Il “Governo del cambiamento” visto da San Vittore di Valeria Verdolini che-fare.com, 10 giugno 2018 Quando penso al carcere, spazio dove entro ormai da tredici anni con una certa regolarità [Valeria Verdolini è presidente di Antigone Lombardia, ndr], non posso fare a meno di pensare a San Vittore, che è per molti versi, la mia idea di penitenziario. Nato dal modello lombardo, strutturato come un Panopticon di Bentham, il penitenziario al centro di Milano racchiude pregi e paradossi del sistema penale. È una casa circondariale, attraversata da oltre 10.000 persone all’anno. È una testimonianza dell’illuminismo, e porta con sé tutte le fragilità strutturali di questa datazione. Ma non solo. Se si vuole avere il polso del paese, dell’Italia, la prospettiva e la visione offerta dalla ronda centrale è sicuramente un punto di vista privilegiato, ed un ottimo termometro dello stato della pena e di quello dei diritti. È san Vittore nel 2011 ad offrire l’immagine dolente del penitenziario che scoppia, con i tripli letti a castello in 9 metri quadri che impediscono di aprire le finestre. È il Conp (Centro di Osservazione Neuro Psichiatrica) con il suo letto di contenzione in metallo e cuoio che restituisce l’urgenza e la necessità della commissione Marino e del lavoro per il superamento degli OPG. È ancora piazza Filangeri a cambiare aspetto dopo la riforma per adempiere alla condanna Torreggiani, che ha portato alle svolte della svuota carceri. Martedì ci sono tornata, e quei corridoi mi hanno restituito il senso dell’adesso e la prospettiva degli effetti del Contratto di Governo su quelle mura e su quelle vite. Dei sei raggi, due e mezzo sono chiusi e inagibili. Ci sono 1048 persone per 543 posti. 800 in attesa di diventare definitivi. I numeri non rendono il senso di asfissia in una stanza da undici, con i letti fino al tetto, tutti occupati. La stanza de Los Gladiatores ha 7 brande 21 metri e una manciata di millimetri e un pavimento pendente, che fa scivolare l’acqua verso il fondo, sotto il letto di uno dei detenuti, bagnando i pacchi e i pochi effetti personali. Nel Contratto viene fatto chiaramente riferimento a questi temi: Per far fronte al ricorrente fenomeno del sovraffollamento degli istituti penitenziari e garantire condizioni di dignità per le persone detenute, è indispensabile dare attuazione ad un piano per l’edilizia penitenziaria che preveda la realizzazione di nuove strutture e l’ampliamento ed ammodernamento delle attuali. Una proposta che non risponde a due questioni centrali: i costi di nuove strutture (sotto ricatto della condanna Torreggiani, sono stati realizzati nuovi padiglioni, sacrificando aree di socialità e richiedendo tempi elefantiaci di realizzazione. In che modo la costruzione di nuove strutture potrà risolvere numeri così consistenti, che si sono duplicati in meno di 4 anni, e che si rafforzeranno a fronte di una nuova politica penale estremamente giustizialista? La stessa sentenza Torreggiani rappresenta oggi un boomerang: come afferma uno degli agenti “la conquista dei 3 metri la stiamo pagando”. Il prezzo di questa battaglia di dignità, che aveva comparato il sovraffollamento ad un trattamento inumano e degradante sono le difficoltà di gestione degli spazi in relazione alla pericolosità, in funzione del percorso rieducativo, dell’età e del tipo di reato. Così, i giovani adulti non possono essere tutti giovani (la norma prevedrebbe solo la fascia 18-25) perché non c’è spazio, e quindi vengono ricollocati con detenuti ben più anziani, spesso recidivanti, nel I raggio, secondo e terzo piano, con le mura spugnate arancioni e decori di edera rampicanti, che restituiscono un vago sapore da pasticceria di periferia, mitigato immediatamente dai blindi. Allo stesso modo, lo spazio disciplinare dell’isolamento diventa il luogo di appoggio dei nuovi giunti, perché è l’unica porzione di struttura in cui rimangono quelle metrature, in cui i 3 metri si possono garantire. Così la prima socializzazione avviene con le persone che dovrebbero essere in isolamento disciplinare, probabilmente le ultime che andrebbero incontrate in un percorso penitenziario. Mentre la struttura si affatica, nelle righe del Contratto di Governo Lega-M5S c’è la revisione dello stato di diritto così come lo conosciamo, la compressione del garantismo, una sorta di stato etico che disciplina, pulisce e punisce. A dispetto dei molti problemi del paese, i temi della sicurezza, delle forze dell’ordine, del carcere, delle migrazioni risultano sovradimensionati nel testo. Revisione dell’imputabilità minorile, estensione del trattenimento amministrativo, costruzione di nuovi centri, discriminazione nei confronti dei RoM, nuovi CIE. Ma se questo mi spaventa, tuttavia non risulta inatteso se non per la asprezza, per l’estensione, per il lessico vendicatorio e premoderno. Per garantire il principio della certezza della pena è essenziale abrogare tutti quei provvedimenti emanati nel corso delle legislature precedenti tesi unicamente a conseguire effetti deflattivi in termini processuali e carcerari a totale discapito della sicurezza della collettività. Per far sì che chi sbaglia torni a pagare, è necessario riformare e riordinare il sistema venutosi a creare a seguito dei seguenti provvedimenti: l’abrogazione e la depenalizzazione di reati, trasformati in illeciti amministrativi e civili, la non punibilità?per particolare tenuità del fatto, l’estinzione del reato per condotte riparatorie anche in assenza del consenso della vittima, nonché i periodici ‘svuota carceri’. È inoltre opportuno ridurre sensibilmente ogni eventuale margine di impunità per i colpevoli di reati particolarmente odiosi come il furto in abitazione, furto aggravato, furto con strappo, la rapina e la truffa, modificandone le fattispecie ed innalzando le pene. Se proviamo ad analizzare la nazionalità di questi 1048 ristretti, 625 sono stranieri, provenienti da Tunisia, Marocco e Romania, una percentuale costante per la Lombardia e per il Nord Italia, che si stempera sul piano nazionale (il 30 aprile 2018 si attestava sul 34%). Il contratto propone come soluzione il trasferimento delle persone condannate: È opportuno consentire al maggior numero possibile di detenuti stranieri presenti nelle carceri italiane di scontare la propria condanna nel Paese d’origine attraverso l’attivazione di accordi bilaterali di cooperazione giudiziaria con gli Stati di provenienza. Tuttavia, rimane un tema scoperto: chi coprirà i costi di questi viaggi in situazioni spesso di grave indigenza? Quanto potrebbero pesare quei 18000 rimpatri? L’assunto suona come una facile soluzione sulla carta ma poco praticabile e percorribile, e soprattutto percorsa negli ultimi vent’anni di detenzione straniera. Eppure la questione dei rimpatri torna spesso nel testo: Fondamentale, infatti, per una corretta gestione della politica immigratoria è la questione dei rimpatri. Oltre ai recenti richiami dell’Ue che hanno evidenziato una assoluta incapacità dell’Italia sotto questo profilo, rispetto agli altri Paesi, nell’effettivo allontanamento degli immigrati irregolari presenti nel proprio territorio, secondo i dati ufficiali sugli ingressi, tenuto conto di una stima di quelli non registrati, e gli esiti delle domande di asilo presentate dal 2013 ad oggi sarebbero circa 500 mila i migranti irregolari presenti sul nostro territorio e che, pertanto, una seria ed efficace politica dei rimpatri risulta indifferibile e prioritaria. Ai fini dell’espletamento delle procedure e dell’effettivo rimpatrio, il trattenimento deve essere disposto per tutto il periodo necessario ad assicurare che l’allontanamento sia eseguito, fino ad un massimo complessivo di diciotto mesi in armonia con le disposizioni comunitarie. Al carcere si somma quindi, di nuovo una detenzione amministrativa protratta fino ai 18 mesi, al termine dei quali non è chiaro come verrà risolta la questione dei respingimenti, spesso tradotti, nelle prassi, in un rilascio senza prospettiva sul territorio nazionale, offrendo manodopera irregolare al mercato informale del lavoro, e rafforzando il meccanismo delle porte girevoli di ingresso e uscita dal carcere. Tornando agli incontri di San Vittore, di quei 1048 presenti, 595 sono tossicodipendenti. 257 psichiatrici conclamati. Al Conp sono arrivate le lenzuola, ed è stato tolto il letto di contenzione, ma le infiltrazioni di umido e le grida non bastano a compensare questa miglioria negli alloggi, sebbene restituiscano un minimo di dignità a quei 18 posti letto. A quarant’anni dalla legge Basaglia, possiamo dire che sono stati slegati i matti, per poi arrestarli tutti. E soprattutto che, a fronte di molte analisi che attestano lo smantellamento del sistema di presa in carico territoriale del disagio psichico, questo contratto di governo non tratta l’argomento, pur istituendo un “ministero per la disabilità” non viene previsto nessun passaggio sulla salute mentale, tema centrale dentro e fuori le mura del penitenziario. Nel frattempo, attraversando i corridoi del sesto raggio, è percepibile e visibile l’inizio del Ramadan. A fianco del cuscino resistono le baguette e le arance, in attesa del futur (o iftar) serale. Al centro del corridoio, protetto da un cancello, l’unico frigorifero per tenere le cose in fresca (altrimenti lasciate nell’acqua corrente della turca). C’è scritto “entra nella magia” e una ragazza ammiccante divora un Maxibon, fissando negli occhi chiunque si avvicini per prendere una bibita. Nella cella di Z., invece, c’è un pantheon sincretico che tiene insieme il Corano, Bob Marley, che Guevara e Lady D. Nel contratto si fa esplicitamente menzione della religione islamica: Ai fini della trasparenza nei rapporti con le altre confessioni religiose, in particolare di quelle che non hanno sottoscritto le intese con lo Stato italiano, e di prevenzione di eventuali infiltrazioni terroristiche, più volte denunciati a livello nazionale e internazionale, è necessario adottare una normativa ad hoc che preveda l’istituzione di un registro dei ministri di culto e la tracciabilità dei finanziamenti per la costruzione delle moschee e, in generale, dei luoghi di culto, anche se diversamente denominati. Inoltre, occorre disporre di strumenti adeguati per consentire il controllo e la chiusura immediata di tutte le associazioni islamiche radicali nonché di moschee e di luoghi di culto, comunque denominati, che risultino irregolari. A tale riguardo, onde garantire un’azione efficace e uniforme su tutto il territorio nazionale è necessario adottare una specifica legge quadro sulle moschee e luoghi di culto, che preveda anche il coinvolgimento delle comunità locali. Ma il tema dei diritti religiosi, dentro e fuori le mura, è solo una delle questioni. Nel meccanismo di rafforzamento securitario i reati contro la persona, soprattutto sessuali, sono al centro dell’agenda: “È prioritario l’inasprimento delle pene per la violenza sessuale, con l’introduzione di nuove aggravanti ed aumenti di pena quando la vittima è un soggetto vulnerabile ovvero quando le condotte siano particolarmente gravi”. “Colui che ci ha creati non può salvare noi senza di noi” campeggia sulla parete del reparto protetti (il raggio degli infami, dei reati sessuali e degli autori di reato delle forze dell’ordine) dove ora si tenta di aprire le celle, tra conflittualità e timori. Sulla vecchia televisione Grundig nella sala lettura è appoggiato un ironico “premio Fair Play”. Nel plico di libri sotto l’etichetta “nuovi arrivi” l’occhio cade sul testo “dalla beat a bandiera gialla”, che restituisce l’attualità delle letture proposte. Si tratta di uno spazio denso di questioni aperte, come quella dei detenuti dichiaratamente omosessuali, che possono vivere una sessualità proibita di fatto tra le mura, alterando gli equilibri del reparto, e rendendo la sorveglianza dinamica una sfida ancora più articolata. Sfida destinata a svanire, proprio perché si vuole rivedere e modificare “il protocollo della c.d. “sorveglianza dinamica” e del regime penitenziario ‘aperto’, mettendo in piena efficienza i sistemi di sorveglianza”. A fronte di una sofferenza percepibile, che si mescola al forte odore di cloro e al pesce dei carrelli del pranzo, suonano particolarmente ostili le parole che evocano una maggior durezza e severità del sistema penitenziario: !