La sinistra radicale si divide sul 41bis. “Potere al Popolo” contro il carcere duro di Rocco Vazzana Il Dubbio, 9 gennaio 2018 Populisti ma anche impopolari. Sta tutta in questa anomalia la peculiarità di Potere al Popolo, la lista di “sinistra sinistra” che spera di poter dare filo da torcere a Pietro Grasso e compagni alla prossima tornata elettorale. Già, perché mentre quasi tutti i partiti inseguono il Movimento 5 Stelle sulla retorica dell’onestà e della galera, la sinistra radicale è l’unico soggetto politico con un “programma giustizia” controcorrente. Gli antagonisti di PotPol chiedono infatti “l’abolizione dell’ergastolo e del 41bis, e l’emanazione di un provvedimento di amnistia che risolva il problema del sovraffollamento carcerario”. Solo Marco Pannella avrebbe potuto osare tanto, ma i sostenitori del progetto sono convinti di aver scelto il percorso giusto. “Se avessimo fatto delle mediazioni al ribasso il senso dell’operazione Potere al Popolo sarebbe venuto meno”, dice Gianluca Schiavon, responsabile Giustizia di Rifondazione comunista (tra i partiti che hanno aderito al soggetto concepito dal centro sociale napoletano ex Opg - Je sò pazzo). E invece di mediare al ribasso, la sinistra radicale rilancia, proponendo persino l’abolizione del carcere duro per i mafiosi. “Sia chiaro”, spiega Schiavon, “mi rendo perfettamente conto che alcuni reati debbano essere perseguiti in modo più severo, e l’impegno contro le mafie rientra tra le nostre priorità, però non si può far finta di niente sulla disumanità di certi trattamenti”. Del resto, “non tutti i detenuti al 41bis sono Totò Riina. Ma il problema più grande è che un istituto concepito come emergenziale si è trasformato in qualcosa di ordinario”. Gianluca Schiavon rivendica una posizione che, dice, contraddistingue da sempre Rifondazione comunista, che già nel 2006 depositò alla Camera una proposta di legge - primo firmatario Franco Giordano - per abolire l’ergastolo. Il programma “giustizia” di Potere al Popolo prosegue dunque su un solco già tracciato, arricchito dal sostegno dei centri sociali e del mondo sindacale di base. “Migliaia di persone, negli ultimi anni, si sono trovate colpite da procedimenti penali o misure di polizia perché lottavano per il diritto all’abitare, al lavoro, alla salute, allo studio, per il rispetto dell’ambiente e del territorio”, sta scritto sul programma “di classe” della sinistra alternativa. “La “legalità” ha colpito chi lottava per la giustizia sociale. Invece del riconoscimento politico delle rivendicazioni, la risposta dello Stato e della stessa magistratura è stata solo repressiva”. Ma non può esistere alcun soggetto di sinistra senza differenze di visioni a volte anche laceranti. E PotPol non fa eccezione. Perché non tutti hanno gradito l’apertura libertaria in tema di pene. È il caso della rumorosa minoranza del Pci - sì, non è un errore di distrazione, il Partito comunista italiano esiste di nuovo, è stato rifondato nel 2016 - capeggiata da Michelangelo Tripodi, responsabile nazionale delle Autonomie locali e delle politiche per il Mezzogiorno. Il dirigente comunista, fin dal principio ostile all’adesione del suo partito alla lista unitaria, non ha affatto digerito un programma giustizia in cui non si riconosce affatto. “Io sono un uomo del Sud”, dice, “e sinceramente mi sembra molto complicato andare in Calabria e in Sicilia a proporre in campagna elettorale l’abolizione del 41bis per i mafiosi”. Per Tripodi, erede della sinistra cossuttiana, il rischio più grande è essere fraintesi dall’elettorato. “È come se noi cedessimo alle richieste contenute nel “papello” con cui la mafia voleva a intavolare una trattativa con lo Stato”, spiega. Più che pareri diversi, sembra che dentro PotPol convivano anime antitetiche. L’importante è non scindersi prima di nascere. “Potere al Popolo” contro l’ergastolo, il 41bis, la tortura di Sergio Scorza nuovaresistenza.org, 9 gennaio 2018 Probabilmente molti “compagni” che, in queste ore, si stanno scagliando, con cieco furore, contro l’articolo 15 del programma di “Potere al popolo” (realizzato dopo un mese di assemblee territoriali), non sanno di cosa parlano. L’articolo 41bis ha una storia lunga e discende dall’art. 90 della legge di riforma dell’ordinamento penitenziario n. 663/1986, altrimenti conosciuta come “Legge Gozzini”. Quella norma aveva fini esclusivamente politici e doveva servire a reprimere le proteste per le pesanti condizioni nelle carceri italiane che, nel corso degli anni settanta, si erano spesso trasformate in rivolte interne prevedendo che il ministro di Grazia e Giustizia avesse facoltà di sospendere le regole di trattamento e gli istituti previsti dalla legge nell’ordinamento penitenziario, in uno o più stabilimenti e per un periodo determinato per “motivi di ordine e sicurezza”. Quella norma fu anche usata anche per legittimare efferate forme di tortura finalizzate ad estorcere informazioni, spingere alla delazione e piegare i detenuti più combattivi. L’introduzione del regime speciale per i mafiosi ad opera dell’art.19 del decreto 306/1992 avvenne all’indomani della strage di via D’Amelio ed il decreto venne convertito nella legge 356 introducendo l’art. 41bis. Il nuovo regime speciale consisteva nella sospensione, in tutto o in parte, delle normali regole di trattamento o degli istituti previsti dall’ordinamento penitenziario. Una legge “emergenziale”, dunque. Ma siamo sicuri che ad un quarto di secolo di distanza dalle quelle orrende stragi, la mafia e le mafie funzionino come allora e che il 41bis sia servito a qualcosa? Di recente la stessa commissione parlamentare antimafia e diverse inchieste hanno rivelato uno scenario, in cui, all’ombra di vecchie e nuove “emergenze”, il potere mafioso, in questi anni, in realtà, ha continuato ad estendersi sia geograficamente che economicamente ma soprattutto si è intrecciato in modo ancora più profondo con forze dell’ordine, politici, servizi segreti ed importantissime massonerie che risultano ottimamente inserite nei gangli vitali dello Stato. L’Onu ha sollevato dure critiche all’Italia sul regime di carcere duro del 41bis e lo ha ritenuto, a tutti gli effetti, una forma di tortura. L’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario viene applicato per periodi molto lunghi anche a persone non condannate in via definitiva ed è ritenuto da molti giuristi incostituzionale. Si va di proroga in proroga ed i ricorsi dei detenuti, al vaglio esclusivo del Tribunale di sorveglianza di Roma, vengono sistematicamente ignorati con motivazioni copia-incolla del decreto precedente. Spesso non tengono neppure conto di fatti concreti che rendono il rapporto tra detenuto e associazione criminale esaurito da un pezzo e ciò in barba al fine dichiarato della legge stessa, cioè, spezzare il filo tra i capi detenuti in carcere e le cosche mafiose ed impedire che i loro ordini o i messaggi arrivino all’esterno. Sapete cosa sono le famigerate “celle zero”? Sono celle completamente vuote, prive di mobili, letti e di qualsiasi oggetto, in cui i detenuti dormono sul pavimento ed in quello stesso spazio sono costretti a fare anche i propri bisogni fisiologici. Ricordo casi di detenuti per reati minori (tipo possesso di modiche quantità di droga) denudati, pestati a sangue, legati e trascinati come bestie nelle famigerate “celle zero”. Episodi analoghi hanno riguardato anche molti detenuti con problemi psichiatrici. Molti di questi detenuti si sono poi suicidati impiccandosi. Dall’ inizio del 2009 ad oggi sono morte in carcere quasi 3.000 persone e 1/3 di queste per suicidio. Quanto all’ergastolo vi rispondo con le parole di Papa Francesco “L’ergastolo è una pena di morte nascosta”. Le pene devono sempre rispettare la dignità umana e mai diventare forme di tortura. Possibile che la vostra testa non riesca ad immaginare altro che carcere e torture per chi sbaglia? E se poi era innocente? Si, lo so, Totò Riina ha sciolto un bambino nell’acido ed io, solo per questo, gli avrei sparato direttamente un colpo alla nuca. Ma poi? Pensate che con ciò si combatta davvero la mafia e le mafie? Colletti bianchi e massonerie mafiose se la ridono. Pensate davvero di costruire una nuova civiltà giuridica su questo? Pensate davvero di costruire una società diversa sulla legge del taglione? Sul carcere come unica forma di pena? Sulle torture? Sulle umiliazioni infinite? Sui metodi mafiosi di Stato? Dal “non possiamo lasciare i temi della destra alle destre” al prepararsi a fare la fine di Minniti è un lampo, Crozza docet. Fin tanto che la giustizia saprà essere solo forte con i deboli e debole con i forti, carceri e torture continueranno ad essere - con qualche rara eccezione - un privilegio concesso solo ai poveri disgraziati, agli ultimi, ai poveri, ai senza diritti. I forti, invece, si sa, prima o poi, in un modo o nell’altro, la tela del ragno se la mettono in tasca. Non toccate il 41bis, anzi rafforzatelo di Vincenzo Musacchio* nuovatlantide.org, 9 gennaio 2018 Dopo la strage di Capaci e un giorno dopo quella di Via D’Amelio, l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli decise di firmare i primi provvedimenti che prevedevano il cd. “carcere duro” per i mafiosi. La normativa - fortemente voluta da Giovanni Falcone e alla quale non era stata data attuazione anche per via della sua estrema rigidità - fu quindi “sbloccata” proprio dalla strage di via D’Amelio. Lo scopo della norma a tutt’oggi resta elementare: impedire il passaggio di ordini o altre comunicazioni tra i mafiosi in carcere e le organizzazioni d’appartenenza sul territorio. È chiaro che tale tipologia di detenuto non deve e non può entrare in contatto con il proprio “mondo”. Qualsiasi ragionamento sul 41bis, dunque, deve partire