Salute mentale, oltre 40mila detenuti soffrono di un disagio psichico di Samuele Ciambriello* La Repubblica, 5 gennaio 2018 L’importanza del tema salute mentale in carcere è di prima e immediata evidenza anche se ci si sofferma solo sui numeri. Secondo i dati della Società italiana di medicina e salute penitenziaria nel 2016 oltre 40mila detenuti soffrono di un disagio psichico. Un disagio che può assumere anche forme molto gravi (depressioni, psicosi, depressioni) e che può portare anche a gesti estremi o a comportamenti autolesionistici. Secondo questi dati, in un panorama molto ampio di patologie, il 4 per cento della popolazione detenuta soffre di disturbi psicotici, una percentuale più alta della popolazione libera che soffre della stessa patologia (1 per cento). E poi ancora stati di ansia (11 per cento) e reazioni di adattamento (30 per cento). I numeri sono poi davvero preoccupanti quando registrano che il 65 per cento della popolazione reclusa soffre di disturbi di personalità e il 48 per cento di disturbi legati all’uso di sostanze stupefacenti. Questo vuole dire che nella nostra Regione, che ospita 7.321 detenuti, (di cui 345 donne e 965 stranieri) per una capienza di 6.135 posti, ci sono oltre 4.000 detenuti che potenzialmente hanno bisogno di costante assistenza psichiatrica. Nel solo 2017 sono stati 50 i suicidi nelle carceri di tutta Italia, cinque in Campania (uno a Santa Maria Capua Etere, due Poggioreale, uno ad Avellino, l’ultimo a Benevento nei giorni scorsi). Nel 2017, in Campania abbiamo registrato più di 700 episodi di autolesionismo, 89 tentati di suicidio. Questo scenario allarmante sin dai primi numeri è reso più preoccupante dalle condizioni detentive che rischiano di aggravare o far emergere queste patologie. Secondo il rapporto dell’associazione Antigone i reparti di osservazione psichiatrica, che dovrebbero offrire assistenza specifiche ai detenuti affetti da gravi patologie, in molti istituti di pena presentano una situazione molto critica. Inoltre in 50 istituti sono stati trovati letti di contenzione e le “celle lisce” (celle prive di ogni mobilio) dove vengono ristretti i detenuti in crisi acuta. In alcune sezioni psichiatriche non ci sono neanche i bagni. Ho potuto sperimentare, anche io, come anche nella nostra regione, in qualche caso, alcuni di questi reparti vengono usati come “valvole di sfogo” per ospitare e contenere detenuti problematici, ma senza patologie psichiatriche conclamate. In generale ho anche rilevato un carente numero di operatori specializzati. In carcere mancano, cioè, psichiatri, psicologici e tecnici della riabilitazione psichiatrica. E purtroppo più del 40 per cento dei farmaci utilizzati nelle strutture penitenziarie è associato alle patologie psichiatriche. In Campania sono stati definitivamente chiusi gli Op di Napoli (il 21 dicembre 2015) e di Aversa (il 15 giugno 2016) e sono state attivate sei Articolazioni per la tutela della salute mentale in carcere negli istituti di Sant’Angelo dei Lombardi (dieci posti), Benevento (sei posti), Santa Maria Capua Etere (20), Sandigliano (18), Pozzuoli (otto femminile), Salerno (otto), per un totale di 70 posti. A questi occorre aggiungere le Reims (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) definitive della Asl Avellino (San Nicola Baronia per le persone domiciliate o residenti nei Comuni di competenza delle Asl Avellino, Benevento, Napoli 3 Sud, Salerno) e la Reims della Asl Caserta (Calvi Risorta per le persone domiciliate o residenti nei Comuni di competenza delle Asl Caserta, Napoli 1 e Napoli 2) con 20 posti ciascuna. Basta questo per garantire che la detenzione di una persona con sofferenza psichica avvenga nel rispetto della dignità umana e dei principi generali in materia di trattamento penitenziario? Sono stato un grande sostenitore nel 2008 della riforma della sanità penitenziaria che ha riportato il tema della salute nelle competenze delle sole aziende sanitarie locali affermando così un principio fondamentale: il diritto alla cura e alla salute è unico per la persona libera come per la persona priva di libertà. Sono però consapevole che l’intervento in carcere presenta notevoli difficoltà operative e gestionali e richiede una più ampia cooperazione istituzionale tra ASL e Amministrazione penitenziaria. In alcuni casi ho assistito a un rimpallarsi di responsabilità che offende le istituzioni e chi le rappresenta. E le stesse risorse, 20 milioni di euro annui che arrivano da Roma, vanno gestite come integrazioni a progetti piuttosto che per pagare gli stipendi al personale. Manca una Reims in provincia di Napoli, eppure ci sono i finanziamenti per promuoverla. Per questo ho scelto come