Csm, via la moratoria sui nuovi incarichi: una norma agita le toghe di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 7 gennaio 2018 La riforma riguarda i sedici tra pubblici ministeri e giudici eletti nell’organo di autogoverno delle toghe. Finito il mandato si potrà concorrere subito per ruoli direttivi. Ha un nome il padre della norma che agevola i consiglieri togati del Consiglio superiore della magistratura, inserita alla chetichella nella legge di bilancio proprio sul traguardo, alla vigilia di Natale. Un provvedimento malvisto dai magistrati (a parte qualche diretto interessato, forse, e pochi altri, par di capire) presentato da Paolo Tancredi, deputato inizialmente del Popolo della libertà, passato al Nuovo centro destra di Alfano, rimasto fino all’ultimo nella maggioranza e oggi schierato con la formazione della ministra Lorenzin. Il quale candidamente racconta: “Io non ne sapevo nulla, me l’hanno proposto alcuni giudici, con la mediazione di qualche collega senatore, mi sono trovato d’accordo e ho sottoscritto anche questo emendamento, tra circa centocinquanta. Sinceramente ritenevo fosse inammissibile, perché è una norma ordinamentale che non ha nulla a che vedere con le spese dello Stato; non avrei certo fatto le barricate, ma è stato ammesso e approvato, per me va bene così”. La riforma riguarda i sedici tra pubblici ministeri e giudici eletti nell’organo di autogoverno delle toghe che con la vecchia regola, terminato il mandato quadriennale, dovevano tornare alla scrivania dalla quale erano venuti, e per almeno un anno non potevano concorrere per uffici direttivi o semi-direttivi, o altri incarichi fuori ruolo, nei ministeri o altrove. D’ora in poi, grazie all’emendamento Tancredi approvato prima in commissione e poi in aula senza dibattito perché il governo ha posto la fiducia sull’intero testo (solo l’articolo 1 è composto di oltre mille commi, e questo è il 469), non sarà più così: dal giorno dopo il rientro potranno aspirare a un posto da capo, vicecapo o fuori dai palazzi di giustizia. Un vantaggio non da poco, senza quel periodo di decantazione - fissato a due anni nel 2002, dopo alcune nomine di ex consiglieri che avevano fatto discutere, ridotto a uno con la riforma Madia del 2014 - inserito per non dare l’impressione di un ritorno nei ranghi ordinari con eventuali vantaggi derivanti dal precedente incarico “di potere”; anche in relazione a poltrone da assegnare o lasciare scoperte per essere occupate in seguito, per esempio. Insomma, una riforma che può gettare possibili ombre sull’operato del Csm in questo ultimo scorcio di consiliatura (scade a settembre prossimo) e in futuro. Per questo non era ben vista dal ministero della Giustizia, né dai vertici dell’Associazione nazionale magistrati e - da quanto trapela - dello stesso Consiglio. Ma in Parlamento, a parte il vaglio sull’ammissibilità dell’emendamento, al momento del voto nessuno s’è opposto in maniera efficace; oppure tutto è accaduto talmente in fretta da lasciare il tempo di capire il peso della decisione. L’onorevole Tancredi non rinnega nulla: “A me i magistrati non stanno simpatici, ma in questo caso credo non sia giusto alimentare dubbi su conflitti d’interessi o altro; io sono contrario a inutili regole di presunta trasparenza, abbiamo già fatto abbastanza danni con la legge Severino”. Inutile chiedere da chi è arrivata la sollecitazione a presentare la modifica: “Non lo dico per correttezza nei loro confronti, un magistrato mi ha telefonato per caldeggiarla ma non era direttamente interessato”. Interessati seppure indirettamente, invece, sono i giudici e pm che in queste ore stanno riempiendo le mailing list con proteste, richieste di chiarimenti e dichiarazioni di contrarietà. Il coordinamento di Area, la corrente della sinistra giudiziaria, stigmatizza “un intervento legislativo gravemente censurabile nel metodo e nel merito, che non ha alcuna plausibile giustificazione e rischia di danneggiare l’immagine del Csm”, auspicando che “l’intera magistratura, attraverso l’Anm, esprima una voce unitaria critica e di presa di distanza da un provvedimento che danneggia l’autorevolezza delle scelte consiliari e fa male alla magistratura”. Se l’attentato è a un avvocato, zero titoli di Piero Sansonetti Il Dubbio, 7 gennaio 2018 Il caso dell’avvocata Adriana Quattropani, alla quale hanno messo una bomba sotto l’automobile, è passato sotto silenzio sui media. Qualche giorno fa in Sicilia, a Pachino, hanno messo una bomba, che è esplosa, sotto l’automobile dell’avvocata Adriana Quattropani. Probabilmente è stata la mafia. La notizia è stata riportata dai giornali locali e dal Dubbio. Punto. Mettiamo l’avvocato in Costituzione. Ho provato a immaginare cosa sarebbe successo se avessero fatto saltare l’automobile di un magistrato. O addirittura di un giornalista. Penso che la notizia avrebbe conquistato la prima pagina di tutti i giornali. Alcuni giornali le avrebbero dedicato il titolo principale della prima pagina e svariati commenti. Sarebbe intervenuto il governo. Qualcuno avrebbe chiesto al Parlamento di varere una nuova legge ad hoc. Forse ci sarebbe stato uno sciopero di qualche ora. Il ministero avrebbe dato ordine alla questura di Caltanissetta di mettere sotto scorta la magistrata o la giornalista (ci sono molti giornalisti che sono sotto scorta anche se non hanno mai subito nessun attentato). Nel caso dell’avvocata invece non è successo niente di tutto questo. E immagino che a parte qualche migliaio di siciliani della provincia di Caltanissetta, e i lettori del Dubbio, nessun altro sia a conoscenza del fatto. Del resto negli ultimi mesi, sebbene non si abbiano notizie, per fortuna, di attentati a magistrati e giornalisti (i primi, giustamente, sono abbastanza protetti, i secondi, saggiamente, non sono considerati affatto pericolosi, come era una volta) si hanno invece diverse notizie di attentati agli avvocati. Un avvocato, addirittura