dal presupposto che il fine della norma non è rendere più afflittiva la sanzione penale ma interrompere i legami del mafioso con l’organizzazione criminale. Tutto ciò che va oltre tale scopo a noi non piace. Giovanni Falcone sosteneva - a ragion veduta - che il carcere duro ai mafiosi non poteva mai andar bene, abituati com’erano a comandare anche dal carcere. Oggi, dopo venticinque anni, dovremmo domandarci se il traguardo di questa norma sia stato raggiunto così come auspicava proprio Falcone. Credo proprio di no! Non vedo all’orizzonte una riforma carceraria che possa prevedere proprio nuove carceri speciali per questa tipologia di detenuti. Noto che le deroghe al fine di impedire i contatti con l’esterno cominciano a essere troppe. Mi chiedo come sia possibile, ad esempio, lasciar passare, sempre su autorizzazione del magistrato di sorveglianza, la corrispondenza fra alcuni detenuti sottoposti al 41bis. Ho letto che alcuni mafiosi (ndranghetisti nel caso di specie) sono stati addirittura portati nel proprio territorio per dei permessi brevi e hanno potuto avere contatti con l’esterno e ordinare o suggerire strategie criminali. I fratelli Madonia (spietati killer siciliani) dopo alcuni anni si sono incontrati essendo in pieno regime di 41bis. Francesco Schiavone pare conservi in carcere il suo storico ruolo di capo del clan dei Casalesi. Percepisce somme di denaro ed è attivo nella programmazione delle attività camorristiche del suo territorio. Totò Riina, sempre in pieno carcere duro, è riuscito a far giungere all’esterno la sua volontà di uccidere il magistrato Nino Di Matteo. Molti boss mafiosi dal carcere continuano a gestire il sistema degli appalti, delle estorsioni e delle collusioni con la politica. In base a tali fatti, direi che queste siano le vere disfunzioni a cui porre rimedio! Se modificare il 41bis significa incidere su queste alterazioni allora sono d’accordo. Da tempo sono convinto che il 41bis debba essere potenziato e i detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione debbano essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente riservati, collocati se possibile nelle isole, sul modello territoriale di Pianosa e l’Asinara. I boss mafiosi col 41bis e con la piena efficienza del sistema delle confische dei loro beni, saranno sconfitti e al tempo stesso avremo onorato la memoria di Falcone e Borsellino e di tutte le vittime delle mafie italiane. Sarò controcorrente ma a mio giudizio il 41bis va inasprito e applicato con più rigore. Nella lotta alle mafie ancor oggi resta uno strumento indispensabile. *Direttore scientifico della Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del Molise Basta carcere per i writers, l’appello di artisti e creativi: “la legge sia misurata” di Franco Vanni La Repubblica, 9 gennaio 2018 Dopo il caso di Milano con la condanna a sei mesi di un grafico oggi trentenne. La mobilitazione da Carlotto a Wu Ming, da Dazieri a Pao. Non è giusto che chi disegna su un muro finisca in carcere. Questa la convinzione di un gruppo di artisti e creativi. Chiedono al parlamento di rivedere il testo dell’articolo 639 del codice penale, che punisce con la reclusione chi “deturpa e imbratta le cose altrui”. Pur riconoscendo la necessità di normare in qualche modo la street art, nel testo dell’appello si afferma che “non si può distruggere la vita di una persona perché usa colore su un muro, la legge deve essere misurata e credibile”. L’appello arriva dopo la notizia di una condanna definitiva a sei mesi e 20 giorni di reclusione inflitta proprio a Milano a un writer 29enne. Per avere disegnato su treni e vetrine nel 2012, il giovane, che oggi lavora come grafico in Cina, se dovesse tornare in Italia rischierebbe il carcere. E sarebbe il primo writer a finire in cella per effetto di una sentenza per imbrattamento. Nell’appello si parla di “inutile e strumentale guerra contro le tante espressioni autonome, non commissionate e creative per le strade”. Si boccia la repressione del writing come “svilimento delle aspirazioni dei giovani e dei creativi che lottano alla ricerca di spazi di socialità e concreta realizzazione”. A firmare sono, fra gli altri, gli scrittori Massimo Carlotto, Sandrone Dazieri, Tito Faraci e il collettivo Wu Ming. L’attore Moni Ovadia, il giornalista Carlo Agostoni, i poeti Paolo Cerruto e Ivan, il fotografo Giovanni Candida e l’imprenditore Dario Cossutta. Poi tanti writers, milanesi e non. Da Frode a Pao, da Davide “Atomo” Tinelli a Soviet. Sciopero dei giudici di pace per un mese, a rischio oltre un milione di processi di Andrea Ossino Il Tempo, 9 gennaio 2018 L’adesione alla protesta pari al 90%. L’Unagipa attacca sia il governo sia l’Anm. I giudici di pace lo avevano già annunciato: “Saranno garantite solo la tenuta di un’udienza a settimana e gli atti indifferibili e urgenti”. E adesso hanno mantenuto la promessa. Da nord a sud dello Stivale hanno appeso la toga al muro dando vita a uno sciopero record, sia per la durata che per la partecipazione. Ieri infatti i giudici di pace hanno dato il via alla protesta. Una protesta che si protrarrà fino al prossimo 4 febbraio. E non si tratta di poche decine di manifestanti, ma del 90% dei giudici (secondo i dati forniti dall’Unagipa, l’Unione nazionale giudici di pace). E visto che, come annunciato, saranno garantiti solo gli atti urgenti, le previsioni annunciano un mese nero per una giustizia già sull’orlo di una crisi di nervi: si prevede infatti che saranno rinviati oltre un milione di processi civili e penali. Ad alimentare i toni c’è anche l’ormai critico rapporto dei magistrati precari con il governo e l’Associazione Nazionale Magistrati: “Manifestiamo stupore per le dichiarazioni del sottosegretario alla Giustizia, Gennaro Migliore, di presunta condivisione della riforma da parte della categoria - dichiarano Maria Flora Di Giovanni e Alberto Rossi, presidente e segretario dell’Unagipa - rammentiamo al sottosegretario Migliore che l’Anm, unico interlocutore del ministro Orlando e del governo, non rappresenta nella maniera più assoluta la categoria dei giudici di pace e dei magistrati onorari, alla quale, al contrario, si contrappone apertamente, quanto meno nei suoi attuali organi verticistici. D’altra parte - continuano i vertici dell’Unione nazionale giudici di pace - le imbarazzanti e incredibili affermazioni del sottosegretario Migliore sono inconfutabilmente contraddette dai fatti, considerato che i giudici di pace ed i magistrati onorari sono in sciopero continuativo ormai da più di un anno, con oltre 80 giorni di udienze rinviate a causa degli scioperi solo nel 2017 e un crollo di produttività degli uffici giudiziari di primo grado superiore al 30%”. Già, perché se l’importanza della categoria per il sistema giustizia risulta evidente, le condizioni in cui versano migliaia di lavoratori con la toga sono sicuramente allarmanti. “L’intera categoria manifesta la sua amarezza e indignazione nei confronti della recente sentenza della Cassazione che ha negato il diritto al risarcimento del danno a un giudice di pace che aveva contratto una gravissima malattia (la tubercolosi) a causa dell’insalubrità del luogo di lavoro ove espletava i suoi doveri di magistrato”, denuncia infatti l’Unione nazionale dei giudici di pace, manifestando “piena solidarietà al collega” e annunciando l’istituzione di “un fondo di garanzia a favore dei colleghi abbandonati dallo Stato e privati dei più elementari diritti riconosciuti dalla Costituzione e dall’ordinamento giuridico a tutti gli esseri umani”. “Chiederemo al Consiglio Superiore della Magistratura di intervenire con urgenza a tutela della dignità della nostra funzione - sottolinea l’Unagipa - e denunceremo i fatti alla Commissione europea e alla Corte di giustizia europea, ove già pendono plurime procedure di infrazione a carico dello Stato e di riconoscimento dei nostri diritti di lavoratori. Anche per tali ragioni da ieri i giudici di pace italiani saranno in sciopero per 4 settimane consecutive”. Secondo chi ha indetto lo sciopero, “un cittadino extracomunitario che contrae una grave malattia nei centri di accoglienza dove è trattenuto in attesa di rimpatrio (Cie) ha diritto al risarcimento del danno, come è giusto e dovuto in un Paese civile, ma il giudice di pace che si reca in quei luoghi, spesso privi di adeguate misure di sicurezza sanitaria (che devono essere garantite dai ministeri della Giustizia e dell’Interno), per decidere sulla convalida dei provvedimenti di espulsione nell’adempimento dei suoi doveri, laddove contragga una grave malattia non ha nessun diritto: ciò è un’aberrazione giuridica che ci pone al di fuori dell’Europa e del mondo civile”. E ancora: “I colleghi che hanno sempre garantito l’espletamento del servizio, persino nei giorni di Natale e Capodanno, stanno seriamente valutando di astenersi per il futuro dal recarsi nei Cie, a tutela della loro integrità fisica - annuncia l’Unagipa - se è vero, come sostiene apoditticamente la Cassazione, che noi giudici di pace saremmo solo dei volontari, in quanto tali non siamo tenuti ad osservare gli ordini di servizio dei presidenti di Tribunale e le circolari del Csm”. Dunque le possibili conseguenze sarebbero devastanti non solo per in comparto giustizia. Il tribunale decide per il braccialetto ai domiciliari senza istanza ad hoc del Pm di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 8 gennaio 2018 n. 172. La sentenza del Tribunale secondo cui l’imputato è tenuto a scontare la pena ai domiciliari ma con il braccialetto elettronico, non può essere appellata per una mancata richiesta avanzata in tal senso dal pm. Il giudice, infatti, è libero di andare a integrare la misura cautelare senza che si renda necessaria una specifica richiesta del pubblico ministero. