Tra le briciole di speranza per il 2018 c’è la nuova legge penitenziaria Il Mattino di Padova, 8 gennaio 2018 Le persone nel mondo “libero” pensano all’anno che verrà sempre con una idea di speranza, di attesa, di grandi aspettative, di cambiamenti, le persone detenute invece, soprattutto quelle con pene lunghe, sanno già che cosa le aspetterà, e di speranza ne hanno briciole. Ma il 2018 dovrebbe portare una nuova legge penitenziaria, di cui si sa ancora poco, e così nelle carceri si stanno esercitando a sognare che quella legge gli porti più affetti, più lavoro, o magari almeno piccole cose come una lampada per leggere la notte senza disturbare il compagno di cella. Che quest’anno porti spazi per la famiglia Cosa vorrei trovare nel paniere delle novità quest’anno? Per una persona detenuta da tanti anni come lo sono io, vorrei trovare un miglioramento delle condizioni di vita e una semplificazione delle opportunità, per potermi reinserire nella società partendo dalla mia famiglia. In carcere le opportunità per realizzare un percorso risocializzante non esistono per tutti. Ognuno si deve industriare individualmente, elaborando con le proprie risorse gli strumenti che gli permettano di confrontarsi con l’istituzione carcere per inserirsi nelle attività proposte dal volontariato o da qualche rara cooperativa che opera all’interno delle carceri. In questi giorni si parla della riforma dell’esecuzione penale. Da quello che è trapelato dai mezzi d’informazione, è emerso che di sicuro sono rimasti al palo i capitoli della riforma sugli affetti e del lavoro. La motivazione è che non ci sono i denari da destinare alla messa in opera delle strutture all’interno delle carceri, dove fare incontrare le persone condannate con le proprie famiglie, madri, padri, mogli e figli. Eppure sarebbe importante tener sempre presente che il reinserimento nella società delle persone condannate passa principalmente attraverso il rapporto con la famiglia, il confronto con la società civile e il lavoro. Per tutte le persone che stanno in carcere queste sono le ancore di salvezza per non sprofondare nella depressione. Bisogna sapere che sono tante le persone detenute che hanno meno strumenti, rispetto ad altre, per riuscire a inserirsi nei gangli di questo mondo assurdo che è il carcere, dove per taluni si aprono porte su percorsi illuminati e per altri ci sono solo muri invalicabili. I denari che la società investe per costruire nelle carceri luoghi di relazione con le famiglie e di confronto con la società civile sono denari investiti nel recupero delle persone, sono denari investiti nella prevenzione, è in questa maniera che si produce sicurezza senza sacrificare all’altare della paura le libertà sociali. La maggior parte di queste persone è a rischio suicidio, perché in una maniera o nell’altra il carcere senza senso, come ancora è oggi, non è la medicina, ma è la vera malattia. Quante sono le persone che in carcere sviluppano problemi di salute mentale? Sono tantissime! Lo dimostra il fatto che nei decreti attuativi della riforma penitenziaria, mentre non si sono trovati i denari per realizzare qualche locale per gli incontri affettivi con le famiglie, si sono trovate, pare, le risorse per creare reparti di Psichiatria nelle carceri per sistemarvi coloro che, durante la detenzione, hanno sviluppato problemi di salute mentale. Io credo però che sia meglio prevenire il disagio psichico e i suicidi, piuttosto di investire per custodirli in reparti per matti. Questo è ciò che non vorrei trovare in questo nuovo anno, mentre vorrei vedere spazi e tempi migliori per i nostri affetti. Bruno Turci Un abatjour per leggere e sconfiggere l’assurdo Per il 2018 vorrei almeno avere un’abatjour per leggere la notte Ho trascorso molti anni in cattività e dicevo sempre: “Speriamo che l’anno nuovo sia quello giusto per un miglioramento delle condizioni di vita”. Di anni ne sono trascorsi più di venti, in questi luoghi di cemento e ferro, di miglioramenti non ne ho visti molti, anzi, a pensarci bene ci sono spesso stati peggioramenti, motivati con la solita classica frase: “Motivi di sicurezza”. È una strana frase da sentirsi dire, visto che per oltre venti anni ho sempre calpestato il cemento delle patrie galere. Quotidianamente ho calpestato quel solito tratto che ci è concesso di percorrere, dalla cella a quel breve corridoio per recarsi al passeggio per fare quelle minime ore d’aria. Ogni giorno, lo stesso percorso, i soliti cancelli di ferro da attraversare, gli stessi passi, le stesse parole e ogni giorno i soliti volti. Sembra una cosa assurda ma è la realtà che vivo ogni ora, ogni giorno, ogni mese e da diversi anni. Ho superato la soglia dei cinquant’anni e quotidianamente vivo la noia della pena perpetua, e mi sembra una cosa assurda che, da uomo adulto, io non possa andare a calpestare l’erba durante il giorno. Mi sembra una cosa assurda che all’interno di un carcere un uomo non possa muoversi dal settore in cui è ubicato durante il giorno. Ti senti sempre rispondere: “Lei non è autorizzato”. Sembra che avere la libertà di muoversi all’interno di un carcere sia un beneficio, invece dovrebbe essere una normalità. Dovrebbe essere una normalità calpestare e accarezzare l’erba tutti i giorni, invece qui è una normalità guardare l’erba attraverso le sbarre della finestra. In passato, speravo sempre che con l’arrivo del nuovo anno migliorasse la qualità della vita quotidiana all’interno di un carcere, ma non è mai stato così. Capisco che una persona condannata sia privata della libertà personale, però con questo sistema non c’è più la persona, ma solamente il numero di matricola. Se questo sistema di trattamento è davvero quanto richiamato dall’articolo 27 della nostra Costituzione (ma io non lo credo affatto), chiedo almeno che nell’anno nuovo qualcuno delle istituzioni possa metterci una piccola lampadina in cella per leggere tranquillamente un libro nelle ore serali o nelle prime ore del mattino, senza accendere la lampada della cella, in modo che io finalmente possa non dare fastidio al mio compagno di cella. Angelo Meneghetti, ergastolano Considerateci uomini non numeri di matricola Spero che l’anno che verrà ci porti più affetto e più relazioni. Nel nuovo anno, le cose dovrebbero cambiare dentro gli istituti di pena, per permetterci di scontare la condanna con più umanità e di essere valorizzati come persone e non considerati come un numero di matricola. Chiedere un cambiamento profondo non è utopia, è solo vedere le cose da un’altra prospettiva, quella della Costituzione: essere trasferito nella regione d’origine, sentire più spesso la mia famiglia almeno in un colloquio telefonico sono piccole cose che permetterebbero di rispettare proprio l’idea della rieducazione e di alleviare quella carcerazione, che sopporto da più di vent’anni perché riconosco il male di cui mi sono reso responsabile. L’anno che vorrei sarebbe questo, rimettermi in gioco sentendomi responsabile del mio percorso di reinserimento. Chi sbaglia paga il suo prezzo ed è giusto che paghiamo il debito dovuto, ma la pena dovrebbe sempre tendere ad accompagnarci all’uscita graduale dalle quattro mura di una prigione. Scontare il reato non dovrebbe significare diventare dei disadattati, rimanere esclusi dalla vita vera, essere ridotti alla miseria di trasferimenti senza senso, ma motivati con la solita storia della sicurezza. C’è bisogno di progetti che riescano a ricucire lo strappo del tessuto sociale che si è creato tra il reo e la comunità e che contribuiscano a costruire un percorso nuovo per il condannato. Quando si parla di carcere la società si chiude a riccio come se si parlasse di una malattia incurabile: per questo il nuovo anno lo vorrei invece pieno di coraggio, vorrei che si potesse osare di più là dove le condizioni lo permettono, nel carcere ci vivono le persone che hanno sbagliato, che sono responsabili di furti, rapine, reati gravissimi contro la persona, ma tutti devono avere la possibilità di una svolta. Il carcere non deve essere una discarica per accumulare corpi, deve essere un luogo di privazione della libertà, ma non degli affetti di figli e genitori. Quegli affetti che invece mancano per tutta la durata della pena da scontare, e il rischio che si diventi più asociali non è cosi lontano. Giovanni Zito, ergastolano Intercettazioni, si va per gradi. Il cuore della riforma entrerà in vigore dopo sei mesi di Claudia Morelli Italia Oggi, 8 gennaio 2018 La tempistica dell’efficacia delle nuove norme sull’utilizzo di conversazioni e video. Efficacia progressiva per la riforma delle intercettazioni. Approvata dal consiglio dei ministri del 29 dicembre, entrerà in vigore per tappe successive sia per consentire agli uffici delle procure di organizzare l’archivio riservato, sia per dare modo agli operatori di “digerire” le tante novità. La riforma, infatti, discussa per anni e in più legislature, nella formulazione approvata dal parlamento e dal governo Gentiloni mira a tenere insieme diverse esigenze, tutte costituzionalmente garantite: efficacia e riservatezza delle indagini penali, tutela della privacy dei soggetti estranei al processo, diritto di cronaca. Ma le soluzioni individuate hanno scontentato tutte le categorie coinvolte: per i magistrati (Anm) la riforma conferisce troppo potere alla polizia giudiziaria che dovrà fare la prima (e si teme l’unica vera) valutazione sulla rilevanza delle conversazioni intercettate; per gli avvocati (Ucpi) sarà pressoché impossibile garantire una piena difesa districandosi tra annotazioni sommarie e verbali di intercettazioni che non potranno essere copiati; per i giornalisti (Fnsi) la riforma non è che il “bavaglio” alla stampa. Entrata in vigore progressiva delle nuove norme. Ad avere efficacia sin dall’entrata in vigore del decreto delegato che attua la legge 103 del 2017 (riforma del processo penale e dall’ordinamento penitenziario) sono infatti le sole norme che introducono il reato di diffusione di registrazioni e riprese fraudolente allo scopo di rovinare la reputazione e che “semplificano” i presupposti per richiedere l’autorizzazione a sottoporre a intercettazioni i pubblici ufficiali per reati contro la p.a. (corruzione, concussione ecc.). Non saranno necessari i gravi indizi di reato e la indispensabilità della intercettazione ai fi ni della prova, ma basteranno i sufficienti indizi e la semplice necessarietà. Occorreranno invece 12 mesi affinché entri in vigore la norma che rende pubblicabile, contrariamente al divieto attualmente vigente, l’ordinanza cautelare. La disposizione è stata introdotta nella ultima versione del testo del dlgs per attenuare la stretta “giornalistica” (si veda altro servizio in pagina) e prevede un’eccezione al generale divieto di pubblicazione di tutti gli atti processuali fi no al termine della udienza preliminare. La