Garante, dopo un primo e lungo giro di visite in tutti gli istituti e le Reims della Campania, di organizzare quale primo evento pubblico del mio mandato un incontro sul tema della salute mentale, che si è svolto prima di Natale in Consiglio regionale. Il convegno è servito a mettere in connessione amministrazione penitenziaria, aziende sanitarie locali, la Regione, i volontari del terzo settore, con la consapevolezza che la chiusura degli Op è solo il primo passo verso una reale riforma della questione “salute mentale e carcere”. Che occorre lavorare insieme e occorre farlo bene, coinvolgendo in questo dibattito la società civile e la classe politica perché, come diceva Franco Basagli, sul tema della salute mentale “non possiamo vincere, ma solo convincere”. *L’Autore è Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale C’è una giustizia che funziona, è quella delle carceri minorili di Azzurra Noemi Barbuto Libero, 5 gennaio 2018 In 17 penitenziari per ragazzi solo 452 detenuti, segno che la messa in prova (ovvero la sospensione del processo per valutare il colpevole) è un buon sistema. Tassi di recidiva più bassi in Europa, zero casi di suicidio negli ultimi 7 anni e tentativi di togliersi la vita sempre più ridotti: 45 nel 2016, 19 nel 2017. In continua diminuzione anche le aggressioni e le infrazioni disciplinari. In Italia, se c’è qualcosa che sta funzionando, è la giustizia minorile, che ha reso residuale il carcere grazie all’istituto, sempre più applicato, della messa alla prova, che costituisce una misura alternativa alla detenzione e comporta la sospensione del processo per un periodo determinato al fine di consentire al giudice di valutare la personalità ed il comportamento del reo minorenne. Dal 1992 al 2016 tale istituto è passato da 778 provvedimenti a 3.757. Ad oggi, nei nostri diciassette Istituti Penali per Minorenni sono presenti solo 452 detenuti, i minorenni sono il 42%, i maggiorenni il 58%, le ragazze 34 (8%), gli stranieri 200 (44%). Sono questi i dati incoraggianti contenuti nel 4° Rapporto dell’associazione Antigone sulle carceri per minori. “La situazione è stabile da molto tempo, ma possiamo e dobbiamo fare di più”, dichiara Susanna Marietti, responsabile dell’Osservatorio Minori di Antigone, la quale sottolinea che in carcere sostano ancora tanti giovani “non per la gravità o il tipo di reato che hanno compiuto, ma perché non si è riusciti a trovare per loro una soluzione differente, in quanto sono soli, senza un domicilio stabile e senza famiglia, o stranieri”. Tuttavia negli IPM non esiste il problema del sovraffollamento e l’attenzione e la dedizione al singolo consentono, anche grazie alla presenza di un educatore ogni 7 ragazzi, la realizzazione di un trattamento individualizzato di rieducazione e di recupero, che negli istituti di pena per adulti difficilmente può essere attuato. Purtroppo, il 48% di chi è attualmente detenuto in un IPM è in custodia cautelare e si tratta soprattutto di minorenni, l’81,6% dei quali non ha ancora una condanna definitiva. Inoltre, gli stranieri in custodia cautelare rappresentano il 53,5% del totale. “Se ci investiamo tanti soldi, la situazione può migliorare. Sono necessari più esperti, più personale, più risorse. Le leggi ci sono e sono buone”, osserva Marietti, che ritiene che il carcere, in generale, non possa rinchiudere e poi scaraventare per strada coloro che sono rimasti fuori dal mondo per 5 o 10 anni. Uscendo dall’istituto di pena il detenuto necessita di un sostegno ancora maggiore, affinché il passaggio dalla detenzione al reinserimento post-penitenziario, soprattutto di coloro che appartengono alle fasce più deboli, possa avvenire senza traumi. Occorre un avvicinamento graduale, ossia un reinserimento sociale e lavorativo, in mancanza del quale è facile che l’ex detenuto, non trovando alternative, consolidi la sua scelta criminale come unica possibilità di riscatto una volta lasciato il carcere. Ecco perché l’istituto della messa alla prova ha abbassato i tassi di recidiva, diminuendo anche il numero dei minori detenuti. Dobbiamo costruire una sorta di ponte tra le istituzioni totalizzanti penitenziarie e la società civile, vincendo il pregiudizio nei confronti di chi ha sbagliato e dando ai carcerati la speranza. In particolare i ragazzi “hanno bisogno di una grande presa in carico da parte della società. Essi sono soggetti in evoluzione e costituiscono delle risorse che non ci possiamo permettere di perdere”, afferma la responsabile di Antigone. Ecco che diventa importante aiutare il minore a percepirsi non come una persona inadeguata, o peso, ma come cittadino, affinché sappia che, scontato il suo debito, verrà riaccolto