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 172/2018. Il parere della Cassazione - Di fatto - spiega la Corte - il giudice che dispone l’utilizzo del braccialetto elettronico non crea un tertium genus detentivo, ossia più pesante rispetto alla “semplice” detenzione domiciliare e meno grave rispetto al carcere. Il giudice può decidere per il controllo a distanza quando ritenga che la restrizione domiciliare non sia idonea a contenere le esigenze cautelari. Quindi la Cassazione esprime la seguente massima secondo cui “diversamente da quanto genericamente prospettato in ricorso, dunque non si verte in tema di non motivata e ingiustificata applicazione di una misura cautelare più gravosa non richiesta dal pm, bensì nella individuazione da parte del giudice di una mera modalità di esecuzione degli arresti domiciliari (applicabile, peraltro, nei casi previsti dalla legge, anche con riferimento ad altre misure coercitive) e rispetto alla quale non è necessaria una specifica richiesta da parte del pubblico ministero”. Conclusioni - In definitiva è stato dichiarato inammissibile il ricorso con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. No al sequestro per i profitti dei reati andati prescritti di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 168/2018. È illegittimo il sequestro preventivo per equivalente, se disposto senza escludere i reati estinti per prescrizione. Ad affermarlo è la Cassazione, Terza sezione penale, con la sentenza 168/2018, depositata ieri. La vicenda trae origine dall’ordinanza con la quale la Corte di appello, pronunciandosi in sede di rinvio dalla Cassazione, confermava il sequestro su alcuni beni dell’imputato, riconosciuto colpevole di numerosi reati tributari. L’interessato ricorreva per cassazione lamentando, tra i diversi motivi, che il collegio territoriale aveva trascurato la prescrizione di alcuni dei delitti contestati e conseguentemente la quantificazione del valore per il quale mantenere il sequestro. La Cassazione ha ritenuto fondata la doglianza.: il giudice di merito si era limitato ad una mera addizione matematica delle somme imponibili indicate in tutti i capi di imputazione, includendo anche i reati estinti per prescrizione. Era pertanto mancata una valutazione sulle somme effettivamente evase, mentre invece solo per queste era possibile correlare un profitto da reato e quindi un danno patrimoniale da garantire. Sul tema è di recente intervenuta la circolare 1/2018 della Guardia di finanza che, prendendo atto dell’orientamento della giurisprudenza, ha affrontato le conseguenze delle misure cautelari in ipotesi di estinzione del delitto tributario. La nota illustra i due indirizzi seguiti dalla giurisprudenza di legittimità, indicando quale dei due è prevalente. Secondo quello minoritario, con provvedimento cautelare finalizzato a confisca per equivalente, l’estinzione del reato, in qualsiasi forma (per intervenuta prescrizione, morte del reo, amnistia eccetera), travolgerà sempre il vincolo reale già apposto. Quindi i beni sono da restituire (Cassazione, sentenza 18799/2013). Secondo l’orientamento maggioritario, in caso di estinzione del reato per prescrizione, può essere comunque disposta la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato. A condizione che vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e che l’accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla responsabilità penale dell’imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto sia rimasto inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio (sentenza 31617/2015 delle Sezioni unite). Ciò tenuto conto della natura propria della confisca diretta come misura di sicurezza, cui non va garantita l’applicazione del principio di legalità, richiamato dall’articolo 7 della Cedu. Tale indirizzo, secondo la circolare, consente, al ricorrere dei presupposti, la confiscabilità dei beni oggetto di sequestro in via diretta nel caso di reati tributari (disponibilità liquide e beni surrogati) pure in presenza di una sentenza che, non assolvendo nel merito l’imputato, dichiari l’intervenuta prescrizione del fatto reato al medesimo ascritto. No patteggiamento con debiti. Devono essere estinte tutte le pendenze con l’Erario di Debora Alberici Italia Oggi, 9 gennaio 2018 La sentenza della Cassazione n. 169 dell’8 gennaio annulla l’accordo per i reati fiscali. Dopo la riforma fiscale di due anni fa il contribuente può patteggiare solo quando abbia già estinto tutti i debiti con l’Erario o nell’ipotesi di ravvedimento operoso. Ciò vale anche per tutti i giudizi già pendenti alla data di entrata in vigore del dlgs 158/2015. Lo ha sancito la Cassazione che, con la sentenza n. 169 dell’8 gennaio 2018, ha accolto il ricorso della Procura di Brescia. È stato quindi annullato dal Supremo collegio l’accordo con il quale un imprenditore si era accordato per dieci mesi di reclusione in relazione a una serie di reati fiscali. Infatti, hanno spiegato i giudici, il secondo comma dell’art. 13-bis, dlgs n. 74 del 2000, introdotto dal dlgs n. 158 del 24 settembre 2015, limita l’accesso al rito alternativo della applicazione della pena su richiesta per tutti i reati previsti dal suddetto dlgs 74/2000 ai soli casi in cui l’imputato possa beneficiare della speciale attenuante prevista dal primo comma della medesima disposizione (è cioè l’integrale estinzione dei debiti tributari, compresi oneri e accessori), o nelle ipotesi di ravvedimento operoso. Questa norma è stata completamente sdoganata dai giudici di legittimità che l’hanno anche ritenuta retroattiva. Sul punto in sentenza si legge infatti che tale previsione non vulnera il diritto di difesa, non potendo considerarsi la facoltà di accedere al rito alternativo una condizione indispensabile per la sua efficace tutela, né rappresenta una limitazione della tutela giurisdizionale avverso la pretesa erariale, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria e spettando esclusivamente al giudice penale il compito di accertare l’ammontare dell’imposta evasa, e neppure viola il diritto a un equo processo e a non essere giudicati o puniti due volte per lo stesso fatto sancito dall’art. 6 Cedu. In più, per la Suprema corte, si tratta di disposizione di natura processuale, dunque applicabile ai giudizi pendenti anche se relativi a fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore, giacché, in funzione premiale, regola e delimita l’accesso alla applicazione al rito alternativo cui all’art. 444 cod. proc. pen. in relazione a tutti i reati contemplati dal dlgs 74 del 2000, senza alcuna distinzione tra le varie fattispecie. Problematiche del giudizio di bilanciamento delle circostanze del reato Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2018 Reato - Circostanze del reato - Circostanze generiche - Recidiva qualificata - Giudizio di bilanciamento. Nel giudizio di bilanciamento tra le circostanze del reato, il divieto di prevalenza delle circostanze generiche rispetto alla recidiva reiterata ex art. 99, comma 4, c.p., quale deroga alla ordinaria disciplina del bilanciamento stesso, si riferisce a una circostanza attenuante comune e la sua applicazione, lungi dal determinare una manifesta sproporzione del trattamento sanzionatorio, è prevista espressamente dall’art. 69 c.p. e si giustifica in quanto valorizza la componente soggettiva del reato, qualificata dalla plurima ricaduta del reo in condotte trasgressive di precetti penali. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 5 dicembre 2017 n. 54689. Recidiva - In genere - Divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto alla recidiva reiterata infra-quinquennale - Questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 3, 25 e 27 Cost. - Manifesta infondatezza - Ragioni. È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3, 25 e 27 Cost., dell’art. 69, comma quarto, c.p., nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto alla recidiva reiterata ex art. 99, comma quarto, c.p., in quanto tale deroga alla ordinaria disciplina del bilanciamento si riferisce a una circostanza attenuante comune e la sua applicazione, quindi, non determina una manifesta sproporzione del trattamento sanzionatorio, ma si limita a valorizzare, in misura contenuta, la componente soggettiva del reato, qualificata dalla plurima ricaduta del reo in condotte trasgressive di precetti penalmente sanzionati. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 31 marzo 2017 n. 16487. Sentenza - Requisiti - Motivazione - Circostanze attenuanti generiche - Circostanze attenuanti generiche - Diniego per i precedenti penali - Ritenuta equivalenza tra una attenuante e la recidiva - Contraddittorietà di motivazione - Esclusione. Non e ravvisabile il vizio di contraddittorietà di motivazione nel caso di diniego delle circostanze attenuanti generiche per i precedenti penali dell’imputato e di contemporaneo giudizio di equivalenza tra una circostanza attenuante e la recidiva, trattandosi di due ben distinte valutazioni non necessariamente collegate ad identici presupposti. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 7 gennaio 2010 n. 106. Impugnazioni - Appello - Cognizione del giudice d’appello - Divieto di reformatio in peius - Reato continuato - Riduzione della pena complessiva per effetto della concessione delle circostanze generiche equivalenti alla recidiva contestata - Rideterminazione in aumento della pena pecuniaria - Violazione del divieto di reformatio in peius - Sussistenza. Viola il divieto di “reformatio in peius” il giudice d’appello che, senza mutare la struttura del reato continuato, riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla recidiva contestata (con corrispondente eliminazione della relativa porzione di pena), pur mantenendo ferma la pena detentiva inflitta dal primo giudice, aumenti la pena pecuniaria finale, per effetto di una diversa commisurazione della frazione di pena riferita ai reati satelliti. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 14 novembre 2016 n. 48031. Reato - Estinzione (Cause di) - Prescrizione - Nozione di applicazione della recidiva - Bilanciamento tra circostanze aggravanti ed attenuanti - Rilevanza. Il giudizio di equivalenza tra recidiva e circostanze attenuanti generiche comporta l’applicazione della recidiva, rilevante ai fini del computo del termine di prescrizione, in quanto la circostanza aggravante deve ritenersi, oltre che riconosciuta, applicata, non solo quando esplica il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando produca, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti di cui all’art. 69 cod. pen. un altro degli effetti che le sono propri, cioè quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 21 gennaio 2016 n. 2731. Roma: carcere di Rebibbia, muore un detenuto ricoverato in infermeria di Damiano Aliprandi IL Dubbio, 9 gennaio 2018 È morto un anziano malato di 77 anni nel carcere romano di Rebibbia. È accaduto il 4 gennaio scorso. Il detenuto si chiamava Salvatore De Bartolo ed era ristretto nel reparto di infermeria G14, secondo piano, della casa circondariale di Rebibbia. Soffriva di ipertensione e aveva subito un intervento alla retina, infatti portava la benda. Le patologie che l’hanno portato alla morte ancora non si conoscono, ma si è appreso che non era sopravvissuto a una crisi respiratoria. Si riaccende così il problema dell’assistenza sanitaria in carcere, soprattutto per le persone che hanno patologie gravi e difficili da curare stando reclusi nei penitenziari. L’assistenza sanitaria è comunque garantita per legge. I detenuti hanno diritto al pari i dei cittadini in stato di libertà alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali ed uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali ed in quelli locali. L’affermazione di questo principio viene sancito dall’art. 32 della Costituzione in materia di diritto alla salute nella parte in cui la norma stabilì che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuò e che ‘ la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Accade che però, determinate patologie, soprattutto se in stato avanzato, non possono essere curate in carcere e quindi il magistrato di sorveglianza può predisporre la cura e il ricovero in strutture alternative al carcere. Questa possibilità è prevista dall’articolo 11 dell’Ordinamento Penitenziario che dispone: “Ove siano necessari cura o accertamenti diagnostici che non possono essere apprestati dai servizi sanitari degli istituti, i condannati e gli internati sono trasferiti, con provvedimento del magistrato di sorveglianza, in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura”. Non si tratterebbe, quindi, di una concessione eventuale e discrezionale, ma di un preciso diritto. Un diritto che viene però spesso negato dai magistrati e non sono pochi i casi di decessi in carcere per motivi di salute. Proprio nell’infermeria di Rebibbia dov’è morto l’anziano detenuto, c’è anche l’ex senatore Marcello Dell’Utri. Ha un anno in meno di chi è deceduto ed è altrettanto malato. La storia la conosciamo. Per il Tribunale di Sorveglianza rimane compatibile col carcere, nonostante sia cardiopatico e malato di tumore alla prostata da tempo. Quando il 7 dicembre del 2017 il tribunale rigettò l’istanza di incompatibilità, Dell’Utri aveva intrapreso uno sciopero della fame e della terapia dando un segnale anche per gli altri detenuti che non possono essere adeguatamente curati in carcere per le loro precarie condizioni fisiche. Milano: carcere di Opera, trasferito senza motivo al “41bis in miniatura” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 gennaio 2018 Giovanni Cimmarrusti, in cella per spaccio di stupefacenti, è recluso da un mese nel reparto “Terzo C”. In quella sezione ci sono detenuti con problemi di autolesionismo, ai quali vengono somministrati psicofarmaci. Da circa un mese è recluso in una sezione soprannominata dai detenuti stessi “41bis in miniatura”, è costretto a trascorrere la giornata in una cella chiusa e sedato senza che abbia nessuna patologia psichiatrica. Parliamo di Giovanni Cimmarrusti, poco più che 30enne e recluso per un reato di spaccio di stupefacenti e ricettazione, una pena che finirà di scontare tra un anno e mezzo. La sezione si trova nel reparto “Terzo C” del carcere milanese di Opera. Un reparto che non è di alta sorveglianza, eppure è ugualmente “speciale” e di notevoli restrizioni. Il suo legale, l’avvocata Simona Giannetti, membro del Consiglio Direttivo dell’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino, ha prontamente presentato sia alla direzione, che al tribunale di sorveglianza, un’istanza urgente di trasferimento. L’avvocata Giannetti, in qualità di difensore del ragazzo, chiede “l’urgente trasferimento dal reparto dove attualmente risulta assegnato presso questa Casa di Reclusione di Opera, segnatamente il reparto “Terzo C”, nel quale risulta esservi stato inserito da almeno un mese (la data precisa non è ricordata dal Signor Cimarrusti) in seguito a un trasferimento dal reparto “Quarto C”, dove si trovava almeno fino alla fine del mese di novembre circa e dove svolgeva attività lavorativa come scopino oltre che beneficiare della libertà di movimento (che gli concedeva la cella aperta dalle 16.30 alle 19.30)”. L’avvocata poi prosegue spiegando le ragioni della richiesta di trasferimento. “Attualmente il signor Cimarrusti - scrive la penalista - si trova in un reparto con notevoli restrizioni (apparentemente soprannominato “41bis in miniatura” probabilmente proprio in ragione delle restrizioni, come da lui indicato secondo il racconto effettuato nella mattina odierna a questo difensore durante il colloquio): in tale reparto il signor Cimarrusti lamenta di non avere il diritto all’ora d’aria, pertanto di essere costretto a trascorrere la giornata nella cella chiusa, con la sola possibilità di scegliere se entrare in una stanza ad uso di tutti detenuti per qualche tempo”. Il ritratto di questa stanza è impietoso. Secondo la descrizione fornita dal ragazzo, la stanza ad uso di tutti i detenuti pare essere di dimensioni modeste e non adatte a contenere le circa 50 persone che in essa si stipano per poter uscire dalla cella almeno per un breve periodo della giornata. Ma quale tipologia di detenuti ci sono in questo reparto che di fatto appare come una carcerazione dura? Ci sarebbero persone con problemi di autolesionismo per poterli contenere. Infatti vengono utilizzati anche gli psicofarmaci. Ma il ragazzo non ha avuto nessun problema di autolesionismo e mai avuto nessun richiamo disciplinare. Eppure lo hanno trasferito lì, e vive con la paura di subire aggressioni, tanto è vero che si ritrova costretto a non uscire dalla cella. A questo, come se non bastasse, si aggiunge la terapia senza che ne avesse la necessità. Lo scrive nero su bianco l’avvocata Giannetti nell’istanza di trasferimento: “Gli vengono somministrate gocce di Remeron (nella specie a suo dire, 30 al mattino, 30 al pomeriggio e 60 alla sera), che poi consiste in un farmaco a base di principio attivo mirtazapina, ovvero antidepressivo”. Un farmaco del quale tuttavia non se ne giustifica la necessità. “Del resto - scrive ancora l’avvocata, il signor Cimarrusti, fino all’ingresso in tale reparto, si trovava in altro reparto (il “Quarto C” appunto), nel quale non risulta aver avuto atteggiamenti tali da giustificare l’esigenza di assunzione di sostanze antidepressive: egli, al contrario aveva richiesto di avviare un percorso di riabilitazione dall’uso di sostanza stupefacente e di essere inserito al cd. “Reparto Vela” (richiesta rimasta disattesa, mai evasa, neppure con una visita dello psicologo, ma ferma al solo certificato di tossicodipendenza)”. Come mai, di punto in bianco, è stato trasferito in questo reparto che, forse, non dovrebbe essere nemmeno contemplato dal sistema penitenziario? Si ritrova privato della libertà di movimento senza poter beneficiare del diritto all’ora d’aria quotidiana e sottoposto a terapia, senza che ce ne siano delle motivazioni. Non è considerato socialmente pericoloso, ha comunque intrapreso l’attività lavorativa, beneficiava senza alcun problema il diritto di libertà di movimento con la cella aperta dalle 16.30 alle 19.30 e si avvia comunque alla conclusione della sua pena. Nonostante ciò è stato trasferito al “41bis in miniatura”, un reparto che potrebbe non essere legale visto le restrizioni che subirebbero i detenuti. Una detenzione che, per quanto riguarda il ragazzo, rischia di compromettergli il percorso riabilitativo previsto dall’ordinamento penitenziario. Sì, perché non solo non lo hanno inserito in un percorso di riabilitazione e potrebbe uscire tossico come è entrato (motivo della commissione dei reati) ma lo hanno messo in un reparto che non gli fa fare nulla, in cella 24 ore su 24, sedato e a rischio. Biella: i detenuti producono le divise per gli agenti di Polizia penitenziaria di tutta Italia di Gaetano Costa Italia Oggi, 9 gennaio 2018 Il carcere ha vinto la gara promossa del ministero della Giustizia. È un vero lavoro. Disegna, taglia, cuci, confeziona. I corsi di specializzazione, nonostante qualche ritardo dovuto a questioni burocratiche, sono già iniziati: entro il 2018, i detenuti di Biella realizzeranno le divise per gli agenti della polizia penitenziaria. La gara, promossa dal ministero della Giustizia, è stata vinta dalla città piemontese per la sua esperienza nel settore tessile. Quando il progetto sarà avviato, circa 70 