pubblicabilità scaturisce dal nuovo regime di maggior rigore e cautela nella scelta del materiale intercettato inserito a sostegno del provvedimento cautelare, che sarà relativo ai “brani essenziali” delle intercettazioni rilevanti e utili a motivare la custodia in carcere. Il cuore della riforma, ossia la procedura di selezione a cura della polizia giudiziaria ai fi ni della prima trascrizione, deposito di tutto il materiale (brogliacci e annotazioni), acquisizione al fascicolo delle intercettazioni rilevanti e lo stralcio di quelle irrilevanti o contenenti dati sensibili, deposito nell’archivio riservato sotto la responsabilità del pm e la disciplina del Trojan di stato, entrerà in vigore dopo 180 giorni dalla entrata in vigore della legge. I decreti ministeriali. Segnaliamo inoltre che entro 30 giorni dall’entrata in vigore della legge il ministro della giustizia dovrà approvare un decreto con le specifiche tecniche dei software per la captazione tramite dispositivi mobili delle conversazioni (Trojan) e un decreto per disciplinare l’accesso all’archivio riservato. Intercettazioni rilevanti e non. Il cuore della riforma sta in questo discrimine: nel fascicolo del processo finiranno solo le intercettazioni rilevanti ai fi ni della prova dei fatti e che riguardano le persone indagate. Le intercettazioni irrilevanti sono tali sia in ordine all’oggetto della conversazione, che dei soggetti coinvolti, che con riguardo ai dati sensibili (a meno che queste non siano necessarie per la prova dei fatti). La disciplina dispone il divieto di trascrizione anche sommaria di queste intercettazioni e dunque sarà la polizia giudiziaria a fare la prima cernita, pur dovendo informare il pm in caso di dubbio. Il pm comunque potrà recuperare con decreto motivato il materiale ritenuto rilevante. Di tutto si potrà fare una annotazione sommaria, necessaria per la verifica da parte delle parti della effettiva irrilevanza. Al posto dell’udienza stralcio, la riforma prevede una procedura di deposito di tutto il materiale raccolto (trascrizioni delle intercettazioni rilevanti, annotazione sommaria di quelle irrilevanti, verbali con orario-luogo-dispositivo intercettato). Gli avvocati di parte avranno dieci giorni di tempo per esaminarlo, tenendo conto anche del fatto che il pm deve indicare quelle intercettazioni che secondo l’ipotesi dell’accusa saranno verosimilmente acquisite. Potranno a loro volta indicare quali ritengano debbano essere acquisite e quali invece no tra quelle indicate dal pm. L’acquisizione delle intercettazioni rilevanti avviene secondo due percorsi, a seconda che le intercettazioni siano contenute (nei brani essenziali) nella ordinanza di custodia cautelare o si sia in fase preliminare al dibattimento. Nel primo caso, è il pm che le acquisisce al fascicolo delle indagini; nel secondo è il giudice che decide a seguito del contraddittorio cartolare tra le parti. La trascrizione invece avverrà in apertura del dibattimento. Le intercettazioni irrilevanti o stralciate confluiranno nell’archivio riservato. Polizia postale: nel 2017 più reati informatici contro la persona La Repubblica, 8 gennaio 2018 In aumento i casi di diffamazione, stalking, trattamento illecito di dati, sostituzione di persona. Nell’anno che si è concluso da poco quasi 30 mila siti monitorati nell’ambito delle indagini su pedopornografia online. L’evoluzione delle tecnologie e la loro diffusione sempre più capillare comportano anche un aumento dei reati informatici. In questo scenario opera la Polizia postale e delle comunicazioni, che svolge attività investigativa ma anche di prevenzione, e traccia un bilancio decisamente positivo dell’anno che si è appena concluso. Vediamo alcuni dati relativi ai vari campi d’azione. Pedopornografia online - L’anno si è chiuso con 55 arresti e 595 denunce. Intensa l’attività sul fronte della prevenzione: ben 28.560 siti internet sono stati oggetto di monitoraggio e 2.077 sono stati inseriti in una lista nera. Il 2017 ha inoltre confermato la rilevanza del fenomeno dell’adescamento di minori online, con 437 casi trattati che hanno portato alla denuncia di 158 soggetti e all’arresto di 19. Di grande importanza è stata poi la collaborazione con gli organismi internazionali. Reati informatici contro la persona - In sensibile aumento rispetto al 2016 i casi di diffamazione, cyberstalking, trattamento illecito di dati personali, sostituzione di persona per i quali sono state denunciate 917 persone e otto sono state arrestate. Attacchi informatici - Il Centro Nazionale Anticrimine per la Protezione delle Infrastrutture Critiche (C.N.A.I.P.I.C.) ha diramato 28.522 alert alle infrastrutture critiche nazionali, un numero che si è quasi quintuplicato rispetto al 2016. La Sala Operativa del Centro ha gestito 1.006 attacchi informatici nei confronti di servizi internet relativi a siti istituzionali e infrastrutture critiche informatizzate di interesse nazionale, 80 richieste di cooperazione nell’ambito del circuito “High Tech Crime Emergency”. Nel corso dell’anno sono state avviate in quest’ambito 68 indagini, per un totale di 33 persone denunciate e due arrestate. Cybercrime finanziario - La Polizia postale rileva che “le sempre più evolute tecniche di hackeraggio, attraverso l’utilizzo di malware inoculati mediante tecniche di phishing, ampliano a dismisura i soggetti attaccati, soprattutto nell’ambito dei rapporti commerciali. Infatti lo scopo delle organizzazioni criminali è quello di intromettersi nei rapporti commerciali tra aziende dirottando le somme verso conti correnti nella disponibilità dei malviventi”. Malgrado le difficoltà, nel 2017 è stato possibile bloccare alla fonte ben 20.839.576 euro su una movimentazione di 22.052.527 euro e recuperare 862.000 euro della residuale parte relativa ai bonifici già disposti. Cyberterrorismo - In questo settore la Polizia postale e delle comunicazioni ha operato in strettissimo concorso con altri organi di Polizia e di intelligence, sia a livello nazionale che internazionale. Nell’ultimo anno, la strategia mediatica messa in campo dalle organizzazioni terroristiche di matrice religiosa islamista ha indotto gli investigatori a effettuare una costante attività di osservazione e analisi dei contenuti presenti in rete. L’attività mirata a contrastare il proselitismo e prevenire fenomeni di radicalizzazione ha portato a monitorare circa 17.000 spazi web e alla rimozione di diversi contenuti. Campagne di sensibilizzazione - Nel tracciare il bilancio del 2017, la Polizia postale mette in risalto quanto fatto nel campo della comunicazione con i cittadini, essenziale per aumentare la consapevolezza dei rischi e dei pericoli connessi all’uso di internet, soprattutto per i più giovani. In questa direzione va “Una Vita da Social”, campagna itinerante grazie alla quale fino a oggi sono stati incontrati oltre 1 milione e 300 mila studenti, 147.000 genitori, 82.500 insegnanti in 10.750 istituti scolastici di 190 città italiane. Inoltre nel corso dell’anno sono stati realizzati incontri educativi su tutto il territorio nazionale raggiungendo oltre 250 mila studenti e circa 2.500 scuole per le quali è stata messa a disposizione anche un’email dedicata: progettoscuola.poliziapostale@interno.it. Punto di riferimento per chi cerca informazioni o modulistica, oppure per chi voglia fare denunce è poi il portale del commissariato di P.S. Mafia, per un italiano su tre è ancora più forte di trent’anni fa di Ilvo Diamanti La Repubblica, 8 gennaio 2018 La percezione della criminalità organizzata resta molto alta. E anche nel Settentrione è aumentata la paura di infiltrazioni. I più “sensibili” sono gli elettori della Lega e del M5S. La mafia, fino a qualche tempo fa, aveva un marchio territoriale preciso. Perché il suo rapporto con il territorio era stretto. Andava oltre la prospettiva “criminale”. La mafia era radicata nella società - e nel territorio. Sostituiva lo Stato dove lo Stato era lontano. Assente. In Sicilia, anzitutto. Quindi, con modelli e definizioni diverse, in altre Regioni del Sud. In Calabria, Puglia, Campania. Dove la ‘ndrangheta, la sacra corona unita e la camorra avevano - e hanno ancora - una presenza forte e diffusa. Ma oggi la situazione è cambiata profondamente. E le mafie si sono diffuse dovunque. A Roma. Dove Mafia capitale, al di là della sentenza di primo grado, ha dimostrato il legame profondo fra società e criminalità. Nella Capitale, appunto. Ma soprattutto a Nord. E oltre confine. Aree dove riciclare e investire è più facile che nel Mezzogiorno. Le inchieste dei magistrati hanno seguito e ricostruito da tempo i percorsi della criminalità organizzata. La nuova - e mutevole - geografia della mafia, però, non viene riprodotta solo da giudici e poliziotti. Ma è divenuta, ormai, “senso comune”. Lo “sconfinamento” mafioso oltre i territori tradizionali, infatti, è largamente condiviso. Come lo è l’espansione del fenomeno. Il sondaggio di Demos, condotto alcune settimane fa, lo recepisce con molta chiarezza. Per non generare equivoci, meglio ribadire che si tratta di un’indagine sulle opinioni e sulle percezioni. Non faccio e non facciamo i magistrati. Anche se i dati delle inchieste sull’Opinione Pubblica riflettono quelle delle inchieste dell’antimafia. Ne sono ovviamente condizionate. Visto che le indagini dei magistrati hanno un impatto rilevante sui media. E, quindi, sull’opinione pubblica. Secondo un terzo degli italiani (del campione intervistato da Demos), dunque, la mafia oggi sarebbe “più forte rispetto a 20-30 anni fa”. All’epoca degli omicidi di Piersanti Mattarella, Giuseppe Fava, Ninni Cassarà, Beppe Montana, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Solo per citarne alcuni. D’altronde, le vittime di mafia, in Italia sono stimate in diverse migliaia. Ebbene, nella percezione sociale, da allora sarebbe cambiato poco. Tanto più che, secondo un ulteriore 46%, la sua influenza resterebbe inalterata, rispetto a quegli anni di sangue e di morte. Mentre meno di 2 italiani su 10 considerano la presenza mafiosa diminuita. Il maggior grado di gravità del fenomeno è percepito dagli elettori della Lega: 43%. Quindi, a distanza, dalla base del M5s (38%). Mentre il pericolo della mafia appare meno forte che in passato a coloro che votano FI (29%). Ma se la forza della mafia appare immutata e perfino cresciuta, nella percezione dei cittadini, la geografia del suo radicamento risulta profondamente cambiata. La mafia, secondo quasi metà degli italiani (47%), si sarebbe diffusa e allargata soprattutto nel Nord. Molto meno nel Sud. Quasi per nulla nel Centro. Nonostante le indagini su Mafia Capitale e i recenti episodi violenti e criminali avvenuti a Ostia. Ma Roma, probabilmente, è percepita come un’entità specifica e diversa. Va oltre il “centro”. Invece, colpisce come la marcia verso Nord della mafia venga recepita