Affettività e sessualità in cella, la svolta rimasta nel limbo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 gennaio 2018 Alla riforma dell’Ordinamento penitenziario manca un decreto chiave. Era previsto dai decreti attuativi della riforma dell’Ordinamento penitenziario, e già le polemiche non erano mancate, soprattutto da parte di alcuni sindacati della polizia penitenziaria. È il diritto alla sessualità in carcere. Rimasto un po’ al palo in attesa - come disse il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma al Dubbio - della legge di bilancio, dove poi sono stati effettivamente previsti dei fondi per il sistema penitenziario. A questo punto si capirà dall’eventuale approdo dello specifico decreto in Consiglio dei ministri se quei fondi saranno destinabili anche alla sessualità dei detenuti. Sì, perché per gli incontri intimi ci vogliono le cosiddette “love rooms”, ovvero le “stanze dell’amore”. Sono luoghi in cui il detenuto, uomo o donna, potrà riservarsi un po’ di intimità con il partner. Affettività e limiti per chi è al 41bis - Questo decreto, già definito seppur non ancora discusso a Palazzo Chigi, è il frutto, come il resto della riforma, dei lavori degli Stati generali dell’esecuzione penale conclusi nel 2016. Nello specifico parliamo del Tavolo numero 6 coordinato dall’esponente del Partito radicale Rita Bernardini. Non parliamo, in questo caso, solo della sessualità, ma di tutto ciò che riguarda il diritto all’affettività in carcere. Speciale attenzione è stata dedicata alla relazione tra figli minori di età e genitore detenuto. Si sono presi in considerazione, sotto il profilo del diritto all’affettività, anche quei detenuti che, per la loro pericolosità penitenziaria, sono sottoposti al regime del 41 bis o si trovano in un circuito carcerario di alta sicurezza. A questo proposito, i componenti del Tavolo, che considerano il diritto all’affettività come un diritto umano fondamentale, hanno convenuto che tale diritto - a legislazione vigente - non possa essere garantito a tutti i detenuti fino a che il legislatore non interverrà, riformandole, sulle norme dell’Ordinamento penitenziario che escludono dai benefici alcune categorie di detenuti o che prevedono per essi il regime speciale del 41 bis. Dare più tempo per le telefonate - Sulla territorializzazione della pena il Tavolo ha proposto modifiche normative compensative per i detenuti assegnati in istituti lontani dal luogo ove vivono i propri familiari. In particolare, l’assegnazione periodica della durata di un mese in un istituto della regione ove vivono i familiari e l’accesso facilitato ai colloqui audio/ video. Riguardo ai permessi, il Tavolo ha proposto modifiche normative prevedendo oltre ai permessi già concessi per eventi familiari luttuosi o di particolare gravità, la concessione di permessi anche nei casi di “particolare rilevanza” per la famiglia del detenuto; l’introduzione di una nuova fattispecie di permesso definito “permesso di affettività”. Per quanto riguarda i colloqui, il Tavolo ha proposto modifiche normative che prevedono l’eliminazione del diverso, ridotto numero di colloqui e telefonate per i detenuti imputati e condannati “per i quali si applichi il divieto di benefici”. In tema di telefonate e corrispondenza, il Tavolo ha proposto di aumentare la durata delle telefonate da dieci a venti minuti a settimana anche per i detenuti imputati e condannati per reati ostativi, prevedendone anche l’utilizzo frazionato in più giorni, consentendo i collegamenti audiovisivi con tecnologia digitale. E ancora, il Tavolo ha inoltre espresso la raccomandazione di estendere l’uso della posta elettronica in partenza e in arrivo. Infine la sessualità, come si diceva: per i colloqui intimi, il Tavolo ha proposto modifiche normative volte ad introdurre il nuovo istituto giuridico della “visita”, che si distingue dal “colloquio”, già previsto dalla normativa, poiché garantisce al detenuto incontri privi del controllo visivo e/ o auditivo da parte del personale di sorveglianza. Sessualità negata: un tema oscurato - Come tutte le cose che vengono negate, in carcere la sessualità diventa un’ossessione. La vita in carcere infatti è particolarmente dura e, a parte i problemi legati all’endemico sovraffollamento e alla mancanza di fondi per garantire ai carcerati una detenzione più a misura d’uomo, sono lo stato di detenzione in sé, la privazione delle libertà personali, l’insolita e del tutto innaturale promiscuità che si è costretti ad avere con gli altri, l’incertezza sul proprio futuro, l’allontanamento dai propri affetti, che possono determinare dei cambiamenti nella persona, spesso in senso negativo. Questo vale anche sotto l’aspetto delle abitudini sessuali, quando non derivano da una libera scelta. La corrispondenza amorosa dei carcerati (spesso fra detenuti e detenute) è il caso più commovente e malinconico di questo rincaro. Ma c’è anche quello decisa- meno romantico. Se il sollievo viene dapprima cercato nell’autoerotismo e via via sempre più stimolato dalla visione di materiale pornografico, poi questo ovviamente non basta più e si desidera toccare. Ed allora si comincia con uno scherzo, un gesto affettuoso, una coccola e si finisce col diventare veri e propri amanti, oppure, quando non corrisposto, si verificano violenze sessuali. Difficilmente emerge alla cronaca tutto questo, giacche si tratta di un terreno “omertoso” tra gli stessi detenuti. A tutto questo, aggiungiamo che non è un caso che le malattie sessualmente trasmettibili siano diffusissime tra le sbarre. Vietare la sessualità in carcere, vuol dire renderlo più infernale. Una pena nella pena. In europa il tabù è superato - L’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo stabilisce il “diritto di stabilire relazioni diverse con altre persone, comprese le relazioni sessuali” ; “il comportamento sessuale è considerato un aspetto intimo della vita privata”. C’è anche il diritto di creare una famiglia, stabilito dall’articolo 12 della stessa Convenzione. Il Consiglio dei Ministri europeo ha raccomandato agli Stati membri di permettere ai detenuti di incontrare il/ la proprio/ a partner senza sorveglianza visiva durante la visita. Anche l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha raccomandato di mettere a disposizione dei detenuti dei luoghi per coltivare i propri affetti. Inoltre, si è stabilito che questi luoghi per la vita familiare debbano essere accessibili a tutte le persone incarcerate e per tutti i tipi di visite: coniuge, figli e tutte le persone con permesso di visita, senza alcuna discriminazione. In Europa diversi Paesi non negano ai detenuti il diritto alla sessualità. C’è la Svizzera, dove in alcuni Cantoni i detenuti possono incontrarsi, senza sorveglianza, con i loro partner. In Francia è in corso una sperimentazione, previste visite senza sorveglianza in una “maison central”. In Germania poi viene garantito lo spazio agli incontri intimi e ai rapporti sessuali per chi deve scontare moltissimi anni di carcere. La norma è prevista in alcuni Lander e gli spazi riservati alle coppie sono degli appartamentini. Poi c’è la Spagna dove viene garantita una visita al mese, più una seconda per tutti coloro che hanno una relazione affettiva (moglie, fidanzate, mariti e fidanzati). Le visite vengono concesse come premio. In Svezia poi, sempre all’avanguardia, c’è il via libera a fidanzati e familiari in piccoli appartamenti all’interno degli istituti di pena. Non può mancare la Norvegia, dove è possibile avere rapporti sessuali senza sorveglianza per un’ora in stanze simili a quelle d’albergo. Natale e Capodanno in galera (con diserzione) di Adriano Sofri Il Foglio, 6 gennaio 2018 Anche quest’anno molti militanti del partito radicale hanno trascorso il Natale e il Capodanno nelle galere. Che Dio li benedica e che gli altri ascoltino i loro racconti sulla condizione in cui hanno trovato le grotte la paglia e gli angeli custodi. Anch’io ho una piccola storia. A ogni Natale i miei amici e io portiamo i panettoni ai detenuti del carcere di Pisa. Quest’anno ero stato via per mesi, il carcere pisano aveva avuto una conduzione ostile, forse sto diventando più