è stato ucciso, a Lamezia Terme. Un’altra avvocata è stata ridotta in fin di vita a Milano. Il sistema informazione è pochissimo interessato a questi fatti, perché molto raramente il sistema informazione trova “complicità”, (o offre complicità) nel mondo forense, mentre invece, molto spesso, le trova e le offre nel mondo della magistratura. Negli ultimi anni l’alleanza di ferro tra magistrati e giornalisti ha messo gli avvocati in una condizione difficile. Esiste una parte della magistratura che considera l’avvocato come il nemico da battere. E il lungo anno che ha visto Piercamillo Davigo alla testa della associazione nazionale magistrati ha aggravato questa condizione. Ora le cose sono un pochino cambiate, con l’elezione di Eugenio Albamonte al vertice della Anm e la definizione della sua linea che vede nella collaborazione tra avvocati e magistrati la via giusta per migliorare il funzionamento della giustizia. Ma la linea di Albamonte, sebbene sia la linea ufficiale dell’associazione (e anche del Csm), non è certo maggioritaria in quel pezzo di magistratura che costituisce il nocciolo duro dell’alleanza coi giornalisti. Cioè quella più potente e più vistosa mediaticamente. E’ chiaro che il problema della tutela degli avvocati, sia dal punto di vista pratico – e persino fisico sia dal punto di vista “ideale”, si pone con urgenza. Quello che si è appena chiuso è un anno di grandi conquiste per la categoria (che ha ottenuto l’equo compenso, la modifica dei parametri forensi, il legittimo impedimento per le avvocate in gravidanza, e ha sventato la minaccia di alcune controriforme della giustizia che avrebbero indebolito lo stato di diritto). Resta però aperto il problema di chiarire, a livello di massa, il ruolo dell’avvocato nella società. Non è facile far passare l’idea che l’avvocato non è una appendice dell’imputato, e dunque, forse, del colpevole. Ma è una figura autonoma e decisiva per il funzionamento di una giustizia libera e fondata sulla prevalenza del diritto. L’idea che si va diffondendo sempre di più, grazie alla deriva giustizialista che sta travolgendo giornalismo e intellettualità, è che il valore della legalità sia tanto più forte quanto più sono numerose le condanne penali e quanto più sono severe le pene. E dunque è bene indebolire il ruolo e il potere dell’avvocato. E’ difficilissimo spiegare che non è così. La legalità è esattamente l’opposto dell’idea autoritaria e repressiva che sta dietro il giustizialismo, e che è la linfa di tutte le ideologie totalitarie. Il valore della legalità sta nella certezza del diritto, nella difesa dei diritti civili, nella limpidezza e lealtà delle regole di funzionamento del processo. Non esiste nessuna idea di legalità che possa prescindere dal concetto che la giustizia si afferma nei processi (e non nei sospetti o nei linciaggi mediatici) e che il processo deve svolgersi in una condizione di assoluta parità tra accusa e difesa. Proprio per questa ragione la figura dell’avvocato, cioè del rappresentante e del protagonista della difesa, ha una rilevanza assoluta nella affermazione di una società fondata sulla legalità. Tanto più è debole la figura dell’avvocato, tanto meno è forte il valore della legalità. Per questo gli avvocati, e in particolare il Cnf, si sono posti l’obiettivo di “costituzionalizzare” la figura del difensore. In modo da riequilibrare il rapporto con l’accusa e soprattutto in modo da chiarire il ruolo e l’importanza assoluta dell’” istituzione- avvocato”. La proposta è quella di riformare l’articolo 111 della Costituzione, quello che regola il giusto processo, con una piccola modifica dopo il secondo comma, introducendo un paio di frasette, brevi ma molto importanti: “ Nel processo le parti sono assistite da uno o più avvocati (…) L’avvocato esercita la propria attività professionale in posizione di libertà e di indipendenza, nel rispetto delle norme di deontologia forense”. Non è una necessità burocratica. Non è un dettaglio. È una affermazione di principio e l’inizio di una battaglia. L’inizio? Sì, perché poi si dovrà ottenere un altro risultato: che l’articolo 111 della Costituzione sia applicato davvero e diventi senso comune. Oggi l’articolo 111 è una bellissima affermazione di principio, che sta lì, abbastanza lontano dalla pratica, dal senso comune e anche dalla conoscenza dell’intellighenzia, che in genere non ne sospetta nemmeno l’esistenza. Per estirpare la corruzione tutti dobbiamo essere dei “cittadini monitoranti” di Agnese Moro La Stampa, 7 gennaio 2018 Tra i grandi cambiamenti di cui il Paese ha bisogno per non essere travolto dalla tentazione distruttiva del “si salvi chi può” c’è l’annoso problema della corruzione. Un sistema complesso di piccoli e grandi interessi, di piccole e grandi complicità che si fanno sistema, privilegiando indebiti tornaconti privati a discapito del bene pubblico. Impedendo alla società e al Paese di respirare liberamente. L’associazione Libera e il Gruppo Abele ci offrono ora l’occasione, con una bella campagna e molte iniziative, di occuparcene tutti (http://www.libera.it/schede-163-insieme_contro_la_corruzione ). Innanzitutto ci danno, con il Rapporto 2017, la possibilità di conoscere meglio la situazione sotto diversi punti di vista. Solo per ricordarne alcuni: la consistenza numerica, le conseguenze per l’ambiente, la situazione negli appalti, l’insufficienza dei deterrenti, la diffusione del fenomeno anche rispetto ad altri Stati dell’Unione. Ci invitano, inoltre, a sostenere proposte da presentare alle nostre istituzioni e a partecipare ad un piano di azioni concrete che si snodano attorno a tre filoni. Il primo riguarda il far emergere la corruzione dando vita ad una specifica rete di ascolto (Linea Libera) e accompagnando concretamente i testimoni di giustizia e i “segnalanti di corruzione” (“whistleblowing”) - figure queste da sostenere con una apposita normativa - in tutte le fasi (pre-segnalazione, segnalazione, post-segnalazione). Il secondo filone riguarda la formazione dei giovani, con il coinvolgimento degli insegnanti, perché possano riconoscere e resistere alla corruzione, maturando, anche attraverso la realizzazione di specifici progetti, una cultura dell’integrità. Il terzo filone vuole “difendere ciò che è prezioso”, costruendo “comunità monitoranti” di cittadini che, collaborando con le istituzioni, possano realizzare una vigilanza diffusa “affinché corrotti e corruttori restino lontani dalla cosa comune. Dalla Legge anticorruzione 190/2012 in poi - scrivono, a tutti i cittadini sono consegnati degli strumenti concreti per divenire “cittadini monitoranti”, strumenti dei quali, come Libera, vogliamo incoraggiare la conoscenza e il corretto utilizzo”. Occasione ottima per rompere qualunque forma di omertà, passando dal mugugno, dal lamento e dalla rabbia impotente ad una decisa assunzione di responsabilità sul nostro presente e sul nostro futuro. Novara: il Garante regionale dei detenuti “al carcere di serve una nuova infermeria” di Elisabetta Fagnola La Stampa, 7 gennaio 2018 La direttrice dell’istituto: “Il progetto c’è pronto da quattro anni ma non è ancora stato finanziato”. Gli spazi troppo esigui per l’infermeria, l’ex carcere femminile in abbandono e da ristrutturare, le aree per l’attività sportiva all’aperto impraticabili: sono le criticità rilevate dal garante per i diritti dei detenuti della Regione Piemonte, Bruno Mellano, sintetizzati nell’ultimo dossier presentato a Torino. È una panoramica delle esigenze degli istituti carcerari piemontesi, che tocca anche Novara, dove attualmente sono ospitati (tra regime di media sicurezza e regime di 41 bis), dati di gennaio, 170 detenuti, su una capienza regolamentare di 158 posti. Le criticità sottolineate dal garante riguardano principalmente problemi strutturali: “L’infermeria è posta al primo piano in concorrenza di spazi con le aule scolastiche e formative, spazi inadeguati e insufficienti a garantire un servizio sanitario pienamente efficace”. Lo ha rilevato anche don Dino Campiotti, il garante dei detenuti comunale: “In altre realtà esistono reparti protetti per detenuti all’interno degli ospedali, qui non è così e per questo è importante lo spazio interno destinato all’infermeria. I locali dell’ex sezione femminile potrebbero essere attrezzati a questo scopo”. Uno spazio dismesso da una decina d’anni, “il cui degrado è inevitabilmente crescente - segnala Mellano - per cui occorre prevedere con urgenza”. Il progetto c’è, fa presente Rosalia Marino, direttrice del carcere di via Sforzesca, ed è pronto ormai da quattro anni: “È uno dei tanti progetti che abbiamo inoltrato al dipartimento - sottolinea. Si tratta di spostare l’infermeria, con gli ambulatori, la sala dentistica, quella radiologica, nell’ex spazio del carcere femminile al piano terra, liberando così stanze per didattica e formazione”. Il progetto era stato predisposto con l’Asl: “È un intervento da un milione di euro, ma i fondi devono arrivare dallo Stato - precisa Marino, ogni anno viene inserito nel programma triennale del dipartimento. Non è ancora stato finanziato, ma è quello che oggi ci preme di più”. Spazi per genitori e bimbi - Tre interventi sono stati approvati, di cui uno, la tinteggiatura dell’istituto, già realizzato. In cantiere c’è il recupero dei passaggi inutilizzati e dell’area sportiva esterna, inserita fra le criticità anche dal garante: “Si è formata una voragine - precisa la direttrice -, si sta valutando come intervenire”. Ma oltre alle criticità ci sono anche iniziative realizzate con il “privato sociale”, cooperative, società: la tipografia curata da “La Terra promessa”, la manutenzione del verde con Assa, che coinvolge ogni settimana tra 8 a 10 detenuti, la campagna “Bambini senza sbarre” per la genitorialità in carcere, la tensostruttura esterna da poco dotata di riscaldamento. “Il 15 gennaio organizzeremo un incontro per ringraziare chi ci ha aiutato a realizzarla - anticipa la direttrice. Questi progetti danno la misura di quanto il carcere si sia aperto alla città”. Oristano: un orto e un giardino dentro il carcere di Massama di Michela Cuccu La Nuova Sardegna, 7 gennaio 2018 Nel progetto sono impegnati 12 detenuti, di cui 6 ex 41bis. Un orto per coltivare verdure e speranze, un giardino intitolato ai giudici Falcone e Borsellino: sono in fase di realizzazione nel carcere di Massama, grazie ad una iniziativa resa possibile dalla collaborazione con la cooperativa sociale Il Seme. Sono coinvolti nel progetto dodici detenuti, 6 dei quali ex 41bis. Le verdure, una volta confezionate, potranno essere vendute anche all’esterno. Se un carcere di massima sicurezza diventa anche un orto. Succede a Massama, primo caso a livello nazionale, dove, attraverso la collaborazione con la Cooperativa sociale Il Seme, dodici detenuti, sei dei quali ex 41 bis, sono impegnati nella coltivazione di verdure che una volta raccolte e confezionate, saranno messe in vendita all’esterno. Il progetto sarà presentato ufficialmente solo fra qualche mese, ma già poco prima di Natale, sono iniziati i lavori di fresatura dei terreni e installazione del sistema di irrigazione nei cinque ettari interni alle mura della struttura detentiva. Nella parte racchiusa dalle mura perimetrali, l’orto sarà coltivato dai detenuti comuni, mentre, nella parte più interna lavoreranno gli ex 41 bis. Non saranno coltivati solo ortaggi: all’interno del carcere sorgerà anche un giardino con alberi e fiori. Il giardino, che verrà realizzato proprio dai detenuti in regime di massima sicurezza, nell’ala prospiciente l’ingresso della direzione, sarà inaugurato in primavera e dedicato alla memoria dei magistrati uccisi dalla mafia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Antonello Comina è il presidente della Cooperativa Il Seme, che da dodici anni porta avanti progetti per il reinserimento