li si lascia morire un po’ più indietro. Esiste una responsabilità? Se l’Europa e l’America si disinteressassero completamente dell’Africa potremmo dire che queste faccende non abbiano nulla a che vedere con l’Occidente. Ma poiché c’è una notevole presenza miliare, c’è un interesse molto forte nei confronti dei territori e un grande desiderio di arginare la migrazione, sarebbe forse più giusto ragionare di come i soldi vengano spesi. Intende, immagino, di come questi vengano militarmente impiegati. Il modo militare è solo una strategia per tamponare, come hanno fatto i francesi in Mali, ma non sono strumenti risolutivi. Personalmente non sono contro gli interventi militari, non sono neanche un po’ un pacifista, ma tale opzione in questa situazione non produce frutti. “Noi non erigeremo muri nei confronti dei migranti” dice nel libro un funzionario nigeriano. L’Italia ha eretto muri? Gli accordi con la Libia non sono un muro fisico, ma legale. L’Italia questi muri li ha tirati su e abbattuti numerose volte. Ricordo sempre la nave albanese che naufragò, la Kater i Rades. Morirono quasi cento persone. Non era un muro quello contro cui sbatté perché non era fatto di mattoni, ma non è molto diverso. Qual è la sua posizione in campo di immigrazione? Sono conoscente dei problemi che l’immigrazione comporta, lo vedo ogni giorno anche come insegnante in carcere, ma questo non vuol dire che non possa esistere una politica ragionevole. Gli accordi con la Libia equivalgono a un respingimento armato. Lavora a Rebibbia dal 1994. Nei confronti del carcere lei si è sempre dimostrato alquanto critico. Il carcere italiano al 99% è punitivo. Di riabilitativo, allo stato attuale delle cose, c’è molto poco. È una punizione corporale: anche se un detenuto non verrà percorso direttamente, malgrado ci siano ancora fenomeni di maltrattamenti fisici non sporadici, il corpo subisce pene molto pesanti. Quali? Partono dagli occhi, privati della luce naturale, per arrivare all’apparato digerente. Il corpo in carcere non si può esercitare in alcuna sua funzione, e tutto quello che lo riguarda va rapidamente in malora. Per non parlare dalla repressione sessuale ed emotiva. Come definirebbe dunque il nostro carcere? Il carcere italiano non è un luogo neutro, ma punitivo. Anche se nessuno ti mena, è un’afflizione fisica e spirituale intensa. L’aspetto di recupero, di riabilitazione e di reinserimento è affidato ad individui singoli, ed è molto sporadico. Il carcere è deterrenza e afflizione, semplice retribuzione del male commesso. Quali sono i passaggi obbligati per produrre un miglioramento? Cominciamo dall’edilizia carceraria. In carcere poi non si fanno attività di nessun tipo. Nove detenuti su dieci stanno lì a non far nulla per anni. La scuola o le iniziative che sono affidate al buon cuore di singoli individui e associazioni sono solo delle bolle. Il suo racconto di un anno di lavoro in carcere, Maggio Selvaggio, per molti è una pietra miliare. Come lo scriverebbe oggi? Uguale. Ma, essendo uguale, è peggio. A cosa serve la scrittura dietro le sbarre? L’idea che il carcere sia un luogo dove uno pensa a quello che ha combinato è del tutto infondata. La vita carceraria è così caotica che il detenuto ha pochissime occasioni di raccoglimento. La giornata è infinitamente lunga e inutile, ma zeppa di eventi che impediscono ogni forma di concentrazione. Le celle sono sovraffollate. La televisione è sempre accesa. La scrittura è l’opposto della dispersione tipica della vita reclusa. La scrittura è una valvola di sfogo. Tornando a “Otto giorni in Niger”, contiene una presa di posizione politica? Non è un libro pregiudiziale. Ognuno può trarre la condizione che vuole. Perché è un testo