all’esterno. Coloro che si sentono valorizzati nella messa alla prova non tornano a delinquere, quindi dare fiducia è un modo di responsabilizzare il reo, favorendone il recupero. Quando ciò avviene, il carcere restituisce al mondo che sta al di là delle sbarre uomini e donne migliori. Gli istituiti penitenziari minorili costituiscono un modello virtuoso, ma quasi impossibile da ricalcare quando ci spostiamo sul fronte delle carceri per adulti a causa delle problematiche che queste ultime presentano, in primis il sovraffollamento. Una maggiore applicazione delle misure alternative alla detenzione potrebbe segnare un netto miglioramento della situazione, trasformando le carceri da discariche e contenitori di esseri umani in strutture in cui il singolo cessa di essere numero e diventa persona. Uno Bianca, lacrime e polemiche di Andreina Baccaro Corriere della Sera, 5 gennaio 2018 Il grido di dolore della madre di Otello Stefanini, ventisette anni dopo la strage del Pilastro, rompe il silenzio della commemorazione davanti al cippo in memoria dei tre carabinieri ammazzati il 4 gennaio del 1991 dalla banda della Uno Bianca. “Basta - dice tra le lacrime Anna Maria Stefanini. Chi ha ucciso 24 persone non può avere diritti”, riferendosi alla notizia del trasferimento di Fabio Savi nello stesso carcere del fratello Roberto. Anche il comandante dell’Arma Tullio Del Sette osserva: “Non possiamo non condividere l’amarezza”. Ventisette anni dopo la madre di Otello Stefanini grida “Basta”. Abbracciata al comandante dei carabinieri Tullio Del Sette, davanti al cippo che ricorda la barbara strage in cui i fratelli Savi ammazzarono il figlio Otello di soli 23 anni, fa sentire tra le lacrime il suo grido di dolore: “Chi ha ucciso 24 persone e ne ha ferite 103 non dovrebbe avere diritti - dice -, solo qui da noi possono succedere queste cose. Gli diamo un lavoro, li facciamo divorziare, sposare. La legge non è questa. La legge la interpreta ognuno a suo modo e questa è una vergogna. Perché Igor vuole venire in Italia? Perché qui c’è chi li fa uscire”. Insieme all’anniversario e alla commemorazione dei tre carabinieri uccisi in servizio, tornano le polemiche per i benefici concessi agli ex componenti della banda della Uno Bianca. Da qualche mese, è notizia di due giorni fa, Fabio Savi è stato trasferito nel carcere di Bollate a Milano, sotto lo stesso tetto del fratello più grande Roberto. E questo riapre le ferite dei familiari delle vittime della banda che insanguinò l’Emilia-Romagna dal 1987 al 1994. “Non possiamo non comprendere l’amarezza e la preoccupazione-ha detto il generale Tullio Del Sette ieri mattina dopo aver partecipato alla messa e alla deposizione della corona davanti al cippo che ricorda i tre giovani carabinieri ammazzati -. Io personalmente non posso non condividere”, osserva il comandante. Nella sua omelia il vescovo Matteo Zuppi ha detto: “Oggi ricordiamo gli uomini ma anche le loro divise e quello che rappresentavano: sono martiri caduti per il bene comune. Il ricordo - ha sottolineato - non si ferma a quel 4 gennaio, ma cresce con noi ogni anno anche se ci si presentano nuove domande a cui rispondere”. L’arcivescovo, che un anno e mezzo fa rivelò di aver ricevuto una lettera da uno dei componenti della banda, non è intervenuto sulle vicende odierne dei fratelli Savi che scatenano il risentimento dei familiari delle vittime. Ma tutt’intorno l’indignazione pesa nel giorno della ricorrenza di quella strage. “È normale - osserva la presidente dell’associazione dei familiari delle vittime Rosanna Zecchi - che loro si comportino bene in carcere, sanno che devono farlo per ottenere i permessi”. “Esprimo tutta la mia solidarietà ai familiari delle vittime - ha scritto ieri in una nota il deputato dem Andrea De Maria. Lo Stato ha il dovere di essere prima di tutto dalla parte delle vittime”. Il Guardasigilli Andrea Orlando, dal canto suo, ha già chiesto al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria una relazione dettagliata sulla vicenda. Fabio Savi, ha spiegato il suo avvocato, ha ottenuto il trasferimento perché nella struttura del Cagliaritano dove stava non c’era la possibilità di lavorare. Anche per la vicesindaco Marilena Pillati il trasferimento di Fabio Savi è “una decisione che faccio fatica a comprendere, forse dovuta a una carenza di memoria”. “La pena - ha detto il procuratore aggiunto Valter Giovannini - deve essere anche espiazione”. Piscitello (Dap): “ho trasferito Fabio Savi perché era un suo diritto, o volete buttare la chiave?” di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 5 gennaio 2018 “Il provvedimento l’ho sottoscritto io, perché mi occupo del trattamento dei detenuti. E me ne