È infine necessario riscrivere la c.d. riforma dell’ordinamento penitenziario al fine di garantire la certezza della pena per chi delinque, la maggior tutela della sicurezza dei cittadini, valorizzando altresì il lavoro in carcere come forma principale di rieducazione e reinserimento sociale della persona condannata. Si prevede altresì una rivisitazione sistematica e organica di tutte le misure premiali. Occorre rivedere altresì le nuove linee guida sul cd. 41bis, così da ottenere un effettivo rigore nel funzionamento del regime del carcere duro”. Mentre il Contratto esplicita un progetto di reddito di cittadinanza, un meccanismo deflattivo attraverso la flat tax, un sistema di aiuti alla classe media, nelle celle di san Vittore la marginalità estrema si confronta con anche un regime carcerario economicamente non sostenibile, seppur preferibile alla libertà. “Io sono preoccupato perché il 1 giugno devo uscire!” afferma uno dei detenuti. I soldi non bastano per telefonare, per le sigarette. Il meccanismo di mail costruito all’interno da una cooperativa di ex detenuti prevede costi di 12 euro per 30 email (ossia 30 fogli), perché le lettere devono essere manualmente raccolte, scannerizzate, inviate via mail e altrettanto vale per la risposta. Si tratta di una grande innovazione, che riduce i tempi e costa meno dei telegrammi, ma dai costi amplificati dal meccanismo di sicurezza. La comunicazione all’esterno è quindi subordinata ai privilegi economici, ai supporti, agli aiuti. Nel carcere di oggi, la diseguaglianza permette di fare due galere distinte, in base alla capacità monetaria. L’accesso al lavoro si basa su una graduatoria di anzianità di disoccupazione, a partire dal tempo trascorso dall’ingresso in carcere. A volte vengono inventati lavori, come nel caso di K., che è stato assunto come piantone per aiutare M. che non si riesce ad alzare, ma K. si sveglia troppo tardi per il Ramadan e M. non si sente assistito. K. ha 20 punti su una gamba, si è tagliato un giorno in cui era arrabbiato, per la cocaina, per il non lavoro (e rischia di perdere anche questo). E questo non è il caso più estremo: spesso viene utilizzata la minaccia del suicidio per migliorare le posizioni in graduatoria, soprattutto da parte dei detenuti migranti, soli nel loro percorso detentivo, spesso non supportati da fuori e diffidenti nei confronti della struttura detentiva, spesso scambiata con modelli autoritari esperiti nei paesi d’origine. Spesso avendo incontrato la mattina della direttissima un avvocato d’ufficio e non avendo né il numero né i soldi per poterlo ricontattare. Ancor più tristemente ironico suona perciò il pre-esordio del presidente del consiglio che dichiara che farà “l’avvocato degli italiani”. O forse no, semplicemente queste parole hanno esplicitato con maggior chiarezza cosa aspettarsi da questa legislatura, da questo governo e da queste promesse, che risultano così chiare se ascoltate da piazza Filangeri. Migliucci (Ucpi): “Il Governo sbaglia su carceri e legittima difesa” di Luigi Ruggera Corriere dell’Alto Adige, 10 giugno 2018 Gli avvocati penalisti bocciano il governo Conte in tema di giustizia. Il presidente dell’Unione camere penali italiane, il noto avvocato bolzanino Beniamino Migliucci, critica infatti duramente il contratto di governo tra Lega e Cinque Stelle, poiché rappresenterebbe una “svolta giustizialista” negativa. “Ci preoccupa molto - spiega Migliucci - il contratto di governo, perché prevede aumenti di pena, costruzione di nuove carceri, più carcere per tutti e prescrizione all’infinito. Noi valutiamo pessima questa “ricetta”. È infatti dimostrato dalle statistiche che chi sconta la condanna con pene alternative al carcere ha una percentuale di recidiva inferiore di oltre la metà rispetto a chi sconta la pena in carcere, e che tendenzialmente commette altri reati. Il 70% di chi sconta la pena in carcere, infatti, commette poi altri reati, mentre questo accade solo per il 30% di coloro che scontano la pena con misure alternative. Sarebbe stato meglio partire da questi dati, anziché cercare un facile consenso elettorale”. Alla base del ragionamento dei penalisti italiani c’è comunque una doverosa premessa: “Le carceri vanno comunque migliorate perché in molti casi, compreso quello di Bolzano, si tratta di strutture indecenti e inadeguate” spiega Migliucci. “Ma è sbagliata l’idea di fondo, basata su una concezione carcero-centrica della giustizia, visto che non potrà affatto aumentare la sicurezza”. Un altro aspetto molto criticato del contratto riguarda anche la riforma della prescrizione dei reati. “I processi in Italia sono già ora troppo lunghi” commenta Migliucci, che anche in questo caso fa degli esempi concreti: “Un processo per rapina può durare più di 20 anni. Ci dobbiamo chiedere per quanti anni il sistema giudiziario possa tenere sotto scacco un cittadino, ricordandoci che la Costituzione prevede processi di “ragionevole durata”. Ipotizzare quindi una sospensione della prescrizione contrasterebbe con questo principio”. Infine, nel mirino dell’Unione camere penali c’è anche la riforma della legittima difesa: “Eliminare il principio di proporzionalità è un enorme errore. Non credo possa essere giusto che si possa sparare al ragazzo che ti entra in giardino per rubare una bicicletta. Bisogna stare molto attenti. E ricordiamoci - conclude il presidente Migliucci - che nei Paesi dove ci sono più armi, ci sono sempre anche più morti”. La punizione è legittima quanto il diritto a una giusta espiazione di Gianfranco Ravasi Il Sole 24 Ore, 10 giugno 2018 Ogni parola è spesso un compendio cifrato di significati e di valori che l’etimologia cerca di sciogliere. Così il vocabolo “pena” sboccia dal greco “poinè” dal duplice rimando: era il “prezzo” che si doveva pagare per compensare un delitto, ma era anche il segno del “riscatto”; evocava il “castigo” ma anche il “premio” della liberazione da un male. Sono già qui raccolti i due volti che la pena dovrebbe manifestare: espiazione e redenzione, punizione e riabilitazione. Su queste due coordinate si è molto riflettuto, ma non sempre operato. Ad essere privilegiato è stato, infatti, il primo versante, quello afflittivo fino al punto di farlo diventare esclusivo. È un po’ in questa luce che, per stare sempre al mondo greco, un grande tragico come Eschilo userà poinè solo nel senso di “vendetta”, anzi, la personificherà in una dea implacabile. È ancora lungo questa traiettoria che la stimmata negativa che il condannato reca in sé - soprattutto se è una figura secondaria e marginale - non si cancellerà mai nell’opinione comune e nel giudizio sociale. Egli non potrà mai pienamente entrare nel consesso degli incensurati, a prescindere dalla sua “conversione” ed espiazione e della sua qualità morale che alla fine può essere persino superiore rispetto alla gente cosiddetta “perbene”. Ora, l’aspetto “punitivo” della pena di per sé è legittimo e necessario perché attiene a una delle virtù cardinali, la giustizia. Se si va oltre la brutalità della formulazione semitica, la legge biblica del taglione esprime la compensazione tipica della giustizia distributiva: “Occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido” (Esodo, 20, 24-25). Importante è la conservazione della proporzionalità, cosa non sempre rispettata, sia con la deriva verso il lassismo incarnato da normative che non danno la certezza del diritto e dell’espiazione giusta della pena, sia all’opposto con la caduta nella reazione vendicativa che può espletarsi anche nella brutalità dello stato di carcerazione o nella sottile trama delle umiliazioni destinate a ledere la dignità della persona. In pratica, se il “taglione” - dal latino talis culpa, talis poena - ha in sé un profilo di giustizia, l’applicazione non è facilmente deducibile nella concretezza delle situazioni che si vengono a creare. Si può persino sconfinare insensibilmente verso l’altro orizzonte, a cui già si accennava, quello della vendetta che, nella sua forma più radicale e fin isterica è incarnata - sempre per stare a quel “grande codice” della nostra cultura occidentale che è la Bibbia - nell’urlo di Lamek, discendente di Caino: “Uccido un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Caino fu vendicato sette volte, Lamek settantasette” (Genesi, 4,23-24). Rimane, comunque, il dovere di ribadire la necessità etica e sociale della giustizia e di una corretta espiazione della colpa, secondo la prima accezione della matrice greca di “pena”. È l’essere dalla parte di Abele, cioè della vittima; è riconoscere che bene e male sono categorie morali basilari da rispettare; è comprendere la scia di dolore che il crimine lascia dietro di sé in altre persone. Esse non saranno, certo, risarcite per la perdita subita nei casi di gravi crimini ma avranno un sostegno umano nella certezza della pena. Ribadito questo primo aspetto della punizione, sia pure con tutte le precisazioni che abbiamo evocato e che in sede di amministrazione della giustizia devono essere codificate e applicate, dobbiamo volgere l’attenzione anche all’altro volto della pena, ugualmente necessario. Come dicevamo, poinè-pena è anche riscatto, redenzione, catarsi, ed è per questo che non si può incasellare tale realtà solo nella categoria “giustizia”. La pena deve coinvolgere anche la dimensione della paideia, dell’”educazione” che trasforma, ri-crea e rigenera una situazione degenerata. E per far questo l’elemento fondante è il rispetto costante della dignità della persona che nella carcerazione è già ridimensionata strutturalmente con la privazione di una delle qualità specifiche della creatura umana, cioè la libertà. Si tratta di un profilo antropologico quasi “metafisico” oltre che etico che purtroppo non sempre viene osservato nel sistema penitenziario. È suggestivo che nel celebre racconto biblico di Caino, il famoso “segno” che gli viene imposto da Dio è per affermare che anche il criminale è sottoposto a una giurisdizione ulteriore trascendente, quella appunto della custodia suprema della persona. È in questa prospettiva che si deve considerare sempre illegittima la pena di morte. L’aspetto di correzione formativa, che può essere attuata nei vari programmi concreti di rieducazione nello stato di detenzione, ha come meta la rinascita della persona, come già si legge in un passo significativo del profeta Ezechiele che mette in bocca a Dio queste parole: “Forse che io ho piacere della morte del malvagio o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?... Io non godo della morte di chi muore. Convertitevi e vivrete” (18.23.32). In questa luce è indispensabile il connubio tra giustizia e carità, due virtù entrambe da introdurre e celebrare senza reciproche prevaricazioni. Famosa è, al riguardo, l’affermazione di uno che aveva sperimentato sulla sua pelle la brutalità di un sistema giudiziario e penale crudele come quello zarista, cioè Dostoevskij: “Non conoscono la pietà, conoscono solo la giustizia: per questo sono ingiusti”. Una dichiarazione rielaborata da un altro scrittore, il francese François Mauriac nel suo romanzo Il caso Favre-Bulle (1931): “Quello che è più orrendo al mondo è la giustizia separata dalla carità”. A questo proposito bisogna riconoscere che nella storia della civiltà giuridica si sono sempre riconosciuti alcuni istituti - naturalmente dosati in forme diverse - come le attenuanti, le amnistie, i condoni, gli indulti, le grazie e, nella cultura più recente, le pene alternative. Di quest’ultima fattispecie un corollario è la possibilità, purtroppo non sempre facilmente concretizzata, di un’attività lavorativa o didattica o artistica anche all’interno dell’orizzonte carcerario. La nostra riflessione sulla pena, sviluppata secondo i due volti della giustizia-punizione e della paideia rieducativa, può risultare scontata e persino ovvia. Essa, infatti, è condotta sulla soglia di una Relazione che, con ben più alta competenza riesce a cogliere i crocevia concreti, le positività e le criticità di un piccolo ma fondamentale mondo com’è quello carcerario nella planimetria della società. Nelson Mandela, che di questa realtà ben s’intendeva, invitava a misurare il livello qualitativo di una nazione non sulle eccellenze, bensì sullo stato delle sue carceri. E su questo tema è coinvolto e partecipe lo stesso messaggio costante di papa Francesco, centrato