impolitico. Anzi, di più: è una presa di posizione umana. In questo momento l’intellettuale che ruolo deve avere? L’intellettuale deve dire quello che sa. E, soprattutto, deve dire la verità. Deve parlare di quello che conosce, e non dare un’opinione. Non deve velarsi gli occhi di ciò che immagina, ma comunicare cose di prima mano. Oggi quanto conta l’intellettuale nella società italiana? La funzione dell’intellettuale nella vita pubblica è zero. Ormai agli intellettuali si chiedono dei pronunciamenti, non dei ragionamenti. L’intellettuale diventa qualcuno che commenta le cose, invece di rivelarle. Ecco che nasce e si moltiplica l’intellettuale da salotto televisivo. Succede quando si invita qualcuno solo perché schierato, e senza il minimo interesse a sapere la verità. Cercando solo conferme a tesi che già si hanno in mente. Ha detto che, tornando indietro, non scriverebbe di nuovo La scuola cattolica. Perché? Non la riscriverei adesso perché non ce la farei mai. Averla scritta è stata una spesa umana molto forte, che mi ha consumato. Ma non dovrebbe essere anche questo scrivere? Ho buttato i miei anni e le mie energie in quel libro. Poi magari è un bel libro, uno viene risarcito, ma non lo rifarei. Con quel libro nel 2016 ha vinto il Premio Strega. Chi ha partecipato ha raccontato di un premio letteralmente sfibrante: presentazioni, pressioni, stress. Fu così anche per lei? Ero sotto l’effetto di psicofarmaci a causa di una depressione, e questo ha fatto si che lo stress maggiore fosse quello del lavoro. Una volta che il libro è uscito avevo un mantello di indifferenza che mi ha fatto vivere per mesi in uno stato di beata indifferenza. Quando avrà vinto, però, sarà stato contento! Ho gioito della gioia altrui. Quella del mio editore, della mia fidanzata, dei miei figli. Dentro di me c’era un nirvana chimico molto benvenuto, altrimenti tutto sarebbe stato troppo faticoso. Posso scrivere della sua depressione? Perché non dovrebbe? È una cosa molto personale. Non mi pare ne abbia mai parlato prima. Perché era depresso? Il mio era quello che una volta si sarebbe definito un esaurimento nervoso, ed era legato al terminare il libro. Dopo gli ultimi due anni di lavoro ero stremato. E quando io non ho forze sprofondo nel mio carattere malinconico. Quando sono in forze sopravvivo. Lì non riuscivo più a sopravvivere. Piuttosto che sottopormi a un trattamento analitico, mi sono fatto prescrivere i farmaci che nel giro di due, tre mesi mi avevano riportato nella condizione di affrontare la giornata. La nostra società ha ancora una forte resistenza nei confronti di chi ammette le sofferenze psicologiche e l’uso di psicofarmaci. Il tabù è molto ridimensionato, ma la vera vergogna è nei propri confronti. Ci si vergogna di non sentirsi utili, di non essere autosufficienti. La vergogna è già un sintomo stesso della depressione, più che un modo per mascherarla. Il depresso vede il mondo come quello che è. Cioè? Il depresso lo vede nella sua amara crudezza. Questo per me era piuttosto insostenibile. Con questa lucidità, a volte, non si riesce a vivere. Pakistan. Asia Bibi in cella da 3.300 giorni di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 11 giugno 2018 La mostruosità di una donna pakistana cristiana condannata a morte semplicemente perché cristiana non muove a pietà, è un po’ meno mostruosa, è troppo poco “altra” da noi per farne motivo di indignazione. Tra pochissimo si toccherà quota 3.300. Un record molto triste perché 3.300 sono i giorni che Asia Bibi, in Pakistan, ha già scontato, colpita da un’accusa grottesca di “blasfemia”. Asia Bibi è una donna pakistana che ha la sventura di essere cristiana e per il solo fatto di aver avuto la spudoratezza di girare per strada