e sottolineata proprio in quest’area. Soprattutto a Nord-Ovest 57%), lungo l’asse Milano-Torino-Genova. Fino ai confini con L’Emilia Romagna. Anche nel Nord-Est l’espansione mafiosa è riconosciuta da un ampio settore di popolazione (poco meno del 50%). Mentre questa percezione tende a diminuire via via che si scende a Sud. Dove si è meno disponibili a cogliere, meglio: ad accettare le nuove direzioni della presenza territoriale della mafia. Anche se la diffusione della mafia, nel proprio contesto, viene considerata in crescita da una componente di persone, tutto sommato, limitata (10%). La rappresentazione geopolitica mafiosa mostra differenze significative e rilevanti, in base agli orientamenti di voto. L’espansione del fenomeno nel Nord, in particolare, incontra maggiore difficoltà ad essere ammesso fra gli elettori dei partiti che hanno basi e radici più forti in quest’area. In particolare, fra i leghisti e, ancora più, fra i votanti di FI. Fra i padani e nella base del partito di Berlusconi. Impiantato a Milano, anche se diffuso, successivamente, un po’ dovunque. Soprattutto nel Mezzogiorno. Tuttavia, quasi 4 elettori della Lega su 10 oggi riconoscono come la mafia sia, ormai, cresciuta anche - anzi: soprattutto - intorno a loro. A “casa loro”. Così, mentre i magistrati ricostruiscono gli itinerari della risalita mafiosa - e della criminalità organizzata - dal Sud verso il Nord, la società e la popolazione adeguano gli “occhiali” con i quali osservano e valutano il mondo intorno a loro. E scoprono una realtà profondamente cambiata. Nella quale le differenze territoriali non sono più profonde e marcate come un tempo. La frattura fra Nord e Sud, in particolare, tende a ridimensionarsi. Almeno sotto il profilo del fenomeno criminale. Meglio: della criminalità organizzata. Le distanze, a questo proposito, sembrano ridotte. Il Paese appare sempre più omogeneo, al proprio interno. Un’Italia (maggiormente) unita dalla crescita mafiosa. Nella percezione dei cittadini. Occorre prenderne atto. Tuttavia, di fronte all’espansione mafiosa occorre reagire. Non solo attraverso l’azione giudiziaria e di polizia. Ma anche, anzitutto, sul piano sociale e culturale. Per questo, non dobbiamo “dare per scontato”. Non rassegnarsi. Carcere fino a 6 anni per chi minimizza la Shoah o i crimini contro l’umanità di Francesca Servadei (Avvocato) studiocataldi.it, 8 gennaio 2018 Brevi cenni sulle novità in materia di negazionismo e xenofobia introdotte dalle legge europea in vigore dal 12 dicembre 2017. La Legge Europea entrata in vigore il 12 dicembre 2017, rubricata Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea, ha modificato l’articolo 3 della legge 654/1975, nel comma 3bis, ampliando il campo dell’aggravante del negazionismo, prevedendo l’aggiunta del seguente periodo: “minimizzando in modo grave sull’apologia”. Da 2 a 6 anni di carcere per chi minimizza la Shoah o i crimini contro l’umanità - Pertanto in base al novellato articolo, si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale, ratificato ai sensi della legge 12 luglio 1999, n. 232. Legge europea: le condotte sanzionate - Con la Legge Europea, dunque, gli Stati condannano severamente le seguenti condotte: a) le azioni volontarie finalizzate alla istigazione della violenza ovvero all’odio poste in essere in modo pubblico; b) l’apologia e quindi la difesa e giustificazione di episodi legati allo Shoah, negazione e minimizzazione effettuate in modo grossolano dei crimini di genocidio e dei crimini ex art. 6,7,8, dello statuto della Corte penale internazionale e di quelli definiti all’articolo 6 dello statuto del Tribunale militare, a condizione che tali condotte siano poste in essere in modo pubblico e volti ad istigare la violenza e l’odio. Razzismo e xenofobia: le nuove sanzioni - Inoltre viene introdotto l’articolo 25 terdecies (Razzismo e xenofobia), il quale, richiamando l’articolo 3, Legge 654/1975, nel comma 3bis, applica all’ente la sanzione pecuniaria da duecento ad ottocento quote; nel caso di condanna, di cui al comma 1, si applica una sanzione interdittiva per un periodo non inferiore ad 1 anno; nel caso in cui, invece l’ente ovvero una sua unità organizzativa, favoriscano condotte criminose rientranti nella fattispecie del razzismo o nella xenofobia, l’interdizione della sua attività è permanente. La norma in questione ha una finalità di censura preventiva sulle espressione a carattere negazionistico, facendo ricadere la responsabilità non solo al singolo soggetto agente, ma anche agli enti, i quali forniscono strumenti atti alla realizzazione di tali condotte, come per esempio testate editoriali, siti web, imprese radiotelevisive. Premio di carriera per chi esce dal Csm di Errico Novi Il Dubbio, 8 gennaio 2018 Una norma della Legge di bilancio favorisce i togati. Solo l’articolo 1 ha più di mille commi. C’è voluto dunque il tempo necessario agli specialisti perché qualcuno si accorgesse che al comma 469 del primo articolo, la legge di Bilancio per il 2018 approvata prima di Natale reca una piccola rivoluzione per le carriere dei magistrati. In particolare per quelle dei fortunati che vengono eletti, come “togati”, al Consiglio superiore della magistratura. Ebbene sì, perché il ricordato comma cancella il divieto per i consiglieri uscenti di assumere incarichi direttivi per l’intero anno successivo alla data di conclusione del mandato. Non solo. La stessa micro-disposizione, illeggibile nella sua astrattezza codicistica, rimuove un’ulteriore, importante preclusione. Quella per cui le toghe che hanno appena concluso il loro quadriennio a Palazzo dei Marescialli non potevano assumere incarichi fuori ruolo. Due micro- bombe che rischiano di scatenare infinite polemiche sulla forza del “potere correntizio”. E anche sullo status di consigliere superiore, che da servizio rischia di trasfigurare sempre più in un pericoloso privilegio, da dividere tra pochi accoliti di un ristretto circuito. Vediamo perché. Intanto la tecnica normativa merita una breve premessa. La norma come detto è irriconoscibile ai non esperti di ordinamento giudiziario. Recita così: “Al secondo comma dell’art. 30 del decreto del Presidente della Repubblica 16 settembre 1958, n. 916, il terzo e il quarto periodo sono soppressi”. Adesso, non per associarsi al coro un po’ ebete dell’antipolitica, ma quanti saranno, sui 950 parlamentari che hanno approvato la Manovra, quelli che hanno capito di che si trattava al momento di pigiare il bottone? Forse nessuno, forse il solo parlamentare proponente, o addirittura nemmeno lui. In ogni caso, il decreto presidenziale di cui si tratta non è altro che la disposizione attuativa della legge che istituì il Csm, esattamente sessant’anni fa ( e anche la ricorrenza fa un po’ rabbrividire). L’articolo 30 di quel “dpr” regola il collocamento fuori ruolo dei magistrati eletti al Csm, il loro ricollocamento in ruolo e il divieto appunto di ricevere promozioni o incarichi extra-giurisdizionali poco dopo essere rientrati in sevizio. A dire la verità la norma del 1958 prevedeva un periodo minimo di decantazione di due anni. Poi un decreto dell’estate 2014, il numero 90, ridusse quel cuscinetto a un anno soltanto, sempre con un codicillo misterioso e meramente “alfanumerico”. Ora è sparito pure quell’annetto di naftalina. Tutti gli ex togati sono potenzialmente nominabili a capo di una Procura o a direttori generali di un ministero il giorno dopo essere usciti da Palazzo dei Marescialli. Un po’ troppo. Perché? Due motivi almeno, suggeriti da altrettanti magistrati interpellati dal Dubbio. “Intanto”, segnala un giudice del lavoro, “si rischia di rafforzare ancor di più il clientelismo elettorale. I togati del Csm prossimi a concludere il loro quadriennio fanno di solito campagna elettorale per qualche successore, della loro stessa corrente. Lecito, per carità. Ma è purtroppo sperimentato che spesso questi successori sono legati al loro predecessore- mentore da un vincolo di cooptazione. Se quindi subito dopo essere stati eletti al Csm possono addirittura nominare qualche togato della consiliatura precedente al vertice di una Procura o alla presidenza di un Tribunale, è plausibile che gli uscenti tenderanno a scegliere con cura e secondo un ferreo principio di fedeltà coloro ai quali cedere il testimone. Sapranno infatti di poter essere ricambiati, e ora sapranno anche che non ci sarà più quell’annetto di sbarramento capace magari di attenuare il senso di gratitudine…”. Secondo il magistrato, “il meccanismo di cooptazione in tal modo rischia di diventare ancora più patologico. E l’autonomia e indipendenza dei magistrati rischiano a loro volta di andare a farsi benedire”. Ragionamento non astruso. A cui si somma quello di un pm di una Procura del Nord, sconcertato anche dall’altro risvolto del “commettino” infilato in Manovra, quello sugli incarichi fuori ruolo. “Ma sì, certo”, commenta con amara ironia, “ma perché mai un consigliere dovrebbe rimettersi a lavorare? Facciamolo subito capo di qualcosa: dopo aver governato la nave dovrà pur mettere a frutto la propria eccellenza, in uffici bisognosi di chi sappia scrivere circolari, non certo provvedimenti giudiziari”. Battuta successiva: “A maggior ragione, meglio un bell’incarico in un ministero: si dovessero sfibrare, nell’ascoltare la domanda di giustizia dei cittadini”. Battuta finale: “Molto interessante la disposizione: consente di capire quali nomine stanno per arrivare”. E qui forse la malizia è eccessiva: a scrivere quel comma non sono stati certo i togati uscenti. E forse, anzi, sarà difficile per loro beneficiare della norma, per questioni di opportunità. Ma certo, chi l’ha ideata potrebbe non aver reso un buon servizio alla causa dei magistrati. Sussiste arresto in flagranza da parte del privato quando viene esercitata la coazione di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 8 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 25 ottobre 2017 n. 49047. L’arresto in flagranza di reato da parte del privato, nei casi consentiti dalla legge ex articolo 383 del Cpp, si risolve nell’esercizio di fatto dei poteri anche coattivi e nell’esplicazione delle attività procedimentali propri degli organi di polizia giudiziaria normalmente destinati a esercitare tale potere, richiedendosi, quindi, un comportamento concludente che esprima l’intento di eseguire l’arresto, quale l’apprensione mediante esercizio della coazione previa dichiarazione dell’intento di eseguire l’arresto ovvero l’accompagnamento coattivo del soggetto presso un ufficio di polizia. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 49047 del 2017. Quando, invece, il privato si limita a invitare il presunto reo ad attendere l’arrivo dell’organo di polizia giudiziaria, nel frattempo avvertito, non si versa nella fattispecie di cui all’articolo 383 citato, ma è semplice denuncia, consentita a ciascun cittadino in qualsiasi situazione di violazione della legge penale (fattispecie in cui la Corte, accogliendo il ricorso del pubblico ministero avverso il provvedimento di non convalida dell’arresto, ha ritenuto che si versava in ipotesi di arresto in flagranza di reato legittimamente eseguito dal privato vittima del reato di furto in abitazione, rientrante quindi nelle ipotesi di cui all’articolo 380 del Cpp, in cui il privato aveva esplicato sulla persona dell’autore, bloccandola e trattenendola, una vera e propria forma di coazione, funzionale all’apprensione della stessa e alla consegna all’organo di polizia). Sulla facoltà di arresto in flagranza da parte del privato cittadino (articolo 383 del Cpp), in termini, sezione V, 17 febbraio 2005, Pm in proc. Dobrin, nonché sezione IV, 15 dicembre 1999, Pm in proc. Maaroufi, che, infatti, ha escluso essersi stato l’esercizio del potere di arresto in una fattispecie in cui dal testo del provvedimento impugnato risultava che il proprietario di un negozio si era limitato a invitare il presunto ladro a fermarsi e attendere l’arrivo della polizia, senza esplicare alcuna forma di coazione: la Corte, in proposito, ha osservato che l’arresto in flagranza da parte del privato richiede un comportamento concludente che esprima l’intento di eseguire l’arresto, quale l’accompagnamento coattivo del soggetto presso un ufficio di polizia, ovvero l’apprensione mediante esercizio della coazione previa dichiarazione dell’intento di eseguire l’arresto. Nella decisione qui massimata, va peraltro osservato che la Cassazione ha evidenziato un ulteriore profilo di illegittimità dell’ordinanza di non convalida, giacché, in ogni caso, il giudice avrebbe potuto e dovuto apprezzare la sussistenza delle condizioni per l’arresto “in quasi flagranza” da parte della polizia giudiziaria, intervenuta, dopo l’intervento della vittima, in un contesto in cui l’autore del reato era stato trovato in possesso di oggetti provento del furto e di cacciaviti utilizzati per l’introduzione dell’abitazione. La Corte, in proposito, è in linea con le puntualizzazioni fornite di recente dalle sezioni Unite sulla “quasi flagranza” (cfr. sezioni Unite, 24 novembre 2015, Ventrice), in forza delle quali risulta ormai definitivamente stabilito che la “quasi flagranza” legittimante l’arresto da parte della polizia giudiziaria è configurabile tutte le volte in cui sia possibile stabilire un particolare “nesso” tra il soggetto e il reato che, pur superando l’immediata individuazione dell’arrestato sul luogo del reato, permetta comunque la riconduzione della persona all’illecito sulla base della continuità del controllo, anche indiretto, eseguito da coloro i quali si pongano al suo inseguimento. Tale condizione si può configurare nei casi in cui l’arresto avvenga in esito a inseguimento, ancorché protratto ma effettuato senza perdere il contatto percettivo anche indiretto con il fuggitivo, o nel caso di rinvenimento sulla persona dell’arrestato di cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima; ma non si può configurare nelle ipotesi nelle quali l’arresto avvenga in seguito a un’attività di investigazione, sia pure di breve durata, attraverso la quale la polizia giudiziaria raccolga elementi (dalla vittima, da terzi o anche autonomamente) valutati i quali ritenga di individuare il soggetto da arrestare, il quale beninteso non sia trovato con cose che lo colleghino univocamente al reato e non presenti sulla persona segni inequivoci riconducibili alla commissione del reato da parte del medesimo. Milano: Bollate, il carcere riprogettato da futuri architetti e detenuti di Francesca Bonazzoli Corriere della Sera, 8 gennaio 2018 Un progetto che coinvolge studenti, chi sconta una pena e i poliziotti penitenziari per ripensare gli spazi comuni nella casa circondariale. Prima c’è stata l’invasione di 65 studenti di architettura nel carcere di Bollate, poi i detenuti hanno restituito la visita al Politecnico di Milano. Non è stata una gita, ma uno scambio nell’ambito del progetto “Una traccia di libertà”, partito lo scorso ottobre con l’obiettivo ambizioso di ripensare i luoghi in condivisione del carcere e con l’idea che progettare un’architettura stimoli a strutturare da protagonisti anche lo spazio della mente e della vita. “Sono stati tantissimi gli studenti del laboratorio di progettazione architettonica che hanno fatto richiesta di partecipare”, spiega Andrea Di Franco, il docente che coordina la ricerca con i colleghi Chiara Merlini, Michele Moreno e Lorenzo Consalez. E prosegue: “Alla fine abbiamo dovuto selezionarne solo 65, tutti con una media superiore al 29, a causa del limite di ingressi a Bollate dove insieme al direttore Massimo Parisi abbiamo fatto cinque giornate di incontri fra studenti, detenuti e agenti di polizia penitenziaria per capire le esigenze e i problemi di chi vive recluso”. Un sostegno fondamentale è venuto da Angelo Aparo, fondatore del “Gruppo della trasgressione”, che ha coinvolto carcerati e agenti. Il lavoro si è svolto in tredici gruppi, ognuno dei quali si è occupato di un tema specifico come affettività, culto, scuola, detenzione femminile o sport. L’ultimo incontro è previsto per il 22 gennaio alla presenza delle alte cariche di Politecnico, Amministrazione penitenziaria, Comune e Regione. “I giovani sono idealisti, ma amano le cose concrete. In questa ricerca hanno visto la possibilità di cambiare in meglio la società - continua Di Franco. Da chi vive nel carcere sono venuti i consigli per ricondurre sulla terra le idee degli studenti ma spesso anche per osare e pensare ancora più in grande”. “Ho scelto di partecipare proprio perché è un tema aperto a visioni utopiche - racconta Cristiano Gerardi, 23 anni - e i carcerati hanno espresso pensieri profondi che non si sentono al bar o per strada”. “Se vogliamo che il carcere si trasformi da problema a struttura di servizi utili per il quartiere e in uno strumento di responsabilizzazione del detenuto, allora non basta abbattere una parete per creare un luogo di culto o riadattare i reparti maschili in femminili - aggiunge Andrea Di Franco. Il carcere non va rammendato, ma scucito completamente e ripensato”. Un piccolo cambiamento si vedrà subito. Il laboratorio vuole lasciare un segno concreto e punta a costruire un piccolo luogo destinato ai colloqui: una struttura leggera in legno, una “Traccia di libertà”, che sta cercando un finanziatore nella convinzione che ogni volta che si mette l’uomo nella possibilità di fare un progetto, gli si restituisce la libertà. Bologna: il Vescovo Zuppi e la casa per gli ex detenuti “così aiutiamo chi esce dal carcere” di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 8 gennaio 2018 Il vescovo alla festa in piazza Maggiore: “I lavori cominciano in questi giorni. Anche i carcerati nel cantiere”. “Speriamo di iniziare subito”, dice don Matteo sul sagrato di San Petronio. Il cielo è grigio ma il pomeriggio colorato dalla festa della Befana e dal profumo del vin brulé. Alle spalle del vescovo c’è il presepe vivente con Giuseppe, Maria, un Gesù abbastanza cresciutello, il bue e l’asinello. Al suo fianco il coro gospel che sta facendo ballare mezza piazza Maggiore. Davanti, appena arrivati da via Indipendenza, i Re Magi, che parcheggiano i cammelli vicino al Crescentone: Adriano da Bologna, Giancarlo da Poggio Renatico e Fabrizio che ha fatto più strada degli altri: viene dal Mali. Zuppi parla dell’iniziativa che la sua Chiesa sta contribuendo a realizzare in città: una casa in via del Tuscolano 99, vicino alla Dozza, per gli ex detenuti che escono dal carcere o per i reclusi in permesso premio che vogliono lavorare. “Il problema delle carceri è quello di dare opportunità a chi esce. È fondamentale. Speriamo di iniziare presto, i lavori cominciano in questi giorni, bisogna ristrutturare tutto. Sì, anche i detenuti lavoreranno nel cantiere”. Una delle condizioni imposte alla ditta che dovrà abbattere e ricostruire il cascinale semi abbandonato di proprietà della parrocchia dei Santi Savino e Silvestro di Corticella, è infatti quella di impiegare detenuti fra i suoi operai. Per i lavori la Curia ha stanziato mezzo milione di euro, e un altro mezzo milione arriverà dalla parrocchia grazie alla vendita dei terreni circostanti. Saranno ristrutturati tre edifici. L’ex casa del contadino ospiterà i frati dehoniani, che seguiranno l’intero progetto. Il fienile diventerà la casa accoglienza per gli ex detenuti: otto camere con bagno più gli spazi in comune come la sala pranzo. La stalla, infine, ospiterà i laboratori. Si partirà con una falegnameria biologica. La casa dei frati dovrebbe essere pronta già nel 2018. Ieri, in piazza, Zuppi ha accolto l’arrivo dei Re Magi e ha detto alle famiglie e ai bambini con i cellulari in aria: “Gesù ha cominciato così, con persone che arrivavano da lontano. Gesù non ha paura di nessuno. Anche quelli “ strani”, che vengono da lontano, sono amici, fanno parte di un’unica famiglia. Nessuno è straniero, nessuno è lontano”. A Natale Zuppi ha celebrato la messa per i carcerati alla Dozza, dove come cappellano ha scelto don Marcello Mattè, frate dehoniano che seguirà le attività dell’ex casa dei detenuti. E quando per la prima volta ha visitato il carcere bolognese, a Pasqua del 2016, disse ai carcerati di non credere a chi dice: “Sei uno sbaglio, non c’è più niente da fare, è andata così”. Rimini: non solo sbarre, un’alternativa è possibile di Emiliano Violante ilponte.com, 8 gennaio 2018 La misura alternativa al carcere? Non solo è possibile ma soprattutto auspicabile per favorire il recupero della persona e la restituzione del male commesso. E la costruzione di un futuro per quei detenuti che, dopo aver scontato la pena, potranno essere reinseriti nella società. Rimini non sta alla sbarra per quanto riguarda la necessità di umanizzazione della pena. Tredici sono le convenzioni per l’istituto di “messa alla prova” con il Tribunale di Rimini (alla data del 14 luglio), 9 delle quali risultano con cooperative sociali del territorio. Enti, associazioni ed imprese sociali che, a partire dal novembre 2015, hanno messo disposizione tutte le mansioni che si svolgono nell’ambito delle proprie attività lavorative, per offrire un’ulteriore possibilità di detenzione alternativa. Si tratta di numeri significativi, che raccontano un’attività e un impegno sociale non banale, espresso da tante realtà sociali del territorio riminese. Eleonora Renzi, responsabile ufficio del personale, racconta l’esperienza della coop. sociale riminese La Formica. Come avviene il contatto con la cooperativa per i lavori di pubblica utilità? “Generalmente la persona si presenta direttamente in ufficio da noi, con una mail, inviata personalmente oppure dal suo legale. Ci vengono consegnati tutti i documenti necessari, la carta