sociale dei detenuti. Spiega come le attività non siano unicamente di agricoltura sociale ma spaziano anche all’archeologia con i cantieri di scavo a Mont’e Prama, Fordongianus e Santa Giusta, solo per indicare i siti più conosciuti dove gli archeologi della Sovrintendenza si sono potuti avvalere anche del lavoro dei detenuti. “La Sardegna in questo senso è all’avanguardia a livello nazionale: è anche l’unica Regione ad aver inserito una voce di finanziamento specifico nel proprio Bilancio che consente l’accreditamento diretto ad alcune delle strutture che si occupano di reinserimento sociale dei detenuti”, dice. La realizzazione dell’orto sociale nel carcere di Massama, che, è stato battezzato “Dentro e fuori le mura” ad indicare, come spiega ancora Comina, “che dal carcere non usciranno unicamente gli ortaggi, ma anche gli stessi detenuti, che una volta espiata la condanna avranno una possibilità in più per iniziare una nuova vita da uomini liberi, avendo appunto conseguito e maturato specifiche capacità lavorative”. Ogni giorno le squadre di detenuti provetti ortolani vengono seguiti da un tecnico che una volta alla settimana, è anche affiancato da un operatore sociale. Dentro il carcere sarà allestito anche un laboratorio di confezionamento degli ortaggi che saranno commercializzati nel giardino-mercato “Madre Terra”. “È un lavoro complesso e non certo facile e bisogna crederci per ottenere dei risultati - dice Comina - in questo dobbiamo riconoscere l’apertura e la disponibilità dimostrata dal direttore del carcere, Pierluigi Farci, che ha fatto in modo che questi progetti diventassero realtà”. Il programma, autofinanziato, è stato possibile grazie alle economie che la cooperativa è riuscita ad attuare all’interno dei diversi programmi di reinserimento sociale che porta avanti con il finanziamento della Regione e della Fondazione di Sardegna. “La vendita all’esterno dei prodotti dell’orto fra le mura, consentirà anche di autofinanziare le borse-lavoro che daranno la possibilità ai detenuti di partecipare al progetto, senza costi a carico della società” dice ancora Comina che anticipa un altro progetto: l’arte dentro le mura. La prossima estate quattro detenuti, affiancati da altrettanti artisti, realizzeranno delle installazioni destinate ad essere esposte nei centri urbani. Papa Francesco: far bene senza calcoli, aiutare migranti, poveri, detenuti Adnkronos, 7 gennaio 2018 “Fare il bene senza calcoli, anche se nessuno ce lo chiede, anche se non ci fa guadagnare nulla, anche se non ci fa piacere. Dio questo desidera”. Così si è espresso il Papa nella messa dell’Epifania. “Egli, fattosi piccolo per noi, ci chiede di offrire qualcosa per i suoi fratelli più piccoli”, ha detto nell’omelia. “Chi sono? Sono proprio quelli che non hanno da ricambiare, come il bisognoso, l’affamato, il forestiero, il carcerato, il povero - ha spiegato Francesco. Offrire un dono gradito a Gesù è accudire un malato, dedicare tempo a una persona difficile, aiutare qualcuno che non ci suscita interesse, offrire il perdono a chi ci ha offeso”. Guardando all’esempio dei Magi che offrono i loro doni, il Papa ha spiegato che “il Vangelo si realizza quando il cammino della vita giunge al dono. Donare gratuitamente, per il Signore, senza aspettarsi qualcosa in cambio: questo è segno certo di aver trovato Gesù, che dice: gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. E a proposito dei “doni gratuiti”, ha ribadito che essi “non possono mancare nella vita cristiana”. “Altrimenti, ci ricorda Gesù, se amiamo quelli che ci amano, facciamo come i pagani - ha concluso. Guardiamo le nostre mani, spesso vuote di amore, e proviamo oggi a pensare a un dono gratuito, senza contraccambio, che possiamo offrire. Sarà gradito al Signore. E chiediamo a Lui: Signore, fammi riscoprire la gioia di donare”. Le leggi contro le slot non fermano l’azzardo. Persi 370 euro a testa La Stampa, 7 gennaio 2018 L’Italia ha inserito la cura e la prevenzione dell’azzardo patologico tra le prestazioni sanitarie minime. Vietato giocare. Eppure continuano a farlo tutti. Un anno di ordinanze, limitazioni, leggi, trattative, cortocircuiti istituzionali, si chiude con una constatazione: è cambiato tutto e, al tempo stesso, non è cambiato nulla. L’Italia gioca come prima, certe volte anche di più. Incurante di uno Stato come minimo ambiguo, che per la prima volta ha inserito la cura e la prevenzione dell’azzardo patologico tra le prestazioni sanitarie minime, ma al tempo stesso ostacola chi vuole imporre limiti drastici. Poco meno di 19 miliardi: tanto hanno perso gli italiani, nel 2017, tra slot, video-lottery, bingo, ippica, scommesse, lotto e affini, poker e casinò. La stima è di Agipronews, l’agenzia che si occupa di scommesse e azzardo: si basa sui dati del ministero delle Finanze nella prima metà dell’anno e su una proiezione nei sei mesi successivi. Considera la spesa e non il volume delle giocate che è circa cinque volte tanto, quasi 100 miliardi, legati in buona parte alle somme vinte e reimpiegate. Diciotto miliardi e 944 milioni di spesa significa che in media ciascuno dei 50,6 milioni di italiani maggiorenni ha dissipato oltre 374 euro in un anno, più di uno al giorno. Sembrerebbe una leggera frenata, paragonata ai 19 miliardi superati di poco nel 2016. Invece è un consolidamento, se si pensa che la spesa tra il 2009 e il 2015 si era attestata, con pochi scossoni, sui 17 miliardi. È la dimostrazione che regolamenti, limitazioni e una nuova (seppur altalenante) consapevolezza nelle istituzioni non hanno arginato la febbre del gioco. E nemmeno intaccato le casse dello Stato biscazziere, che anche quest’anno ha intascato quasi 10 miliardi di euro, l’1,9% in meno rispetto allo scorso anno ma pur sempre due miliardi in più degli anni precedenti. Come una muta scatenata - e, al solito, disordinata - sindaci e presidenti di regione le hanno tentate tutte: limitazioni agli