da sola è stata condannata a morte, con una condanna per il momento, ma solo per il momento, sospesa. Per qualche tempo Asia Bibi ha ricevuto la solidarietà di molte organizzazioni umanitarie, e ovviamente del Vaticano. Dopo un po’ la campagna in suo favore è però venuta a noia. La difesa di una donna cristiana perseguitata non si porta molto, sa di vecchio, non attira, non è cool. E perciò Asia Bibi se ne sta in galera da quasi 3.300 giorni condannata nel silenzio e nell’indifferenza. I diritti umani non esistono più nella nostra coscienza se vengono violati a troppi chilometri di distanza. La mostruosità di una donna cristiana condannata a morte semplicemente perché cristiana non muove a pietà, è un po’ meno mostruosa, è troppo poco “altra” da noi per farne motivo di indignazione. La sorte dei cristiani massacrati e discriminati non interessa più a nessuno. L’universalità dei diritti fondamentali è buona solo per i discorsi retorici, non per motivare un impegno vero. E Asia Bibi giace in una cella, in condizioni disumane, sola, abbandonata, dimenticata, con la colpa di non aver commesso nulla: solo di aver pregato e onorato il suo Dio, che nel Pakistan islamista è crimine troppo grave. Il silenzio su Asia Bibi svela in tutta la sua meschinità la nostra ipocrisia, la nostra grottesca doppiezza morale, la mancanza di credibilità di organismi internazionali come l’Onu, nata proprio per reagire alla violazione dei diritti umani e trasformatasi via via in un baraccone in cui le commissioni per i diritti umani sono presiedute dai Paesi in cui quegli stessi diritti sono sistematicamente violati. Povera Asia Bibi, condannata a morte e dimenticata da noi, come tutte le donne e tutti gli uomini che non possono nemmeno possedere un rosario perché indizio di “blasfemia”. Noi che sembriamo buoni solo a intermittenza, che non siamo più credibili, meritandoci questo attestato non proprio motivo di orgoglio. Quanti giorni dovrà scontare ancora in carcere Asia Bibi? E a noi, che ce ne importa? Yemen. Pessima notizia per una popolazione devastata: la Croce rossa ritira il personale di Riccardo Noury Corriere della Sera, 11 giugno 2018 Tre giorni fa il Comitato internazionale della croce rossa ha deciso il ritiro di 71 suoi operatori dallo Yemen, a causa dell’insicurezza, delle minacce e degli ostacoli alle sue attività. A far scattare la decisione è stata l’uccisione, il 21 aprile, di Hanna Lahoud, funzionaria del Comitato, colpita a morte mentre stava viaggiando a bordo di un veicolo ufficiale nei pressi della città di Ta’iz. È un momento terribile per gli operatori umanitari in Yemen: sono lì per salvare vite e sono costretti a fuggire per salvare le loro. Per la popolazione civile yemenita, devastata da oltre tre anni di conflitto tra i gruppi armati huthi e la coalizione militare dei paesi del Golfo, già profondamente dipendenti dagli aiuti umanitari, la situazione è destinata a peggiorare. Il Comitato è presente nello Yemen da oltre mezzo secolo. Ma mai come in questo periodo i suoi operatori e le sue attività sono stati minacciati, bloccati e presi direttamente di mira. Siamo di fronte a nient’altro che crimini di guerra. In questi tre anni di conflitto Amnesty International ha denunciato attacchi delle forze anti-huthi contro ospedali e altre strutture mediche nella zona di Ta’iz e attacchi degli huthi contro obiettivi simili, compreso un ospedale nella provincia di Hodeidah. La coalizione guidata dall’Arabia Saudita non è stata da meno (nella foto, ciò che restava di un ospedale di Medici senza frontiere, attaccato nel 2016). Il 5 giugno il Consiglio norvegese per i rifugiati ha denunciato un attacco aereo nei pressi di una delle sue strutture nella capitale Sana’a.