sul primato della misericordia. Mi sia concesso di concludere con una nota autobiografica. Dal 1989 al 2007 come Prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana ho custodito, oltre al Codice Atlantico di Leonardo da Vinci, opere d’arte e migliaia di codici manoscritti letterari, storici, teologici, artistici, giuridici. Alle mie spalle, nella cosiddetta “Sala del Prefetto”, cioè nello studio ufficiale, si levava la libreria di Cesare Beccaria che, oltre a vari volumi, conservava molti vari suoi testi autografi. Tra questi campeggiava il manoscritto originale, tormentato a livello di stesura, dell’opera che lo ha reso celebre, Dei delitti e delle pene (1764). Vorrei, perciò, lasciare a lui la parola per alcune note finali rispettivamente sul fine e sulla certezza delle pene, sulla pena di morte e sulla prevenzione. “Il fine delle pene non è di tormentare e affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso... Il fine dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri a farne uguali... Uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse... La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggior impressione che non il timore di un altro più terribile, unito con la speranza dell’impunità” (c. XXVII, “Dolcezza delle pene”). “Parmi un assurdo che le leggi che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio” (c. XXVIII, “Della pena di morte”). “È meglio prevenire i delitti che punirgli” (c. XLI, “Come si prevengono i delitti”). Epatite C in carcere. L’esperienza di Viterbo quotidianosanita.it, 10 giugno 2018 Con la collaborazione di polizia penitenziaria, detenuti e personale sanitario. Il progetto si chiama “HCV Free” e si è svolto all’interno della casa Circondariale di Viterbo tra marzo e dicembre 2017, articolato in quattro fasi precedute da una campagna divulgativa e di sensibilizzazione, è stato pensato per dimostrare l’importanza di informare ed educare le persone detenute ma anche il personale operante all’interno dell’Istituto (Polizia Penitenziaria e Personale Sanitario) creando una Rete unica e comunicante finalizzata alla prevenzione da infezione Hcv. Il progetto pilota Enehide (Educazione e prevenzione sull’HCV all’interno degli Istituti di Detenzione) è stato ideato, promosso e realizzato nella Casa Circondariale di Viterbo dalla Associazione EpaC onlus e Simpse (Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria). Il progetto è stato pensato per dimostrare l’importanza di informare ed educare le persone detenute ma anche il personale operante all’interno dell’Istituto (Polizia Penitenziaria e Personale Sanitario) creando una Rete unica e comunicante finalizzata alla prevenzione da infezione HCV. Il progetto si è svolto all’interno della casa Circondariale di Viterbo tra marzo e dicembre 2017, articolato in quattro fasi precedute da una campagna divulgativa e di sensibilizzazione attraverso la distribuzione di volantini informativi sugli incontri e con l’affissione di locandine nei locali dell’Istituto Penitenziario, contenenti le date degli incontri con le persone detenute, con il Personale Sanitario e con la Polizia Penitenziaria. 1. Incontri di informazione con le persone detenute A sostegno di tali incontri sono state abbinate le seguenti attività: • distribuzione di materiale informativo multilingue (Albanese, Arabo, Francese, Inglese, Italiano, Romeno, Spagnolo); • distribuzione KIT di igiene personale; • utilizzo di mediatori linguistici per facilitare la comprensione della popolazione detenuta straniera. 2. Incontri di formazione con il Personale Sanitario; 3. Incontri di formazione con il Corpo di Polizia Penitenziaria; 4. Valutazione degli outcomes: Partecipazione | Apprendimento | Criticità | Aderenza Test ANTI-HCV persone detenute - post incontri Partecipazione incontri - In ragione dello scarso interesse che generalmente accompagna iniziative educative di questo genere e della tipologia di utenti coinvolti, l’obiettivo minimo di partecipazione agli incontri auspicato e prefissato era del 40%. Nel complesso, quindi, possiamo ritenere il livello di partecipazione molto soddisfacente, oltre le aspettative iniziali, anche considerando il particolare contesto entro il quale si andava ad operare. Apprendimento incontri informativi - Al fine di valutare l’efficacia degli incontri, il livello di apprendimento ed eventuali criticità su cui intervenire, al termine degli incontri è stato distribuito a tutti i partecipanti un breve questionario di 14 domande a risposta multipla. I quesiti sono stati suddivisi in quattro categorie principali: 1. conoscenza dei comportamenti a rischio e delle buone abitudini di prevenzione; 2. conoscenza della patologia e delle vie di trasmissione; 3. valutazione “sociale” della patologia sotto il profilo della discriminazione; 4. possibilità di diagnosi e terapia. Se ci si poteva aspettare una buona padronanza della materia da parte del Personale Sanitario e della Polizia Penitenziaria siamo rimasti colpiti dal fatto che circa 3 persone detenute su 4 hanno acquisito le principali conoscenze e nozioni sull’epatite C, sulle modalità di trasmissione e sulla buona prevenzione. Considerato il grado di scolarizzazione medio basso della popolazione detenuta possiamo ritenerci molto soddisfatti del livello di apprendimento raggiunto ben oltre le aspettative iniziali. Aderenza Test Anti-Hcv sulla popolazione detenuta - post incontri persone detenute di sottoporsi al Test per la ricerca dell’Anticorpo HCV ovvero la “willingness to be tested”. Il personale dell’Istituto Autorizzato ha provveduto ad estrapolare i dati clinici delle persone detenute confrontando il periodo precedente alla realizzazione del progetto con quello successivo. I risultati sono decisamente incoraggianti: La percentuale delle persone detenute che per la prima volta hanno effettuato il Test per la ricerca degli anticorpi (Anti-Hcv) è stata del 15%. il restante 70%, pur avendo eseguito il Test in passato e in periodi diversi, lo ha ripetuto come da raccomandazione clinica, essendo parte di una popolazione ad elevato rischio di infezione o reinfezione per cui è raccomandato uno screening periodico anche in presenza del primo Test negativo. Nel complesso, un numero così elevato delle persone detenute che ha chiesto o accettato di sottoporsi/risottoporsi al Test non era mai stato registrato. Successivamente sono stati analizzati gli esiti dei Test anticorpali (Anti-Hcv) ed effettuato il Test di conferma Nat (Hcv-Rna) sui soggetti risultati positivi ed il 4,7% è stato trovato positivo al virus Hcv e prontamente avviato al trattamento. “Questo genere di riscontro evidenzia, senza alcun dubbio, che le attività di formazione ed informazione hanno la forza di produrre cambiamenti visibili e misurabili per migliorare la salute negli Istituti di detenzione - commenta Ivan Gardini Presidente EpaC onlus - per realizzare una attività di “prisoner engagement” efficace sino a questo punto, abbiamo lavorato su 3 elementi: il coinvolgimento e partecipazione di Polizia Penitenziaria e Personale Sanitario, un apprendimento alla portata dei detenuti, e attività informative svolte in sinergia tra medici e associazioni di pazienti. In sostanza abbiamo tentato di costruire una parte di Pdta ad hoc per una casa circondariale che cerca di stimolare l’interesse alla propria salute del detenuto piuttosto che imporlo”. Soddisfatto anche Giulio Starnini, Responsabile scientifico Simpse che dichiara: “Riteniamo i risultati ottenuti con il Progetto Enehide di grande rilevanza sia in termini di efficacia che di fattibilità all’interno di un Istituto Penitenziario. La realtà penitenziaria è una realtà particolare dove sono concentrate e possono moltiplicarsi le principali patologie infettive a trasmissione parenterale; l’obiettivo del progetto, diffondere la conoscenza sull’Epatite C tra tutte le persone che operano all’interno di un istituto Penitenziario e tra la popolazione detenuta, è stato pienamente raggiunto e può e deve essere il punto di partenza per proporre incontri formativi e d informativi reiterati nel tempo, grazie al coinvolgimento di molteplici stakeholder, che consentano di avvicinare in maniera costante una popolazione più difficile da raggiungere”. Anna Maria Ialungo, Responsabile Simpse del Progetto, aggiunge: “L’incremento del tasso di testing per l’HCV nella popolazione detenuta evidenziato durante e nel periodo successivo alla realizzazione del progetto ha consentito di diagnosticare nuovi casi di Epatite C e, conseguentemente, di avviare al trattamento un numero maggiore di pazienti in stato di detenzione. Il miglioramento dell’aderenza alla proposta di screening costituisce un presupposto fondamentale per raggiungere l’eradicazione dell’infezione cronica da HCV, possibile ed auspicabile anche negli Istituti Penitenziari in un’ottica di un terriitorio senza HCV”. Il progetto Enehide è stato patrocinato dal Ministero della Giustizia, dal Consiglio della Regione Lazio e dalla Asl Viterbo ed è stato realizzato grazie a un contributo incondizionato di Bristol-Myers Squibb. Un manifesto contro il linguaggio dell’odio di Agnese Moro La Stampa, 10 giugno 2018 “Quando le parole sono un ponte” è il titolo del vivace e coinvolgente incontro organizzato a Trieste da Parole O_Stili (paroleostili.com), “la prima community in Italia contro la violenza 2.0”. Hanno partecipato 1.000 esperti della rete, giornalisti, manager, politici, comunicatori, docenti, influencer, rappresentanti della Pubblica Amministrazione, persone interessate, professionisti. Un catalizzatore di intelligenze e di impegno nei più diversi ambiti in cui si può lavorare per un linguaggio - e quindi per un modo di pensare - che non si nutra di ostilità. I panel: scuola e famiglia (con l’Università Cattolica e il Miur), giornalismo (con l’Ordine dei giornalisti nazionale), social media e scrittura, business, pubblica amministrazione, politica, fake news e disinformazione, parole come ponte. Tra queste i relatori hanno scelto: intercultura, cucina, spieghiamoci, Mediterraneo, conoscenza, chiarezza, semplificazione, interconnessione, multidisciplinarietà, disarmarsi, avversario, responsabilità, follia, incontro, luogo, abbraccio, Storia. Dal febbraio 2017, quando è nata con il lancio del “Manifesto della comunicazione non ostile” (ora tradotto in 17 lingue), Parole O_stili ha fatto molta strada: 4 eventi con 5.000 partecipanti; 10.000 mail ricevute; diffusione del Manifesto in rete, nelle Università e nelle scuole; coinvolgimento di 30.000 studenti e 15.000 insegnanti; 100 schede didattiche predisposte; 150 ore di formazione. E ora il lancio di un “Manifesto della comunicazione non ostile… per le aziende”, elaborato sulla base di suggerimenti di importanti imprese. Muoversi è necessario. La ricerca Swg per Parole O_Stili su “Hate speech e Fake news nel lavoro e nel business” (campioni : 1.000 cittadini italiani maggiorenni, 400 lavoratori dipendenti e subordinati, 100 dirigenti d’azienda) documenta che l’81% dei dirigenti pensa che le aziende siano bersaglio di odio e fake news, mentre il 69% dei lavoratori ritiene che lo stile comunicativo delle imprese incida molto o abbastanza sul cambiamento di linguaggio della società. In una sorta di spirale che si autoalimenta. E ancora: per il 66% dei cittadini l’uso del linguaggio violento in rete e nella società è irreversibile. C’è più che mai bisogno di ponti che, per dirla con Leo, 8 anni: “Servono a incontrarsi da una parte all’altra, e poi passano tante cose sotto”. Licenza di sparare ai ladri, Lega e M5S vicini all’intesa di Grazia Longo La Stampa, 10 giugno 2018 La difesa sarà legittima anche se l’intruso è disarmato. Ma Salvini cede sull’obbligatorietà del processo. No al far west, sì al diritto di difendersi sempre: non ci sarà bisogno di un’aggressione concreta, basterà la sempre minaccia. La legittima difesa è una spina nel fianco del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Perché, nonostante le dichiarazioni del premier Giuseppe Conte sulla “necessità di potenziarla”, spetta a lui il delicato compito di conciliare le istanze delle due anime del governo, quella leghista e quella pentastellata. Si registrano in media una decina di casi all’anno che, nel 90 per cento dei casi, si concludono con una assoluzione. Ma l’iter processuale è spesso