reclusi del carcere locale confezioneranno il materiale per tutti i secondini d’Italia. A Biella verrà costruita una vera e propria fabbrica, dove i soggetti coinvolti lavoreranno senza mura, né sentinelle di guardia. L’edificio, che sorgerà all’interno della casa circondariale, verrà attrezzato coi macchinari più moderni per le opere di sartoria. L’assistenza e la formazione del personale, almeno all’inizio, verranno affidate alla casa di moda di Ermenegildo Zegna, uno dei marchi più noti del made in Italy. La lavorazione di giacche, camicie, pantaloni e gonne, che compongono le uniformi dei circa 30 mila agenti penitenziari italiani, sarebbe dovuta iniziare lo scorso anno. A causa di alcuni intoppi, però, è slittata al 2018. “Ci aspettavamo di poter cominciare già nel 2017”, ha confermato il garante comunale dei detenuti, Sonia Caronni, “ma non è stato ancora costruito il prefabbricato che dovrà ospitare la produzione”. “È in corso la gara europea per individuare i fornitori”, ha proseguito Caronni, “e ci sono lungaggini burocratiche. A questo punto speriamo di avere le strutture per aprile. I ritardi creano disagi e aspettative tradite nella popolazione carceraria che aspetta l’inizio di questo lavoro come una grande opportunità”. Il progetto del ministero, però, non prevede solo l’impiego dei detenuti: per la realizzazione dei completi per gli agenti verranno assunti anche un manager industriale e un esperto di produzioni, entrambi esterni al carcere. “Uno dei candidati scelti ha già rinunciato in attesa di poter iniziare il suo lavoro”, ha detto Caronni a Repubblica Torino. “Sono tempi tecnici”, ha sottolineato la direttrice del penitenziario, Antonella Giordano, anche lei in attesa dell’inizio della produzione, “un’occasione straordinaria che non abbiamo alcuna intenzione di lasciarci sfuggire”. L’investimento è pari a circa un milione e 700 mila euro. Alcuni locali sono già stati attrezzati con gli strumenti necessari, come le macchine da cucire. Prima di dare il via libera ai lavori, però, occorrono altri adeguamenti. I corsi di specializzazione per i detenuti coinvolti, invece, sono già stati avviati. “Non è un lavoro semplice”, ha proseguito Giordano. “Si tratta di imparare da zero un mestiere che richiede tecnica e precisione. Per questo progetto, non a caso, è stata scelta Biella. Qui c’è un know how importante nel settore tessile, ma soprattutto ci sono possibilità d’impiego nelle aziende della zona”. I detenuti, una volta scontata la pena, usciranno dal carcere con un’esperienza importante sul curriculum. E con le competenze di un vero lavoro. Santa Maria Capua Vetere (Ce): intervista a Carlotta Giaquinto, direttrice del carcere di Elisabetta Colangelo Il Denaro, 9 gennaio 2018 “Dal carcere una possibilità di riscatto per i detenuti”. Una struttura grande, imponente, attiva come casa circondariale dal 1996, ha avuto un ampliamento con l’apertura ad ottobre del 2013 di un nuovo padiglione detentivo per 370 detenuti. Blocchi di cemento grigi ed austeri danno immediatamente l’idea del luogo dove ci troviamo. Varchiamo, non senza una certa inquietudine, il cancello della Casa Circondariale “F. Uccella” di Santa Maria Capua Vetere. Luogo di storie, dolore, cadute e tentativi di riscatto. L’appuntamento è con la dottoressa Carlotta Giaquinto, direttore della struttura. Come è arrivata a ricoprire il ruolo di direttore del carcere di Santa Maria Capua Vetere? Sono entrata nell’amministrazione penitenziaria con un concorso, uno dei tanti che fa un neolaureato in giurisprudenza che si affaccia al mondo del lavoro. Quando l’ho vinto non avevo bene idea di cosa mi aspettasse. Il mio primo incarico è stato da vice direttore presso il carcere di Secondigliano, subito catapultata in una realtà importante, complessa, dove ho imparato molto e sono cresciuta, anche umanamente. In seguito sono stata nominata direttore presso il carcere di Arienzo, in provincia di Caserta, una struttura più piccola, dove ho imparato sul campo a seguire molti aspetti della vita carceraria. Infine l’approdo qui a S. Maria Capua Vetere. Che struttura è il carcere di S. Maria Capua Vetere? È una realtà complessa che ospita quasi 1.000 detenuti, tra comuni e di alta sicurezza, divisi in reparti maschili e femminili. All’interno del carcere si svolgono numerose attività sia di carattere ricreativo che formativo, sulle quali io punto molto. La scuola, per esempio, ma anche attività sportive o laboratori sartoriali, con lo scopo di coinvolgere i detenuti e al contempo dare loro l’opportunità di formarsi, di interagire con la società civile, di avere una finestra su un’alternativa possibile rispetto alla vita intrapresa. Cerco di valorizzare le competenze di ciascuno perché si sentano attivi, c’è chi è artigiano, chi estetista e, compatibilmente con la disponibilità di attività, si cerca di coinvolgerli. Questa è l’unica possibilità di adempiere alla funzione di rieducazione descritta nella Costituzione Italiana. Diversamente, il tempo trascorso nell’ozio non fa che peggiorare le cose e il detenuto, dopo aver scontato la pena, rischia concretamente di tornare a delinquere. Com’è la giornata tipo del direttore di un carcere come questo? Le giornate sono molto varie, è un lavoro non facile ma pieno di gratificazioni. Molte carte, molti adempimenti burocratici, ma anche momenti in cui mettere in campo la propria esperienza, sensibilità, umanità. In questo senso, contrariamente a quanto si possa pensare, il mio non è un lavoro “maschile”, ma essere donna ha, in qualche modo, un valore aggiunto. Di frequente il detenuto chiede colloqui col direttore. Pur essendoci figure intermedie di riferimento, ha comunque nel direttore il suo interlocutore privilegiato. Le richieste sono diverse e disparate, colloqui supplementari o magari la possibilità di telefonare una volta in più. In questi casi l’esperienza ha un ruolo importante. Il detenuto tende ad avere un atteggiamento manipolatorio, artatamente docile, remissivo nel perorare le sue richieste. Esse vanno opportunamente ponderate distinguendo le reali esigenze da quelle dettate da strategie o motivi di convenienza, il tutto cercando di mantenersi sempre equidistante, dando a tutti le medesime possibilità, compatibilmente con i limiti imposti dalla legge, naturalmente. Una maggiore presenza di operatori di tipo pedagogico, formati specificamente per questo, aiuterebbe molto il lavoro del direttore. Lei riesce sempre a mantenersi equidistante, anche quando ha di fronte detenuti che hanno commesso reati più efferati, o magari legati alla sfera sessuale? Io non giudico chi ho di fronte. Il processo che li ha condannati si è svolto altrove, qui ci occupiamo solo dell’esecuzione della pena. Non è sempre facile, ma si cerca di rimanere estranei alla storia personale del detenuto. Noi tendiamo a non entrare nei dettagli della storia, interrompiamo il contatto con il reato. Io cerco di guardare al detenuto come ad una persona che, al di là di ciò che ha commesso, si trova in una condizione particolare come la limitazione della sua libertà personale. Può apparire sorprendente, ma si riesce a scorgere in molti casi un’umanità anche in chi è reo di gravi reati, prevale il senso di umanità. È normale che se il soggetto anche durante la detenzione mantiene un certo tipo di atteggiamento, questi viene poi tenuto a distanza. Tra i detenuti invece esiste una sorta di codice per cui certi soggetti che hanno commesso reati particolarmente efferati o ad esempio legati alla pedofilia, vengono inseriti in percorsi protetti per evitare che corrano pericoli all’interno della struttura. Ha mai incontrato diffidenza o pregiudizio per il suo essere donna in un ambiente difficile come quello carcerario? Non ho mai incontrato particolare diffidenze nel mio ruolo. È una difficoltà subita più da altre categorie, ad esempio il personale medico soffre di una certa sub cultura che porta a chiedere medici maschi ad esempio. Il ruolo di direttore viene riconosciuto in quanto tale, senza soffermarsi sul genere. Soprattutto ad inizio carriera la maggiore diffidenza l’ho riscontrata da parte del personale di polizia penitenziaria: io donna e giovane ai loro occhi apparivo forse, e non del tutto a torto, inadeguata, inesperta di un contesto tanto complesso, ma nel tempo conta il lavoro, l’esperienza, la dedizione e ogni diffidenza si supera. Come è riuscita a conciliare la vita privata con quella lavorativa? Io ho tre figli. Di 23, 18 e 12 anni. Non è facile. Quando non ci sono particolari esigenze dell’ufficio, cerco di rientrare a casa non troppo tardi, di esserci, seguirle da vicino. Per tutti una vita di impegno, sacrificio, orari incastrati. E tante nottate a guardare i compiti. È un percorso che consiglierebbe ad una ragazza? Sì, con tutte le difficoltà del caso, è un lavoro vario, interessante, dove ci si mette alla prova ogni giorno e può dare importanti soddisfazioni. Richiede una dedizione quasi totale, molta attenzione, responsabilità, e soprattutto una grande passione. Aosta: il Garante Formento Dojot ai detenuti “per tutti c’è un futuro di vita libera” valledaostaglocal.it, 9 gennaio 2018 “Per tutti è il momento di bilanci, ma anche e soprattutto di orientare la visione al futuro”. Lo scrive Enrico Formento Dojot, Garante dei detenuti della Valle d’Aosta, ai carcerati ristretti nella Casa circondariale di Brissogne in una lettera di auguri per il 2018. “Sì, perché c’è un futuro, anche se le circostanze spesso lo oscurano - afferma Formento Dojot rivolgendosi ai detenuti - c’è per tutti un futuro di vita libera, di reinserimento, di serenità”. “Mi rendo conto che per chi è ristretto non sia sempre facile pensarlo, ipotizzarlo come un dato reale. Ma c’è, bisogna crederci, per se stessi e per