indifferente, fatto sta che ho evitato di farmi vivo coi miei amici anche solo per salutarli e far loro gli auguri per il timore che auguri e saluti sembrassero il pretesto per ricostringerli ai panettoni. Però me ne vergognavo e, appena passato Natale, stavo per scrivere una piccola posta per spiegare, o almeno ammettere, di aver rotto la tradizione. È stato allora che mi ha telefonato Michele e mi ha detto allegro: “Missione compiuta”. Erano andati a visitare il carcere e consegnare 300 panettoni, quest’anno regalati dall’Unicoop, trasportati in un furgone della Caritas e così via. Sicché i giornali locali hanno scritto: “Anche quest’anno Adriano Sofri, Michele Battini, Paolo Fontanelli, eccetera, hanno regalato ai detenuti”. Non è vero, io ero il disertore. Marco Minniti: “Tutti i partiti firmino un patto pubblico contro le mafie” di Marco Damilano L’Espresso, 6 gennaio 2018 “Non faccio parte di un governo tecnico, sono convintamente espressione di una maggioranza e di un governo politico. Ma so bene che chi ricopre l’incarico che svolgo io non può essere di parte, deve essere un punto di riferimento di tutti gli italiani”. Terrorismo, migranti, fake news, lotta alle mafie: il ministro dell’Interno Marco Minniti parla a tutto campo della campagna elettorale che si apre. “In un anno di governo ho collaborato con i sindaci di tutti i partiti, non per ragioni di diplomazia, ma perché ne sono profondamente convinto. Il ministro dell’Interno è un elemento di equilibrio democratico, tanto più deve esserlo in una situazione di incertezza”. “Questa è la prima campagna elettorale nazionale che l’Italia affronta nell’epoca di Islamic State, dentro una fase di minaccia terroristica. Nel 2013 l’Is non esisteva ancora, non dobbiamo mai dimenticarlo. Il nostro compito principale in questi due mesi sarà quello di garantire elezioni sicure e libere. La seconda preoccupazione, quel che mi sta più a cuore”, continua Minniti, “è come tutelare il rapporto tra l’esigenza della massima libertà di espressione e la partecipazione al voto degli elettori. In campagna elettorale è richiesto un forte confronto tra le forze politiche e i candidati, a volte anche aspro e conflittuale, ma c’è il rischio che la durezza dei toni allontani dalla partecipazione gli elettori, sia escludente per i cittadini che non se la sentono di partecipare a una competizione giocata tutta sullo scontro e non sulle proposte. Io dico invece che il voto è il momento più forte per una democrazia. Le elezioni non sono inutili, non si fanno per tastare il polso dell’opinione pubblica come se fossero un sondaggio. Con le elezioni si determinano gli equilibri politici del Paese”. Sul rischio che il voto sia inquinato dalle mafie con il ritorno dei collegi uninominali, “ho chiesto un patto dei partiti contro la criminalità, agli Stati generali dell’antimafia a Milano”, ricorda il ministro. “Sto aspettando le risposte, la campagna è appena agli inizi. Non chiedo una dichiarazione generica, una frase in un’intervista buttata lì. Chiedo ai capi dei partiti di sottoscrivere in modo solenne una carta, un patto pubblico, in cui si impegnano a non chiedere e a non ricevere appoggio elettorale dalle mafie. Lo chiedo a tutti e mi aspetto che firmino tutti. In una democrazia non può esistere l’alternativa secca: o liste bloccate o liste condizionate, o i partiti scelgono al posto degli elettori o il voto è inquinato dalle mafie. Io mi rifiuto di pensarla così. Il collegio consente agli elettori di scegliere un candidato, una persona, ma i partiti devono mettere in campo gli anticorpi, devono candidare persone che non siano condizionabili dai clan. Le forze dell’ordine e la magistratura fanno il loro lavoro, ma la politica non può limitarsi ad aspettare la magistratura, deve arrivare prima. È in gioco la credibilità della democrazia”. Infine, su quale sarà in campagna elettorale il suo ruolo nel Pd, Minniti risponde: “Sono contento che nel mio partito si parli di fare squadra, che se ne faccia parte o no. Nell’impegno collettivo c’è un’idea di politica, l’ho detto alla stazione Leopolda qualche settimana fa, la politica è amicizia, non una tragedia shakespeariana, magari di serie B, dove c’è sempre quello che ti tradisce. Mai come oggi la politica è interrogata e sfidata dai populismi sulla sua credibilità. Che significa fare quel che si dice, per combattere il logoramento delle parole e delle promesse, e restituire la politica al suo senso di impegno collettivo e di passione. Gramsci diceva che il partito è la passione organizzata. E il partito viene meno se non c’è questa idea della passione, di un impegno collettivo Riciclaggio, misure cautelari severe di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2018 Resta ai domiciliari il promotore finanziario indagato per riciclaggio, e associazione a delinquere, anche se nel frattempo lavora per una ditta estranea ad attività finanziarie. La Cassazione (sentenza 118) respinge il ricorso per la revoca della misura restrittiva e adotta, per quanto riguarda le misure cautelari, una linea severa rispetto ad altre pronunce in cui ha contato il tempo trascorso dal reato ipotizzato. In questo caso, nonostante fossero passati quattro anni dai fatti addebitati e nonostante il consulente avesse cambiato lavoro, la Cassazione ritiene che siano necessarie le misure cautelari. La Corte considera corretto l’operato del giudice del riesame che aveva verificato gli indizi sulle base delle intercettazioni. Colloqui nei quali il consulente si accordava con un imprenditore, co-indagato, titolare di una società di import ed export, per il quale, secondo le accuse, avrebbe ripulito ingenti somme in Svizzera, città nella quale il consulente lavorava presso una società. Fondi neri, provenienti dal delitto di evasione fiscale. Per la difesa il venire meno del rapporto con la società svizzera, la cui organizzazione dovrebbe rappresentare una delle specifiche fonti di rischio di reiterazione del reato, e i cambiamenti nella vita dell’indagato avrebbero dovuto indurre i giudici del riesame, anche in virtù del tempo trascorso, a revocare la misura limitativa della libertà personale. Aveva dunque sbagliato il Tribunale a confermare i domiciliari, partendo dal presupposto che l’indagato poteva prestarsi a condotte analoghe. La Cassazione conferma però il rischio “recidiva”. Al giudice del riesame non sono sfuggiti gli elementi prospettati dalla difesa: il diverso lavoro e il tempo trascorso. Tuttavia sono state valutate anche altre circostanze. In primo luogo c’era la perdurante attività della società del co-indagato - dominus della vicenda - impegnata nel settore dell’import-export, “che continua a offrire, insieme a notevoli opportunità di guadagno, occasioni di delitto”. Pesano poi la serialità delle condotte, continuate anche quando erano in corso gli accertamenti della Gdf e la provata esistenza di fondi neri, non solo in Europa ma in a paradisi fiscali. Sul verdetto hanno influito, infine, i contatti instaurati all’estero e la valutazione negativa della personalità del ricorrente. Patrocinio gratuito. Difesa tecnica al clandestino anche se non è obbligatoria Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2018 L’immigrata irregolare che fa ricorso per restare in Italia dove ha un figlio minore, ha diritto al gratuito patrocinio anche se non è necessaria la difesa tecnica. La Cassazione (sentenza 164) accoglie il ricorso di una cittadina nigeriana irregolare, contro la decisione del Tribunale dei minorenni di revocare l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato per due ragioni: la donna era clandestina e per la richiesta a rimanere nello Stato (articolo 31 del Dlgs 286/1998), in quanto “affare di volontaria giurisdizione” l’assistenza legale non è obbligatoria. I giudici ricordano che il gratuito patrocinio riguarda il diritto di difesa tutelato dalla Carta e quindi il concetto di “straniero regolarmente soggiornante” va interpretato in modo estensivo e comprende anche chi ha un procedimento amministrativo o giurisdizionale in corso: la posizione dello straniero diventa irregolare solo con l’espulsione. E il diritto al difensore nel giudizio