lungo. E nelle prossime settimane, insieme ai suoi più fidati collaboratori, Bonafede provvederà a un delicato lavoro di taglia e cuci per integrare le indicazioni, più caute del M5S, a cui appartiene, con quelle più agguerrite della Lega. “No al far west - ribadisce il Guardasigilli - e quindi il principio di proporzionalità rimarrà, ma è evidente che ci sono zone d’ombra da superare”. Le intenzioni dell’intruso Il problema è quello di definire che cosa s’intenda esattamente per zone d’ombra. Il ministro non lo dice esplicitamente, ma da via Arenula confermano che le zone grigie da sfumare siano legate ai dubbi relativi alle reali intenzioni di un intruso in una casa o in un luogo di lavoro e al fatto se costui sia o no armato. “In ogni caso va garantita la legittima difesa di chi subisce un’aggressione o una minaccia” sottolinea Bonafede. Considerazione che, come spiegano dal dicastero, significa che se una persona incappucciata si introduce in un appartamento o in ambiente di lavoro in piena notte con atteggiamento minaccioso, si potrà reagire sparando anche se non si è certi che l’intruso sia armato senza incorrere nel rischio di una condanna per omicidio. Un punto a favore della Lega, quindi, che ha fatto di questa possibilità il suo cavallo di battaglia per riformare l’articolo 52 del codice penale. Proposta che è stata tuttavia bocciata dal Parlamento e che ora invece potrebbe essere accolta. La linea perseguita ora sembra infatti quella di assecondare il principio della legittima difesa sempre garantita. Ma c’è un ma, e neppure di poco conto. Riguarda le indicazioni provenienti dal M5S per cui non si può mettere in crisi la discrezionalità del processo. Inasprire le pene - Dal ministero della Giustizia affiorano così segnali su una strategia dettata dal buon senso, per cui l’obbligatorietà dell’azione penale non va messa in discussione. E pazienza se Salvini storcerà il naso. Secondo Bonafede “quando un ladro entra nella casa di un cittadino lo Stato ha fallito”, tanto che è possibile un inasprimento delle pene per i furti di appartamento, le rapine e gli scippi. Ma ciò non significa che si possa annullare il processo per legittima difesa teso ad accertare la proporzionalità tra l’offesa e la difesa. Dall’altra parte, invece, l’apertura verso “l’eliminazione delle zone d’ombra”, rappresenta un passo decisamente avanti verso i desiderata della Lega. Che nella sua vecchia proposta di legge già prevedeva una clausola per la circostanza che la violazione di domicilio fosse compiuta “in tempo di notte”, ovvero “con violenza alle persone o alle cose”, o “minaccia o inganno”. Secondo il Carroccio “per respingere l’ingresso, mediante effrazione o contro la volontà del proprietario, con violenza o minaccia di uso di armi da parte di una o più persone, in un’abitazione privata, o in ogni altro luogo ove sia esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale”. Va ricordato, inoltre, che già nel 2006 si è intervenuti con una modifica dell’articolo 52 del codice penale, introducendo la cosiddetta legittima difesa domiciliare (o legittima difesa allargata). Si è cioè introdotto il diritto all’autotutela in un domicilio privato oltre che in un negozio o un ufficio. In questo modo è autorizzato il ricorso a “un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo” per la difesa legittima della “propria o altrui incolumità” o dei “beni propri o altrui”. Per quanto concerne, invece, la difesa dei beni patrimoniali, è riconosciuta la legittima difesa solo se il ladro non desiste dall’azione illecita e se sussiste il pericolo di aggressione. In presenza di queste condizioni, vale una sorta di presunzione legale del requisito di proporzionalità tra difesa e offesa. Contro la corruzione. Infiltrati a fin di bene solo con netti limiti di Mario Chiavario Avvenire, 10 giugno 2018 Agente provocatore, agente infiltrato, operazioni sotto copertura: sarabanda di espressioni, spesso usate come se fossero tutte equivalenti, dietro le quali prende corpo un dibattito di lunga data, ma ravvivatosi in queste settimane e la cui eco risuona forte mentre ho davanti agli occhi una sentenza del 15 maggio di quest’anno; ultima, per ora, di una non piccola serie di decisioni pronunciate su questi temi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (causa Virgil Dan Vasile contro Romania). E vi leggo qualche distinzione che non dovrebbe essere dimenticata. Dice infatti la Corte che non è scorretta l’infiltrazione di agenti della forza pubblica o di loro delegati tra gli autori di un’attività delittuosa in corso, se si tratta di una presenza meramente passiva, unicamente diretta a trarre conoscenze utili a fini investigativi. A essere contraria ai princìpi dello Stato di diritto e a una giustizia penale rispettosa dei diritti fondamentali delle persone è però la figura dell’agente provocatore in senso stretto: quello, cioè, che esercita pressioni al fine della commissione di una condotta criminosa che altrimenti non sarebbe posta in atto, in particolare prendendo lui stesso l’iniziativa del contatto con il potenziale autore o cooperando attivamente alla realizzazione del delitto. E non importa se lo scopo della provocazione sia quello di far emergere una rete delinquenziale sino a quel momento rimasta sotto traccia: non si può infatti ammettere che lo Stato si faccia esso stesso promotore proprio di crimini del genere di quelli che vuole stroncare. Tra le due forme estreme e ben distinguibili tra loro possono esserci varie situazioni borderline, verso una parte delle quali i giudici di Strasburgo mostrano una certa tolleranza: così, quando l’iinfiltrato”, pur senza limitarsi a una condotta di mero osservatore passivo e però senza aver sollecitato l’azione delittuosa, viene ad esservi - per usare l’espressione della citata sentenza - semplicemente “assodato”: termine, adire il vero, alquanto ambiguo, ma che può servire per giustificare, tra le “operazioni sotto copertura”, comportamenti come quello dì chi finge di fare da intermediario nello smercio di una partita di droga e rende così possibile, con le sue informazioni, il blocco dell’effettiva conclusione dell’affare e l’arresto dei colpevoli. Sinora, non si danno casi di censure che in argomento la Corte di Strasburgo abbia dovuto pronunciare contro l’Italia (mentre lo ha fatto più volte verso altri Paesi); del resto, la nostra legislazione, e ancor più la giurisprudenza, sono tradizionalmente aliene dai lasciare varchi alla legittimazione del “provocatore” in senso stretto; in armonia con direttive dell’Unione Europea e convenzioni internazionali, operazioni “sotto copertura” sono bensì consentite per agevolare le indagini relative a particolari tipi di reato o impedirne la realizzazione (tali, tra gli altri, quelli di mafia, di terrorismo o di grande traffico di stupefacenti) e ciò può comportare, non solo l’autorizzazione, ad appartenenti alle forze dell’ordine, a commettere delle infrazioni, per così dire, “minori”, alla legge penale come la falsificazione di documenti d’identità (senza di che - lo si intuisce al volo - la stessa “infiltrazione” sarebbe impossibile) ma anche il compimento di azioni, all’apparenza “cooperative”, rientranti in quell’area borderline di cui si è detto: il tutto, però, non senza che siano fissati consistenti “paletti” contro possibili arbitrii, specialmente mediante l’imposizione di stretti controlli della magistratura sulle modalità delle operazioni. Dal canto loro, le norme processuali dovrebbero garantire contro usi delle informazioni acquisite, che eludano il rispetto del contraddittorio quale principio-base per la formazione delle prove penali: quelle informazioni, dunque, potranno sì servire per costruire un impianto accusatorio contro chi ne resti colpito, ma non sorreggere in quanto tali la sua condanna, diventando, in particolare, inutilizzabili se l’identità dell’infiltrato debba essere mantenuta nascosta per non “bruciarlo” e la difesa dell’imputato, perciò, non possa esercitare fino in fondo il diritto di rivolgergli contestazioni. Ce n’è quanto basta perché si debba chiedere estrema chiarezza sugli sviluppi di quanto si legge in proposito nel “contratto” posto alla base programmatica dell’attuale Governo, che al campo della lotta alla corruzione estende in duplice modo la possibilità di un ricorso a “infiltrati”: vi si parla infatti, da un lato, di introduzione della figura “dell’agente di copertura” e dall’altro di “valutazione della figura dell’agente provocatore in presenza di indizi di reità”. Ancora un po’ poco per capire dove si andrà a parare; e abbastanza per giustificare riserve come quelle avanzate, tra gli altri, dal rappresentante dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone. Dalle poche parole che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha dedicato in Senato alla questione - menzionando le sole operazioni “sotto copertura” - parrebbe trasparire l’intenzione di contenere entro limiti di prudenza un eventuale intervento normativo; ma tra lo scritto, il detto e il non detto c’è spazio per un’ampia gamma di soluzioni. Ha anche affermato il professor Conte, in termini generali, che circa il suo programma di governo non gli si potevano chiedere subito troppi dettagli - i dettagli, però, sono poi necessari ed è lì che, come si suol dire, riesce talvolta a insinuarsi la coda del diavolo. Forse meglio pensarci per tempo. Ilaria Cucchi: “facciamo schifo al ministro dell’Interno, ma lo affronteremo” di Matteo Pucciarelli La Repubblica, 10 giugno 2018 La sorella di Stefano Cucchi, morto pestato dopo essere stato arrestato, scrive un post su Facebook pieno di amarezza: “Portiamo rispetto per le istituzioni. Infatti le affronteremo”. “Facciamo schifo al ministro dell’Interno, ma abbiamo rispetto per le istituzioni e quindi lo affronteremo”. Così Ilaria Cucchi, sorella di Stefano - il ragazzo arrestato e morto in caserma nel 2009 dopo aver subito lesioni su tutto il corpo - che su Facebook si sfoga con un post pieno di amarezza. Rivolto a Matteo Salvini, il quale è sempre stato dalla parte delle forze dell’ordine anche nei casi più controversi, quando privati cittadini avevano subito violenze ed angherie dagli uomini in divisa. Anzi, il neo-ministro prometteva, in aggiunta, “mani libere” per gli agenti. Salvini in passato disse che Ilaria Cucchi si sarebbe dovuta “vergognare”, parlando di un post da lei pubblicato (“mi fa schifo”, aggiunse il segretario della Lega) nel quale pubblicò la foto di un poliziotto che si era vantato di aver pestato il fratello. Scrive oggi Cucchi, rivolgendosi idealmente al fratello: “Dobbiamo portare rispetto per le istituzioni che rappresentano. Li affronteremo a viso aperto Stefano. Parleremo con loro. Ora rappresentano lo Stato perché così si è voluto. Li inviteremo ad un pubblico dibattito che sicuramente non accetteranno mai. Perché sono troppo importanti e non si abbasseranno a questo e perché è più comodo offendere ed infangare gli ultimi che non si possono difendere dal palco delle conferenze stampa o dei social ma sempre evitando di confrontarsi con loro”. E poi, ancora: “Siamo tutti danni collaterali ed i diritti umani sono solo uno scomodo optional. I diritti umani sono il problema. Non la corruzione. Non la criminalità organizzata. Che dici Stè andiamo a fare un salto al Ministero per parlare con loro? Ti porto con la mia maglietta perché tu non ci sei più ed è solo colpa tua. Ma perché ti sei fatto pestare fino alla morte?”