orari, fasce proibite, ordinanze. Quindi l’arma finale, il distanziometro: banditi gli apparecchi intorno a scuole, ospedali, chiese. Risultato: le slot machine incappano in una leggera flessione (spesa giù del 5%, da 7,5 a 7,1 miliardi) interamente compensata dalla crescita delle scommesse (più 22,4%, ora valgono 1,1 miliardi) e dalle video-lottery, ossia le macchinette mangiasoldi più performanti. Sono infatti aumentate di 33 milioni di euro le somme spese negli apparecchi multi-gioco che accettano anche carte prepagate con puntate fino a 10 euro (mentre alle slot si possono scommettere al massimo 2 euro alla volta). È l’ennesimo segnale del fatto che divieti e limitazioni non hanno fornito particolari risultati, un pò perché l’Italia si è mossa alla rinfusa, come spesso accade, un pò perché i controlli sono scarsi, senza contare che certe volte l’applicazione delle norme è difficile e contestata. Torino, ad esempio, ha dovuto sospendere per quattro mesi l’ordinanza che limitava a otto ore al giorno il funzionamento delle slot, prima di avere il via libera del Tar. Bergamo, che ha fatto da apripista, ha dovuto incassare lo stop del Tar ed escludere dai divieti orari la vendita di 10eLotto e Gratta e Vinci. La Lombardia ha deciso di vietare la nuova installazione degli apparecchi in locali a meno di 500 metri dai luoghi sensibili. A Genova i metri sono 300. A Roma sono 350 all’interno del perimetro dell’anello ferroviario e 500 metri all’esterno. A Napoli si è deciso per 500 metri e non se ne parli più. Il 20 novembre il Piemonte ha deciso di vietare nei Comuni con più di 5 mila abitanti l’installazione di slot e video-lottery nei locali a meno di 500 metri dai luoghi sensibili ma c’è tempo per adeguarsi: da 18 mesi a cinque anni, a seconda dei casi. Il presidente della Regione Chiamparino ha tirato dritto nonostante i malumori del governo e le proteste dei gestori. Il suo collega ligure Toti, invece, ha preferito sospendere l’entrata in vigore della legge: se ne riparla (forse) ad aprile. In questo caos si è inserita l’estenuante trattativa tra governo ed enti locali sul riordino del settore. L’esito è un decreto del ministero dell’Economia, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il primo settembre, che prevede di ridurre del 34,9% le slot machine (da 407.323 a 264.674) entro il 30 aprile 2018 e dimezzare nel giro di tre anni i punti di offerta, oggi circa 100 mila. Il guaio è che per diventare operativa l’intesa avrebbe bisogno dei decreti attuativi da parte del governo. Chissà se vedranno la luce a due mesi dalle elezioni, anche perché nel frattempo sono emerse divergenze tra alcune regioni e governo. Vedi il caso del Piemonte, la cui legge, secondo il sottosegretario Baretta, creerebbe un “effetto espulsivo”: il 98-99% delle slot oggi esistenti in bar e tabaccherie si trova nel raggio di 500 metri dai luoghi sensibili e dunque andrebbe spenta. Ma i forzati delle macchinette non si arrendono. Nonostante le leggi restrittive, un modo per scommettere lo trovano comunque. Per aggirare i divieti, quasi sempre, basta cambiare abitudini: luoghi, orari e magari tipologia di gioco. Perché se è vero che ridurre l’offerta è l’unica strada per provare ad arginare la piaga della ludopatia, lo è altrettanto che le vie dell’azzardo sono infinite. Migranti. Naufragio a nord di Tripoli: otto corpi recuperati, tra i venti e i trenta dispersi di Alessandra Ziniti La Repubblica, 7 gennaio 2018 Il fondo di un gommone avrebbe ceduto. Soccorsi ancora in corso. Salvati in 85. Decine di dispersi. Proactiva Arms: “Superstiti per ore in acqua in attesa di aiuto, eravamo tutti lontani”. I dispersi sarebbero almeno venti, ma forse anche trenta se, come ha ricordato la guardia costiera libica, su un gommone come quello naufragato questa mattina ad una quarantina di miglia a nord di Tripoli, in direzione di Gars Garabulli, di solito i trafficanti stipano almeno 120 persone. Otto i corpi delle vittime recuperate, 84 i superstiti che sarebbero rimasti in acqua per ore aggrappati ai tubolari del gommone che stava affondando, perché le unità navali che pattugliavano il Mediterraneo, quelle militari dell’operazione Sophia e le navi delle tre Ong rimaste in mare, erano tutte abbastanza lontane dal luogo del naufragio segnalato da un aereo di Eunavformed in ricognizione. Assenti dalle acque internazionali, come ormai avviene da diverse settimane, anche le motovedette libiche che, negli ultimi tempi, hanno molto allentato la loro presenza e i pattugliamenti in mare. Il nuovo naufragio nel Mediterraneo, il primo del 2018, sarebbe stato causato dal cedimento del fondo dell’imbarcazione che si sarebbe spaccato facendo cadere a mare decine di migranti. Secondo le prime testimonianze a bordo vi sarebbero state tra 120 e 150 persone, un peso troppo grande da sostenere per un gommone così malmesso. Se le cifre fossero esatte, il numero dei dispersi sarebbe di diverse decine. L’allarme è scattato intorno alle 11 quando un mezzo aereo inserito nel dispositivo della missione europea Sophia impegnato nel controllo del Mediterraneo centrale ha individuato un gommone in difficoltà. L’imbarcazione era già semisommersa e si trovava a circa 40 miglia dalle coste libiche. Immediati sono scattati i soccorsi: nel punto indicato è arrivata nave Diciotti, della Guardia Costiera, assieme ad alcune unità della Marina Militare italiana. Secondo la Ong spagnola Proactiva Arms, i primi soccorritori giunti sul posto hanno rilevato subito che i migranti avrebbero trascorso “ore in acqua” prima di essere salvati. Le operazioni, andate avanti fino al pomeriggio, sono state coordinate dalla sala operativa della Guardia costiera di Roma che ha immediatamente lanciato l’allarme e invitato tutte le navi a dirigersi sul luogo del naufragio che però era in una zona abbastanza isolata. Droghe. Cannabis medica più cara del tartufo di Alba di Antonella Soldo* Il Manifesto, 7 gennaio 