le proprie famiglie, per i propri affetti e, consentitemi, anche per gli altri, per la collettività”. “Non si vive, infatti, solo per sé, ma anche per la comunità - prosegue il Garante - forse non ci si pensa, ma gli altri ci considerano, si aspettano frasi, comportamenti, consigli, riferimenti. Anzi, spesso gli altri credono in noi più di quanto ci crediamo noi stessi”. E conclude: “Non siamo soltanto esseri pensanti, ma persone che danno e ricevono emozioni, speranze, voglia di vivere”. Napoli: Raffaele Cantone (Anac) “la paranza dei bimbi esiste, serve prevenzione” Il Mattino, 9 gennaio 2018 Una presa di coscienza sulla drammatica degenerazione della violenza giovanile. Aggiunge Cantone: “Chi conosce la storia della camorra, sa che i giovanissimi sono stati sempre parte di questo fenomeno di prevaricazione. Anzi, proprio a Napoli c’è stata la prima condanna di un tribunale per i minori per 416-bis, l’associazione camorristica”. Fu una sentenza che fece scalpore e fa da precedente giurisprudenziale più volte richiamato. Una sentenza che risale ormai a una ventina di anni fa, firmata dal giudice Marina Ferrara. Commenta ancora Cantone: “Oltre le baby gang, ci sono adolescenti che fanno parte di gruppi di camorra, anche se Napoli città è sempre sfuggita ad una stabile catalogazione dei clan, perché si era di fronte a scenari di grande flessibilità. Purtroppo, chi conosce questa storia, non si meraviglia di ciò che accade, anche se stiamo assistendo a fatti gravissimi”. Sono i rimedi ad apparire inadeguati, le politiche a lunga scadenza necessarie a prevenire la proliferazione di giovani delinquenti. Un’analisi che è anche di Raffaele Cantone, che spiega: “Quello su cui c’è da interrogarsi mille volte è come mai, oltre le azioni repressive, non si riesca a fare qualcosa di più incisivo nella prevenzione sociale. Questi ragazzi si arrestano, si mettono in carcere e ne escono il più delle volte ancora più rabbiosi e delinquenti. È sul prima che si dovrebbe incidere, ma non ci riusciamo”. Un’amara constatazione, che chiama a raccolta la scuola, la famiglia, gli operatori sociali. Dice Cantone: “Oggi sono soprattutto alcuni preti a svolgere attività di prevenzione, con associazioni e iniziative. Poi il vuoto. C’è una logica di ragazzini che si riuniscono in bande, da gang metropolitane come quelle degli adolescenti sudamericani di molte altre grandi città. Basti vedere quello che accade in alcune zone di Milano, dove le bande sudamericane sono chiuse e si affrontano tra loro. Occorrono più anticorpi e a Napoli non riusciamo a trovarne”. Analisi condivise da molti, che avrebbero bisogno di un impegno diffuso non delegato solo alle forze dell’ordine e all’attività repressiva. “Per questo l’impegno da denuncia e resistenza dell’assurdità subita dal figlio, che sta portando avanti la mamma di Arturo, è un esempio da seguire” conclude Raffaele Cantone. Un impegno e un cammino, come tutti quelli di chi che cerca di non rassegnarsi alla violenza e alla prevaricazione, che si attira continue resistenze in molti ambienti. Anche dal presidente dell’Anticorruzione un invito a non rassegnarsi e a fare qualcosa per non abituarsi al degrado e alla cultura della violenza senza valori, diffusa tra molti adolescenti. Perché, sostiene ancora Cantone, “purtroppo il fenomeno delle cosiddette paranze dei bambini non è un’invenzione giornalistica, ma una realtà”. L’Aquila: sentenza del Tar “il carcere costruito su un terreno occupato abusivamente” ilcapoluogo.it, 9 gennaio 2018 A rischio il carcere “Le Costarelle” di Preturo. Uno scenario incredibile, quello paventato dal presidente dell’Asbuc di Preturo e consigliere comunale del Partito Democratico Antonio Nardantonio, che in una nota ripercorre “una storia giudiziaria che parte dal 1988”. “Un terreno occupato abusivamente dal 1 luglio 1982. Parliamo di quello di 4 ettari dove si trova il carcere le Costarelle di Preturo. A dirlo è una sentenza del 2014 che ha accertato la natura demaniale civica universale dei terreni. Ora, a breve, il Tar dopo il ricorso dell’Amministrazione beni separati di Preturo, dovrà fissare la data dell’udienza e, se si arriverà a sentenza, nello scenario peggiore potrebbe accadere che venga imposto in quell’area il ripristino della situazione iniziale, quindi addio carcere. “Nel 2014 la Corte d’Appello di Roma sezione speciale usi civici accertò però la natura dei terreni annullando di fatto tutto ciò che era stato realizzato fino ad allora, espropri compresi. La sentenza condannò l’Agenzia del Demanio Abruzzo e Molise al rilascio dei fondi interessati da uso civico e cioè i 4 ettari di terreno rimandando per l’esecuzione alla Regione Abruzzo che intraprese tutti i passaggi necessari con una determina del marzo 2015 per reintegrare i terreni”. “L’Amministrazione separata, successivamente, fece reintegra e voltura - prosegue Nardantonio. L’Agenzia del demanio, che era stata condannata al rilascio dei fondi, nulla fece. Qui si inserisce il ricorso al Tar dei beni separati per ottemperanza. Il Tar ora si dovrà pronunciare sul rilascio dei suoli ma è ovvio che, così come accadde per l’aeroporto di Preturo, è intenzione dell’Asbuc trovare un accordo anche a tutela del carcere e dei suoi lavoratori”. “L’amministrazione separata, in realtà, ha già fatto al Demanio una proposta per risolvere il contenzioso e andare avanti con i successivi adempimenti come alienazione e cambio di destinazione d’uso, cosa mai fatta peraltro su terreni agricoli sui quali dunque neanche si sarebbe potuto costruire”. “Una proposta economica ben articolata ma al minimo, fatta proprio allo scopo di chiudere la questione al meglio e non arrivare per niente alla sentenza. Questo avviene nell’aprile del 2017. A giugno il Demanio chiede ulteriori chiarimenti e l’amministrazione separata li invia immediatamente. Da allora il nulla. Sette mesi di silenzio e l’udienza che dovrà essere fissata”. “Gli scenari, se non dovesse trovarsi un accordo, diventerebbero molto complicati. Una questione che dovrebbe vedere in prima linea Regione e Comune, a sollecitare soprattutto il Demanio affinché il ruolo del penitenziario e la sua popolazione lavorativa non venga messa in discussione”. Andria (Ba): l’extravergine di oliva “Senza sbarre” sulla tavola di Papa Francesco andriaviva.it, 9 gennaio 2018 Mercoledì in udienza sarà donato a Bergoglio il frutto della prima annata di lavoro. L’olio extravergine di oliva di Andria sulla tavola di Papa Francesco. Una bottiglia dell’oro verde della nostra terra sarà donata al Santo Padre da una delegazione formata dagli infaticabili don Riccardo Agresti il parroco della parrocchia di S. Maria Addolorata alle Croci, don Vincenzo Giannelli e dai ragazzi del progetto “Senza Sbarre” che mercoledì prossimo in udienza in Vaticano omaggeranno Bergoglio del frutto del loro lavoro. Si tratta del prodotto della prima annata delle olive raccolte nei terreni della Masseria San Vittore coltivati nel progetto che mira al reinserimento degli ex detenuti ma anche ad un carcere alternativo per chi deve contare la restante parte della pena. Si tratta di un ritorno a Roma per don Riccardo & Co., infatti già nella scorsa estate in occasione della presentazione della Partita della Solidarietà i due preti di frontiera erano stati in Piazza San Pietro per incontrare Francesco e presentargli non solo il match solidale anche la finalità dell’iniziativa, ovvero il progetto “Senza sbarre”. Già in quella occasione Papa Francesco incoraggiò la delegazione andriese ad andare avanti per raggiungere l’obiettivo: riportare in vita una storica masseria ai piedi di Castel del Monte per farla diventare il quartier generale di “Senza Sbarre”. A Sua Santità chiesero il sostegno per il progetto così da portare avanti il sogno “di inserimento dei nostri fratelli detenuti che oggi vivono la sofferenza di essere emarginati”, ricorda don Riccardo. Treviso: 10 ragazzi di varie realtà salesiane in visita all’Istituto penitenziario minorile di Anna Mantesso donboscoland.it, 9 gennaio 2018 Il 30 dicembre un gruppo di 10 ragazzi di varie realtà salesiane si è recato nell’Istituto Penitenziario Minorile di Treviso per un incontro con i ragazzi detenuti sul tema del sogno. L’Istituto Penitenziario Minorile di Treviso, il carcere di Santa Bona, accoglie 14 ragazzi, dai 14 ai 18 anni, sia detenuti che sono ancora in attesa di giudizio, sia chi è stato condannato in via definitiva. In questo istituto è attiva una associazione di volontariato, La Prima Pietra, fondata da un gruppo di volontari nel 2004 ed ispirata all’insegnamento evangelico “Ero in carcere e siete venuti a farmi visita”, che, tra le varie attività, si occupa di coordinare gli interventi e i pomeriggi di animazione che vengono fatti dai gruppi esterni ai ragazzi del carcere, cosicché non restino semplici parentesi ma siano guidati da un filo conduttore comune. I giorni di vacanza sono sempre difficili da riempire per i giovani detenuti e così, venuti a conoscenza della possibilità, l’Animazione Missionaria MGS ha accettato di organizzare un incontro. Nel nostro caso, il 30 dicembre con un gruppo di 10 ragazzi provenienti da diversi oratori salesiani abbiamo passato lì la giornata, e il tema che abbiamo scelto di proporre è stato il sogno. Sia noi che loro dovevamo trovare una canzone che rappresentasse per noi il sogno, e presentarla insieme, motivandone la scelta. Interessanti sono state le diverse presentazioni: una canzone molto sognatrice la nostra, che con dolcezza e ottimismo parla di speranza, ideali, diritti. Una canzone dura e aspra la loro, che li ha stranamente visti uniti nella scelta, nel definire il sogno come espressione di non mollare, di non arrendersi, di resistere, e forse quindi di esistere ancora. Sono