. Al processo Cucchi bis, è una delle ultime novità di questa vicenda, si è scoperto anche che alcuni verbali vennero falsificati. Quanto ai pestaggi subiti da Cucchi e che provocarono la sua morte, il mese scorso un carabiniere depose al processo riferendo di aver saputo che il giovane era stato “massacrato di botte”. Bologna: Alex e Nicola, detenuti alla Dozza ogni giorno al lavoro in Tribunale di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 10 giugno 2018 Cos’è, il mondo che gira al contrario? Due detenuti della Dozza ogni mattina si alzano presto, salgono sull’autobus 25 e raggiungono il tribunale di Bologna. Non per essere interrogati da un giudice ma per lavorare. Passano giornate intere negli uffici giudiziari, sistemano gli archivi, cercano i faldoni richiesti dai magistrati attraverso i cancellieri. Corrono tra corridoi pieni di storie e di reati. Da qualche parte, tra quelle carte impolverate, ci sono pure i loro nomi. Poi la sera tornano in cella e contano le ore che li separano dal giorno successivo. Adesso sono seduti in un ufficio del carcere, sorridono e si presentano con il loro nome vero, che però chiedono di non scrivere. Nicola, veneto di 43 anni, in galera dal 2003 per un lungo elenco di furti alle spalle, spiega il perché: “In tribunale sono abituati a vedere persone in manette ma non detenuti liberi. Può nascere il pregiudizio. Adesso ti dico io qual è la mia fortuna. Domani mi sveglio e vado a lavorare. Un sogno che si realizza. In carcere non ti regalano niente, quello che ottieni devi meritarlo, devi dimostrare di essere cambiato. Quando mi guardo allo specchio vedo che non sono più quello che ero a vent’anni”. Davanti a lui c’è Alex, albanese di 47 anni, in Italia dal 1991. Jeans, camicia bianca, occhi furbi. Un passato criminale: “Prostituzione, ricettazione, clandestini…”, elenca. È evidente che questi due non sono dei santi. “Davanti a me ho ancora parecchi anni di carcere. Ma dal 28 marzo a oggi il tempo è volato, come se fosse passata soltanto una settimana. Nei weekend faccio volontariato in una parrocchia del centro. Quando esco da qui mi sembra di non essere un carcerato”. Nicola e Alex partecipano al “Progetto Archivi”, nato dalla collaborazione tra carcere, tribunale e Curia. Come racconta il cappellano della Dozza, padre Marcello Matté, “il vescovo Zuppi ha garantito la copertura finanziaria per gli stage retribuiti di un anno”. Fino a marzo 2019. Non è escluso che l’esperienza si ripeta. “La logica del carcere è esclusione. Come può rieducare un posto nato per escludere? Portando la città dentro il carcere”, dice Massimo Ziccone, esperto responsabile dell’area educativa della Dozza, seduto al tavolo con Nicola e Alex. Nicola ha una compagna, il sogno è costruire un futuro con lei. Per molto tempo ha lavorato in carcere occupandosi di manutenzione. Scoppia a ridere quando gli chiedi cos’ha provato la prima volta che è entrato in tribunale per lavorare: “È stato abbastanza strano! Scherzi a parte, questo è un percorso costruttivo che portiamo avanti con serietà. Devi dimostrare che sei cambiato. Per me è cominciata la libertà”. Ad Alex ha fatto impressione rivedere i detenuti nella “gabbia” durante le udienze. “Lì ci stavo io”, ricorda. “Eh, speriamo che non ci torni più”, gli raccomanda Ziccone. “No, non voglio tornarci. Sogno una vita regolare, una famiglia, un bimbo. Quando ero giovane e potevo farlo non l’ho fatto. Ora che voglio, non posso”. Dalla finestra entra una bella luce che illumina tutta la stanza. Giù, in cortile, un giovane ragazzo senza manette raggiunge a piedi la portineria. Come nei film, un poliziotto della Penitenziaria gli consegna una busta con le sue poche cose dentro. Puoi andare, gli fa segno. Oltre la porta blindata ci sono un padre e una madre con i capelli bianchi che aspettano con impazienza. Lo vedono, lo abbracciano, se ne vanno tutti e tre insieme. Chieti: il pm De Raho “il fine della pena è il reinserimento in società” di Arianna Iannotti Il Centro, 10 giugno 2018 Il procuratore antimafia e il vicepresidente del Csm Legnini parlano del carcere Il messaggio di Forte: “Più attenzione per le condizioni di vita dei detenuti”. “Sono andato di recente in visita alla casa lavoro di Vasto: ho visto celle, sbarre e un giovane detenuto fuori di mente che non faceva altro che gridare interrottamente tutto il giorno. Questa sarebbe una casa lavoro? Credo che i primi a non ritenerla tale siano coloro che vi operano”. È una “testimonianza dolorosa” quella che l’arcivescovo di Chieti Vasto, Bruno Forte, ha deciso di condividere con i relatori e la platea del convegno su carcere e giustizia di ieri pomeriggio all’università d’Annunzio, aperta con i saluti del rettore Sergio Caputi e dei presidenti degli Ordini di avvocati e giornalisti, Pierluigi Tenaglia e Stefano Pallotta. “Con chiarezza e sincerità ho denunciato questa situazione disumana, che rimonta a una legge di epoca fascista che deve essere assolutamente superata. E lo faccio di fronte a figure prestigiose del nostro ordinamento giudiziario”. Ospiti della nuova Quaestio quodlibetales sono stati, infatti, il procuratore antimafia Federico Cafiero De Raho e il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini, oltre ai due autori del libro da cui ha preso spunto l’evento, la giornalista Rai Angela Trentini e il teologo sistematico Maurizio Gronchi. Il libro si intitola “La speranza oltre le sbarre” ed è un’inchiesta che parte dalle interviste fatte nel carcere di massima sicurezza di Sulmona dove si trovano detenuti che si sono macchiati di reati gravissimi. “Tema divisivo quello della pena”, ha sottolineato Legnini, “e questo libro lo ha trattato offrendo spunti di riflessione che smuovono le coscienze. Aiutandoci anche a rispondere alla domanda posta da Papa Francesco: espiare una pena è giusto, non c’è dubbio, dice il Papa, ma a quale fine?” “La pena deve essere rieducativa. E la rieducazione va finalizzata a consentire al detenuto un reinserimento”, ha sintetizzato il procuratore antimafia De Raho, rispondendo all’interrogativo. “Il cambiamento è possibile, ma bisogna investire”, ha continuato il procuratore, “e penso anche a percorsi di lavoro per avvicinare il detenuto al reinserimento alla società”. Sul carattere della pena non soltanto punitiva ma finalizzata alla riabilitazione hanno convenuto tutti i relatori. D’accordo anche su un altro principio basilare: la pena non dovrà mai ledere la dignità della persona e il suo diritto al rispetto e alla possibilità di recupero. Oltre alla dignità, c’è anche il tema della speranza, che non dovrebbe mai venire meno, anche dietro le sbarre. “Sono da sempre convinto che non può esistere una pena senza speranza. E mi riferisco all’ergastolo ostativo”, ha detto il vice presidente Legnini, suscitando l’applauso della platea. “Mi ha particolarmente colpito una intervista riportata nel libro”, ha continuato, “quella dove il detenuto dice che avrebbe voluto rivedere il cielo e le stelle”. Il vice presidente del Csm ha infine espresso preoccupazioni circa l’iter della riforma delle carceri di Andrea Orlando. “Spero che la riforma si faccia. O che almeno se ne riesca a salvare i principi fondamentali”, ha concluso Legnini di fronte a una platea gremita di magistrati, avvocati, docenti universitari e forze dell’ordine. C’erano, tra gli altri, il presidente del tribunale Geremia Spiniello, il procuratore generale Pietro Mennini, quello di Chieti Francesco Testa, quello di Sulmona Giuseppe Bellelli e il magistrato di sorveglianza Maria Rosaria Parruti. Augusta (Sr): “Mi manca dare una carezza ai miei genitori”. Storie dal carcere di Monica Coviello vanityfair.it, 10 giugno 2018 “Fine pen(n)a mai” è il libro di racconti scritti da quaranta ragazzi del liceo siracusano Einaudi. I giovani hanno incontrato i detenuti, li hanno conosciuti e hanno provato a trascrivere le loro vite. “Nel mio caso vi è da dire che, quando ho iniziato a frequentare determinate persone, ero molto giovane e dunque molto inesperto. Vorrei aggiungere che se mi venisse chiesto di tornare indietro, di sicuro non rifarei gli stessi errori che oggi mi costano la libertà. Ma è ovvio che, solo adesso conoscendo il mio passato, posso affermare ciò. A volte mi è capitato di essere richiamato dai miei familiari perché avevo queste frequentazioni poco raccomandabili… non gli davo retta, perché non ero consapevole del fatto che tali conoscenze mi avrebbero causato solo e soltanto guai. E non parlo soltanto dei guai giudiziari, ma anche di quelli che colpiscono gli affetti più cari: il dover vedere i propri figli senza po­ter condividere con loro quelli che sono i momenti più significativi della loro crescita, il non poter dare ai propri genitori una carezza mentre invecchiano; tutto questo diventa insopportabile nonostante la rassegnazione”. Stefano ha 47 anni e da circa venti vive nel carcere di Brucoli, in provincia di Siracusa. Lui e altri 39 detenuti hanno incontrato quaranta giovani studenti del liceo Luigi Einaudi di Siracusa, in piccoli gruppi da due o tre persone. Si sono visti per tre volte, in carcere. Si sono presentati, parlati, guardati dentro. I detenuti hanno raccontato a quei ragazzi la loro storia e gli studenti hanno cercato di scrivere, per ognuna delle loro vite, un racconto. Un progetto di alternanza scuola - lavoro, e il risultato è un libro, Fine pen(n)a mai, per la collana Selfie di Noi della casa editrice romana Gemma. Storie raccontate a più voci e scritte a più mani. La storia di Stefano si chiama “Quale porta vuoi aprire”: l’hanno scritto Simona L. e Greta B. “Ci ha raccontato la sua vita quando lo abbiamo incontrato, poi ci ha spedito qualche lettera. Sta scontando 27 anni di carcere per quelli che lui definisce “giri illeciti”, non sappiamo se di droga o di armi, e per omicidio”. Nessuno dei ragazzi era mai entrato in carcere prima. “Chiedere le autorizzazioni, ricevere un pass, vedersi aprire un cancello enorme e le serrature delle celle è stata un’esperienza molto forte”, spiega Simona. “Prima di farla, non sapevamo se i detenuti portassero le manette e indossassero una divisa arancione. Niente di tutto questo: ci siamo parlati tranquillamente, ci siamo stretti la mano, e di volta in volta abbiamo preso sempre più confidenza. All’inizio eravamo imbarazzati: non volevamo risultare troppo invadenti o farci vedere prevenuti. Poi però si è instaurato un rapporto di rispetto: abbiamo imparato qualcosa gli uni dagli altri”. Ad esempio, che la scuola è molto più importante di quanto la possa percepire un liceale. “I detenuti hanno capito che lo è, soprattutto da quando sono in carcere. Quasi tutti cercano di studiare, di prendere il diploma o, se ancora non l’avevano, la terza media. Stefano, come noi, farà l’esame di maturità il prossimo anno, proprio come noi: era già emozionato, in ansia come un diciottenne”. Parlano di amicizie sbagliate, di quartieri poveri e desolati, dove delinquere era la norma. “Ma nessuno incolpa le famiglie, anche se qualcuno sarà cresciuto in contesti disfunzionali, sicuramente. La lontananza dagli affetti è il rimpianto più grande: Stefano dice che gli pesa non essere con la figlia, ancora di più che dover rimanere in una cella. Altri si sono posti l’obiettivo di uscire in tempo per veder crescere i nipoti, per fare i nonni: è il loro pensiero di speranza per sopravvivere”. E quasi tutti i detenuti, spiegano i ragazzi, guidati dalla professoressa Maria Grazia Guagenti, dicono di essere innocenti. “Stefano ce lo ha assicurato, ma ha detto di non potersi difendere. Il perché ci ha lasciato un po’ di amaro in bocca: diceva di non voler “fare la spia”. “Non posso dimostrare la mia innocenza, altrimenti farei la spia, e noi non possiamo”. Dopo vent’anni di carcere, ancora non è riuscito a dimenticare questa parola. È triste”. Hanno sbagliato, ancora sbagliano, ma hanno tante cose da dire e da insegnare, e spesso non riescono a farlo. “Il progetto consiste nel dare voce a chi non ce l’ha: noi ci abbiamo provato, a rompere quella barriera di silenzio che separa due mondi. Non abbiamo trovato mostri: da una parte e dall’altra, nient’altro che uomini”. La Spezia: convegno “rischi di proselitismo e progetti d’integrazione per detenuti stranieri” di Dayla Villani e Doris Fresco gazzettadellaspezia.it, 10 giugno 2018 Nel salone di Teleliguriasud un convegno sui rischi di proselitismo e progetti d’integrazione per i detenuti stranieri. Il sovraffollamento delle carceri non è uniforme sul territorio nazionale: alcuni istituti sono sottoutilizzati, altri superano di gran lunga il tasso di affollamento medio. Da dove ripartire? È ormai dimostrato, anche da dati statistici, come là dove esistono le misure alternative si garantisca assai di più l’abbattimento della recidiva e dunque la sicurezza della società. Le misure alternative alla detenzione consentono al soggetto che ha subito una condanna di scontare, in tutto o in parte, la pena detentiva fuori dal carcere: in questo modo si cerca di facilitare il reinserimento del condannato nella società civile sottraendolo all’ambiente carcerario. Le misure alternative alla detenzione, regolate dagli artt. 47-52 della legge 354/1975 sull’ordinamento