civile va riconosciuto anche quando la tutela non è obbligatoria perché il non abbiente potrebbe non conoscere i suoi diritti o non essere in grado di autorappresentarsi. Padova: “recidiva dopo la pena? Qui non va oltre il 12%, le carceri funzionano” di Nicola Munaro Il Gazzettino, 6 gennaio 2018 Parla il provveditore: “Quando ai detenuti viene data la possibilità di imparare un lavoro, non c’è reiterazione”. “Voglio essere generoso per non correre il rischio di sbagliarmi. In Triveneto la recidiva arriva a picchi massimi del dodici per cento”. Firmato Enrico Sbriglia, provveditore delle carceri del Triveneto. E se recidiva sta per una reiterazione del reato da parte di chi ha passato del tempo rinchiuso in una cella, allora l’equazione (basilare) è presto fatta: le carceri del Veneto, del Trentino e del Friuli Venezia Giulia funzionano. Bene. Dove funzionare - nell’ottica del provveditore - vuol dire “puntare alla rieducazione e a far cambiare vita al detenuto”. Insomma, a sentire Sbriglia, arrivato in Trivento quando c’era da sbrogliare l’intricata matassa del quinto piano della casa di reclusione di via Due Palazzi - trasformata in un bazar dove gli agenti della penitenziaria facevano affari con i galeotti più pericolosi, quella del colonello Oreste Liporace, comandante provinciale dei carabinieri di Padova, sembra più una sparata che un’affermazione su base scientifica. “Sia chiaro, io non sono nessuno”, mette le mani avanti Sbriglia. Che poi, però, carica a testa bassa: “La mia esperienza trentennale mi fa dire che lì dove il sistema penitenziario offre possibilità di reinserimento, ovvero dà una reale chance di imparare un lavoro che poi passa rendere competitivo un reinserimento nel mercato dell’impiego, i tassi di recidiva non solo calano, ma crollano in maniera vertiginosa”. Il problema si ha quando i detenuti, d’altro canto, restano in carcere senza fare nulla “quasi a perdere le loro giornate. È lì - puntualizza il rappresentante del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - che si alzano i rischi di una nuova reiterazione del reato. In alcuni istituti penitenziari i detenuti lavorano ma senza imparare nulla, solo come impiego del tempo alternativo alla noia. Se quindi il valore del lavoro non è considerato come tale nemmeno dallo stesso Stato, è normale che una volta usciti potranno fare altri reati”. L’esempio di Padova - Un rischio che le carceri del Triveneto non corrono, con Padova in testa e per anni a fare da modello nella battaglia per il reinserimento e il recupero dei carcerati. “Il modello Padova è un modello meraviglioso, ogni volta riesco ad osservarlo da vicino e continua a stupirmi - continua Sbriglia, nel ricordare gli esperimenti della redazione di Ristretti Orizzonti e della Cooperativa Giotto. Mi sento di dire che Padova e il suo carcere sono la negazione dei luoghi comuni, ma non c’è solo la città del Santo. Anche a Belluno, Treviso, Venezia vivono esperienze di alto valore. Il Triveneto, che spesso è indicato come una società dove i valori liberali sono mitigati da senso pragmatico, abbiamo esperienza che il lavoro è colonna spinale della giornata del carcerato”. Per Sbriglia è proprio questo il punto focale. “La partita si gioca nella concreta possibilità di offrire una chance. C’è chi si chiede come sia possibile pensare di offrire un’altra possibilità a chi ha fatto del male. A loro rispondo che vogliamo fare? La nostra costituzione dice così. O la si applica o corriamo il rischio di dire banalità”. In sostegno della posizione del provveditore del Triveneto anche i dati ufficiali del Dap secondo cui quando viene affrontata in maniera precisa e rispettosa delle norme l’intera esperienza della giustizia - a cominciare dal processo per finire con le varie forme detentive - il settanta per cento dei detenuti non torna a delinquere. Con i dati che migliorano di tanto quando l’utilizzo della pena attraverso le misure alternative è più ampia. E chi passa per il carcere, se non è attuata la giusta esecuzione penale, peggiora la propria situazione una volta uscito. Detenzione a fini educativi: a Padova benefici per tutti Per tutti è il “modello Padova”. Un carcere “che funziona, con un bassissimo tasso di recidiva e che è da ammirare” per usare le parole del provveditore agli istituti penitenziari del Triveneto Enrico Sbriglia, dove a fare la parte del leone nell’elenco delle eccellenze sono le due cooperative Ristretti Orizzonti e Giotto. Realtà lontana dalle parole usate dal colonnello dei carabinieri Oreste Liporace nel lanciare l’allarme su otto ladri ora in cella ma presto liberi di tornare a scorrazzare. “L’unico commento che mi sento di fare alle affermazioni del colonnello è che in ventisette anni di attività ho visto che quando si rispetta sempre la legge nella sua interezza, dal processo all’esecuzione penale, i benefici che ne escono sono sia per la società civile sia per i protagonisti del reato. Tanto per le vittime, dunque, quanto per i carnefici” spiega Nicola Boscoletto, presidente della Cooperativa Giotto. Quella, per intenderci, dei pandori e di una pasticceria tra le più rinomate d’Italia. “Se vengono seguite le regole gli effetti della detenzione sono sempre positivi - continua Boscoletto. Credo che il rispetto vero della Costituzione e della legge porta con sé il rispetto delle persone singole e delle comunità. La detenzione, in Italia, è ai fini rieducativi e funziona. Se si mette in discussione questo allora bisognerebbe cambiare le leggi, che prima però vanno applicate”. Una reazione che arriva da chi il carcere lo vive ogni giorno e vede entrare nel corso di un anno circa settemila studenti delle scuole superiori, chiamati a confrontarsi con le realtà e le storie dei detenuti. A portare avanti il progetto - così come la rivista del carcere - è la cooperativa Ristretti Orizzonti, fondata e diretta da Ornella Favero. “Più che parlare della recidiva di chi esce, io direi che in carcere a Padova noi facciamo prevenzione - precisa, in maniera piccata, Ornella Favero. Obbligando i detenuti ad affrontare le loro storie e raccontarle ad altri ragazzi li obblighiamo ad avere una visione molto critica verso se stessi”. Il beneficio, poi, è anche dei ragazzi stessi. “I giovani che si trovano di fronte a una persona che racconta il proprio dramma con la droga partendo dal “smetto quando voglio”, che è quello che tutti si dicono - continua Favero - e poi si trova sempre più invischiato in reati, fa cambiare la vita agli stessi ragazzi”. Pure sul pericolo di recidiva Favero ha una propria visione delle cose. “Il carcere però non serve a niente se i problemi non vengono affrontati con percorsi seri. È dimostrato che di fronte a un percorso in carcere serio, c’è un abbassamento della recidiva”. Bologna: i detenuti al lavoro per il Vescovo Zuppi, una casa per chi lascia il carcere di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 6 gennaio 2018 Il centro sorgerà vicino alla Dozza e anche i reclusi faranno gli operai. Un milione da Curia e parrocchia. Nel piano anche una falegnameria. Una casa per gli ex detenuti che escono dal carcere e non sanno dove andare. Ma anche per le persone ancora recluse che hanno diritto a misure alternative alle sbarre come la semilibertà, che vogliono lavorare e imparare un mestiere. In via del Tuscolano 99, a cinque minuti di macchina dalla Dozza, c’è una vecchia cascina che, a vederla così, sembra proprio cadere a pezzi. Erbacce, mura pericolanti, gli alberi spogli a fare da cornice a tre edifici abbandonati che un tempo erano la casa di un contadino, un fienile e una stalla. Don Luciano Bortolazzi, parroco della chiesa dei Santi Savino e Silvestro di Corticella, di fatto è il proprietario dei ruderi, e ha avuto un’idea: vendere il terreno inutilizzato attorno al cascinale, usare i soldi per buttar giù quelle tre vecchie case e ricostruirle come si deve. “Sì, possiamo definirlo un regalo che fa la nostra parrocchia per fare qualcosa di utile”, racconta nel suo ufficio dietro la chiesa che guida da undici anni, attaccata alla caserma dei carabinieri che nel 2016 ha subito un attentato (“Il botto di quella notte me lo ricordo ancora). L’idea