assumo la responsabilità. Mi pare che si sia scatenata una tempesta in un bicchiere d’acqua. Stiamo parlando di una persona che si è fatta ventitré anni di carcere. A questo punto serve che ci mettiamo d’accordo: o diciamo che questi ventitré anni sono serviti a qualcosa, che per me sarebbe un vanto, oppure sosteniamo che bisogna buttare via la chiave. Fra qualche anno pure Fabio Savi avrà diritto alla libertà vigilata e ai permessi premio, come gli altri detenuti e come i 2.500 ergastolani che ci sono oggi in Italia. Anche Giovanni Brusca (ex boss mafioso che ha avuto permessi per uscire a Natale dal carcere di Rebibbia, ndr) usufruisce di questi provvedimenti”. Roberto Piscitello è un magistrato che ha fatto parte della direzione distrettuale antimafia di Palermo. Uno che di detenuti ne vede tanti. Oggi è direttore al Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, l’organo del ministero della giustizia che regola il funzionamento delle carceri. Direttore Piscitello, il ministro della Giustizia Orlando ha chiesto una relazione al Dipartimento. “La faremo. Il ministro non può certo conoscere le storie dei 56mila detenuti che ci sono in Italia. Non le conosco nemmeno io”. Quando è stato trasferito a Milano Fabio Savi? “L’8 maggio scorso”. Perché proprio il carcere di Bollate, dov’è già detenuto il fratello Roberto? “Perché ha chiesto lui di andare a Milano. In modo da poter lavorare e avere la possibilità di incontrare il suo unico figlio, che risiede a Londra. Il carcere di Opera non andava bene perché è un altro tipo di struttura, quello di Bergamo nemmeno per problemi di sovraffollamento. Bollate ha una maggiore vocazione trattamentale, più favorevole per lavorare. Lui ha l’ergastolo, è vero, ma ha anche il diritto di svolgere attività lavorative e guadagnare qualcosa per sé e i familiari. Funziona così per tutti gli ergastolani”. Quello che più indigna i familiari delle vittime è la possibilità che i due fratelli possano incontrarsi. “Bisogna chiarire questo aspetto. Roberto, in quanto ex poliziotto, è assegnato alla sezione “protetti”, una parte specifica del tutto separata dal resto del carcere dove ci sono ex magistrati, collaboratori di giustizia e così via. Quindi non possono incontrarsi senza essere autorizzati”. Possono chiedere di fare dei colloqui, giusto? “Possono chiedere i colloqui, perché è un loro diritto. Guardi che Fabio Savi avrebbe potuto chiederli anche prima, e in quel caso avremmo dovuto portarlo da Cagliari a Milano. Quando Salvuccio Riina chiedeva di incontrare il padre Totò a Parma, dovevo mobilitare dodici uomini di scorta. Lo ripeto: è un diritto”. Che lavoro fa Savi a Bollate? “In quell’istituto si entra in una serie di circuiti lavorativi nei quali si fanno diverse cose. Dalle attività di call center ai lavori di artigianato”. Viene retribuito? “Secondo i contratti nazionali di lavoro, che sono parificati al lavoro esterno. La differenza è che il compenso viene diminuito di un terzo, come previsto dalla legge”. Come ha stabilito se sottoscrivere o meno il trasferimento? “Io non posso che valutare un detenuto per come si comporta in carcere. E bisogna avere la capacità di distinguere una persona prima del carcere e dopo anni, perché gli istituti penitenziari non sono soltanto sbarre che si chiudono. Da tempo Savi non è più ritenuto un detenuto di alta sicurezza perché è stato declassificato a media sicurezza. Questo avviene attraverso un percorso che passa anche dall’autorità giudiziaria. Per questo passaggio ci fu il parere della procura di Bologna. Secondo il magistrato di sorveglianza e l’équipe che lo ha seguito in questi anni, il carcere è servito. Non ha avuto atteggiamenti ostili, non ha avuto procedimenti disciplinari a carico ma ha dimostrato comportamenti consoni. A Bollate si va previa selezione in ambito penitenziario. In altre parole, ci va chi lo merita. Se un detenuto ha un diritto e io non glielo concedo, lui può impugnare il mio provvedimento”. Secondo lei, in futuro, Savi potrà usufruire dei benefici previsti dalla legge per i detenuti? “Ad oggi lui ha accumulato 1.215 giorni di liberazione anticipata. Se ne maturano 45 a semestre”. Però è stato condannato all’ergastolo. Potrà beneficiarne? E quando? “In teoria anche l’ergastolo - se non è ostativo - può trasformarsi in pena alternativa. Ma in ogni caso devono passare sicuramente più di trent’anni. Più in generale, anche lui in futuro potrà essere messo in libertà vigilata, anche lui potrà godere di permessi premio. Si parla sempre di carcere più umano, più utile. La sicurezza non è buttare via la chiave”. Il pm Giovannini: “o c’è espiazione o la pena agli occhi dei cittadini pare