penitenziario, si applicano esclusivamente ai detenuti definitivi (cioè con sentenza non più impugnabile) e sono principalmente l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare e la semilibertà. Sono questi le tematiche affrontate ieri, 8 giugno, durante il convegno “I detenuti stranieri - Rischi di proselitismo e progetti di integrazione”, ospitato nel salone di Teleliguriasud e moderato dall’avvocato Daniele Caprara, Presidente Camera Penale della Spezia. Al centro del dibattito anche il primo decreto attuativo della riforma penitenziaria giunto ad un passo dalla conclusione dell’iter e ora in stallo con il nuovo governo, quello che elimina gli automatismi affidando maggiore discrezionalità alla magistratura di sorveglianza sulla possibilità di ricorrere alle pene alternative al carcere nel percorso punitivo/rieducativo di ciascun condannato. Presentato anche il libro “Stranieri in Carcere e Proselitismo” a cura di Maria Cristina Bigi (direttore casa Circondariale della Spezia) e Roberto Sbrana (consulente Psicologo Osservazione e Trattamento detenuti presso Ministero della Giustizia), una ricerca qualitativa che i due autori hanno svolto grazie all’utilizzo di questionari somministrati a 50 detenuti dei circa 80 detenuti stranieri che si trovano nel carcere della Spezia. “Il libro - ha spiegato Bigi - è un’indagine di tipo qualitativo che vuole fornire degli spunti di riflessione. Il mondo della detenzione è solo un altro spaccato della nostra società. Quello che più ci ha stupito nell’indagine è come ci sia un vero e proprio salto nell’ambito della carriera criminale e come le persone rimaste coinvolte anche in attentati non abbiano in realtà un pedigree di persona pericolosa, sono piccoli criminali talvolta spacciatori o alcolisti. Notiamo anche come la quasi totalità dei detenuti stranieri non avesse commesso crimini nei paesi d’origine. Quindi ci siamo chiesti cosa spingesse a compiere attività così pericolose e cosa si può fare all’interno degli istituti per evitare questo tipo di proselitismo. Nel fare questo lavoro quello che è emerso è proprio la ricerca della normalità e come queste persone abbiano difficoltà in più rispetto ad un detenuto italiano anche per come vengono rappresentati o etichettati dalla rappresentazione che noi abbiamo dello straniero. In realtà quello che spinge le persone a collaborare è essere riconosciuti come persone all’interno della società; quando ciò non accade questi vengono spinti ai margini della società”. Ha sottolineato Sbrana: “La prima cosa che abbiamo percepito è una grande disponibilità da parte dei detenuti a farsi intervistare riscontrando dei desideri “normali” parlando del dopo pena. Tra le risposte per es. ‘vorrei frequentare di più la mia famiglia’, ‘trovare un lavoro onesto perché l’attività criminale non paga’, ‘più cultura’. Questo a sottolineare che noi siamo l’insieme di relazioni sociali e dove non c’è socialità non c’è possibilità di cambiamento”. “La sicurezza, dalle statistiche di anti-detenzione penitenziari, esce fuori dai regimi alternativi. Il senso di insicurezza diffuso nella nostra società, e alimentato dai media, potrebbe esser colmato fornendo i dati della realtà di persone che vengono reinserite con bassa recidiva. Il Dap (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) spesso non comunica questi dati e noi leggiamo solo ciò che non funziona”. Il carcere rimane l’unico spazio nel quale poter investire poiché gli irregolari stranieri, in maggioranza negli istituti penitenziari, non hanno nessuna possibilità di procedere a misure alternative ed essere presi in carico da comunità terapeutiche. Oltretutto la sentenza Torreggiani - caso in cui l’Italia è stata condannata e, come è noto, riguarda trattamenti inumani o degradanti subiti dai ricorrenti, sette persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione - ha affrontato il problema strutturale del disfunzionamento del sistema penitenziario italiano. Presente al dibattito anche Emilia Rossi, avvocato e componente del Collegio nazionale del Garante dei diritti delle persone detenute, che ha spiegato: “Da questa sentenza qualcosa è cambiato all’interno dell’amministrazione del sistema penitenziario e nell’esecuzione della pena. Un importante messaggio culturale per il rispetto della dignità della persona”. E se recuperare vuol dire quindi per la società avere anche dei soggetti economicamente attivi, e che quindi non pesano sulle casse dello Stato perché non devono essere mantenuti in carcere, l’Italia - almeno rispetto ad altri vicini europei - sembra esser ancora in una situazione di stallo. Udine: le storie di vita dei detenuti in scena, riabilitare attraverso l’arte e la riflessione di Giancarlo Virgilio udinetoday.it, 10 giugno 2018 L’arte (musica, teatro e poesia) per raggiungere la consapevolezza. Concluso il secondo appuntamento organizzato dalla Casa Circondariale di Udine e dal Dipartimento Dipendenze. A partire dal 2006 il Dipartimento Dipendenze opera all’interno della Casa Circondariale di Udine grazie a una convenzione siglata tra la Direzione della Casa Circondariale di Udine e l’Asuiud, che permette la cura e la riabilitazione dei detenuti con problematiche alcol-droga-Gap correlate. Il progetto - Fra i vari interventi portati avanti dal Dipartimento in questi anni, gli operatori dell’Asuiud e della Cooperativa Sociale “Vladimir Hudolin” settimanalmente propongono alla popolazione carceraria degli incontri psicoeducativi destinati in media a 30/40 persone ogni sette giorni. Il lavoro svolto all’interno dei gruppi, oltre a favorire la formulazione di programmi riabilitativi post-penitenziari, ha l’obiettivo di stimolare riflessioni su come progettare in modo sostenibile la propria vita oltre l’esperienza detentiva e su come affrontare la convivenza forzata fra persone che appartengono a registri geografici, culturali e religiosi molto distanti tra loro. La popolazione carceraria è composta infatti da un 40 % di stranieri. Diversi i temi discussi durante gli incontri, dalle storie familiari e personali ai progetti di vita alle problematiche che affliggono i carcerati, su tutte la solitudine, la paura, il rimorso, l’autostima, la rabbia, i desideri, le speranze e il perdono. Le varie tematiche vengono alla fine condivise durante un evento organizzato all’interno della Casa Circondariale di Udine e aperto ai familiari dei detenuti, alle varie figure professionali appartenenti all’area sanitaria, penitenziaria e giudiziaria e a persone che fanno parte di gruppi di auto-aiuto esterni al carcere. Tiempo Detenido - Dopo il primo appuntamento tenutosi il 25 maggio 2018 alla Casa Immacolata di Udine incentrato sulle dipendenze, mercoledì 6 giugno è stata affrontata la tematica “Attesa e Speranza” attraverso il linguaggio scenico. Tramite la rivisitazione e la raccolta delle stesse storie di vita dei detenuti è nato lo spettacolo teatrale e musicale “Tiempo Detenido”, scritto e recitato dalla straordinaria Nicoletta Oscuro e musicato dal talentuoso Matteo Sgobino alla chitarra e da Hugo Samek alle percussioni. Sull’onda delle emozioni suscitate dal percorso intimo e artistico, i detenuti hanno successivamente messo in scena il proprio vissuto utilizzando la musica o la poesia. Questi due eventi, realizzati grazie alla collaborazione della Cooperativa Vladimir Hudolin, dell’Acat Udinese e di Bluenergy Group, hanno permesso di portare in carcere, in un luogo dove la detenzione rende tutto più incerto e vago, un lavoro di interiorizzazione sui concetti chiave di “tempo”, “permanenza”, “riabilitazione” e “aspettativa di vita”. Potenza: studentessa lucana II classificata al premio “A scuola di libertà” basilicatanet.it, 10 giugno 2018 La studentessa lucana Alisia Taddei della terza A del Liceo scientifico “Pasolini” di Laurenzana, seconda classificata al premio letterario nazionale “A scuola di libertà: le scuole imparano a conoscere il carcere” per l’anno scolastico 2017- 2018. Alisia Taddei con il testo “La casa” che “esprime - questa la motivazione - con rara sensibilità narrativa il percorso fatto durante l’anno scolastico e mostra sintonia empatica con le vicende conosciute e ferma determinazione di volgere in orizzonte positivo le esperienze, individuando vie di riconciliazione e di futuro possibile”. “Il testo - spiega Francesco Cafarelli dell’Aics di Basilicata - nasce dalle attività del laboratorio di scrittura creativa realizzato all’interno della casa circondariale di Potenza e inserito nel progetto nazionale dell’Aics “Adolescenze competenti” che ha coinvolto, in Basilicata, il Liceo Pasolini di Laurenzana, l’ I.S. Agrario Fortunato di Potenza e l’Ipsia Da Vinci di Matera”. Alla cerimonia di premiazione, avvenuta nella storica cornice di Palazzo Valenti sede della Provincia a Roma, erano presenti l’alunna premiata, accompagnata dalla docente Mariarosaria Sabina, delegata del dirigente scolastico Giovanni Latrofa, la referente locale di Progetto Vincenza Ruggiero e il presidente della Crvg e dell’Aics di Basilicata Francesco Cafarelli. La consegna dei premi ai primi tre studenti classificati è avvenuta nel corso dei lavori della XI Assemblea nazionale dal titolo “ 70 volte 7” della Cnv Giustizia che ha affrontato nelle sette sessioni temi quali la giustizia riparativa, il ruolo dei Garanti dei detenuti, la recidiva e l’inserimento lavorativo, la Giustizia Minorile, i fronti di impegno dei volontari della giustizia e la riforma dell’ordinamento penitenziario. Ai lavori dell’assemblea, coordinati dalla giornalista Ornella Favero, direttore editoriale di Ristretti Orizzontii e presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, hanno relazionato: Santi Consolo Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Lucia Castellano Direttore Generale del Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità, il Direttore del carcere di Milano-Bollate Massimo Parisi, il Magistrato di sorveglianza del tribunale di Spoleto Fabio Gianfilippi, don Ettore Cannavera fondatore della Comunità per minori e giovani adulti sottoposti a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria “La Collina” di Cagliari, Gianluca Guida Direttore dell’Istituto Penale Minorile di Nisida, Stefano Anastasia Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Lazio e dell’Umbria, Mauro Palma Garante nazionale dei diritti dei detenuti e, infine, Andrea Carraro scrittore, autore del romanzo “Il branco “ tratto da una storia vera che ha ispirato il film omonimo diretto da Marco Risi. Palermo: i disegni di Costantini per dar voce ai detenuti per reati d’opinione La Repubblica, 10 giugno 2018 Al “Sole Luna doc film festival”. L’artista e attivista ravennate sarà tra i protagonisti di punta della sessione artistica del Festival con un progetto site specific dal 5 al 7 luglio in quelle che furono le prigioni di palazzo Steri. Ventisette film in concorso, diciotto anteprime nazionali, una anteprima internazionale e una particolare attenzione all’arte contemporanea. La tredicesima edizione del Sole Luna Doc film Festival in programma dal 2 all’8 luglio a Palermo si annuncia ricca di novità. Nell’anno di Palermo Capitale Italiana della Cultura e della Biennale Manifesta12, il festival, infatti, offrirà alla città e ai suoi ospiti anche una rassegna fuori concorso di Visual art - Rinegoziare le identità con artisti internazionali del calibro di Regina Josè Galindo, Juan Downey, Donna Harraway, Anna Maria Maiolino, Zineb Sedira, Marina Gržinic? con Aina Šmid e Martina Melilli - mostre, installazioni ed una performance site specific all’interno di Palazzo Steri. Qui dove per oltre un secolo - dal 1601 al 1782 - hanno avuto sede il tribunale e il carcere dell’Inquisizione e dove le pareti trasudano ancora dei graffiti strazianti di tanti condannati, l’artista e attivista Gianluca Costantini disegnerà per tre giorni - dal 5 al 7 luglio - le storie e le speranze di chi oggi è detenuto per reati di opinione. Storie vere, frutto di un lavoro di ricerca che da questo luogo simbolico riecheggeranno su internet, a partire dal profilo twitter dell’artista, seguito da 60 mila persone, per diventare una campagna virale che attraverso l’arte richiami l’attenzione di cittadini e istituzioni su uomini e donne detenuti ingiustamente in tutto il mondo, nell’indifferenza e nel silenzio generale. Una