dev’essere piaciuta molto anche al vescovo Zuppi, visto che - come racconta don Luciano - nel 2016 la Curia ha stanziato mezzo milione di euro per realizzarla. Sommati ai soldi che investe la parrocchia con la vendita dei terreni, l’investimento supererà sicuramente il milione di euro. I cantieri sono in partenza e per capire bene cosa vuol diventare questo posto bisogna partire dalla prima condizione imposta alla ditta che realizzerà i lavori: adoperare, tra i suoi operai e manovali, anche i detenuti. Un futuro diverso se lo costruiscono loro. C’è un altro protagonista in questo progetto. Si chiama don Marcello Matté, è un frate dehoniano e Zuppi lo ha scelto per il ruolo di cappellano della Dozza, struttura che frequentava da tempo come volontario già prima della nomina. Sarà lui a studiare le attività, a coordinarsi col carcere dove va quasi tutti i giorni. Sottolinea che da alcuni giorni il carcere “è intitolato a Rocco D’Amato, giovane agente della Polizia penitenziaria ucciso in carcere durante una rissa fra detenuti”. Poi spiega: “Vogliamo capovolgere un’idea comune, quella che se si rinchiudono queste persone si risolvono tutti i problemi, quando invece col carcere i problemi aumentano. Vogliamo far partire un percorso di reinserimento per loro, bisogna costruire nuove opportunità. Il reinserimento è il primo problema del carcere: la recidiva (cioè la possibilità di commettere nuovi reati dopo essere usciti di prigione, ndr) passa dal 65-70% per chi non ha avuto alternative al 16% per chi invece ha delle opportunità”. I partecipanti, oltre a chi ha finito si scontare la pena, potranno essere per esempio i detenuti che beneficiano del cosiddetto “articolo 21” (che consente di uscire dal carcere per lavorare) o che sono in regime di semilibertà. Quella che era la casa del contadino ospiterà i frati dehoniani (istituto religioso nato a fine 800 e radicato anche a Bologna. Fino a poco tempo fa aveva la rivista Il Regno): tre padri, altri religiosi, una o due famiglie. Solo al piano di sopra, la casa ha cinque camere da letto. L’altra struttura invece diventerà una casa per gli ex detenuti: massimo otto camere, ognuna dotata di bagno proprio, con spazi in comune come la sala pranzo. Infine la stalla che servirà ai laboratori. Si pensa a un paio di attività da svolgere. “Vorremmo partire con una falegnameria ecologica”, spiega don Matté. L’accordo per realizzare la cascina degli ex detenuti è stato firmato nel luglio 2015 ma, dopo i ritardi burocratici, le operazioni sono iniziate a dicembre. “Abbiamo un anno di ritardo, speriamo di completare nel 2018 almeno la casa dei frati”, dice don Luciano. Tra i soggetti coinvolti anche la provincia religiosa settentrionale dei dehoniani e il Ceis, il Centro italiano di solidarietà. Gli edifici di fatto restano proprietà della parrocchia dei Santi Savino e Silvestro e i dehoniani li prenderanno in “gestione”. Alle spese per la casa dei detenuti contribuirà anche la Curia e non è certo un mistero che questo sia uno dei modi attraverso il quale Zuppi e la Chiesa bolognese utilizzano l’eredità milionaria della Faac. Torino: “il problema è quando si esce perché pochi riescono a trovare una occupazione” di Mariachiara Giacosa La Repubblica, 6 gennaio 2018 Intervista alla Garante dei detenuti. Su 1.300 detenuti, meno di 50 hanno un lavoro. Anche a Torino ci sono progetti di lavoro, ma ancora troppo limitati. Monica Gallo è la garante dei detenuti del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. E fino al 2015 è stata la responsabile di “Fumne”, un progetto di lavoro all’interno della struttura detentiva: in sei anni una settantina di donne ha realizzato, dentro le Vallette, borse, accessori, capi di abbigliamento artigianali, poi vendute all’esterno. Quale valore ha il lavoro per chi vive in carcere? “È fondamentale: tutti i detenuti vogliono lavorare perché consente loro di avere soldi, da spendere all’interno e soprattutto da mandare ai famigliari. Lavorare occupa il tempo e tiene le persone fuori dalle celle. E soprattutto dà la possibilità ai detenuti di mettersi alla prova, per vedere se esiste per loro la possibilità di tirarsi fuori dal circuito delinquenziale”. Chi lavora in carcere, riesce poi ad avere un’occupazione al termine della pena? “Non sempre succede. Per chi lavora nelle cooperative in carcere che hanno anche una sede esterna, è più facile che il rapporto di lavoro prosegua. Negli altri casi, che poi sono la maggior parte, il collegamento funziona poco. E tutto ciò che si è fatto all’interno, la formazione professionale, la qualifica e il lavoro, finisce per disperdersi. In questa società per un ex detenuto, pur qualificato, non è facile ottenere un impiego”. Come funziona la selezione dei detenuti lavoratori? “Prima di tutto serve un progetto di attività. Se il carcere lo approva, inizia un percorso di scelta delle persone da coinvolgere. Lo si fa insieme agli educatori, che meglio di chiunque altro conoscono le storie dei detenuti e anche le loro capacità. Si fanno contratti di assunzione normali, in base alle leggi nazionali per le categorie professionali, e chi lavora viene pagato con regolare busta paga. Diverse sono le attività gestite dall’amministrazione penitenziaria, quelle che una volta si chiamavano orrendamente, “scopino” o “spesino”. Questi vengono svolti a rotazione, in modo da consentire a tutti di guadagnare qualcosa”. Che giudizio dà sul progetto della fabbrica tessile nel carcere di Biella? “Insieme all’esperienza di Padova, dove dal carcere si gestisce il call center delle prenotazione dell’azienda sanitaria, il progetto di Biella è senz’altro la punta di diamante di uno sforzo che dovrebbe coinvolgere tutte le strutture di detenzione. Sia per qualità dell’investimento, sia per il numero di persone che coinvolge. Bologna: poco pagati, insostituibili, ecco i volontari della giustizia di Antonella Baccaro Corriere di Bologna, 6 gennaio 2018 I volontari tappano i buchi d’organico negli uffici giudiziari. Sono operai, informatici, maestri e guadagnano pochissimo. A detta di tutti, giudici compresi, sono fondamentali per mandare avanti la macchina della giustizia. Sono i volontari in servizio permanente che lavorano ormai da sette anni nei tribunali. Sono operai, informatici e maestri disoccupati. Li pagano solo 400 euro lordi al mese: “È lavoro in nero ufficializzato”. Ha lavorato per vent’anni in una fabbrica di Catania, poi arriva la crisi, si laurea in Scienze politiche e si ritrova insegnante precario nel carcere minorile di Catania. Nel 2010 intravede una speranza in un bando del Tribunale di Parma per riqualificare lavoratori in mobilità in impieghi di pubblica utilità. Così Francesco Arena ha fatto le valigie, ha lasciato a Catania la moglie e i due figli e si è trasferito a Parma. Ma da 7 anni vive con 400 euro lordi al mese senza un vero contratto. “Per i primi due anni - spiega Arena, oggi 51enne - ho lavorato nel Tribunale di Parma praticamente gratis per il Ministero perché ero in mobilità, poi siamo passati dalla competenza della Provincia al Ministero, che in questi anni ha speso soldi per formarmi, ho acquisito competenze che sono indispensabili per le cancellerie e gli uffici giudiziari, con i vuoti di organico che ci sono. Ma questo non lo dico io, lo dicono i dirigenti, il presidente della Corte d’Appello che più volte ha chiesto al Ministero una soluzione. Io sono partito da Catania, mi sono trasferito, ci ho creduto nella mia riqualificazione e ho investito, ma il Ministero mi ha sfruttato per sette anni, perché se non aveva bisogno di noi poteva mandarci a casa dopo un anno, invece ci ha fatto sperare”. L’età media dei precari della giustizia, a Bologna come altrove, si attesta sui 45-50 anni: persone in cassa integrazione o in mobilità reimpiegate sette anni fa per tappare buchi, nel frattempo diventate indispensabili per il funzionamento della macchina della giustizia, ma a cui il Ministero non ha ancora riconosciuto alcun diritto: niente ferie, malattia, contributi né Tfr. Francesco Arena, che nel frattempo da un anno con l’accorpamento dell’Ufficio del processo a Bologna è stato spostato da Parma a Bologna e si trova