poche le ore che abbiamo passato insieme pranzando e giocando tra calcetti e ping pong, nemmeno una giornata intera, ma hanno lasciato un ricordo profondo, e delle sensazioni intense e forse complesse da descrivere. Da un lato, rimane una tristezza di fondo nel ripensare ai volti di questi ragazzi, che, inaspettatamente, si sono impressi nei ricordi con un tratto profondo, dall’altro però c’è la speranza, o il sogno, che possa essere stato un tempo felice, che nelle ore trascorse insieme si siano sentiti meno soli, ragazzi che passano del tempo con altri ragazzi, con semplicità. Non sono altro che giovani come i tanti che vediamo nei nostri Oratori, ognuno diverso dall’altro, con le loro storie, e in mezzo a loro per un pò si dimentica dove ci si trova, sono solo ragazzi in un pomeriggio di animazione. Lo stereotipo fa facilmente capolino, sarebbe facile dire che è colpa loro, che dopotutto se la sono cercata, ma chi saremmo noi se non avessimo incontrato alcune persone nel nostro cammino, se non avessimo avuto le possibilità che abbiamo avuto, se non avessimo vissuto l’esperienza di sentirci amati? Ognuno di loro ha la sua storia, e non è mio il compito di giudicare, di difendere o di accusare. Credo che sia invece mio il compito di vedere in lui un ragazzo, un giovane di quelli che don Bosco ha accolto e amato, che mi guarda con uno sguardo profondo che ancora di più ci spinge ad amare incondizionatamente e a non dimenticare quei volti. È stata una esperienza preziosa, che ci ha messo in relazione con una realtà a noi molto distante, e il sogno con cui usciamo dal carcere, è che questi ragazzi possano guardare oltre la siepe, possano credere di poter sognare cose grandi, non solo cose facili, possano andare oltre alla partita del sabato in carcere, ma guardare al loro futuro, consapevoli di meritarne uno, di essere degni dell’orizzonte che più li affascina. Sondrio: Coro Cai, un trionfo dietro le sbarre. Voci possenti per emozioni forti La Provincia di Sondrio, 9 gennaio 2018 Concerto e pasta-party. La formazione ha dato uno splendido saggio della propria bravura in una serata. pensata per i detenuti Ancora una volta musica e solidarietà sono state protagoniste di un’iniziativa a favore dei detenuti della casa circondariale di Sondrio: se, infatti, pochi giorni prima di Natale erano stati i ragazzi del coro dell’istituto Piazzi-Perpenti a tenere un concerto nella palestra della struttura del capoluogo e poi a distribuire ai detenuti stessi i regali acquistati anche grazie alla generosità della cittadinanza e destinati ai loro figli, venerdì sera a esibirsi all’interno del carcere è stato il Coro Cai, diretto dal maestro Michele Franzina e il cui presidente, dal 2010, è Aurelio Benetti. Per il coro si è trattato di un ritorno in carcere, dopo l’unica altra esibizione dietro le sbarre del 1994. Le possenti voci del maestro Franzina hanno eseguito diversi brani del loro repertorio meritandosi gli applausi convinti della platea dei detenuti, di alcuni cittadini che hanno scelto di assistere al concerto e della direttrice della Casa circondariale del capoluogo Stefania Mussio che ha rimarcato l’importanza di iniziative di questo tipo per tenere sempre “collegato” il carcere alla vita cittadina e ha ringraziato lo stesso Coro Cai per la generosità e la disponibilità mostrata nell’essere protagonista della serata con la propria opera di “volontariato culturale”. Una serata che non si è limitata all’esibizione musicale, ma è poi proseguita con una cena, sempre all’interno del carcere, preparata dagli stessi detenuti: anche questa del momento conviviale sta diventando una piacevole e apprezzata tradizione degli eventi organizzati dalla direttrice Stefania Mussio e dai suoi collaboratori. Venerdì la portata principale della cena è stata la pasta senza glutine del Pastificio 1908 prodotta dai detenuti e che da quasi un anno è in vendita in vari negozi della provincia. Detenuti, personale e “ospiti” della casa circondariale hanno poi avuto modo anche di gustare il vino offerto dalle cantine Nera e i panettoni donati nell’occasione da don Ferruccio Citterio e anche dal dottor Francesco Venosta. Nel suo complesso la serata - i generosi amici del coro Cai hanno intrattenuto gli ospiti anche nel dopo cena con altre canzoni - ha pienamente centrato l’obiettivo e anche nei prossimi mesi verranno proposte altre iniziative che possano non soltanto rendere più “leggera” la permanenza dei detenuti all’interno del carcere, ma anche far conoscere sempre di più alla città la realtà della casa circondariale. Affrontare il rancore sociale studiando bene la realtà del lavoro di Dario Di Vico Corriere della Sera, 9 gennaio 2018 Si eviti di promettere l’ennesimo milione di posti, ma si prenda atto delle trasformazioni del mercato del lavoro. Se dovessimo operare una sintesi di questo primo scorcio di campagna elettorale verrebbe da dire che gli spin doctor, gli uomini delle strategie elettorali dei partiti, si sono fatti l’idea che il rancore sociale si possa e si debba curare quasi esclusivamente con la spesa pubblica. Lo Stato per rimettersi in connessione con i segmenti più svantaggiati della società non avrebbe altra strada che comprare consenso nel modo più tradizionale che la politica conosca. Indebitandosi. Come del resto ha già fatto negli anni 70 adottando il sistema retributivo nel calcolo delle pensioni e gonfiando l’occupazione nelle aziende pubbliche. Ma, ricordato che questa volta le istituzioni comunitarie e i mercati finanziari non ce lo permetterebbero, siamo proprio sicuri che non esistano altre strade per disinnescare il rancore? Forse peccherò di scarsa originalità ma credo che se si vuole ricostruire un legame non illusorio tra Paese legale e Paese reale non si possa che mettere al centro, anche della contesa elettorale, il lavoro. Passa qui lo spartiacque tra esclusione e inclusione, tra partecipazione attiva ai destini di una comunità ed emarginazione. La bassa occupazione è un nodo che la politica non può pensare di eludere in eterno o di bypassare proponendo di retribuire il non-lavoro. Per onestà intellettuale va detto che qualcosa in queste ore sta maturando. Nelle anticipazioni del programma del centro-destra fa capolino una sorta di raddoppio del jobs act con esenzioni fiscali/contributive per sei anni per le imprese che assumono a tempo indeterminato. Ieri Matteo Renzi ha messo sul tappeto una proposta di introduzione del salario minimo anticipando persino l’ipotetico prezzo (tra i 9 e i 10 euro l’ora). Prime sortite che in tutta evidenza risentono del clima iperbolico in cui sta avvolgendosi la competizione politica di questi giorni visto che un’esenzione come quella immaginata dalla coalizione guidata da Silvio Berlusconi sarebbe non generosa ma generosissima e il salario minimo individuato dal segretario del Pd sarebbe così alto da correre il rischio di rimanere totalmente inapplicato. Ma in questa fase più che usare la matita rossa e blu è preferibile apprezzare come il lavoro ritorni quantomeno visibile nell’elaborazione e nella comunicazione dei partiti. Il tempo per entrare più nel vivo non manca. Alle forze politiche che prendono quest’impegno con maggiore serietà va chiesta però, come conseguenza logica di quanto detto prima, una maggiore aderenza ai problemi e ai meccanismi reali del mercato del lavoro. Materia che spesso si tende a semplificare e che invece presenta cento facce e altrettante contraddizioni. Solo per dirne una (macroscopica): siamo il Paese che guida la graduatoria europea dei Neet, i giovani che non studiano e non lavorano, eppure in vari distretti del Nord non si trovano le figure professionali necessarie alle imprese. La Camera di Commercio di Reggio Emilia nei giorni scorsi ha addirittura reso noto che in provincia il 29,8% delle aziende cerca personale ma non lo trova. Si eviti, dunque, di promettere l’ennesimo milione di posti e i partiti piuttosto dimostrino di conoscere le grandi trasformazioni che scuotono il lavoro: l’avvento delle tecnologie 4.0, i salari medi delle tute blu, il terziario low cost che stronca la mobilità sociale, i rider che portano il cibo a casa e i facchini della logistica, i ragazzi che hanno preso alla lettera Garanzia Giovani ma sono rimasti delusi. Dimostrando di conoscere questa umanità, di frequentare la società che si vuole rappresentare in Parlamento, la politica può anche pensare di affrontare il rancore senza tentare di comprarlo. Migranti. Un’ecatombe il primo naufragio dell’anno nel Mediterraneo: 64 e non 8 i morti di Fabio Albanese La Stampa, 9 gennaio 2018 La vita e la morte si sono scontrate per ore, il giorno dell’Epifania, nel naufragio di un gommone di migranti al largo della Libia. Una battaglia da cui solo 86 delle 150 persone che erano a bordo sono uscite vive; ora che sono al sicuro, raccontano storie di disperazione che si contrappongono a storie di felicità ritrovata. Sono i testimoni di una strage che, secondo le ultime stime, ha fatto 64 vittime; ben più, dunque, delle otto di cui i soccorritori della Guardia costiera e della Marina militare italiane sabato scorso hanno potuto recuperare i corpi in mare, 40 miglia al largo della Libia. Stamattina, durante le operazioni di sbarco da nave Diciotti al porto di Catania, i loro occhi erano spenti, lo sguardo verso il vuoto. Non c’era la gioia vista in altri sbarchi più fortunati, perché chi è scampato a questa strage, la prima del nuovo anno nel Mediterraneo centrale, può davvero considerarsi nato una seconda volta. Un ulteriore ritardo nei soccorsi avrebbe potuto essere fatale pure per loro, come lo è stato per quei 64, spesso loro stessi familiari: “Di una famiglia della Costa d’Avorio formata da 11 persone, 3 adulti e 8 minori, sono rimasti