d’identità, il codice fiscale, la vaccinazione antitetanica e di solito il verbale di accertamento delle forze dell’ordine per la violazione commessa, che per il 90% dei casi riguarda la guida in stato di ebbrezza. All’interessato viene fornito un chiarimento dettagliato sui diversi aspetti che riguardano il lavoro, l’orario e la tipologia del servizio da svolgere, sempre in affiancamento ad un collega più esperto. Inizia poi la preparazione dei documenti tra cui la dichiarazione/disponibilità ad accogliere l’interessato per i lavori di pubblica utilità. Questo documento è firmato dal responsabile degli inserimenti lavorativi che coordina il percorso riabilitativo”. Quali sono i successivi passaggi della procedura? Chi sono i referenti degli uffici giudiziari interessati? “Il documento/dichiarazione di disponibilità, che ha una validità semestrale, viene inviato al legale che procede con l’iter giudiziario previsto. Quando il giudice arriva alla sentenza, l’interessato torna nei nostri uffici per definire il piano di lavoro, sulla base delle sue esigenze e del monte ore che il giudice gli ha stabilito. Ciò viene formalizzato in un programma di lavoro che comprende date e turni ben definiti, da rispettare in maniera molto rigorosa, salvo piccole eccezioni giustificabili (ad esempio la malattia). Viene stilato un foglio firme, inoltrato in Questura presso l’ufficio anticrimine della sezione affari generali. Il funzionario di riferimento rilascia un verbale e da lì, fatte le dovute comunicazioni di legge il giorno prima dell’inizio lavori, si può procedere con l’esecuzione del programma”. Come si conclude questa riabilitazione? “Con il completamento del servizio e delle ore previste, ciò si desume dal foglio firme, rigorosamente compilato in entrata ed in uscita. A quel punto si prepara il documento di conclusione del progetto. Il tutto è consegnato in Questura brevi mano dall’interessato e per posta certificata al suo avvocato. Il funzionario della Questura emette un verbale conclusivo”. Quali differenze esistono, nelle procedure, con l’istituto della “messa alla prova”? “Qui non abbiamo a che fare con la Questura ma con l’U.E.P.E., l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna. L’iter degli allegati e della redazione dei documenti è pressoché lo stesso, ma cambia il nostro interlocutore per la presentazione del piano di lavoro, e la redazione del foglio firme e del verbale conclusivo. Questa misura alternativa alla detenzione è generalmente prevista per i recidivi. Mi sono capitati anche reati come la frode o il falso in atto pubblico. Un’altra differenza fondamentale è che viene stabilito un monte ore da espletare in un arco temporale definito, e il calendario è aperto. L’importante è svolgere tante ore quante sono state determinate dall’autorità giudiziaria. Si produce un foglio firme in bianco (senza date vincolati) e in un arco di tempo definito si completa di volta in volta con le date in cui si è svolta la prestazione”. Si tratta, insomma, di vere soluzioni educative che diventano anche importanti occasioni di crescita personale. “L’alternativa alla detenzione è già stata abbracciata da tante persone, utilizzando l’ampio bacino di accoglienza delle cooperative sociali convenzionate col Tribunale di Rimini. Una prestazione non retribuita in favore della collettività, che coinvolge diverse persone, tra cui tanti giovani che colgono non solo la convenienza per una riduzione della sanzione economica legata al reato commesso, ma una possibilità riabilitativa nel pieno rispetto della propria professionalità e della propria attitudine lavorativa”. Milano: manca personale, a rischio chiusura lo sportello informazioni del Gip di Franco Vanni La Repubblica, 8 gennaio 2018 Senza una soluzione cittadini e avvocati dovranno rivolgersi alle cancellerie. È solo l’ultimo ufficio in difficoltà ed è già allarme in vista delle elezioni A Palazzo di giustizia gli uffici hanno una carenza. Lo sportello informazioni del giudice per le indagini preliminari dovrebbe riaprire domani, dopo la pausa invernale. Dovrebbe. Perché al momento il personale non c’è. Il dirigente amministrativo si sta dando da fare da settimane per fare quadrare i conti del personale, che all’ufficio del gip scarseggia come in tutti i rami dell’amministrazione della giustizia. “Se non si riuscirà ad aprire lo sportello, come ci è stato annunciato, i cittadini e gli avvocati che hanno bisogno di informazioni dovranno rivolgersi alle singole cancellerie - dice Lino Gallo, rappresentante sindacale dei lavoratori della giustizia per la sigla Flp. È l’ennesimo esempio di come la carenza di personale nuoce al lavoro degli uffici”. Nelle scorse settimane, molti avvocati si sono infuriati per il fatto che l’ufficio notifiche in via Pace lavorasse con lentezza, sempre per la scarsità di personale, che ha comportato la riduzione degli orari di apertura la mattina. Qualche giorno fa, per evitare la rissa, è dovuta intervenire la polizia. E lo scorso 12 dicembre gli avvocati della Camera penale di Milano manifestarono per denunciare il fatto che all’ufficio di Sorveglianza mancano tre magistrati su 12 previsti in organico e 10 amministrativi su 43. Risultato: i carcerati devono attendere mesi, in alcuni casi anni, per pratiche come l’affidamento in prova ai servizi sociali. Alla Sorveglianza, gli uffici saranno rinforzati da una decina di praticanti, pagati dall’Ordine degli avvocati di Milano, che daranno una mano ai cancellieri nella gestione dei fascicoli. Lo stesso è avvenuto negli uffici dell’esecuzione civile. Ma la carenza di cancellieri è generale, e strutturale. “Nel palazzo di giustizia di Milano, gli uffici hanno una carenza di personale del 35 per cento. In corte d’appello si supera il 40. Fino a quando il ministero non assumerà i lavoratori vincitori del concorso definito nelle scorse settimane, il problema non sarà risolto”, dice Felicia Russo, coordinatrice regionale della Flp-Cgil della Lombardia. Una situazione critica che potrebbe farsi drammatica in vista delle elezioni politiche e regionali di marzo, visto che proprio a palazzo di giustizia si svolge buona parte delle operazioni necessarie al voto, dalla verifica delle firme raccolte dai candidati fino alla certificazione del risultato della consultazione. Rovigo: arrivano i detenuti ma non gli agenti promessi, scoppia la protesta di Francesco Campi Il Gazzettino, 8 gennaio 2018 Tutti i sindacati della polizia penitenziaria denunciano che le promesse sono disattese. Da oggi e per due settimane il personale si asterrà dalla mensa obbligatoria in servizio. Nuovi agenti non ne sono arrivati, in compenso a breve dovrebbero arrivare nuovi detenuti da Treviso. La situazione della nuova casa circondariale è tale da portare tutte le sigle sindacali del settore a dirsi “sgomente”, facendo presente ai vertici nazionali e regionali dell’amministrazione penitenziaria, oltre che a prefetto e questore di Rovigo, quella che definiscono una “gravissima mancanza di personale”, annunciando nuove e ulteriori manifestazioni dopo quelle di dicembre. Da oggi e per due settimane gli agenti si asterranno dalla mensa obbligatoria di servizio, ma le proteste andranno avanti a oltranza fino a quando non sarà ridefinita la pianta organica e non saranno attivati i trasferimenti necessari, bloccando l’arrivo di nuovi detenuti. “Da quasi due anni - scrivono i segretari regionali dell’Osapp Veneto Gioacchino Lenaris, del Sinappe Andrea Mazzarese, della Fns Cisl Giuseppe Terracciano, dell’Uspp polizia penitenziaria Giulio Pegoraro, della Fp Cgil polizia penitenziaria Gianpietro Pegoraro e il segretario nazionale del Cnpp Antonio Guadalupi - la Polizia penitenziaria di Rovigo lavora senza il rispetto degli accordi contrattuali, con carichi di lavoro gravosi e impossibili da sostenere, senza sicurezza per l’incolumità lavorativa: con appena 73 unità, che a fine mese diventeranno 71 per il termine di due distacchi, la Direzione di Rovigo si trova a gestire un istituto di 213 detenuti di capienza e di dimensioni colossali. È inconcepibile che altri istituti abbiano una capienza quasi pari a quella di Rovigo, ma una pianta organica, e contestuale presenza di personale, pari al doppio di quella rodigina. All’assurdità si aggiunge il paradosso della conferma di nuove assegnazioni di detenuti con l’apertura del terzo piano”. Tutto si sarebbe dovuto risolvere entro lo scorso dicembre, come risulta anche dalla richiesta che il capo del Dap Santi Consolo aveva fatto al direttore generale del personale Pietro Buffa lo scorso 3 novembre: “Nell’immediatezza delle nuove assunzioni previste per il mese di dicembre, inviare presso l’istituto di Rovigo un numero congruo, superiore alle 20 unità, onde garantire un completo utilizzo della struttura che per l’ampiezza delle stanze di pernottamento, può ospitare sino a tre persone per camera, raggiungendo una capienza di 250 presenze”. I sindacati spiegano come sia caduta nel vuoto l’assicurazione “che l’organico della nuova casa circondariale sarebbe stato incrementato con una quota significativa di neo poliziotti, al fine di migliorare le condizioni di lavoro gravitanti sul personale. Così non è stato, visto che i nuovi agenti del 171. e 172. corso sono stati assegnati in altri istituti, lasciando quello di Rovigo a bocca asciutta. La polizia penitenziaria di Rovigo si sente presa in giro da tante promesse mai mantenute”. Catania: William Shakespeare nel carcere di Bicocca di Franco La Magna sudpress.it, 8 gennaio 2018 Dalle prime teorizzazioni contro la pena di morte e la tortura, scaturite dal pensiero illuminista di Cesare Beccaria (riassunte nel celeberrimo “Dei delitti e delle pene”) il lungo cammino dell’idea del trattamento umanitario dei reclusi - volto a liberarli dall’inferno della segregazione per tentarne pedagogicamente un recupero sociale - giunge ai nostri giorni anche nella forma dei laboratori teatrali, perlopiù condotti da esperti, che ne assumono proprio i detenuti (senza distinzione di pena) a soli protagonisti della recitazione Dunque teatro dietro le sbarre, più volte spettacolarizzato anche dal cinema (tra tutti basti pensare al recente “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani), con esiti a volte imprevedibili di vera e propria redenzione del condannato, altrimenti destinato a scontare la pena senza che il delitto commesso venga mai effettivamente elaborato. Francesca Ferro, membro d’una blasonata famiglia di attori (il padre Turi, noto attore teatrale e cinematografico e la madre Ida Carrara per anni tandem insostituibile del Teatro Stabile di Catania, mentre il fratello Guglielmo si è dedicato alla regia teatrale) anch’ella attrice e regista, ha compiuto questa “sconvolgente” esperienza conducendo nel 2012 un laboratorio di recitazione presso il carcere di Bicocca di Catania, mettendo in