evaporare” di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 5 gennaio 2018 “Le vittime che sopravvivono a gravi reati, e i parenti delle persone uccise, hanno il pieno diritto di manifestare tutta la loro amarezza. Oggi c’è un problema di certezza della pena. Secondo il comune sentire, in certi momenti, è come se evaporasse. E invece la pena, che comunque dovrebbe avere confini più certi, per chi ha commesso crimini orrendi deve essere anche espiazione”. Valter Giovannini è uno dei pm che si è occupato della Uno Bianca e oggi, come procuratore aggiunto, coordina il gruppo esecuzione penale della procura di Bologna. Ha seguito con attenzione il dibattito sul trasferimento di Fabio Savi da Cagliari a Milano. Procuratore, perché secondo lei c’è un problema di certezza della pena? “La sensazione del cittadino, in alcuni momenti, è di veder evaporare la pena. Questa sensazione deriva dalla possibilità di tutti i detenuti che commettono ogni reato - esclusi i delitti di mafia - di poter ottenere la liberazione anticipata”. In cosa consiste? “La liberazione anticipata fa meno notizia della semilibertà o della condizionale. Ma è un istituto che incide sul momento finale di espiazione della pena. Si tratta di 45 giorni a semestre, novanta giorni di sconto ai detenuti ogni dodici mesi. Se una persona viene condannata a cinque anni e si comporta bene, vuol dire che ottiene uno sconto importante di quasi un anno ogni quattro”. Secondo lei questo istituto andrebbe modificato? “Si parla di ridurre il numero di reati per i quali è possibile ottenere la liberazione anticipata. Io aggiungo che per alcuni reati più gravi - violenze sessuali, omicidi aggravati, rapine molto violente - una parte della pena va vista come espiazione, non come l’inizio della fase rieducativa”. E questo come si traduce nella vita in carcere? “Con un periodo di espiazione per il quale non è prevista la liberazione anticipata. Oggi il condannato per furto semplice e il condannato all’ergastolo hanno lo stesso sconto di pena. È un beneficio tra i meno conosciuti, ma erode il fine pena”. I familiari delle vittime hanno definito “una vergogna” il trasferimento di Savi a Milano. “I parenti hanno pieno diritto a manifestare la loro amarezza. A distanza di anni posso dire che quella notte del 4 gennaio i fratelli Savi erano organizzati per compiere un’azione eclatante. Pochi giorni prima c’erano stati i due assalti ai campi nomadi”. Rosanna Zecchi ha detto che i componenti della banda non si sono mai pentiti. “Io come magistrato mi occupo di collaboratori di giustizia. Il pentimento è al di fuori di un commento dell’autorità giudiziaria”. Don Nicolini: “non chiedete a quelle madri di capire, però il perdono è l’unica via possibile” di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 5 gennaio 2018 “Io non sono indignato. Il carcere ha lo scopo di restituire le persone alla società. Noi cristiani rischiamo di dimenticarlo, ma il Signore chiede il perdono”. Don Giovanni Nicolini non è più alla guida di Sant’Antonio, la parrocchia vicino alla Casa circondariale di Bologna, perché ha accettato il ruolo di assistente spirituale delle Acli. Ma vicino ai detenuti l’ex responsabile della Caritas c’è sempre rimasto. Non cambia idea nemmeno oggi, davanti alle polemiche per il trasferimento di Fabio Savi nello stesso carcere del fratello Roberto a Bollate. I leader della Uno Bianca l’uno a fianco all’altro. La sfida di Nicolini è di guardare le cose da un altro punto di vista. Alle polemiche per i permessi premio ottenuti durante questi anni di detenzione, si aggiungono quelle per il trasferimento a Milano. È d’accordo con la decisione? “Prima di tutto voglio dire che io ho stima per chi guida il personale carcerario. Si tratta di persone che conosco, che hanno una responsabilità delicata e valutano in profondità prima di prendere le decisioni”. Secondo lei lo hanno fatto anche questa volta? “A me non indigna quello, il trasferimento. Gli anni vissuti dentro il carcere mi hanno convinto che il regime carcerario è esposto a non essere costituzionale. Perché la Costituzione prevede che gli istituti penitenziari hanno lo scopo di restituire le persone alla società. Un aspetto prevalente rispetto a quello punitivo. Oggi non abbiamo più la pena di morte, però è stata creata un’idea di carcere solo come punizione, come pena. Ma nelle celle le persone muoiono ogni giorno, sui percorsi rieducativi si fa pochissimo. E per fortuna c’è il mondo del volontariato”. Decisioni di questo tipo, però, riaprono ferite nei familiari delle vittime. Non trova comprensibile anche il loro dolore? “Io ritengo che il dolore di chi ha legami con le vittime sia un’esperienza profondissima che non può essere