anche a fare il pendolare, svolge il suo lavoro nell’ufficio impugnazioni del Tribunale: “Ho contatti con il pubblico, anche se non firmo gli atti, ma se c’è da cercare un fascicolo ci sono io. Ogni anno il Ministero a fine contratto mi fa firmare la dichiarazione che non ho nulla da pretendere, ma questo è lavoro in nero ufficializzato. A 51 anni dovrei occuparmi del futuro dei miei figli, invece mi trovo ancora a preoccuparmi del mio”. Senza di loro la macchina della giustizia si incepperebbe, ma a 50 anni si ritrovano a fare gli stagisti. Sono i tirocinanti dell’Ufficio del processo, 70 a Bologna distribuiti tra Tribunale e Corte d’Appello, dal 2010 lavorano per 400 euro lordi al mese. Assunti come lavoratori socialmente utili provenienti da crisi aziendali, sono stati formati e rinnovati di anno in anno. Nell’ultima legge di Bilancio i contratti di tirocinio formativo nella giustizia, circa 1000 in Italia, sono stati prorogati e, finalmente, un emendamento ha previsto l’assunzione per 300. “Ma non c’è garanzia su tempi e modi - spiega Maurizio Serra della Fp Cgil Bologna, noi chiediamo una stabilizzazione per tutti, tramite i centri per l’impiego perché non vogliamo che si violino le procedure per i concorsi, ma il Ministero su questi lavoratori ha investito milioni di euro e la giustizia ha bisogno di loro”. Mirella Patricelli ha 52 anni, una laurea in Statistica e Informatica, un passato in aziende come Ibm e Malaguti, ma dopo la chiusura di quest’ultima vive con i 400 euro lordi al mese che le vengono riconosciuti come tirocinante del Ministero di Giustizia. Dal 2010 ha lavorato in Procura generale, dove si è occupata di statistica e database, poi in Corte d’Appello, adesso è alla cancelleria civile del gratuito patrocinio. Per l’ottavo anno quella retribuzione risicata è appesa alla proroga inserita nella legge di Stabilità. “Ho una figlia di 14 anni, per andare avanti - racconta - ho venduto la casa che avevo ereditato. In questi sette anni ho acquisito competenze che posso spendere solo negli uffici giudiziari. Perché nel frattempo per il ramo informatico io sono dequalificata, visto che in questi anni non ho fatto aggiornamento”. Nei centri per l’impiego i tirocinanti della giustizia come Mirella e Francesco non sono considerati disoccupati ma “occupati senza contratto”: “Questo significa lavoro nero - osserva Mirella -, per di più negli uffici giudiziari”. Prima erano 3.000 in tutta Italia i tirocinanti in questa situazione, poi con l’accorpamento nell’Ufficio del processo un anno fa, 1.500 sono stati lasciati a casa. “C’è stata già una prima spaccatura ingiusta - insiste Mirella, coordinatrice bolognese dell’Unione precari della giustizia, quei colleghi potevano essere impiegati negli sportelli di prossimità degli enti territoriali”. Quando è stato bandito il mega-concorso per 800 assistenti giudiziari, ai tirocinanti come Mirella il Ministro ha stabilito che fossero riconosciuti sei punti in più di partenza. “Io ci ho provato, ma eravamo 350.000, una marea umana e io sembravo la nonna. Alla mia età la mente non ha più quella flessibilità necessaria alla preparazione per un concorso, e non mi sembra neanche giusto dover competere con chi potrebbe essere mio figlio”. La Cgil chiede che a queste 1.000 persone che da sette anni corrono avanti e indietro nei palazzi di giustizia di tutta Italia vengano finalmente riconosciuti i diritti minimi di un contratto di lavoro: “Sono loro che fanno il lavoro sporco che sgrava chi è titolato ad andare in udienza, magistrati e assistenti giudiziari” fa notare Serra della Cgil Bologna. Pontremoli (Ms): il sottosegretario Ferri visita l’Istituto penale per minorenni di Irene Rubino voceapuana.com, 6 gennaio 2018 “L’Ipm è un esempio da seguire anche per altre strutture, per favorire la rieducazione dei detenuti”. Il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri ha visitato oggi l’Istituto penale per minorenni di Pontremoli in vista della festa della Befana e ha consegnato le tradizionali calze alle giovani ospiti, trascorrendo con loro alcuni momenti pieni di riflessione e auspici per il futuro. A margine della visita Ferri ha dichiarato: “Rieducazione e trattamento sono aspetti chiave per costruire un futuro migliore, soprattutto per i giovani e le giovani detenute. Bisogna comprendere gli errori commessi per ripartire col piede giusto e seguire la strada della legalità e dei lavori sani, per crescere nella vita sociale e nel mondo del lavoro una volta usciti dalle strutture penitenziarie”. “L’Istituto penale per minorenni di Pontremoli si conferma struttura di eccellenza, con la presenza di diversi laboratori in cui le giovani donne possono svolgere molte attività come fotografia, cucito e parrucchieria e sviluppare la loro personalità attraverso la crescita umana e professionale.” A breve saranno pubblicati i calendari che le ragazze dell’istituto hanno prodotto da protagoniste, lavorando e divertendosi. “L’Ipm di Pontremoli è un esempio da seguire anche per altre strutture in modo da favorire la diffusione di spazi di condivisione e aree trattamentali fondamentali per la rieducazione, grazie anche al prezioso contributo fornito dai volontari e da tutto il personale che si impegnano ogni giorno con dedizione e professionalità. È importante che le giovani donne come tutti i detenuti non si sentano sole ma possano cambiare e conquistare la libertà attraverso il lavoro e il trattamento risocializzante”. Palermo: il carcere dell’Ucciardone di intitolato al maresciallo Di Bona nuovosud.it, 6 gennaio 2018 Intitolazione del carcere palermitano dell’Ucciardone alla memoria di Calogero Di Bona, maresciallo degli agenti di custodia. È fissata per lunedì 8, alle 11, alla presenza di Santi Consolo, capo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, del provveditore regionale per la Sicilia Gianfranco De Gesu e dei familiari di Calogero di Bona. Il maresciallo, vice comandante dello storico carcere palermitano, scomparve il 28 agosto 1979, giorno in cui, dopo essere uscito dall’istituto alle 14,05, si era recato a prendere un caffè con gli amici prima di fare ritorno a casa, in località Sferracavallo. Dopo oltre trent’anni, grazie anche alla caparbietà dei figli che hanno instancabilmente cercato la verità sulla scomparsa del padre e sui responsabili del feroce omicidio, rimasto irrisolto per decenni, è stato possibile ottenere la riapertura delle indagini. La Procura della Repubblica di Palermo ha identificato i responsabili sulla base di dichiarazioni fatte da alcuni collaboratori di giustizia. Calogero Di Bona fu dunque vittima di un feroce agguato della criminalità organizzata, che lo sequestrò e lo uccise per impedirgli di denunciare la grave situazione di illegalità della nona sezione e dell’infermeria dell’Ucciardone. Il giorno stesso della scomparsa, il 28 agosto 1979, il Maresciallo Di Bona fu strangolato e il suo cadavere bruciato su una graticola in località Cardillo. All’epoca dei tragici eventi il Maresciallo Di Bona aveva 35 anni, era sposato con la signora Rosa Cracchiolo ed era padre di tre bambini, Giuseppe, Alessandro e Ivan. Il maresciallo Di Bona è stato riconosciuto dal ministero dell’Interno Vittima del dovere. Il 19 settembre 2017 è stato insignito della Medaglia d’Oro al Merito Civile con questa motivazione: “In servizio presso la casa circondariale di Palermo Ucciardone, pur consapevole del grave rischio personale, con fermezza ed abnegazione improntava la propria attività lavorativa a difesa delle Istituzioni e contro le posizioni di privilegio tra i reclusi, fra i quali erano presenti alcuni nomi eccellenti della locale criminalità organizzata. Per tale coraggioso comportamento fu vittima di un sequestro senza ritorno che, solo in epoca recente, si è accertato essere culminato in un omicidio, di cui sono stati individuati e condannati all’ergastolo gli esecutori materiali, risultati appartenenti a cosche mafiose. Nobile esempio di uno straordinario senso del dovere e di elevate virtù civiche, spinte fino all’estremo sacrificio”. “A pochi giorni dalla cerimonia di intitolazione della casa circondariale di Palermo Pagliarelli alla memoria dell’Appuntato