vera e propria performance di “disegno in diretta” dal titolo evocativo Autodafé ispirato all’omonimo romanzo dello scrittore bulgaro Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura nel 1981. Il pubblico potrà osservare Costantini lavorare e potrà interagire con lui. Il progetto, realizzato in collaborazione con l’Università di Palermo, prende spunto dallo spazio del Palazzo, carico di dolore, per parlare delle “inquisizioni” del nostro tempo e rivendicare il diritto alla libertà di pensiero e di opinione. Fondato e presieduto da Lucia Gotti Venturato, presidente di “Associazione Sole Luna - un ponte tra le culture”, il Sole Luna Doc Film Festival vanta la direzione scientifica di Gabriella D’Agostino, antropologa dell’Università degli Studi di Palermo, e la direzione artistica dei registi Chiara Andrich e Andrea Mura, diplomati al Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo. A decretare i film vincitori sarà una giuria internazionale presieduta da Nima Sarvestani, vincitore della scorsa edizione del festival e composta dall’antropologo palermitano Ignazio Buttitta, dal regista vincitore di numerosi premi internazionali Alessandro Negrini, dalla giornalista e fondatrice di Green Film Shooting Birgit Heidsiek e dalla scrittrice ed esperta di neorealismo Ingrid Rossellini. I giurati assegneranno un premio al miglior documentario e le menzioni speciali a miglior regia, miglior fotografia, miglior montaggio e documentario più innovativo. Svegliamoci e salviamo il paese dai razzismi di Eugenio Scalfari La Repubblica, 10 giugno 2018 Sulla carta la maggioranza politica che sostiene il governo Conte è molto forte proprio perché non è omogenea, a parte il cosiddetto contratto e a parte la curiosa circostanza che il premier non fa parte del Parlamento. Quella del resto non è una novità: neanche Renzi faceva parte del Parlamento, eppure era capo del governo e segretario del suo partito. L’attuale e disomogenea maggioranza è formata dalla Lega di Salvini e dai Cinque Stelle di Di Maio. La somma arriva attorno al 50 per cento del corpo elettorale che è andato alle urne. Ci sono, poi, Forza Italia col 14 per cento e Fratelli d’Italia con il 4 per cento. Nel centrosinistra il residuo è formato dal 19 per cento del Partito democratico e da un 5 per cento di vari rimasugli raggruppati: i radicali della Bonino, Liberi e Uguali di Grasso, Bersani e D’Alema. Più altre frattaglie pressoché invisibili. Che cosa tiene insieme quel circa 50 per cento della maggioranza? Un solo ma fondamentale elemento: il potere. Elemento basilare per tutto il genere vivente, dagli alberi ai fiori, ai cani, ai cavalli, ai leoni, alle tigri, ai cervi, alle aquile, ai passeri, ai pesci, agli squali, alle farfalle, alle formiche e via dicendo. Il potere anima tutte le specie viventi, che per esistere e riprodursi hanno bisogno di acqua, di aria, di cibo, di riproduzione, sono prede e al tempo stesso predatori. Ma la nostra specie si distingue da tutte le altre per un solo ma fondamentale elemento che si chiama Io. L’Io è la consapevolezza di esistere e di dover morire ed è anche la coscienza del sé, la facoltà di auto-giudicarsi mentre si vive e si opera. Di solito l’auto-giudizio è positivo perché l’Io ama se stesso più d’ogni altra cosa e persona; ma, sia pure assai di rado, l’auto-giudizio è negativo. Se fosse sempre negativo dimostrerebbe una mente vacillante oppure orgogliosa di sé per il coraggio di darsi torto. Insomma, tra gli animali di cui facciamo parte siamo il più complicato di tutti. Torniamo ai fatti nostri, di natura politica. Se esaminassimo la diversa storia, i diversi obiettivi, la diversa natura dei programmi, del carattere dei leader, degli interessi pubblici e privati dei loro seguaci, vedremmo rilevanti diversità, capaci di metterli gli uni contro gli altri. Potrà anche accadere in futuro, ma non certo in questa fase dove la necessità di usare il potere predomina su tutte le altre. Questo, almeno per ora, non solo li unisce ma fa concepire scenari di tale importanza da attrarre i loro seguaci e abbattere tutti i loro avversari. Lo scenario che circola in questi giorni è fantasmagorico: l’ipotesi di base è che l’attuale governo e l’attuale maggioranza durino quattro anni, cioè fino al 2022. In quell’anno scade il mandato dell’attuale presidente della Repubblica e il Parlamento deve eleggerne uno nuovo. Se l’attuale maggioranza è ancora in piedi, sarà lei a votare il nuovo capo dello Stato. Per sette anni di mandato. La scelta non sarebbe facile proprio perché l’attuale maggioranza è, come abbiamo già detto, disomogenea. Ma la scelta d’una personalità malleabile, buona per tutti gli usi e magari con poteri alquanto diminuiti da un’opportuna riforma costituzionale, spianerebbe la via. A quel punto l’attuale maggioranza diventerebbe un regime. Vi ricordate il Re Vittorio Emanuele III di Savoia? A partire dal 1936, dopo le nuove conquiste effettuate, Mussolini gli aveva attribuito la carica di Re d’Italia e d’Albania e Imperatore d’Etiopia. Lui era rimasto Duce. E nel linguaggio dell’antica Roma, Duce era il massimo: il potere concentrato nelle sue mani, non in quelle del Re, qualunque fosse la sua denominazione. È poi vero che nel 1943 il Duce si ritrovò con i suoi gerarchi contro: il Re lo considerò dimissionario e lo fece imprigionare; ma queste vicende furono determinate dalla guerra perduta proprio in quei giorni, con gli eserciti nemici che stavano conquistando l’Italia. Torniamo ai nostri. Se il loro governo durerà quattro anni, eleggeranno il nuovo presidente della Repubblica e per altri sette anni avranno in mano anche il Quirinale. È possibile che eventi del genere si siano impadroniti della loro fantasia? E quale sarebbero le conseguenze per il nostro Paese? Il nostro, quali che siano le opinioni e i programmi dei partiti e dei cittadini elettori, è un Paese europeo e quindi occidentale perché l’Europa fa parte dell’Occidente, anzi ha contribuito a fondarlo, come pure l’America del Nord, del Centro e del Sud. Ma ciò che si sta sfaldando è proprio l’America. Da quando - ormai da un anno - Donald Trump è alla testa degli Usa la politica americana è profondamente cambiata. Trump sta affrontando con coraggio politico una sorta d’amicizia con la Russia e anche con la Cina e la Corea del Nord. L’Europa nella politica americana è una sorta di scatola dentro la quale c’è qualche biscotto che si può mangiare con piacere ma non di più. In una società globale contano gli Imperi e quindi gli Usa, la Russia e la Cina. L’Europa non è un Impero, ma un miscuglio senza guida. Semmai, in Asia bisogna tener d’occhio la Malesia, la Birmania e il Giappone. Ma siamo ai giocattoli. I veri Imperi sono quei tre: Usa, Russia, Cina. Il futuro è lì, nelle loro armate, nella loro tecnologia, nella loro ricchezza. Quanto alla popolazione, però, la differenza è notevole: gli Usa hanno pochi abitanti rispetto a Cina e Russia. Ma questo non preoccupa Trump, non è il numero demografico che conta ma la potenza e la ricchezza. E queste l’America le ha, come e più degli altri. Questo è ciò che veramente conta o almeno Trump la pensa così e forse vede giusto. Anche l’Europa, se lo volesse, sarebbe un Impero. Avrebbe addirittura tutte le carte per essere il primo, non per numero della popolazione ma per potenza, ricchezza e, aggiungo, per cultura e per storia. Le Americhe del Nord e del Sud sono storicamente appendici dell’Europa ed è stato così dal Cinquecento all’Ottocento. Per tre secoli le Americhe sono state inglesi, spagnole, francesi, irlandesi e anche italiane. Insomma europee. Ma l’Europa non è mai stata unita: sempre divisa, sempre dilaniata da guerre di potere, di classe, di religione. L’Europa ha avuto degli Imperi: quello spagnolo, quello inglese e perfino quello portoghese. E dove erano questi Imperi? Nella più gran parte erano costituiti dall’America. Ma erano Imperi di singole nazioni europee, non dell’Europa in quanto tale. L’Europa in quanto tale c’è stata soltanto nell’antica Roma e in particolare nell’epoca dei cosiddetti “Antonini” da Traiano a Marco Aurelio. Quella fu l’Europa della potenza e anche dei diritti civili, della lingua dominante, della cultura. Aveva come centro geografico e politico il Mediterraneo in tutta la sua estensione che aveva Roma come punto geograficamente, politicamente e culturalmente centrale. Queste vicende bisognerebbe ricordarle ed operare di conseguenza, ma non mi pare che sia così e che l’Europa si muova in questa direzione. E non parliamo dell’Italia di Salvini e di Di Maio: razzisti e populisti. Mussolini fu anche lui razzista e populista. I nostri attuali governanti parleranno mai dal balcone di Palazzo Venezia? Di Maio certo no; Salvini, forse, una tentazione l’avrebbe, l’Europa democratica non fa per lui. Però adesso c’è anche Conte. Se fosse coraggioso, Conte sarebbe un’edizione del tutto diversa dai suoi due padroni. Questa, sì, sarebbe una vera novità, ma gli elettori sarebbero disposti a cambiare cavallo? Quelli che la pensano come noi il cavallo lo vorrebbero di tutt’altra natura. Nel Partito democratico ne esistono in abbondanza ma da tempo non corrono più. Ora sarebbe venuto il momento: per l’Italia e per l’Europa. Bisogna riprendere la battaglia e combattere per salvare il Paese e il Continente del quale facciamo parte. Salvarli dal razzismo e dal populismo con l’obiettivo di tornare ad avere una democrazia moderna e rivolta al bene del popolo. Svegliatevi dal sonno e tornate in campo per riconquistare i diritti civili, sociali e politici. Il momento del confronto è arrivato, non ve lo fate sfuggire. Caporalato. Il governo si muova contro il nuovo schiavismo di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 10 giugno 2018 Perché non si riesce a instaurare condizioni di lavoro legali? Perché non si riesce a impedire la formazione di enormi bidonville come quella di San Ferdinando? Luigi Di Maio è ministro del lavoro oltre che uomo del Sud. Matteo Salvini è ministro degli interni e senatore della Calabria. È lecito, allora, stupirsi che proprio in questa loro doppia qualità non abbiano detto una parola né fatto nulla, per quel che si sa, a proposito delle condizioni in cui lavorano vivono nella baraccopoli di San Ferdinando gli immigrati compagni del sindacalista maliano Soumaila Sacko ucciso una settimana fa da un malavitoso locale? Se c’è qualcosa che un governo “del cambiamento” dovrebbe impegnarsi a cambiare subito in Italia, non è forse l’esistenza fatta di sfruttamento schiavistico e di abbrutimento umano in cui in vari luoghi del Mezzogiorno vivono migliaia di immigrati perlopiù africani? Su tale situazione è stato detto tutto. Ma ciò non c’impedisce di continuare a provare vergogna come cittadini di questo Paese per la desolante passività di cui fin qui hanno fatto mostra a questo proposito le autorità competenti. A Vibo Valentia, a Catanzaro, a Foggia, dappertutto nel Mezzogiorno, lo Stato italiano mantiene prefetti, questori, ispettori del lavoro, procuratori della Repubblica, i quali in teoria dovrebbero far rispettare le sue leggi. A giudicare tuttavia dai risultati non si può davvero dire che finora ci siano riusciti. Perché? che cosa l’ ha impedito? Perché non si riesce a stroncare la pratica del caporalato? Perché non si riesce a instaurare condizioni di lavoro legali? Perché non si riesce a impedire la formazione di enormi bidonville come quella di San Ferdinando? L’impressione è che l’azione della legge sia costantemente impedita da reti di complicità e d’interessi locali più o meno oscuri che sull’illegalità vivono e prosperano. Forti, molto probabilmente anche della complicità di Roma. Ma oggi a Roma c’è un governo nuovo e diverso, si dice. Se è vero lo dimostri coi fatti. Migranti. Salvini ribadisce “stretta sulle Ong”. Il ministro: “non staremo più a guardare” di Francesco Grignetti La Stampa, 10 giugno 2018 Se davvero qualcuno si attendeva che Matteo Salvini indossasse la grisaglia ministeriale, beh, si sbagliava. Sarà un ministro dell’Interno che interviene a raffica e sempre a gamba tesa. Di nuovo, ieri, indossando la maglietta del reggimento San Marco, nel corso di una diretta su Facebook che ha raccolto nel giro di mezz’ora ben 25mila commenti (quasi tutti entusiastici), ha tenuto a ribadire il suo concetto preferito: “Con noi, la musica è cambiata. Non