scena nientemeno lo Shakespeare del “Sogno d’una notte di mezza estate”, “avendo come allievi - scrive - una ventina di detenuti nel carcere di Bicocca. Assassini, spacciatori, sfruttatori della prostituzione; malviventi che se li avessi incontrati per strada, probabilmente avrei cambiato marciapiede”. Dal particolare rapporto nato con i reclusi e dalla rappresentazione, effettivamente realizzata nelle carceri di Bicocca, la Ferro ripropone ora la stessa pièce teatrale con attori veri “provenienti da diverse realtà teatrali siciliane, che danno voce e facce ai miei indimenticabili compagni di viaggio di quei mesi”, scrive ancora nelle essenziali note di regia. “Sogno di una notte a Bicocca” (scritto e diretto da Francesca Ferro) è dunque (per quanto teatro) esperienza viva, vitale e palpitante che trasposta ora in rappresentazione presso il Centro Zo di Catania (fino a domenica 7 gennaio), mette in scena una sorta di metateatro (tecnica, tra l’altro, usata dallo stesso Shakespeare proprio nella stessa commedia), come se cioè all’interno della “vera” rappresentazione fosse stata creata una successiva azione teatrale diluita nel tempo, non più “vera” ma da questa derivata. Acconciato alle esigenze, alla sensibilità e alla varie personalità dei detenuti, che necessariamente “hanno filtrato la poetica del drammaturgo inglese” - anche linguisticamente con detti, lazzi e battute in stretto dialetto catanese - questo esilarante Shakespeare “catanesizzato” trasforma la già divertente commedia del Bardo in una sorta di burla continua con momenti di comicità surreale (basti dire dei ruoli femminili che, dopo indicibili resistenze da “macio” siciliano, erede d’una cultura fallocrate, alcuni dei detenuti più duri sono “costretti” ad interpretare). Rari e toccanti i pochi istanti drammatici (la confessione di un detenuto, involontariamente assassino), con una chiusa che vede i protagonisti ormai “convertiti” recitare “Voculanzicula” ovvero “L’altalena” di Martoglio, senza l’aiuto della regista. Alle sole due donne in scena, la stessa Ferro (nei panni di attrice-regista del laboratorio) e l’esperta e compassata Ileana Rigano (la direttrice del penitenziario), un folto gruppo di attori quasi tutti catanesi: Agostino Zumbo, Mario Opinato, Silvio Laviano, Renny Zapato, Giovanni Arezzo, Francesco Maria Attardi, Giovanni Maugeri, Vicenzo Ricca, Antonio Marino, Dany Break. Razzisti della porta accanto, un italiano su due giustifica violenze e aggressioni sui social di mattia feltri La Stampa, 8 gennaio 2018 Migranti e rom nel mirino, dilagano antisemitismo e omofobia. Dei 55 italiani su cento che, rispondendo a un sondaggio di Swg (15 novembre 2017), hanno giustificato il razzismo, la gran parte probabilmente escluderebbe di essere razzista. La domanda era diretta: “Determinate forme di razzismo e discriminazione possono essere giustificate?”. Per il 45 per cento è “no mai”. Per il 29 “dipende dalle situazioni”. Per il 16 “solo in pochi specifici casi”. Per il 7 “nella maggior parte dei casi”. Per il 3 “sempre”. Se la domanda fosse stata “lei è razzista?” è presumibile che avrebbe risposto sì il 3 per cento per cui il razzismo è giustificabile sempre, e forse alcuni del 7 per cento per cui è accettabile nella maggior parte dei casi. Il razzismo è una malattia insidiosa, dà sintomi vaghi, talvolta deboli o indecifrabili: non si prende il razzismo come un’influenza, dall’oggi al domani. Matteo Salvini esclude di essere razzista (in buonissima fede, si deve presumere) eppure il primo gennaio ha scritto un tweet che, nella sua apparente innocuità (fra centinaia ben più aggressivi scritti dal capo leghista), spiega bene la noncuranza del pensiero e del linguaggio: “Vado a Messa a Bormio, e sento dire dal prete che bisogna “accogliere tutti i migranti”. Penso ai milioni di italiani senza casa e senza lavoro, al milione di bambini che in Italia vivono in povertà, e prego per loro”. Naturalmente è legittimo e per niente illogico ritenere che non si possano accogliere tutti i migranti, ma pregare per i poveri italiani sembra una trasposizione un po’ temeraria del sovranismo nella fede: è complicato pensare a un Dio che accolga preghiere in base al passaporto o al colore della pelle, ed è stupefacente intuire tanti cristiani disinvoltamente immemori della vocazione universalistica ed ecumenica del cristianesimo, costituzionalmente antirazzista. Il linguaggio della politica - Anche Massimo Corsaro, deputato di centrodestra, ogni volta trasecola. Dopo il derby della settimana scorsa, ha dato dello zingaro all’ex allenatore del Torino, Sinisa Mihajlovic. Così come si era rivolto al collega ebreo, Emanuele Fiano, dicendo che portava le sopracciglia folte per nascondere i segni della circoncisione. In entrambi i casi, Corsaro ha ammesso una certa intemperanza linguistica, dovuta alla foga, ma nessun cedimento al razzismo. La novità evidente è che certe cose, fino a pochi anni fa, un uomo delle istituzioni non si sarebbe nemmeno sognato di dirle e tantomeno l’avrebbe fatta franca. La violenza quotidiana - Un’inchiesta dell’associazione Lunaria, presentata a Montecitorio lo scorso ottobre, ha registrato 1483 casi “di violenza razzista e discriminazione” tra il primo gennaio 2015 e il 31 maggio 2017. Da gennaio 2007 ad aprile 2009, la stessa Lunaria ne aveva registrati 319. Di questi 1483 casi, 1197 vanno alla voce violenza verbale, e non bisogna per questo pensare che siano meno gravi: un anno fa Pateh Sabally, ventiduenne gambiano, decise di suicidarsi buttandosi nel Canal Grande a Venezia; da un vaporetto lo videro dimenarsi, nessuno si lanciò per salvarlo, alcuni gli fecero un video mentre affogava, qualcuno rideva e diceva “ueh Africa”, qualcuno gli diceva “scemo”, “negro”. Lo scorso giugno, in un centro estivo del riminese, una bambina cadde mentre giocava e due coetanei le dissero “ti sta bene che sei caduta, a terra devono stare i negri” e “io vicino a una negra non ci sto”. Lo scorso novembre, in provincia di Padova, in una partita fra quattordicenni un ragazzo nigeriano si sentì dire due volte “stai zitto negro” da un avversario che poi gli rifilò un pugno, e quando il nigeriano reagì fu espulso dall’arbitro. Sono episodi pescati alla rinfusa fra centinaia. Se ne sono citati due consumati fra bambini o ragazzini per rendere l’idea dell’aria che tira. Le istituzioni contagiate - L’aspetto più stupefacente del lavoro di Lunaria è che il maggior numero dei casi (615) ha per protagonisti “attori istituzionali”. Hanno spesso a che fare coi sindaci e le loro ordinanze teoricamente a tutela dell’ordine pubblico. Nell’agosto 2016 il sindaco dem di Ventimiglia vietò la distribuzione di cibo ai migranti in attesa alla frontiera; nello stesso periodo la sindaca di Codigoro, Ferrara, (sempre Pd) propose tasse più alte per chi affittava appartamenti ai richiedenti asilo; nel settembre 2017 il sindaco leghista di Pontida, Bergamo, decise di riservare i parcheggi soltanto a donne comunitarie ed etero. Sindaci di sinistra e di destra, tutti accomunati dallo stupore del giorno dopo, e dalla spiegazione che no, mica si trattava di razzismo. Poi, naturalmente, ci sono anche le violenze fisiche: 84. Un solo esempio, notissimo: nel luglio 2016 Emmanuel Chidi Namdi, trentaseienne nigeriano, fuggito dalle persecuzioni d’estremismo islamico di Boko Haram, passeggiava per Fermo con Chinyery, la fidanzata ventiseienne, quando due del posto hanno preso a chiamarla “scimmia”; Emmanuel provò a difenderla e fu aggredito con una spranga e, caduto a terra, massacrato a calci e a pugni. L’intolleranza via social - Fin qui si tratta di fatti di cronaca, ma poi c’è una frenetica attività di razzismo quotidiano. L’associazione Vox, in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano e La Sapienza di Roma, ha monitorato il social Twitter nel periodo che va dall’agosto 2015 al febbraio 2016, e ha trovato 412 mila tweet misogini, razzisti o omofobi. Circa 42 mila tweet erano contro i migranti in quanto tali, soprattutto se musulmani. Secondo il Pew Research Center (Think Tank di Washington) il 68 per cento degli italiani è ostile ai musulmani, e del resto un’indagine di Ipsos evidenzia che in Italia la maggioranza è convinta che gli immigrati di religione musulmana siano oltre il 20 per cento della popolazione, quando invece la percentuale balla fra il 2,5 e il 3,5 per cento (secondo varie fonti, che tengono più o meno conto dell’immigrazione clandestina). Così, per tornare all’inizio, al sondaggio di Swg, si scopre che tendenzialmente gli italiani preferiscono per vicino di casa un ebreo piuttosto che un musulmano, ma preferiscono un altro italiano piuttosto che un ebreo, qualsiasi cosa voglia dire, visto che gli ebrei in Italia sono quasi tutti italiani. Cresce l’antisemitismo - E qui arriviamo all’ultimo studio, proposto dalla Anti Defamation League - Osservatorio antisemitismo Italia. Nel 2016 i casi di antisemitismo in Italia sono stati 130, almeno quelli di cui si è venuti a conoscenza; dieci anni prima, nel 2006, erano stati 45. “Dalla Palestina alla Patagonia... Gli avvoltoi giudei alla conquista del pianeta”, “sionisti cancro dell’umanità”, “semiti assassini rituali” si legge su vari profili Facebook dedicati alla riemergente lotta all’ebreo; nei dintorni dell’antico ghetto di Ferrara, poche settimane fa, via Voltapaletto è stata trasformata a vernice in via Hitler; all’ingresso del liceo Seneca di Roma, a ottobre è apparsa la scritta “ingresso ebrei”. Anche qui si potrebbe andare avanti per pagine, resta giusto lo spazio per dire che - sempre secondo l’Anti Defamation League - nel 2014 il 20 per cento degli italiani aveva sentimenti o pregiudizi antiebraici (come, per esempio, “gli ebrei muovono l’economia mondiale contro gli altri popoli”), e nel 2015 erano saliti al 29. E per ricordare la manifestazione filopalestinese del 29 dicembre a Milano, piazza Cavour, dove immigrati musulmani hanno scandito un coro tradizionale: “Ebrei tremate, l’armata di Maometto ritornerà”. Per sottolineare l’ovvio: nelle società dove il razzismo cresce, chi lo subisce spesso poi lo alimenta, in un clima facilone, crudele ed epidemico in cui tutti hanno conquistato il diritto alla spudoratezza. Iran. Il silenzio colpevole dell’Europa di Gian Enrico Rusconi La Stampa, 8 gennaio 2018 L’Europa deve reagire attivamente a quanto sta accadendo in Iran. Non può assistere impotente ad una repressione in atto con migliaia di arresti, compresi studenti e persone non coinvolte nelle manifestazioni di protesta iniziate nelle settimane scorse e arrestate a titolo preventivo. L’Europa deve essere ferma e netta nella disapprovazione, pur senza assumere l’atteggiamento di Trump che finisce in vero e proprio incitamento alla rivolta. Un incitamento che non solo avvalla la denuncia dei governanti iraniani che la rivolta sarebbe stata