Antonio Lorusso - ha dichiarato Santi Consolo - rendiamo onore a un altro eroe che ha sacrificato la sua giovane vita per onorare i valori della legalità e della democrazia. L’intitolazione della casa di reclusione dell’Ucciardone al Maresciallo Calogero Di Bona è una preziosa testimonianza che consegniamo alle giovani generazioni, a tutti i cittadini onesti e agli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria affinché l’estremo sacrificio dell’eroe Calogero Di Bona sia di esempio. La memoria dei nostri Caduti è un dovere che coltiviamo con la massima attenzione; tra le numerose iniziative intraprese in tal senso, ho disposto che venga completato il programma di intitolazioni degli istituti penitenziari ai Caduti appartenenti al Corpo degli Agenti di Custodia e al Corpo di Polizia Penitenziaria. In particolare - conclude il capo del Dap - entro pochi mesi saranno intitolati tutti gli istituti della Sicilia”. In ricordo del maresciallo Di Bona lo scorso 23 settembre è stato piantato un albero nel Giardino della memoria di Capaci, sorto ai margini della carreggiata dell’autostrada A29, che porta il nome “Quarto Savona Quindici”, nome in codice della scorta del Giudice Giovanni Falcone. Castrovillari (Cs): nasce “Sport e legalità”, progetto tra Lions e Casa circondariale nuovacosenza.com, 6 gennaio 2018 Sport e legalità. È questo il nome del “service” che è stato presentato presso la Casa Circondariale di Castrovillari. Un progetto ideato dal Distretto 108 Ya dei Lions Club che pone l’attenzione nei confronti della realtà carceraria, spesso dimenticata e sconosciuta dalla società, ma parte integrante di essa, con la consapevolezza di voler dare un piccolo aiuto a coloro che vivono la condizione di detenuti. Ieri la firma ufficiale del protocollo d’intesa tra la Direttrice della Casa Circondariale Maria Luisa Mendicino e il Presidente dei Lions Club di Castrovillari Michele Martinisi che ha registrato l’importante partecipazione del campione di pugilato Clemente Russo, accompagnato per l’occasione a Castrovillari da Lino Le Voci dei Lions Club di Perugia. I detenuti hanno così avuto la possibilità di essere protagonisti di un vivace e costruttivo confronto con il Campione di pugilato sulle tematiche del film “Tatanka” proiettato nella Casa circondariale il giorno precedente. Clemente Russo, uomo del Sud, proveniente da Marcianise, si è detto fortunato per quanto accaduto nella sua vita, rispondendo alle domande dei detenuti che, partendo dalla visione del film del regista Giuseppe Gagliardi, hanno spaziato in maniera costruttiva e sorprendente sul mondo dello sport, del riscatto sociale e della vita carceraria. Russo ha aperto il suo cuore rivolgendosi ai detenuti con grande spontaneità e umanità suscitando in loro particolare apprezzamento ed emozione, emozione che è trapelata nel momento della consegna da parte di un detenuto al campione di una targa in ricordo dell’incontro. Il pugile che appartiene al corpo sportivo della Polizia Penitenziaria non è la prima volta che incontra nelle carceri uomini e donne che pagano per i loro errori. In tanti ieri hanno ricordato di aver sognato con le sue vittorie e seguendo i suoi incontri. La direttrice Maria Luisa Mendicino ha sottolineato il valore dello sport che ha una grande valenza nella rieducazione delle persone e che riesce a far nascere in ognuno quel senso di riscatto. Un momento di collaborazione tra più istituzioni che ha trovato “grande disponibilità e sensibilità nella direzione e in tutto il personale della casa circondariale” - ha dichiarato il presidente dei Lions, Michele Martinisi - e che vedrà nascere anche un laboratorio di danza caraibica per la sezione femminile curato da “Sarà Danza” e un momento prettamente sportivo con la prossima inaugurazione del nuovo manto in sintetico del campetto all’interno della casa circondariale. Per l’occasione i Lions doneranno materiale sportivo per i detenuti materiale sportivo rivolto anche al progetto di atletica leggera “Arcobaleno” tenuto dalla Tiger Running presente ieri al tavolo dei relatori con il Presidente Vincenzo Malomo. Alla firma del protocollo hanno partecipato anche il II Vice Governatore dei Lions Nicola Clausi, il responsabile legalità e ideatore del Service dei Lions Luigi Delle Cave che hanno evidenziato il ruolo del Club nella società e l’importanza di “servire” cercando di dare un contributo a chi vive oggi la condizione di detenuto, il Sindaco della città Mimmo Lo Polito che ha elogiato il Club cittadino per l’attività proposta, e il Presidente dell’Associazione Cinepresi Erminia Marino che ha collaborato alla realizzazione del Cineforum con il Club di Castrovillari, Cineforum che continuerà nei prossimi mesi. Migranti. Ecco i “reati d’accoglienza”, li commettono anche i prefetti di Simona Musco Il Dubbio, 6 gennaio 2018 I risultati della commissione parlamentare d’inchiesta. Troppe strutture straordinarie, posti Sprar finanziati ma non richiesti e, soprattutto, ampio ricorso agli affidamenti diretti, soprattutto in Calabria. È questa la fotografia scattata dalla commissione parlamentare d’inchiesta sui migranti, che ha raccontato lo stato dell’accoglienza nel Paese. Smentendo, intanto, qualora ce ne fosse bisogno, il falso mito dei migranti in hotel, una percentuale inferiore ai nove punti. Perché, prevalentemente, rimangono ammassati in strutture di prima emergenza, piccole e teoricamente temporanee, ma solo sulla carta. Lì rimangono ben oltre le procedure di identificazione, con tutte le conseguenze in fatto di servizi e integrazione. Ma il dato che più fa riflettere, alla luce delle contestazioni mosse al sindaco dell’accoglienza, Domenico Lucano, primo cittadino di Riace, accusato di aver fatto ampio ricorso all’affidamento diretto dei servizi, è che proprio in Calabria la metà degli affidamenti avviene in maniera diretta. E proprio ad opera di chi ha mosso le accuse a Lucano: le prefetture. “Il maggior ricorso all’affidamento diretto - si legge nella relazione - coincide con i casi di maggiore concentrazione della presenza di migranti in poche strutture, come nel caso della Calabria”. Le anomalie - La relazione evidenzia altre anomalie che mostrano in paese zoppicante nella gestione dell’accoglienza: strutture piccole e di derivazione para alberghiera, con ricorso agli affitti anziché alle strutture del demanio e, quindi, gratuite; centri con funzioni poco chiare e non specializzate, dove “tutti fanno tutto, con risultati poco incoraggianti”. Tempi lunghi e spazi stretti, dunque, associati al protrarsi delle procedure di esame delle domande di protezione internazionale, che aggrava il sistema. Problemi che hanno spinto la commissione a proporre una Agenzia nazionale dell’accoglienza in grado di fronteggiare con maggiore efficacia il fenomeno. “Ci sono 150 mila presenze circa nel sistema di accoglienza che vivono delle lungaggini dei tempi di esame delle loro domande - si legge nel dossier. Manca una spiegazione dello scarto tra sbarchi e domande di protezione internazionale. Ci sono 250 mila persone sbarcate che non si sa che fine abbiano fatto, ma di certo si sa che non sono state espulse”. Ma l’inefficienza del sistema sta anche nell’inerzia dei Comuni, ancora restii ad aderire al sistema di protezione Sprar. Sono solo 661 su 8mila, infatti, gli enti che hanno aderito, probabilmente, ipotizza la commissione, perché “i sindaci non vogliono strutture che poi non saranno mai più reversibili”. Il flusso migratorio - Dal 2014 il flusso di migranti si è decuplicato rispetto al primo decennio degli anni duemila. Dal picco del 2011, in concomitanza con l’emergenza Nord Africa (37.350), nel 2014 gli arrivi sono stati 170.100 e nel 2016 sono arrivati a 181.146, mentre nel primo semestre 2017 c’è stato un aumento del 19,3 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, per un totale di 83.752 migranti. Il secondo semestre, invece, ha subito una contrazione tanto che, alla data del 22 novembre 2017, il numero dei migranti sbarcati è pari a 114.662, inferiore del 30,05 per cento rispetto allo stesso periodo del 2016. Un’inversione dovuta all’accordo tra il Governo italiano e il Governo