solo in 3 - racconta il responsabile delle operazioni a terra di Medici senza frontiere, Teo Di Piazza -. C’è un bambino di 3 anni che ha perso la madre, un cuginetto di 10, e uno zio di appena 17 anni. Gli altri sono tutti morti, annegati”. “In questa traversata c’erano interi nuclei familiari - dice la portavoce dell’Unhcr, Carlotta Sami - molti hanno perso parenti e chi è sopravvissuto, e tra loro ci sono trenta minori non accompagnati, è sotto choc”. La Squadra mobile della questura di Catania sta ricostruendo le fasi del naufragio per cercare di capire cosa sia accaduto. Anche agli psicologi di Medici senza Frontiere, alcuni dei naufraghi hanno raccontato di essere partiti da una spiaggia di Garabulli, a est di Tripoli, nella notte tra venerdì e sabato scorsi. Gente di tante, diverse nazionalità dell’Africa subsahariana: Mali e Gambia soprattutto, ma anche Costa d’Avorio, Sierra Leone, Camerun, Senegal, Nigeria. “Con 150 persone a bordo, il gommone era sovraffollato - dice il portavoce dell’Oim, l’agenzia Onu per le migrazioni, Flavio Di Giacomo - e dopo 8-9 ore di navigazione ha cominciato a imbarcare acqua e a sgonfiarsi; si è diffuso il panico, la gente si è spostata e molti sono caduti in mare”. Sul gommone ormai sgonfio sono rimasti in pochi, gli altri tutti in acqua, uomini, donne, bambini. Chi ha resistito all’arrivo dopo un paio d’ore dei soccorsi, aggrappandosi a una corda o anche a un cadavere, si è salvato, gli altri sono affogati: 64, se il numero degli occupanti del gommone era davvero di 150. Otto corpi, 6 donne e 2 uomini, sono stati recuperati. Gli altri 56 risultano ufficialmente dispersi ma nessuno si fa illusioni sulla loro sorte: tra loro, 15 donne e 6 bambini. In mezzo a tanta disperazione, e all’angosciosa ricerca di un appiglio vitale per non morire anche dentro, la storia di una bambina di 5 anni della Costa d’Avorio sembra un miracolo. La racconta Teo Di Piazza di Msf: “Su quel gommone la bambina viaggiava con la madre. Quando sono finiti in acqua lei l’ha vista sparire tra le onde e l’ha creduta morta. Poi sono arrivati gli uomini della Guardia costiera che hanno preso in tempo la bambina e l’hanno portata sulla nave Diciotti. Solo lì, la piccola ha ritrovato la mamma. Non era morta, era stata ripescata in gravi condizioni e rianimata dal team medico”. Si sono abbracciate, stamattina sono state viste scendere dalla nave una accanto all’altra, due sorrisi in mezzo a tanta disperazione. Ieri, durante le operazioni di salvataggio di altri 270 migranti su due imbarcazioni, la Guardia costiera libica (che aveva prima fornito un numero di 290) aveva recuperato anche i cadaveri di due donne che erano su uno dei due gommoni, ormai semi affondato: risultano disperse altre 10 persone. Tra le 270 persone salvate, hanno detto le autorità libiche, ci sono 56 bambini e 53 donne. Stamattina la Guardia Costiera libica ha soccorso un’altra imbarcazione con 135 persone a bordo. Sempre ieri un mercantile aveva preso a bordo 27 migranti che erano su una piccola barca in legno, alla deriva nei pressi di una piattaforma petrolifera al largo di Tripoli. I migranti, tra cui due donne, sono di sei differenti nazionalità subsahariane e nel tardo pomeriggio sono stati trasferiti sulla nave Aquarius della ong Sos Mediterranee che ha a bordo un team sanitario di Medici senza Frontiere. Sbarcheranno domani nel porto di Pozzallo. Stati Uniti. Trump revoca permesso di soggiorno a 200mila salvadoregni di Marina Catucci Il Manifesto, 9 gennaio 2018 La Casa bianca toglie protezione ai migranti arrivati nel 2001 dopo una serie di devastanti terremoti. A fine 2017 aveva fatto lo stesso con 2.500 nicaraguensi e 60mila haitiani. L’amministrazione Trump ha revocato i permessi di soggiorno temporanei a circa 200mila salvadoregni che vivono negli Stati uniti dal 2001, a causa di una serie di terremoti molto distruttivi, aprendo così una strada che porta alla loro espulsione. Ad inizio novembre Trump aveva tolto le protezioni a 2.500 nicaraguensi, che vivevano negli Usa da decenni; a fine novembre le protezioni sono state tolte a 60mila haitiani. Ora un documento del Dipartimento della Sicurezza nazionale inviato ai deputati - e a cui si rifà il Washington Post che per primo ha pubblicato la notizia - ha comunicato ai salvadoregni di avere fino al 9 settembre 2019 per lasciare gli Stati uniti o per trovare nuovi documenti legali per poter restare. Il capo del Dipartimento per la Sicurezza interna, Kirstjen Nielsen, ha spiegato che dal 2001 le condizioni di vivibilità a El Salvador, sono molto migliorate, per cui ora verrebbe meno la ragione per cui queste persone si trovano negli Stati uniti, anche se dopo tutti questi anni fanno ormai parte della società americana. A esprimersi sulla questione dovrà essere il Congresso, che ha i poteri per dare una “soluzione permanente” allo status di immigrati dei salvadoregni che “hanno vissuto e lavorato negli Usa per molti anni - ha spiegato Nielsen - I 18 mesi dati dall’amministrazione Trump permetteranno ai deputati di trovare una potenziale soluzione legislativa”. Tunisia. Proteste nelle città contro il carovita: un morto negli scontri La Repubblica, 9 gennaio 2018 L’aumento dei prezzi e delle tasse su alcuni beni come il carburante, le auto, i cellulari e il web ha portato in diverse piazze centinaia di giovani. A Tebourba ci sono stati una vittima e cinque feriti dopo l’intervento della polizia per disperdere i manifestanti. La Tunisia torna in piazza a sei anni dai moti della Primavera araba, ma stavolta la protesta, che vede ancora i giovani in prima linea, nasce contro il carovita. Sull’onda di quanto avvenuto in Iran, in una decina di città centinaia di persone sono scese in strada per protestare contro l’aumento dei prezzi e della tasse. Disordini e scontri tra gruppi di giovani manifestanti e le forze dell’ordine si sono registrati a Cité Zouhour, nel governatorato tunisino di Kasserine. I media locali precisano che la polizia ha dovuto far ricorso all’uso di gas lacrimogeni per disperdere la folla. Qui la protesta ha a che fare anche con la marginalizzazione della regione. Una marcia popolare per gli stessi motivi ha avuto luogo a Sidi Bouzid senza registrare incidenti. La situazione peggiore si è registrata a Tebourba, a circa 40 chilometri dalla capitale, dove la violenza dello scontro tra manifestanti e polizia ha provocato un morto e cinque feriti. Il ministero dell’Interno tunisino ha smentito in un comunicato la notizia circolante sui media locali che il manifestante 40enne deceduto nella serata a Tebourba sarebbe stato colpito da un’auto delle forze dell’ordine durante gli scontri tra manifestanti e polizia, precisando invece che lo stesso è arrivato al pronto soccorso dell’ospedale di Tebourba senza presentare segni di violenze. Lo staff medico ha dichiarato che lo stesso è giunto al pronto soccorso in stato critico eha assicurato essere malato di asma. Una volta trasferito all’ospedale Rabta della capitale per ricevere ulteriori cure, il 40enne è poi deceduto. Il ministero ha reso noto che è stata aperta un’indagine per determinare le cause del decesso. La polizia è intervenuta anche a Tunisi dove però solo poche decine di manifestanti sono scesi in piazza. Le voci di protesta avevano iniziato a farsi sentire nei giorni scorsi dopo che il 1° gennaio sono entrati in vigore gli aumenti dei prezzi dei carburanti, ma anche delle tasse sulle auto, sui cellulari, sul web, sugli alberghi ed altri beni diffusi. Tutte queste misure fanno parte del piano di austerity approvato dal governo per tentare di superare la crisi economica iniziata nel 2011 e aggravata pesantemente dagli attentati compiuti da miliziani jihadisti nel 2015 contro alberghi frequentati da europei. La conseguenza è stato un crollo del turismo, che rappresenta una voce importantissima nel Pil nazionale. Ieri sera le manifestazioni erano degenerate a Thala, città che proprio in quetsi giorni commemora i suoi martiri nel sollevamento popolare che il 14 gennaio del 2011 costrinse alla fuga il presidente Ben Ali. Dopo la proiezione di un documentario sugli eventi di quei giorni si sono verificati gli scontri tra giovani e forze dell’ordine costrette ad usare i gas lacrimogeni dopo un lancio di pietre e il blocco della via principale della città con massi e pietre e pneumatici bruciati. Perù. 300mila rosari realizzati dai detenuti per la visita del Papa La Stampa, 9 gennaio 2018 L’iniziativa dell’Istituto nazionale penitenziario, in coordinamento con l’Arcidiocesi di Lima, ha coinvolto 650 carcerati e coprirà le spese per il viaggio del Pontefice. Circa 300mila rosari confezionati in tre mesi per dare il benvenuto a Papa Francesco in Perù. È l’iniziativa dell’Istituto nazionale penitenziario, in coordinamento con l’Arcidiocesi di Lima, che ha coinvolto 650 detenuti di dodici prigioni peruviane in vista dell’arrivo del Pontefice in programma il prossimo 18 gennaio. La vendita delle coroncine - riferisce l’agenzia Fides - contribuirà a coprire le spese organizzative che la Chiesa di Lima dovrà sostenere per la visita del Papa, oltre a permettere ai detenuti di sentirsi parte di questo grande clima di gioia e di speranza. Padre Luis Gaspar Uribe, direttore esecutivo della visita del Papa a Lima, parlando con le detenute del carcere “Virgen de Fatima”, ha detto loro: “Non dovete vergognarvi. Dio non si vergogna di voi. Il Perù vedrà cosa siete in grado di fare con le vostre mani”. “Con la vendita di questi rosari”, ha spiegato il sacerdote, “contribuiremo a coprire le spese dei giovani che saranno impegnati come servizio d’ordine del Papa, inoltre, i benefici ottenuti saranno condivisi con i detenuti che hanno fatto parte di questo programma definito “prigioni produttive”.