fomentata da potenze straniere, ma provoca un inevitabile deterioramento dei rapporti con il regime iraniano. Un circolo vizioso che servirà a Trump per giustificare la desiderata disdetta dell’accordo sul nucleare, raggiunto dalla amministrazione Barak Obama e convintamente condiviso dagli europei. A questo punto l’Europa deve scrollarsi di dosso l’accusa fatta dal vice di Trump, Mike Pence, di un “Europa pavida”, che non prende posizione. Non può quindi accontentarsi della dichiarazione dell’Alto rappresentante per la Politica estera europea, Federica Mogherini, che “dimostrazioni pacifiche e libertà di espressione sono diritti fondamentali che si applicano a ogni Paese e l’Iran non fa eccezione”. L’Europa deve fare una politica attiva autonoma, autorevole. Questa è l’occasione, proprio perché complicata e al di sopra della visione semplicistica di Trump. La situazione che si sta creando è ben peggiore di quella verificatasi mesi fa in Turchia, quando la reazione di Erdogan al denunciato “colpo di Stato” ha portato ad una indiscriminata e generalizzata negazione dei diritti civili fondamentali contro cui l’Europa si è limitata a protestare. La situazione iraniana attuale è molto più complessa. La protesta popolare delle settimane scorse, ha messo a nudo una profonda tensione all’interno del sistema politico iraniano. Era motivata da una situazione economica e sociale in drammatico peggioramento, causata da misure di austerity che hanno fatto esplodere i prezzi del pane, della benzina e di altri beni di prima necessità. Paradossalmente erano misure di un governo che si presentava come “riformatore”. Ma chi è sceso in piazza protestava anche contro la corruzione e le speculazioni finanziarie di gruppi religiosi, che hanno bruciato per loro obiettivi particolari i risparmi di migliaia di famiglie a reddito modesto. Protestava anche contro il mancato mantenimento delle promesse in tema di libertà civili in particolare, ma non solo, per quanto riguarda le donne, e di riduzione del soffocante controllo da parte delle autorità religiose. La protesta ha investito la costruzione complessiva del regime, mescolando ragioni e obiettivi anche opposti: di chi vuole spingere per le riforme e di chi approfitta del malcontento per cercare di tornare indietro. In queste ore in cui viene annunciato che “la sedizione” è stata vinta dalle forze conservatrici, i commenti degli osservatori esterni sono assai perplessi e di segno molto diverso. È finito il governo “riformatore” di Rohani, contro cui è scoppiata la rivolta? Che cosa faranno le forze conservatrici fedeli alla Guida suprema Khamenei che si attribuiscono il merito della repressione e che non hanno mai accettato di buon grado gli accordi sul nucleare con l’Occidente egemonizzato dall’America? O sono anch’esse divise al loro interno? Non potrebbe qui aprirsi uno spiraglio di una nuova intesa grazie alle potenze europee? Perché Bruxelles non prende una sua iniziativa? Iran. Minori impiccati e torture, il dramma dei diritti umani nella Repubblica islamica di Paolo Mastrolilli La Stampa, 8 gennaio 2018 Il rapporto Onu: oltre 530 esecuzioni capitali in un anno. “La Special Rapporteur si rammarica del fatto che le informazioni ricevute non rivelano alcun miglioramento significativo riguardo la situazione dei diritti umani nel Paese”. Basta arrivare al quarto paragrafo nell’introduzione del rapporto presentato il 17 marzo scorso da Asma Jahangir allo Human Rights Council dell’Onu, per trovare questa bocciatura netta dell’Iran. Molti denunciano le violazioni dei diritti umani nella Repubblica islamica, da Amnesty International a Human Rights Watch. Ad esempio si stima che tra il gennaio del 1980 e il giugno del 1981, quando era caduto Banisadr, 906 oppositori erano stati giustiziati, contro i circa 8.000 uccisi nei quattro anni successivi. La Freedom House oggi giudica “non libera” la stampa iraniana, mentre su questo punto Reporters Without Borders ha messo il Paese al 174° posto su 179 nazioni. La giurista pakistana Jahangir ha però un ruolo sopra le parti, essendo stata nominata Special Rapporteur sulla situazione dei diritti umani nella Repubblica islamica dallo Human Rights Council dell’Onu, e quindi la sua analisi aiuta a capire in maniera obiettiva lo stato delle cose: “Il governo non ha ancora accettato le richieste fatte dal 2002 sull’indipendenza di avvocati e giudici; le esecuzioni extragiudiziali, sommarie e arbitrarie; le questioni delle minoranze; la promozione e la protezione del diritto alla libertà di opinione ed espressione; la discriminazione contro le donne; le sparizioni forzate e involontarie; le detenzioni arbitrarie”. Jahangir nota gli sforzi fatti dal presidente Rohani, ma sottolinea che su 291 raccomandazioni ricevute nel 2014, Teheran ne ha accettate 131, parzialmente sostenute 59 e bocciate 101. Tra i diritti civili e politici, il primo ad essere minacciato è quello alla vita. Nel 2016 in Iran ci sono state almeno 530 esecuzioni, che lo mettono al secondo posto nella classifica mondiale dopo la Cina, e spesso le garanzie basilari del processo sono ignorate. “Nell’ultimo decennio la Repubblica islamica ha giustiziato il maggior numero di minorenni al mondo. Nonostante il divieto assoluto in base alle leggi internazionali, il Codice Penale Islamico ancora prevede la pena di morte per i ragazzi con 15 anni lunari d’età e le ragazze di 9 anni”. Almeno 5 esecuzioni di minorenni sono avvenute e 3 erano imminenti, con oltre 78 condannati in attesa di essere giustiziati. Il governo, poi, “non ha accettato alcuna delle 20 raccomandazioni sulla tortura, o altre punizioni crudeli, disumane o degradanti”. Le confessioni forzate proseguono, mentre la legge islamica giustifica pene come le frustate, le amputazioni o l’accecamento, inflitto ad esempio ad un condannato curdo identificato come Mohammad Reza: “Il governo rifiuta di considerarle torture e le ritiene efficaci per la deterrenza della criminalità”. In almeno 18 casi ha negato anche le cure mediche in carcere. “La professione legale non è indipendente”, e meno ancora quella giudiziaria, che ha il diritto di negare la licenza agli avvocati. Almeno 50 di essi sono stati processati “per aver rappresentato prigionieri di coscienza, detenuti politici, e di “sicurezza nazionale”. Il diritto ad un processo giusto è aleatorio, anche perché le leggi sono spesso vaghe e i reati in contrasto con le norme internazionali, come ad esempio “i crimini contro Dio, insultare il Santo Profeta, le relazioni consensuali etero ed omosessuali tra adulti, seminare la corruzione e l’apostasia”. Convertirsi dall’islam ad un’altra religione è un reato. La libertà di espressione, opinione e accesso all’informazione è negata. Nel dicembre del 2016 “almeno 24 giornalisti erano in prigione per attività pacifiche”, mentre Mohammad Fathi era stato condannato a 459 frustate per aver criticato le autorità della sua città. La libertà di associazione è minacciata, e “diversi difensori dei diritti umani sono stati imprigionati”, come Golrokh Ebrahimi, Arash Sadeghi, Ali Shariati e Saeed Shiraz. Il governo poi “ha rigettato le raccomandazioni volte ad assicurare pari diritti ed opportunità a donne e ragazze”. I matrimoni dei bambini restano legali, 13 anni per le ragazze e 15 per i ragazzi, mentre “le leggi che richiedono alle donne di osservare il codice islamico dell’abbigliamento, hijab, continuano ad essere applicate da agenti e cittadini. Le minoranze etniche e religiose, come Bahài, sufi, cristiani e curdi, restano perseguitate. Iran. “Se l’Europa resterà in silenzio, i ragazzi spariranno nelle carceri” di Viviana Mazza Corriere della Sera, 8 gennaio 2018 L’Italia e l’Europa possono fare qualcosa di concreto per gli iraniani: difendere i manifestanti arrestati e i loro avvocati, dice da Teheran Nasrin Sotoudeh al Corriere. “Penso che l’Europa e l’Italia abbiano adottato un approccio formale corretto: hanno sospeso i viaggi di alcuni leader europei in Iran, e la lettera ufficiale di protesta dell’Ue era buona. Ma per gli avvocati è quasi impossibile rappresentare i manifestanti nei Tribunali rivoluzionari, il che contribuisce alla loro situazione preoccupante. Speriamo che questo venga discusso, come pure la liberazione incondizionata dei legali detenuti e la fine delle pressioni e dei processi contro di loro”. Nasrin Sotoudeh è una dei pochi avvocati rimasti in Iran a difendere i diritti umani, nonostante sia stata in carcere per tre anni per aver fatto il suo lavoro, rappresentando dissidenti e attivisti. Graziata nel 2013, solo dopo un lungo sit-in ha ottenuto di tornare a praticare legge. Ora con cinque colleghi (Shirin Ebadi, Abdolkarim Lahiji, Mohammad Olyaeifard dall’estero; Mohammad Seifzadeh e Mahmoud Esfahani in patria), Sotoudeh ha pubblicato un comunicato per rivendicare il diritto sancito dalla Costituzione iraniana alle proteste pacifiche: politici sia conservatori che riformisti le hanno definite illegali, ma per legge non è necessario alcun permesso. Chiede anche l’immediata liberazione dei manifestanti e l’arresto di chi ha ordinato la repressione. Quali sono le vostre maggiori preoccupazioni riguardo alle proteste? “Date le esperienze avute in passato con le operazioni di intelligence e di sicurezza, siamo preoccupati per il trattamento dei manifestanti: saranno processati nei Tribunali rivoluzionari e rischiano pesanti condanne. Otto anni fa i servizi segreti reagirono alle proteste con estrema durezza. Ci sono persone ancora in prigione da allora, tra cui il mio collega Abdolfattah Soltani, condannato a 10 anni e da 7 in carcere solo per aver svolto il suo lavoro di avvocato. La nostra più grande preoccupazione è che i diritti dei manifestanti vengano calpestati, usando violenza contro le proteste pacifiche ed emettendo sentenze durissime”. Lei difenderà in tribunale alcuni degli arrestati? “Se me lo chiedono dovrò affidarli ai miei colleghi, perché se presentano me come avvocato verranno minacciati e le loro chance durante il processo peggioreranno. I Tribunali Rivoluzionari dicono agli imputati che prendere un legale nuocerà alla loro situazione e che invece se si affidano alle autorità tutto andrà bene: lieti di queste promesse, spesso non scelgono un avvocato difensore”. Rouhani aveva promesso di aiutare i prigionieri politici. Oggi però come nel 2009 ci sono arresti di massa e il rischio della pena di morte. Cosa è cambiato? “La situazione dei Tribunali rivoluzionari non è cambiata dal 2009, anzi in alcuni casi è peggiorata. Molti avvocati vengono sconfitti in aula; la settimana scorsa hanno detto a un mio collega che non poteva rappresentare l’imputato; i legali sono sempre più esposti a minacce, alcune delle quali vengono messe in atto. Il Centro dei difensori dei diritti umani, la più importante fondazione in difesa dei manifestanti, è stato chiuso: il suo