2018 Il ministero della Difesa paga 6mila euro al chilo la marijuana che non riesce a produrre per soddisfare la richiesta di farmaci cannabinoidi. La cannabis medica in Italia e i pazienti che ne fanno o vorrebbero farne uso scontano ancora i ritardi e le difficoltà che il proibizionismo ha imposto a questa sostanza. Se infatti l’avvio di una coltivazione affidata allo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze nel 2014 è stato un segnale positivo, va detto che lo stesso progetto non riesce a soddisfare la domanda. Lo scorso anno i primi 100 kg prodotti andarono esauriti in poco più di un mese. Forse per questo il ministero della Difesa - a cui fa capo lo Stabilimento di Firenze - ha cercato di correre ai ripari ed ha indetto, lo scorso 23 novembre, una gara per un approvvigionamento di 100 kg di cannabis. L’iniziativa sarebbe lodevole se non fosse per il fatto di essere ancora insufficiente e per un non trascurabile dettaglio: l’importo presunto per una tale quantità è di 573.770 euro (più Iva). Poco meno di 6mila euro al chilo. Insomma, più o meno la cifra che si pagherebbe per la stessa quantità di tartufo bianco di Alba. A rispondere al bando sono state solamente due aziende tedesche, di cui una esclusa per irregolarità nella domanda. In Italia non esistono aziende farmaceutiche che producono cannabis medica, eppure la legge lo consentirebbe. Ma la disciplina è molto rigida, poco conosciuta, soggetta a equivoci (come quello che lo Stabilimento sia l’unico ente autorizzato). Tutte ragioni che fanno temere agli imprenditori che investire in questo settore non sia ancora libero dall’alone dell’illegalità. E pensare che in Italia ci sono 8 aziende che trasformano farmaci oppiacei. Come si potrebbe superare questo impasse? Semplificare e incentivare. Magari affidare a Federcanapa, che possiede le competenze tecniche necessarie, la commessa per un approvvigionamento nazionale. *Presidente di Radicali italiani, +Europa Egitto. Regeni 2 anni dopo: “Giulio è stato tradito e infangato” di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2018 Troppa nebbia su Giulio e su cosa era andato a fare in Egitto. Hanno leso la sua immagine e danneggiato le indagini. Certa stampa, anche internazionale, ci ha giocato e noi questo non lo dimentichiamo”. Paola Regeni, la madre del ricercatore di Fiumicello assassinato in Egitto, attacca i depistatori 2.0. Non lo nomina mai, ma è chiaro che la recente polemica montata dal quotidiano inglese The Guardian ha infastidito lei e la sua famiglia. Il giornale londinese, prendendo le parti della tutor di Regeni, Maha Abdelrahman, l’Università di Cambridge e l’intero mondo accademico britannico, di fatto ha ribadito un concetto considerato odioso: “In fondo Giulio è andato a cercarsela indagando sui sindacati non governativi e facendo politica attività”. Paola Regeni affonda il colpo: “Giulio non ha mai fatto politica - si è tolta qualche sassolino dalle scarpe parlando alle 500 persone intervenute all’incontro organizzato dalla Consulta per la Pace di Jesi (Ancona) - ha svolto ricerca e interviste a 360° sulla realtà sindacale egiziana. Non ha mai fatto il giornalista, come molti hanno erroneamente affermato, preferiva usare un basso profilo. Chi dice il contrario vuole creare danni a lui, a noi e alle indagini, di cui non intendo parlare, essendo entrati in una fase decisiva. Così come hanno fatto molti all’indomani del ritrovamento del corpo. La notizia era grossa, qualcuno ha esagerato e adesso ne paghiamo le conseguenze”. L’affondo non ha risparmiato neppure la sfera professionale del figlio: “Dopo la laurea, Giulio aveva provato a rientrare in Italia - ha aggiunto Paola Regeni che tra pochi giorni compirà 60 anni. Voleva portare avanti la ricerca qui, ma non gliel’hanno consentito, non convertendogli la laurea. “Non ti preoccupare mamma, significa che farò il dottorato”, mi disse, e si organizzò per andare in Egitto”. Per ora la visita al Cairo, annunciata e pianificata in autunno, continua a essere rimandata, ma non per molto forse. In occasione del secondo anniversario della scomparsa del figlio 28enne, la famiglia Regeni sarà presente alla manifestazione organizzata a Fiumicello. I genitori di Giulio stanno organizzando la missione per il Cairo, preparando i documenti e presto potrebbero rifare il passo, ripetendo quello doloroso del 2016, quando furono costretti a riconoscere il cadavere di Giulio, martoriato dalle torture, dentro la morgue. Prima dell’incontro abbiamo riferito a Paola e Claudio Regeni sulla notizia degli scontri che si sono verificati in mattinata al Cairo. Un piccolo caso-Regeni: un ragazzo arrestato per droga è stato trovato morto con addosso segni e ferite profonde, scatenando la reazione dei familiari e di conoscenti che hanno attaccato il commissariato di al-Muqattan, alla periferia sud-est della capitale egiziana: “Non ne sapevamo nulla, è terribile. Deve essere successo qualcosa di grave per spingere quelle persone a reagire così”, è stata la reazione di Claudio Regeni. Sempre ieri, il presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, ha partecipato alle lunghe celebrazioni della vigilia del Natale cristiano copto. Una cerimonia a cui al-Sisi, durante la sua presidenza dal 2013, successiva al golpe contro i Fratelli Musulmani, ha sempre voluto partecipare. L’unico presidente egiziano, dai tempi di Nasser, che non fa mancare la sua presenza in cattedrale. Quest’anno, dopo la strage del dicembre 2016, la Messa della Vigilia, officiata da Papa Teodoro II, non si è svolta nella cattedrale di San Marco, ma in quella nuova ancora in costruzione in mezzo al deserto, a 50 chilometri a est del Cairo. Egitto. Detenuto muore torturato, scontri tra polizia e manifestanti globalist.it, 7 gennaio 2018 Gli autori della protesta respingono la tesi della polizia che il giovane sia deceduto dopo una rissa con altri reclusi. Nove feriti e venti arrestati. Scontri