di Riconciliazione nazionale libico. La nuova pianificazione strutturale voluta dal ministro dell’Interno Marco Minniti prevede un’accoglienza diffusa gestita dalle prefetture con il coinvolgimento dei territori, che trova il suo perno centrale nello Sprar. “La Commissione ha spesso constatato che i servizi offerti alla persona - dall’insegnamento della lingua italiana, all’orientamento al territorio, dalla mediazione linguistica e culturale all’istruzione scolastica, sociale e di orientamento al lavoro - sono apparsi nel complesso inadeguati ed insufficienti - si legge nel dossier -. Mancano dati sistematici sul sistema dell’integrazione (sociali, lavorativi, scolastici) dei richiedenti protezione internazionale. La Commissione ha ottenuto alcuni dati sulle posizioni lavorative aperte in favore dei richiedenti asilo presso gli istituti previdenziali. Tali dati testimoniano che il tema del lavoro rimane essenzialmente legato al “sommerso”. “Patologico ricordo ai Cas” L’analisi dei dati sulle presenze dei migranti nel sistema di accoglienza restituisce “un’impietosa fotografia dello stato attuale del sistema di accoglienza”, in particolare a causa del “massiccio e patologico ricorso alle strutture temporanee (Cas). È evidente che, a fronte di un modesto incremento della capienza delle strutture di seconda accoglienza (Sprar) e di una contrazione dei posti nelle strutture di prima accoglienza, sia stato necessario ricorrere maggiormente a strutture temporanee attivate in via straordinaria, al punto che il numero dei migranti ospitati in queste ultime è cresciuto più che proporzionalmente (10,22%) rispetto all’incremento complessivo delle presenze (6%)”. L’eccessivo ricorso ai Cas, nati come soluzione straordinaria e diventati, invece, realtà ordinaria e preponderante dell’accoglienza, “è inevitabile conseguenza, oltre che di una complessiva insufficienza di posti nelle strutture”, anche “di una scarsa propensione degli enti locali al modello Sprar di accoglienza diffusa e di qualità”. A fronte, infatti, di ben 31.270 posti finanziati, sono stati presentati progetti per un totale di 24.972 posti. Non sono stati, quindi, attivati, nonostante i finanziamenti stanziati, 6.302 posti. Così, il 91,04 per cento dei migranti - 158.207 persone - sono ospitati presso i Cas, centri pensato per sopperire alla carenza di posti, ma che nel funzionamento pratico “sono molte volte apparsi deficitari sotto l’aspetto della qualità dei servizi erogati”. La loro filosofia di gestione è infatti “criticabile”, ribadisce la relazione, a causa del “frequente ricorso ad affidamenti diretti, troppo spesso giustificati per fronteggiare situazioni emergenziali, nonché per il frequente verificarsi di situazioni di monopolio, favorite dalla coincidenza fra l’ente gestore e la figura del proprietario della struttura”. Il dato più alto degli affidamenti diretti sul totale delle procedure svolte dalle prefetture - che poi commissariano i Cas inadempienti o infiltrati dalle mafie - è “quello della regione Calabria, che ha fatto ricorso agli affidamenti diretti nel 49,34% dei casi”. La stessa regione che, con le sue prefetture, ha criticato, facendolo finire sotto indagine, l’unico modello riconosciuto come vincente in tutto il mondo: quello di Riace. Migranti. Lampedusa, si suicida un giovane ospite dell’hotspot di Giorgio Ruta La Repubblica, 6 gennaio 2018 Il sindaco: “Restano qui per mesi senza far niente, così arrivano all’esasperazione”. Il cadavere è stato trovato questa mattina, ma i carabinieri stanno cercando di capire quando sia avvenuto il decesso. Un migrante tunisino di 30 anni, ospite dell’hotspot di Lampedusa, si è tolto la vita all’esterno della struttura di contrada Imbriacola. L’extracomunitario, secondo le prime frammentarie notizie, si sarebbe impiccato a una trave. I migranti attualmente ospitati nel centro sono circa 150, quasi tutti tunisini. Il cadavere è stato trovato questa mattina, intorno alle 12 e 30, in un casolare distante 400 metri dal centro di accoglienza dell’Isola. A fare la scoperta, poco dopo la morte, alcuni ospiti dell’hotspot. Il giovane era sbarcato a Lampedusa lo scorso 30 ottobre e sarebbe dovuto partire per Agrigento il 31 dicembre, ma a causa di un guasto la nave non è più partita. “Si era isolato nell’ultimo periodo”, hanno detto i compagni. Qualche giorno dopo il suo arrivo, gli psicologi del centro di accoglienza avevano consigliato il suo trasferimento dall’isola a causa del disagio psichico vissuto dal migrante che proveniva dalla Tunisia. Dure le parole del sindaco di Lampedusa, Totò Martello. “Non possono restare per mesi senza far niente perché si arriva all’esasperazione, qui dovrebbero rimanere per 48 ore. Poi, se uno non sta bene la situazione diventa drammatica. Adesso arrivano i pianti di dolore, i finti moralismi, ma la realtà è questa”. Ammara Walid, un suicidio da immigrazione di Luigi Manconi Il Manifesto, 6 gennaio 2018 Ammara Walid, cittadino tunisino, che avrebbe compiuto trentuno anni il prossimo 13 marzo, si è tolto la vita questa mattina a Lampedusa, impiccandosi con una cintura di sicurezza. Si trovava dal 30 ottobre tra i 150 migranti trattenuti nell’hotspot dell’isola, in attesa di essere trasferito in un centro dell’agrigentino. Il suo suicidio ci ricorda, in maniera drammaticamente esemplare, i contorni della tragedia dell’immigrazione e le patologie che essa produce: lo smarrimento dell’identità, il panico sul proprio futuro, quella vera e propria sofferenza mentale che è la sindrome del migrante. Tanto è vero che gli psicologi dell’hotspot e, più di recente, una visita psichiatrica avevano accertato l’incompatibilità dello stato di salute di Walid con il trattenimento in un centro di detenzione e la necessità di un rapido trasferimento. Cosa non ancora avvenuta, nonostante siano trascorsi dei mesi. Ammara Walid si è trovato così in una condizione di totale incertezza sul proprio destino e non adeguatamente assistito, a causa del fatto che gli psicofarmaci prescritti non erano reperibili sull’isola. Su tutto questo, e su eventuali responsabilità dell’amministrazione pubblica, ho presentato un’interrogazione urgente al Ministro dell’Interno. Francia. A Nizza si processa la solidarietà verso i migranti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 6 gennaio 2018 Martine Landry, un’attivista di Amnesty International Francia, sarà giudicata in tribunale a Nizza lunedì 8 gennaio. L’accusa è quella di “avere facilitato l’entrata di due minori stranieri irregolari (…) avendoli presi in carico e accompagnati dalla frontiera italiana al valico di frontiera francese”. Rischia fino a cinque anni di carcere e un’ammenda di 30.000 euro. Iscritta ad Amnesty International dal 2002, Martine svolge da tempo missioni di osservazione alla frontiera tra Francia e Italia. Il 28 luglio 2017, la polizia italiana ha rinviato in Francia due minori stranieri non accompagnati. Martine Landry li ha recuperati dalla parte francese della frontiera tra Mentone e Ventimiglia, accompagnandoli alla polizia di frontiera (Paf). I minori, entrambi quindicenni e di origine guineana, avevano i documenti che attestavano la loro presa in carico da parte dei Servizi sociali all’infanzia della Francia. Alla frontiera francese, i minori non accompagnati non ricevono l’attenzione necessaria in relazione alla loro situazione di vulnerabilità. I bambini vengono espulsi allo stesso modo degli adulti, rapidamente e senza la possibilità di esercitare i loro diritti o di essere accompagnati. Mentre da oltre due anni le organizzazioni della società civile denunciano violazioni di diritto internazionale, europeo o francese, al confine franco italiano da parte delle autorità francesi, queste ultime intimidiscono e perseguitano coloro che cercano di proteggere i diritti umani delle persone vulnerabili, come i minori non accompagnati. È urgente ed essenziale, hanno affermato Amnesty International Francia e Amnesty International Italia, che la politica del governo francese tenga conto dell’imperativo del rispetto dei diritti umani di migranti e rifugiati che attraversano il confine franco-italiano e della necessaria protezione di coloro