soddisfatta con la pena. C’è il rischio di confondere l’istinto della vendetta, comprensibile, con la grandezza del dolore. Siamo cattivi cristiani, lo so, ma il Signore chiede perdono”. Lei riuscirebbe a perdonare? “Le dico una cosa. Tra le mie pochissime virtù, penso che il perdono provochi un movimento nel colpevole molto più grande, più profondo, anche dal punto di vista umano. Non so se il perdono è la sanzione minore”. Rosanna Zecchi, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della Uno Bianca, accusa i componenti della banda di non essersi mai pentiti. “Il perdono ha come finalità il pentimento”. Ma è vero anche il contrario, no? “Bisogna creare le condizioni perché l’altro possa pentirsi”. Nel 2014 accolse Annamaria Franzoni, condannata a 16 anni per aver ucciso il figlio, nella sua parrocchia per un permesso lavoro. “Sì, l’educazione che ho ricevuto dai miei genitori mi fa sentire in dovere di espormi alla comprensione di come quella persona cresce, di cosa sta vivendo. Quando io vado in carcere non penso di andare a trovare seicento mascalzoni, ma seicento persone che sono state amate meno di me. Chi è meno amato è più esposto. In cella ci sono mote persone che non hanno ricevuto niente dalla vita”. Femminicidio, le leggi ci sono ma non vengono applicate di Silvana Mazzocchi La Repubblica, 5 gennaio 2018 Il magistrato Fabio Roia denuncia nel suo libro la “timidezza interpretativa” di chi dovrebbe far valere gli strumenti per contrastare i crimini sulle donne. L’anno è appena iniziato e una giovane donna nigeriana, Miracle Francis, uccisa dal marito, inaugura la triste contabilità legata al femminicidio, un fenomeno di cui si parla molto ma che non va mai in crisi. Eppure le regole e le leggi che dovrebbero contrastare questi crimini, ci sono; il problema è che non vengono applicate con la necessaria competenza né con quella tempestività che sarebbe indispensabile. Ed è questa diffusa “timidezza interpretativa” a far sì che troppo spesso non si intervenga con provvedimenti adeguati nei confronti degli uomini violenti. A denunciare che operatori giudiziari, polizia, avvocati e perfino magistrati, non sempre “applicano con la necessaria precisione ed efficacia i numerosi istituti processuali e sostanziali esistenti”, è proprio una toga: Fabio Roia, magistrato dal 1986, già sostituto procuratore a Milano addetto al dipartimento “fasce deboli”, ex componente del Csm, da tempo un esperto molto attivo sull’argomento al Tribunale della sua città che, con il libro Crimini contro le donne, Franco Angeli editore, spiega come nasce, di che cosa si nutre la violenza degli uomini che la commettono e, soprattutto, suggerisce a chi ne è vittima, come uscirne. Roia ricorda che, sul piano storico, solo nell’ultimo scorcio del secolo scorso sono state cancellate certe leggi vetuste, (tipo il delitto d’onore o l’adulterio femminile perseguito come reato a senso unico), norme, usi e costumi che hanno a lungo alimentato la convinzione delle donne che la loro persona venisse dopo il dovere della “conservazione del nucleo familiare”, sempre e a tutti i costi. Convinzione che é spesso alla base del loro sentirsi responsabili per ciò che subiscono, quasi non fossero state “abbastanza” moglie e madri come si deve, e che le rende, alla fine, perfino giustificazioniste nel confronti dei loro compagni, mariti e partner violenti. In proposito, Roia cita una recente ricerca dell’Ista del 2014, “secondo la quale soltanto tre donne su dieci vittime di violenza domestica, riconoscono che l’atto violento posto in essere dal partner costituisce un reato”. Mentre le restanti sette tendono a catalogare questi comportamenti con altre definizioni. E ricorda che solo il 5% di loro si rivolge ai centri antiviolenza dove, invece, ci sono competenti professioniste volontarie pronte ad ascoltarle e a tendere loro la mano. Chiedere aiuto è il primo passo che una donna che subisce violenza dovrebbe fare, sottolinea il magistrato, e indispensabile è rivolgersi a operatori formati ed esperti che conoscono le politiche e le buone pratiche per intervenire anche a livello tecnico. Un contatto che, attraverso “il colloquio rivelatore”, (passaggio fondamentale per riconoscere la violenza subita), può aiutare a intraprendere il cammino verso una nuova vita. Non essere più vittime di violenza si può e una via d’uscita esiste. Ma è necessario cercarla, presto e nel modo giusto. Per liberarsi dalla sudditanza culturale e riprendersi la dignità e l’esistenza. Al di là delle parole, i perché di un libro che spiega le leggi che abbiamo... Il libro parla delle leggi, le spiega, le interpreta, indica quali devono essere le buone pratiche perché oggi, malgrado