tra dimostranti e polizia si sono registrati questa mattina, prima dell’alba, davanti a una stazione di polizia del Cairo, dove è morto un giovane arrestato il giorno. Gli scontri, davanti alla stazione di polizia di Mokattam al Cairo, hanno avuto un bilancio di nove persone ferite e 20 persone arrestate, secondo fonti delle forze di sicurezza. I manifestanti hanno dato fuoco a pneumatici e automobili, rendendo necessari l’intervento dei pompieri. Il giovane deceduto, soprannominato “Afroto”, era stato arrestato ieri mattina con l’accusa di traffico di droga. I manifestanti hanno accusato la polizia di essere responsabile della sua morte. Ma, secondo le fonti della sicurezza, il giovane è morto in conseguenza delle ferite subite in una rissa con altri detenuti. La calma è tornata sabato mattina dopo che il direttore della sicurezza del Cairo ha promesso alla popolazione un’inchiesta imparziale, impegnandosi a non coprire alcun coinvolgimento provato della polizia. Il pubblico ministero ha completato l’esame esterno del corpo e ha richiesto un’autopsia. Le organizzazioni di difesa dei diritti umani accusano regolarmente la polizia e l’intelligence di abusi e torture di detenuti, dopo la rimozione del presidente islamista Mohamed Morsi nel 2013. Il presidente Abdel Fattah al-Sisi, capo dell’esercito al momento del rovesciamento di Morsi, ha promesso di rafforzare la lotta contro gli abusi della polizia, assicurando al contempo che essi non riguardano tutte le forze ordine. Ucraina. Uccisa Irina, avvocato anti-sistema: la giustizia a Kiev può attendere di Michela Iaccarino Il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2018 Morte violenta”, dice il referto dell’autopsia. Morta d’Ucraina, dice Maidan. Le coltellate sull’addome, sul collo e sul mento sono state inferte con ferocia sull’attivista Irina Nozdrovskaya, ritrovata nuda in un fiume a nord di Kiev. La piazza è tornata per le strade a protestare “per i diritti di tutti contro i privilegi delle élite, per assicurare i responsabili alla giustizia”, la stessa che Irina, avvocato, 38 anni, ha cercato imperterrita per sua sorella, Svetlana Sepatinska. Svetlana è stata investita ed uccisa il 30 settembre 2015 da Dmytro Rososhanskiy, consumatore abituale di stupefacenti, nipote del giudice della Corte di Vyshgorod, Kiev, che quella notte di due anni fa era ubriaco al volante. Invece di chiamare la polizia o l’ambulanza, davanti al corpo di Svetlana, Dmytro decide di chiamare suo zio, Serhi Kuprienko, per evitare responsabilità e galera. Ci sono voluti coraggio, ricerche e due anni per far valere le prove che lo hanno mandato in prigione, evidenze trovate dagli investigatori grazie alla caparbietà di Irina, che per ascoltare la sentenza dell’omicida di sua sorella ha atteso fino allo scorso maggio. Condannato a 7 anni di prigione solo 8 mesi fa, Rososhanskiy stava per abbandonare il carcere con un’amnistia di fine anno, ma la domanda d’appello è stata respinta quando Irina ha agitato le acque mediatiche contro l’oblio, ricordando che sua sorella era morta per un reato commesso da un figlio dell’élite che agisce impunita nel paese. Gli occhi gonfi dal pianto, rossi come lo smalto sulle mani con cui si asciuga il viso rigato di lacrime, la giacca nera e la camicia bianca: è l’ultima immagine che esiste di lei viva, mentre in tribunale ringrazia “una delle poche corti d’Ucraina che hanno il coraggio di fare il loro lavoro”, dopo aver imprecato contro l’uomo bruno e immobile nella gabbia di vetro. È il 27 dicembre, scrive su Facebook: “il killer di mia sorella celebrerà il nuovo anno dietro le sbarre”. Due giorni dopo Irina scompare, dopo aver chiamato sua madre a Vyshgorod, lo stesso paese della famiglia del giudice. del ponte da cui verrà gettata dopo essere stata pugnalata, del fiume in cui verrà trovata nuda e morta. “La famiglia di Rososhansky la minacciava da anni apertamente, il padre del giovane le aveva recentemente promesso che avrebbe fatto una brutta fine”. L’avvocato dell’ong Global Office, Mustafa Nayyem dice che “dopo un esame preliminare, l’ipotesi dello stupro è stata eliminata. Non è un suicidio o un incidente. La famiglia è in situazioni psicologiche e finanziarie difficili, stiamo chiedendo a tutti di contribuire ai funerali per aiutare la figlia Anastasia e i genitori settantenni di Irina”. I cartelli che i cittadini tornati per strada agitano nei dintorni dell’edificio della polizia nazionale, a via Volodymurska, nel freddo di Kiev, dicono: “Nessuna giustizia, nessuno Stat o”. Il responsabile delle forze dell’ordine è stato aggredito dalla folla che brandiva a mani tese la foto dell’attivista, “nuova icona delle riforme incompiute”. “Irina non era un avvocato famoso, né aveva legami importanti, la sua storia racconta tutto quello che c’è da sapere sulla rivoluzione incompiuta di Maidan. Combatteva affinché l’omicida di sua sorella rimanesse in prigione e non fosse perdonato solo perché la sua famiglia è ben connessa al sistema. Decine di vicende come la sua accadono ogni giorno qui: se sono ricchi e privilegiati, i criminali rimangono liberi”, scrive il giornalista di Hromadskie International, Maxim Eristavi. Impunito rimane l’omicida del suo collega Vyacheslav Veremiy, del magazine Vesti, irrisolta l’indagine per l’assassinio del giornalista Pavlo Sheremet. Ma adesso le pugnalate che hanno ucciso la ragazza hanno squarciato di nuovo la bandiera gialloblu che si agitava sulle barricate del 2014 e “l’omicidio di Irina ha provocato un terremoto di rabbia pubblica”. Per l’ultimo sangue innocente, la Maidan di guerra chiede le dimissioni del ministro dell’Interno, Arseny Avakov; quello degli Esteri, Pavlo Klimkin, ha dichiarato invece che questo omicidio è “una sfida per la società, per lo stato, per la protezione delle attiviste donne, per la giustizia”. Parole vuote, finte promesse, rispondono i manifestanti: sotto quel ponte da cui è stata gettata