che prestano loro soccorso. C’è da sperare che il processo a Martine diventi un’opportunità per il governo francese per modificare la legislazione che consente, come dimostra la vicenda giudiziaria di Martine, di criminalizzare l’assistenza fornita dai cittadini per proteggere migranti e rifugiati. Iran. Indagare sulla morte dei manifestanti, rischio di tortura per centinaia di arrestati amnesty.it, 6 gennaio 2018 Amnesty International ha espresso il timore che la repressione in corso in tutto l’Iran nei confronti delle proteste possa intensificarsi. L’organizzazione per i diritti umani ha sollecitato le autorità di Teheran a rispettare il diritto di manifestazione pacifica, a indagare sulle denunce di uso illegale della forza e delle armi da fuoco e a proteggere dalla tortura le centinaia di persone arrestate a partire dal 28 dicembre 2017. Da quel giorno, migliaia di iraniani hanno riempito le strade di circa 40 città del paese per protestare contro la povertà, la corruzione, l’autoritarismo e la repressione politica. Secondo dati ufficiali aggiornati al 4 gennaio, i morti sarebbero almeno 22 (tra cui due membri delle forze di sicurezza). Oltre 1000 persone sono state arrestate nel corso delle proteste e trasferite in centri di detenzione noti per le torture praticate al loro interno. Nella sola prigione di Evin, a Teheran, tra il 31 dicembre 2017 e il 1° gennaio 2018 sono stati registrati 423 ingressi di detenuti. Molti di loro si troverebbero nella cosiddetta “sezione della quarantena” (dove i detenuti vengono perquisiti e visitati), che ha spazio solo per 180 persone. Amnesty International ha chiesto il rilascio di tutte le persone arrestate mentre stavano manifestando in modo pacifico. Egitto. L’Isis si diffonde nelle carceri a cura di Laura Cianciarelli sicurezzainternazionale.luiss.it, 6 gennaio 2018 L’Isis continua a riscuotere consensi all’interno delle carceri egiziane, secondo quanto si legge in un report di CBS News. CBS News riferisce la testimonianza di un cittadino irlandese di origini egiziane, Ibrahim Halawa, che ha trascorso quattro anni nelle prigioni egiziane, assistendo all’indottrinamento dei propri compagni di cella secondo l’ideologia dello Stato Islamico. Halawa era stato arrestato nell’estate del 2013, in occasione di un sit-in di protesta contro il rovesciamento del presidente Mohamed Morsi, eletto nelle elezioni presidenziali del 2012 e spodestato con un colpo di stato, avvenuto il 3 luglio 2013, dall’attuale presidente, Abdel Fattah Al-Sisi. Halawa è stato rilasciato il 18 ottobre 2017 dopo essere stato in almeno sei centri di detenzione. Nonostante fosse stato arrestato nell’estate del 2013, gli è stato consentito di presentarsi davanti a un giudice per dichiarare la propria innocenza per la prima volta nel marzo 2017. Secondo quanto ha riferito a CBS News, “all’inizio, nessuno aveva mai sentito parlare dell’ISIS, ma, quando me ne sono andato, almeno il 20% supportavano apertamente le loro idee. Magari erano solo chiacchiere - molti di loro erano ingegneri, studenti e medici che volevano soltanto andare a casa dalle loro famiglie, ma dopo tutti quegli anni di prigionia senza alcuna spiegazione, molti volevano vendicarsi”. Stando al racconto di Halawa, verso la fine della sua prigionia, la Fratellanza musulmana, un’organizzazione islamista internazionale, non aveva più molti seguaci all’interno delle carceri. “Dopo quattro anni, la maggior parte delle persone non volevano aver più niente a che fare con loro, voleva soltanto uscire per evitare di unirsi a loro”. In tale contesto, è importante sottolineare che in Egitto è attivo un gruppo estremista affiliato allo Stato Islamico, lo “Stato del Sinai”, che ha condotto numerosi attacchi terroristici contro le forze di polizia. Il 24 novembre, 305 persone sono morte e 109 sono rimaste ferite in un’esplosione che ha colpito la moschea di Al-Rawdah, situata nei pressi della città di Al-Arish, capoluogo del governatorato egiziano del Sinai del Nord. Tale attentato non è ancora stato rivendicato, ma si ritiene che sia stato perpetrato dallo Stato del Sinai. L’esperienza di Halawa fornisce una prospettiva unica anche per comprendere come le condizioni all’interno delle principali prigioni egiziane siano degenerate dopo un giro di vite da parte del governo nei confronti dei dissidenti. Le organizzazioni umanitarie hanno riferito che almeno 60.000 prigionieri politici, per la maggior parte sostenitori dell’ex presidente Morsi, si trovano attualmente nelle prigioni egiziane. Halawa ha riferito che gli ufficiali delle prigioni definivano lui e i suoi compagni di cella “prigionieri politici”, nonostante Al-Sisi abbia sempre negato l’esistenza di prigionieri politici nelle carceri egiziane e ha aggiunto: “Le prigioni erano piene. All’inizio c’erano molti membri della Fratellanza Musulmana e del Movimento 6 Aprile - il gruppo giovanile democratico che aveva dato il via alle proteste di piazza Tahrir, ma continuavano ad arrivare persone nuove. Verso la fine, le guardie erano diventate molto brusche con noi, perché avevano notato che le persone che uscivano erano ancora politicizzate e postavano le loro opinioni su Facebook”. “Il cibo spesso era marcio e l’ambiente era abbastanza corrotto, le guardie potevano accusare chiunque di qualsiasi cosa e le accuse sarebbero potute rimanere a carico della persona”, ha raccontato Halawa e ha aggiunto che i prigionieri venivano spesso puniti quando venivano condotti attacchi contro lo Stato, come l’assassinio del procuratore generale, Hisham Barakat, avvenuto al Cairo il 29 giugno 2015. Halawa è stato accusato di vari crimini che spaziavano dall’incitamento alla violenza all’omicidio e ha riferito che i detenuti venivano picchiati regolarmente con sbarre e catene di metallo durante il periodo di detenzione. Sulle violenze si sono espresse anche le organizzazioni umanitarie, sottolineando come la tortura e altri abusi siano spesso utilizzati nelle prigioni egiziane. Dal canto loro, le autorità egiziane hanno negato qualsiasi abuso sistematico. Perù. Fujimori ora è un uomo libero, la famiglia esulta e le reti sociali si scatenano di Claudia Fanti Il Manifesto, 6 gennaio 2018 “L’indulto-insulto” e il ritorno a casa dell’ex presidente golpista, probabilmente negoziato dal fratello Kenji con Pedro Pablo Kuczynski. Un bel quadretto di famiglia, con Alberto Fujimori al centro e i suoi quattro figli intorno. E la scritta: “Felici di dare il benvenuto a nostro padre in questa nuova tappa della sua vita!”. La foto è apparsa sulla pagina Twitter di Keiko Fujimori, all’uscita dell’ex presidente golpista - condannato a 25 anni di prigione per crimini di lesa umanità e indultato alla vigilia di Natale dall’attuale presidente Pedro Pablo Kuczynski - dalla clinica in cui ha passato gli ultimi giorni prima di trasferirsi, da uomo libero, in una casa del distretto di La Molina, una delle zone più esclusive della capitale. In realtà, qualche dubbio sulla reale contentezza di Keiko è lecito averlo: l’indulto, infatti, sarebbe stato negoziato con Kuczynski dal fratello Kenji, mentre lei, votando per la destituzione del presidente, avrebbe, a quanto pare, cercato di impedirlo, così da non avere intralci nella sua corsa alla presidenza (per poi, è chiaro, procedere lei stessa a liberare suo padre). Ma, in ogni caso, la sbandierata gioia della famiglia Fujimori non è passata inosservata sulle reti sociali, dove, insieme all’ormai noto slogan delle proteste “Indulto è insulto”, non sono mancati commenti indignati sulla presunta - e certamente poco evidente - gravità dello stato di salute dell’ex presidente. In attesa della prossima giornata nazionale di protesta contro l’impunità, la corruzione e la scarcerazione di Fujimori, convocata l’11 gennaio dalla Confederazione generale dei Lavoratori del Perù, il governo continua intanto a perdere pezzi: dopo le dimissioni dei ministri dell’Interno (Carlos Basombrío) e della Cultura (Salvador del Solar), di funzionari del Ministero di Giustizia e del direttore generale per i Diritti Umani e l’uscita dal partito di maggioranza di tre parlamentari, ha rinunciato anche il ministro della Difesa Jorge Nieto.