capo (Shirin Ebadi, ndr) ha dovuto lasciare il Paese e tutti i membri sono in prigione o da poco liberati. Parlare di giustizia in assenza di avvocati indipendenti non ha senso”. È vero che queste proteste coinvolgono soprattutto i poveri? Sono state violente? “È da tempo che la gente soffre per problemi economici. Ogni giorno vediamo lavoratori minorenni nelle strade, donne e giovani senza mezzi di sostentamento, vediamo la corruzione economica e giudiziaria. Tutti questi problemi hanno reso la situazione soffocante, spingendo il popolo a protestare. Pensiamo a istituzioni finanziarie come la Caspian che hanno perso tutti i risparmi della gente. L’evidente ondata di ingiustizie ha ferito la coscienza pubblica. Le storie delle prigioni negli anni ‘80 e l’uccisione di dissidenti, l’apartheid verso le minoranze religiose non musulmane, i diritti delle donne (in particolare l’obbligo e le difficoltà legate alll’hijab), i diritti dei lavoratori non pagati, le violenze contro gli studenti nel 1999 e nel 2009: tutto questo era fuoco sotto la cenere, e si è riacceso partendo dai più deboli nella società. Le manifestazioni in generale sono state pacifiche, anche se ci sono stati episodi violenti. È nostro dovere chiedere a tutti di agire nel rispetto della legge”. Siria. Non si ferma l’offensiva su Idlib, migliaia di civili in fuga di Marta Serafini Corriere della Sera, 8 gennaio 2018 Continuano gli attacchi di Damasco contro la roccaforte dell’opposizione del nord del Paese iniziati a Natale. La Mezzaluna Rossa: almeno 100 mila persone coinvolte. Si teme una nuova emergenza umanitaria. Migliaia di persone in fuga nel nord della Siria. Le forze di Damasco e le milizie loro alleate hanno iniziato un’offensiva sulla zona di Idlib, nel nord-ovest, la più grande in Siria ancora in mano ai ribelli anti-regime, dopo la recente dichiarazione della sconfitta dell’Isis. Come risultato, migliaia di civili sono ora in fuga verso nord, verso il confine turco mentre le temperature sono particolarmente rigide. Secondo la Mezzaluna Rossa sono coinvolte almeno 100 mila persone. Settimana scorsa il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov aveva annunciato l’operazione. Particolare preoccupazione destano i rischi per la popolazione civile. La zona è abitata da 2 milioni di siriani cui si vanno ad aggiungere gli sfollati provenienti da altre parti del Paese. Negli ultimi due mesi le truppe di Damasco sostenute dai raid russe hanno catturato più di 80 villaggi e cittadine nella regione. L’offensiva è diventata particolarmente cruenta a partire dal giorno di Natale, quando il comando delle operazioni è stato preso dal generale Suheil al-Hassan, ribattezzato Tiger, considerato uno dei più feroci nella battaglia alle forze ribelli e l’artefice della sconfitta dell’Isis a Deir el Zor. Secondo l’Osservatorio per i diritti umani dal 25 dicembre sono morti 43 civili, 57 ribelli e 46 soldati. L’intervento del Cremlino a fianco dell’alleato Bashar el Assad ha avuto un forte impatto sull’andamento del conflitto dal settembre del 2015. Il regime è tornato a controllare il 55% del territorio, anche se è evidente come la guerra non sia finita. Assad ha accolto la proposta russa, turca e iraniana di organizzare un vertice di pace per la fine del mese a Sochi. Decine di gruppi ribelli, però, hanno già fatto sapere che non prenderanno parte a questo tentativo di “aggirare il processo di Ginevra” sotto l’egida dell’Onu, anche se questo non ha ancora dato risultati apprezzabili. Etiopia. “Libereremo tutti i detenuti politici”. Ma è un errore di traduzione di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 8 gennaio 2018 Il provvedimento in realtà riguarderà un numero contenuto di prigionieri. Il governo inoltre annuncia la chiusura del carcere definito da Amnesty: “Una camera delle torture”. A raffreddare gli animi dopo l’entusiasmo suscitato dall’annuncio della liberazione di tutti i prigionieri politici avvenuta nei giorni scorsi ci pensa lo stesso primo ministro etiope Hailemariam Desalegn che a poche ore dalla conferenza stampa di cui è stato protagonista ha subito fatto un passo indietro con un blando: “Scusate, ma c’è stato un errore”. Il passo. L’errore cui si riferisce il comunicato inviato dall’ufficio di Desaleng sarebbe di traduzione. Nel documento infatti si sottolinea che solo “alcuni esponenti di partiti politici e altri individui che sono stati sospettati di crimini o condannati saranno graziati o i loro processi interrotti alla luce di una valutazione che verrà fatta per creare un accordo nazionale e allargare la sfera politica”. Ancora incerto il numero di quanti torneranno in libertà, le tempistiche e le modalità, fatto sta che l’annuncio rappresenta un piccolo e timido passo avanti di Addis Abeba additata da ong e governi internazionali a causa delle leggi draconiane usate per contrastare i dissidenti e delle azioni coercitive per fermare gli oppositori. La prigione. Questa tiepida apertura del governo riguarda anche il provvedimento, annunciato e non smentito da Dasaleng, che riguarda la chiusura del carcere di Maekelawi, nella capitale etiope, definito da Amnesty “camera delle torture usata dalle autorità etiopiche per interrogare con brutalità chiunque osi dissentire, compresi manifestanti pacifici, giornalisti ed esponenti dell’opposizione”. E sempre la ong ha espresso apprezzamento per la sua chiusura affermando però nelle parole di Fisseha Tekle, ricercatore di Amnesty International sull’Etiopia, che “un nuovo capitolo in materia di diritti umani potrà essere aperto solo se le denunce delle torture praticate a Maekelawi e altrove saranno indagate e i responsabili saranno puniti”. Orecchie da mercante. Nonostante la volontà di fare della prigione un museo, il governo continua a rigettare le accuse mosse dagli attivisti e dalle vittime circa le torture, gli abusi e le violenze cui sono stati sottoposti i detenuti all’interno delle alte mura di Maekelawi. Sordo anche di fronte alle richieste incessanti della comunità internazionale di ricercare i responsabili delle violazioni dei diritti umani e di agire per scongiurare una volta per tutte corruzione e processi ingiusti. Fuori o dentro. Ancora dunque non è chiaro chi sarà scarcerato e chi invece continuerà a scontare la condanna espressa spesso e volentieri da giudici corrotti in processi iniqui. Fatto sta che tra i detenuti etiopi figurano centinaia di attivisti delle regioni di Amhara e Oromia, centro delle proteste contro il governo di Addis Abeba. Per non parlare dei giornalisti arrestati per aver pubblicamente contestato l’operato di Desaleng e dei suoi collaboratori. Mentre stando alle cifre raccolte dalla Bbc sono mille i condannati in base alla legge antiterrorismo e tra questi figurano anche leader dell’opposizione. Mentre 5.000 sono i processi in corso contro le persone arrestate dopo la proclamazione dello stato di emergenza, a ottobre 2016, revocato lo scorso agosto. Arabia Saudita. L’Onu contro Riad: “attivisti vengano scarcerati” di Roberto Vivaldelli occhidellaguerra.it, 8 gennaio 2018 Nuove violazioni dei diritti umani da parte dell’Arabia Saudita. Gli esperti indipendenti dell’Onu, incaricati di monitorare il rispetto dei diritti umani nel mondo, hanno chiesto a Riyad di porre fine alla repressione degli attivisti e a rilasciare dozzine di detenuti in carcere dallo scorso settembre in modo che possano esercitare pacificamente i loro diritti civili e politici. A renderlo noto è Middle East Eye. Secondo gli esperti dell’Onu, sarebbero più di 60 i religiosi, scrittori, giornalisti, accademici e attivisti in carcere per motivi politici. “Stiamo assistendo alla persecuzione dei difensori dei diritti umani colpevoli di aver esercitato pacificamente i loro diritti in nome della libertà di espressione, di associazione e credo”, sottolineano i cinque esperti indipendenti, che denunciano “un modello preoccupante di arresti e detenzioni arbitrarie diffuse e sistematiche attraverso l’uso, da parte del regno, delle leggi in materia di antiterrorismo e sicurezza”. Secondo il rapporto delle Nazioni Unite, tra i detenuti ci sarebbe anche il predicatore Salman al-Ouda, che gli esperti dell’Onu definiscono un “riformista”, nonché “una figura religiosa che ha sollecitato un maggiore rispetto per i diritti umani nell’ambito della Shari’a”. Salman al-Ouda è un personaggio molto noto, membro dell’International Union for Muslim Scholars, nonché direttore dell’edizione araba del sito web Islam Today. La notizia dell’arresto del religioso è apparsa anche sul Times lo scorso settembre: al-Ouda avrebbe esortato il governo saudita, attraverso un tweet, a sanare la spaccatura con il Qatar e per questo motivo sarebbe stato incarcerato dalle autorità. Tra le personalità finite in carcere, secondo l’Onu, ci sarebbero anche lo scrittore e accademico Abdullah al-Maliki, gli imprenditori Essam al-Zamel, e Abdulaziz Al Shubaily e Issa bin Hamid al-Hamid, dell’Associazione saudita dei diritti civili e politici (Acpra). “Nonostante sia stato eletto come membro del Consiglio per i diritti umani alla fine del 2016, l’Arabia Saudita continua a praticare arresti arbitrari dei difensori dei diritti umani e dei critici del governo”, hanno sottolineato gli esperti delle Nazioni Unite. Samah Hadid, direttrice delle campagne umanitarie per Amnesty International in Medio Oriente, aveva definito l’ondata di arresti iniziata in settembre su indicazione del principe ereditario Mohammad bin Salman, “un momento oscuro per la libertà di espressione in Arabia Saudita”. La comunità dei diritti umani impegnata a Riyad, ha sottolineato, “ha già pesantemente sofferto per colpa delle autorità, e ora con questi ultimi arresti quasi tutti i più importanti difensori dei diritti umani sono ora in prigione per accuse di terrorismo fasulle. Questi pacifici attivisti dovrebbero essere applauditi per il loro coraggio nel difendere i diritti umani, non rastrellati e rinchiusi”. Nonostante la recente presa di posizione degli esperti delle Nazioni Unite, raramente l’Onu ha criticato con fermezza il regno wahabita per la sua condotta. Tutt’altro. Lo scorso aprile l’Arabia Saudita ha ottenuto un posto tra i 45 membri che costituiscono la Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne (Uncsw), l’organismo Onu più impegnato nella lotta per l’uguaglianza di genere. Inoltre, nel giugno 2015, l’ambasciatore saudita Faisal bin Hassan Trad è stato nominato per un periodo presidente del Gruppo consultivo del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (Unhrc). Nomine frutto di compromessi politici che hanno suscitato molte polemiche e indignazione per un paese ai primi posti per il numero di pene capitali imposte, processi sommari e limitazione della libertà d’espressione ma che rimane un grande alleato geopolitico dell’Occidente e degli Stati Uniti.