l’esistenza di una apprezzabile normativa italiana che tutela la donna vittima della violenza domestica, gli operatori giudiziari, polizia, avvocati ed anche gli stessi magistrati, non sempre applicano con la necessaria precisione ed efficacia i numerosi istituti processuali e sostanziali esistenti. Inoltre abbiamo una serie di disposizioni che ci derivano dalla legislazione europea che possono trovare diretta applicazione nelle singole vicende giudiziarie ma che a volte non vengono tradotte in provvedimenti per timidezza interpretativa o, forse, scarsa conoscenza del rapporto fra le diverse fonti normative. Crimini contro le donne non è però un pesante inno al diritto, ma un modo ragionato di spiegare come il dramma sociale della violenza dell’uomo nei confronti della donna possa essere contenuto e forse definitivamente sconfitto partendo da un’analisi storica che vede il nostro Paese, sul piano culturale e quindi della produzione delle leggi, in uno stato iniziale di arretratezza rispetto ad altre realtà. Basti pensare infatti che la riforma del diritto di famiglia è soltanto del 1975. Prima l’uomo era il capo delle relazioni, gestiva e orientava tutte le vite familiari, poteva pretendere dalla propria moglie anche rapporti sessuali non sempre desiderati. L’attenuante del delitto per causa di onore è stata abrogata nel 1981. Se la moglie veniva colta in una situazione di adulterio il marito la poteva tranquillamente ammazzare rischiando anche soltanto tre anni di carcere. La famiglia rappresentava il primo nucleo sociale di riferimento che andava sempre e comunque salvaguardato tanto che la legge sul divorzio è intervenuta appena nel 1970. La donna non aveva accesso a cariche pubbliche ed a ruoli di potere. Siamo cresciuti in questo clima patriarcale e maschilista e la nostra cultura di conservazione del nucleo familiare ha soffocato il messaggio che veniva lanciato alle donne di scegliere di rompere la relazione violenta per non subire le vessazioni che l’uomo, che agiva normalmente per perdita di potere rispetto alla crescita sociale della donna, le infliggeva. La violenza contro le donne può essere repressa nei tribunali, ma può essere sconfitta soltanto con un continuo processo di trasformazione, magari non ipocrita o di facciata, della nostra cultura che porti al rispetto della diversità di genere. Quando dico che “non è mai l’otto marzo” non affronto il problema delle leggi, ma denuncio gli stereotipi, i pregiudizi, i retro-pensieri che ancora oggi affliggono il nostro modo di essere. Dalla comunicazione giustificazionista, alla pubblicità sessista, passando anche per le aule dei tribunali. Troppe volte il processo viene fatto alla vittima e non agli autori della violenza. Qual è il comportamento pratico da tenere quando una donna, un’amica, una parente, una vicina, chiede aiuto perché subisce violenza? Secondo una recente ricerca dell’Istat del 2014 soltanto tre donne su dieci vittime di violenza domestica riconoscono che l’atto violento posto in essere dal partner costituisce un reato. Le restanti sette tendono a catalogare questi comportamenti con altre definizioni non attribuendo alle condotte quel disvalore sociale che andrebbe invece alimentato anche attraverso l’uso delle parole. Per questo nel libro parlo di “crimini” contro le donne. Avrei potuto usare il sostantivo “reati” ma ho preferito tentare la via dell’impressione linguistica. Normalmente la donna, proprio perché cresciuta nel mito della necessità di conservazione del nucleo familiare, tende a catalogare la violenza dell’uomo come una forma di reazione legittima a una sua carenza personale manifestata nel ruolo di moglie o di madre, spostando su di sé il centro del problema e creandosi degli irrazionali sensi di colpa. È per questo fattore (sub) culturale che la donna non ne vuole parlare all’esterno della cerchia familiare. La donna vittima di violenza di genere deve comprendere alcune cose fondamentali. La violenza dell’uomo non potrà essere gestita e, senza un intervento esterno forte, (necessario anche per tutelare i figli minorenni che magari assistono al clima violento endofamiliare soffrendo e riportando conseguenze comportamentali che potranno svilupparsi anche in futuro), il ciclo della violenza, ingannatorio anche perché seduttivo, non potrà essere interrotto. Appare fondamentale anche parlarne con qualcuno che sia formato all’ascolto, che non giudichi, e che sappia come gestire la situazione. I centri antiviolenza, per competenza e per presenza di operatrici multidisciplinari (avvocate, psicologhe), si presentano come i luoghi maggiormente attrezzati per accogliere la vittima di violenza domestica anche perché, sul piano