farò parte di un governo che resta a guardare”. Questo il suo programma di base sui richiedenti asilo: taglio ai costi del mantenimento (“Costano 35 euro al giorno per fornire colazione pranzo e cena; e per arricchire cooperative e finti generosi”) e taglio ai tempi per esaminare le domande di asilo (“Si sta qua 1 anno, 2 anni, 3 anni. Questa è gente che può rubare, aggredire, spacciare, e tu non puoi far nulla?”). Sulle Ong si annuncia tempesta: “Le stiamo scannerizzando una per una. Abbiamo elementi raccolti nelle ultime ore”. E torna la questione di Malta: “Sono nell’Unione europea come noi, stessi diritti, stessi doveri. Solo che Malta non dà disponibilità alcuna ad attraccare. E arrivano allegramente tutti in Italia”. Per finire con un messaggio quanto mai chiaro. Salvini fa “No” con il dito indice. Sbarchi? “No, no, no. Non staremo tutta l’estate a guardare”. Infine una stoccata a Emma Bonino, che non teme di attaccarlo: “Anche per l’amica di Soros è colpa di Salvini. Questi insulti mi dicono che siamo sulla strada giusta”. L’attacco di Martina Uno show in piena regola che suscita brividi a sinistra. “Salvini faccia meno dirette Facebook e più lavoro in ufficio”, replica Maurizio Martina, segretario dem. “Sull’immigrazione procede per spot e battute propagandistiche quotidiane, ma il problema è che a farle è il principale responsabile della sicurezza nazionale”. Anche Laura Boldrini, che con Salvini ha un conto aperto fin dai tempi dei comizi in cui veniva brutalmente insultata, e che certo non è tipo da tirarsi indietro, lo chiama in causa, ma rivolgendosi al suo successore nella carica di presidente della Camera: “Chi fa solidarietà ha tutto il supporto dello Stato. Condivido le parole di Roberto Fico sulle Ong. Solo una domanda: capisco che sei stato eletto coi loro voti, ma che ci fai insieme a Salvini e agli xenofobi della vostra coalizione?”. Migranti. L’ala dura della “sinistra” 5 Stelle contro Salvini di Giuseppe Alberto Falci Corriere della Sera, 10 giugno 2018 “Volete metterci uno contro l’altro prima ancora di cominciare”, dissimula un deputato di rango del M5S. In realtà da qualche giorno all’interno del gruppo parlamentare dei cinquestelle i mugugni prevalgono sui sorrisi perché, ripete uno degli interessati, “con le vite umane non si scherza e Salvini ha delle posizioni diametralmente opposte alle nostre”. Oggetto della discordia, va da sé, è l’immigrazione. Da quando ha giurato di fronte al Capo dello Stato Sergio Mattarella, il neo ministro dell’Interno Matteo Salvini invoca più espulsioni e rimpatri dei migranti irregolari. Prende di mira le Ong alcune delle quali, secondo la versione di Salvini, “non fanno volontariato perché fanno affari e fungono da taxi”. Il tutto non fa altro che accrescere l’imbarazzo dell’anima sinistra del Movimento, quella che fa riferimento al presidente della Camera Roberto Fico, la stessa che in fondo non ha mai digerito l’alleanza gialloverde. A questa corrente dei cinquestelle appartengono parlamentari come Paola Nugnes e Luigi Gallo, fino ad arrivare ai senatori Nicola Morra e Paola Taverna. Eppure i loro malumori restano sottotraccia. I diretti interessati si ritraggono e si affidano a parole di questo tenore: “Su certi temi per rispondere devo essere autorizzato dalla comunicazione”. Il drappello di parlamentari che in queste ore è più agitato che mai, desidera evitare lo scontro con i vertici, ma, assicurano, “dentro l’aula della Camera e del Senato faremo sentire la nostra”. Protetti dall’anonimato gli ortodossi preferiscono affermare quanto rivendicato fino a oggi e non intendono cedere alle istanze leghiste che “non fanno parte del nostro programma”. “Il principio di solidarietà è la nostra bandiera”, ripetono all’unisono. L’imbarazzo investe anche chi, come Laura Castelli, è in lizza per diventare vice ministro dell’Economia. La parlamentare torinese non la manda a dire al leader del Carroccio: “Rigetto questa narrazione, perché siamo stati i primi a raccontare che ci sono delle Ong meravigliose, che fanno un lavoro indispensabile, e alcune che sono state oggetto anche di questioni legali e giudiziarie, che hanno avuto dei problemi. Non si tratta di vedere se una cosa è bianca o nera, quindi la rigetto perché credo che sia un modo sbagliato di affrontare un tema su cui ricordo si sono fatti dei soldi, si è lucrato e si è fatto business”. Ma c’è di più. Nelle ore in cui si consuma il braccio di ferro fra il leader del Carroccio e le Ong, il presidente della Camera Fico ha ricevuto a Montecitorio una delegazione di Medici senza Frontiere, Ong che lo scorso anno si è rifiutata di sottoscrivere il codice di condotta redatto dal Viminale a firma Minniti. E dopo l’incontro il presidente della Camera pubblica un post in cui sottolinea che “chi fa solidarietà ha tutto il supporto dello Stato. Lo Stato deve essere vicino a chi soffre, ai più deboli, a chi viene considerato ultimo. La loro sofferenza è la mia sofferenza, la loro ricerca di dignità è la mia ricerca della dignità. Non solo sul tema dei migranti, ma sulle sofferenze in generale, dei diritti”. Il Movimento assicura che non voleva essere una risposta diretta all’alleato Salvini, lui stesso ha precisato che “la terza carica dello Stato non entra in questa questione”. Qualcuno però sussurra che “Roberto ha voluto inviare un messaggio a Luigi”, intendendo naturalmente Di Maio. Non è finita. Domani il presidente della Camera sarà in Calabria, a San Ferdinando, dove domenica scorsa è stato ucciso Soumayla Sacko, il sindacalista del Mali. E non a caso proprio su questa vicenda spunta un’interrogazione parlamentare indirizzata al ministro dell’Interno a firma Paolo Parentela, Giuseppe d’Ippolito, Dalila Nesci, Riccardo Tucci e Nicola Morra. I pentastellati vogliono vederci chiaro “su eventuali implicazioni mafiose”. Salvini è avvisato. Medio Oriente. La Palestina all’Onu: indagate e proteggete i civili da Israele di Michele Giorgio Il Manifesto, 10 giugno 2018 Dopo il “Venerdì di Gerusalemme”. Ieri i funerali delle ultime quattro vittime. La Palestina mercoledì sarà al centro della seduta dell’Assemblea generale dell’Onu dopo l’uccisione da parte di Israele di altri quattro manifestanti di Gaza durante il “Venerdì di Gerusalemme” della Grande Marcia del Ritorno. “Abbiamo chiesto una riunione d’emergenza dell’Assemblea per condannare Israele, il suo uso della forza e l’uccisione di civili palestinesi”, ha spiegato l’ambasciatore palestinese all’Onu Riyad Mansour. Circola già una bozza di risoluzione in cui si chiede di indagare sulle violenze avvenute nell’area e di garantire protezione alla popolazione palestinese. Il ricorso all’assemblea è stato deciso dopo il veto posto dagli Usa, il primo giugno, a una bozza di risoluzione contro Israele presentata al Consiglio di Sicurezza dal Kuwait che chiedeva al segretario generale Guterres di individuare modalità per proteggere i civili palestinesi. Gli Usa guardano alle uccisioni a Gaza di 127 civili palestinesi e al ferimento di altri 14mila (tra intossicati dai lacrimogeni e colpiti da proiettili) dal 30 marzo a venerdì scorso, come una “autodifesa” di Israele contro presunti piani di Hamas per compiere attentati. Israele avrebbe fatto uso di “moderazione” nell’affrontare la Marcia del Ritorno, ha sostenuto qualche settimana fa l’ambasciatrice Usa all’Onu Haley, minimizzando il tiro al bersaglio dei cecchini israeliani e sorvolando su Gaza soggetta da 11 anni a un rigido blocco. Ieri la città di Khan Yunis ha partecipato ai funerali di un altro suo giovanissimo abitante, Haitham al Jamal, 15 anni, colpito a morte due giorni fa dai soldati israeliani, una settimana dopo l’uccisione della paramedica 21enne Razan al Najjar. Il governo Netanyahu parla di “terrorismo” e ribadisce la linea dura. Ieri un aereo ha sparato “colpi di avvertimento” contro un gruppo di giovani di Gaza che preparavano palloncini e aquiloni da inviare verso Israele durante le manifestazioni. Trasportano bottiglie molotov, dice l’esercito, che stanno provocando incendi in territorio israeliano. Nigeria. La denuncia Amnesty: “donne liberate da Boko Haram per diventare schiave” di Sara Ficocelli La Repubblica, 10 giugno 2018 L’organizzazione chiede al governo nigeriano di assicurare alla giustizia gli autori di tutti gli abusi e di rendere pubbliche le azioni che saranno intraprese in questa direzione. È possibile contribuire firmando l’appello. Lo schema è sempre lo stesso: i soldati entrano nei campi per fare sesso e i miliziani della Task force civile congiunta (Jtf) scelgono “le più belle” da consegnare loro. La paura impedisce alle donne di ribellarsi e ogni giorno sono tantissime quelle che, sopravvissute alla brutalità del gruppo armato Boko Haram, vengono stuprate dai soldati che sostengono di averle liberate, aggredite proprio da chi era stato chiamato a proteggerle. Schiave del sesso in “campi satellite”. La denuncia arriva da Amnesty International, l’organizzazione internazionale che lotta contro le ingiustizie e in difesa dei diritti umani nel mondo: l’inferno, per migliaia di ragazze nigeriane, è un luogo terreste popolato dai membri dell’esercito nigeriano e da quelli della milizia alleata. È la Jtf che separa le donne dai mariti - automaticamente sospettati di essere combattenti di Boko Haram solo perché di una certa età - confinandole in “campi satellite” per renderle vulnerabili e alla mercé di ogni tipo di aggressione. Lì le prigioniere vengono costrette a lavorare nei campi e violentate, spesso in cambio di cibo. Le meno “interessanti” vengono lasciate morire di fame. “Il governo della Nigeria deve assicurare i colpevoli alla giustizia”, denuncia l’organizzazione. “A partire dal 2015 l’esercito nigeriano ha strappato territori a Boko Haram e costretto le persone che vivevano in quei villaggi a trasferirsi. Migliaia di donne hanno denunciato di aver subito violenze psicologiche e fisiche. Aiutateci a fermare questo orrore”. 800 donne morte per fame e malattie. Per fortuna alcune trovano il coraggio di ribellarsi, tanto che un gruppo di sfollate, il Movimento Knifar, composto da circa 1300 persone, sta facendo una campagna per chiedere giustizia e protezione e il rilascio dei mariti. Stando ai dati raccolti dal movimento sarebbero 800 finora le vittime, morte per fame e malattie dopo esser state sfollate. “Decine di donne - continuano gli operatori di Amnesty - hanno raccontato ai nostri ricercatori di essere state stuprate in questi campi da parte di soldati e miliziani della Jtf e di essere state ridotte alla fame per diventare le loro “fidanzate” e ad essere disponibili a rapporti sessuali a ogni evenienza. Vi chiediamo di firmare l’appello e chiedere protezione e giustizia per loro”. Nei “campi satellite” c’è stata una grave crisi alimentare dall’inizio del 2015 fino alla metà del 2016, quando gli aiuti umanitari sono aumentati e sono centinaia, probabilmente migliaia le persone morte nell’”Ospedale di Bama” in quell’arco di tempo. “Le testimonianze parlano di 15-30 morti al giorno e le immagini satellitari, che mostrano la rapida espansione del cimitero all’interno del campo, danno loro ragione”, spiegano gli operatori di Amnesty. Morti per fame sono state registrate anche nei campi di Banki e Dikwa. Nonostante dal giugno 2016 le Nazioni Unite e altre agenzie abbiano aumentato l’entità dell’assistenza umanitaria, molte donne hanno continuato a trovare difficoltà nell’accesso a quantità adeguate di cibo, anche a causa delle restrizioni alla libertà di movimento. L’appello al governo nigeriano. Nell’appello rivolto al Muhammadu Buhari la ong chiede di ordinare la diffusione del rapporto del comitato investigativo presidenziale e di rendere pubblico ciò che il governo farà per affrontare la violenza e gli abusi subiti dalle donne sfollate nel nord-est della Nigeria. “I risultati della relazione - si legge nel documento - dovrebbero anche essere resi pubblici. I perpetratori di queste violazioni dei diritti umani, tra cui lo stupro di donne e ragazze nei campi per sfollati, devono essere assicurati alla giustizia e devono essere affrontate le cause che portano le donne ad essere particolarmente a rischio di violenza sessuale. Queste includono restrizioni di movimento imposte dalle autorità, separazione dai familiari e fornitura inadeguata di assistenza nei campi”.