nuda, non c’è solo un avvocato della provincia di Kiev, c’è la storia di tutta l’Ucraina. Perché la Turchia di Erdogan non può entrare nell’Ue di Roberto Fabbri Il Giornale, 7 gennaio 2018 Prigioni affollate di avversari politici e giornalisti, e ora anche le spose bambine. “Siamo uno Stato di diritto”, afferma il presidente turco Recep Tayyip Erdogan mentre le prigioni del suo Paese sono affollate da migliaia di magistrati, politici e docenti universitari epurati e privati della libertà personale “nell’interesse dello Stato” insieme con gli ufficiali delle forze armate arrestati dopo il fallito golpe del luglio 2016. “La Turchia si sta stancando di essere tenuta sulla soglia dell’Europa”, lamenta lo stesso Erdogan davanti al collega francese Emmanuel Macron che gli ha appena offerto, al posto di quell’adesione a pieno titolo che non può arrivare per evidenti incompatibilità politiche e culturali, il contentino di un partenariato per “ripensare a questa relazione non nel contesto del processo di integrazione, ma forse di una cooperazione, di una partnership con uno scopo”. Macron probabilmente pensava alla recente modifica di legge che permetterà in Turchia l’infamia dei matrimoni islamici con spose bambine (anche di 9 anni di età) con il riconoscimento dello Stato. Basterebbe questo, nel 2018 appena cominciato, per capire perché per la Turchia di Erdogan non può esserci posto in Europa. Ma Macron, riferendosi a “recenti sviluppi e scelte” da parte turca, faceva certamente riferimento anche all’arresto di un giornalista francese in Turchia. Il tema della libertà di stampa e di espressione divide profondamente Ankara dall’Europa e l’episodio più emblematico di questa incompatibilità, soprattutto perché Erdogan non si rendeva conto che il suo comportamento era quello di un autocrate del Terzo mondo, è quello che ha visto protagonista lo stesso presidente turco e un giornalista francese durante la conferenza stampa congiunta con Macron a Parigi. Il giornalista di France 2 gli ha chiesto conto della presunta consegna di armi da parte di Ankara allo Stato islamico a gennaio del 2014, rivelata a maggio del 2015, con camion appartenenti ai servizi segreti turchi, ed Erdogan ha perso le staffe: “Parli come un terrorista del Feto (l’organizzazione guidata da Fethullah Gülen che Erdogan accusa di aver organizzato il fallito golpe, n.d.a.), dovresti imparare a non farlo”, ha detto al cronista che ha obiettato “No, parlo come un giornalista”. “Quando fai una domanda, stai attento su questo punto, e non usare parole di altri - ha insistito Erdogan. Perché non chiedi agli Stati Uniti che hanno inviato in Siria 4mila camion di armi?”. È a questo punto il caso di ricordare che attualmente nelle carceri turche sono detenuti 168 giornalisti, un record mondiale. Erdogan lo considera normale, e a chi glielo ha contestato ha detto di aspettare i processi che li riguardano. “Vedrete allora quanti di loro si riveleranno essere dei terroristi”. A giudicarli, saranno però i magistrati da lui stesso nominati al posto di quelli non allineati e per questo sbattuti in galera come “golpisti”. Etiopia. Il regime si rimangia la parola: i prigionieri politici non saranno liberati di Raffaele Masto africarivista.it, 7 gennaio 2018 Ci tocca una smentita. Per molti versi è una smentita attesa, che non dipende da noi. L’Etiopia non libererà tutti i detenuti politici come aveva annunciato il premier Hailemariam Dessalegn in una conferenza stampa ad Addis Abeba. Un testo scritto del governo dice che le parole del primo ministro sono state tradotte male dall’amharico e che, pertanto, il governo prenderà in considerazione soltanto l’ipotesi della grazia per alcuni esponenti dei partiti politici di opposizione. Confermata invece la chiusura della famigerata prigione di Maekalawi, esattamente nel centro di Addis Abeba, vicino al monumento al Leone di Giuda, sinistro luogo di torture fin dai tempi del “terrore rosso” del dittatore Menghistu. Dunque quella che era apparsa una dichiarazione clamorosa crolla come un castello di carte. Il regime al potere si è rimangiato le parole. Ma in questa smentita c’è un piccolo successo diplomatico. La smentita di fatto è una conferma che in Etiopia ci sono detenuti politici, e non pochi. Il regime non aveva mai confermato e, secondo Amnesty, molti restano detenuti senza capi di imputazione, sprofondati in galere come quella tremenda di Maekalawi. Perù. Indulto a Fujimori, anche la Chiesa non è d’accordo di Paolo Rodari La Repubblica, 7 gennaio 2018 “Non era il momento giusto per concedere l’indulto a Fujimori. Il Perù è destabilizzato e proprio a breve arriverà Papa Francesco: la sua accoglienza sarà condizionata dal fatto di trovarsi nel mezzo di una crisi nazionale”. Così, all’Agenzia dei vescovi italiani, parla il vescovo di Chimbote (una regione costiera di Ancash) monsignor Ángel Francisco Simón Piorno, dopo la contestata decisione del presidente Pedro Pablo Kuczynski di concedere l’indulto ad Alberto Fujimori, presidente tra il 1990 e il 2000, finito in carcere per gravi reati. Dunque, a pochi giorni dall’arrivo del Papa in Perù (dal 18 al 22 gennaio), è uno dei principali esponenti della Chiesa del Paese sudamericano a esprimere il proprio disappunto per un indulto che suona come il prezzo pagato “per non mettere in stato d’accusa il presidente”, coinvolto nella tangentopoli continentale, il caso Odebrecht. Fujimori ha oggi 79 anni. In carcere stava scontando una condanna a 25 anni per massacri contro civili e l’uccisione di due giornalisti. La figlia di Fujimori, Keiko, guida il movimento Fuerza Popular i cui voti sono stati decisivi per bloccare la procedura di impeachment di Kuczynski. Alla Chiesa non va giù anche il fatto che Fujimori non abbia ammesso pubblicamente di aver causato delle uccisioni. Con ogni probabilità anche Francesco approfondirà la questione se non altro toccando il tema dei diritti umani negati.