giuridico, non hanno alcun obbligo di segnalazione qualora accertino la presenza di un reato procedibile d’ufficio quale è, per il nostro sistema, il delitto tipico della violenza domestica previsto dall’articolo 572 del codice penale riferito alla fattispecie dei maltrattamenti contro familiari e conviventi. Eppure, sempre secondo l’indagine Istat del 2014, soltanto il 5% delle donne vittime di violenza domestica si rivolge ad un centro specializzato. Occorre incrementare questo flusso attraverso una comunicazione adeguata e competente anche perché i centri antiviolenza sono presenti in quasi tutto il territorio nazionale ed il rapporto fra donna sofferente e luogo dell’accoglienza necessità di una forte contiguità. Lei è un magistrato molto attivo sull’argomento al tribunale di Milano, ma anche un esperto da tempo impegnato a informare sull’argomento. Quali consigli può dare a una donna perché vinca la paura e denunci le violenze subìte? Può ottenere giustizia? O una speranza per una vita diversa per sé e per i figli? È normale che la donna vittima di violenza domestica abbia paura di rivolgersi a qualcuno oppure di mettere in moto la macchina del processo penale che dovrebbe funzionare, ma che ancora oggi presenta delle crepe inaccettabili. E, se non lo fa, quale potrebbe essere la sua alternativa? Continuare a vivere in un clima di violenza che sarà progressivamente più intenso e totalizzante. Bisogna convincersi allora che l’impossibilità di un cambiamento deve costituire la spinta per raccontare la sofferenza ad una persona consapevole - il colloquio rivelatore è il primo momento di riconoscimento della violenza subita- e quindi intraprendere un progetto che porti alla costruzione di una quotidiano diverso. Fondamentale è avere a che fare con operatori formati ed esperti che sappiano anche fornire indicazioni tecniche appropriate. L’avvocato deve essere specializzato perché, qualora si scelga di intraprendere la strada del processo penale, che non è tuttavia l’unica possibile, dovrà svolgere il ruolo di osservatore attento e preparato delle attività compiute dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero soprattutto nella fase delle indagini, verificando che vengano posti in essere tutti i presidi di protezione della vittima di reati di genere oggi previsti dalle leggi. Esistono anche strumenti di tutela in ambito civile come la possibilità di richiedere al giudice un ordine di protezione con il quale l’agente violento viene allontanato dalla casa familiare ed avviato ai servizi sociali per un periodo di intervento trattamentale finalizzato a contenere le connotazioni violente del suo comportamento. Il processo penale può avere poi un effetto terapeutico sulla stessa vittima qualora venga svolto con tempestività, efficacia, tempi adeguati alle esigenze di tutela della donna, e porti ad un giudizio di riconoscimento delle violenze sofferte e denunciate. Molte donne vogliono leggere le motivazioni delle sentenze di condanna dei loro uomini non già per alimentare un senso di vendetta che, in questi processi, non esiste, bensì per riscontrare la validazione istituzionale di sofferenze che non hanno rivelato per molti anni. Come a dire lo Stato mi ha creduto, non ero io che sbagliavo, era lui che mi ingannava con violenza. La formazione continua, l’affinamento degli interventi, la corretta applicazione dei numerosi istituti giuridici posti a tutela delle vittime devono essere le direttrici di intervento per tutti gli operatori giudiziari i quali hanno il dovere di abbattere i tempi della risposta di giustizia ed allontanare quei reflussi subculturali che ancora aleggiano nei tribunali e nella società. Alle donne vittime di questa violenza, che noi uomini commettiamo per inadeguatezza di genere, mi sento di dire che certamente un’alternativa di vita non solo è possibile, ma deve essere assicurata, come presidio di civiltà ineludibile, attraverso un complesso movimento culturale che porti le istituzioni ad intervenire sempre con adeguatezza e profondità in tutte le direzioni sociali. Fabio Roia, “Crimini contro le donne”, Ed. Franco Angeli, Pagg 162, euro 24. Nessun partito candida chi combatte davvero la mafia di Emanuele Macaluso Il Dubbio, 5 gennaio 2018 I giornali raccontano che “Liberi e Uguali” vuole caratterizzarsi come partito dell’antimafia candidando non solo Piero Grasso, ex procuratore nazionale, ma anche Franco Roberti che da poco ha lasciato la stessa carica perché ha raggiunto l’età della pensione. Entrambi, a mio avviso, sono stati ottimi magistrati, impegnati nei processi con imputati mafiosi e camorristi di gran calibro. Questa è l’antimafia istituzionale, necessaria e rispettabile. Il Pd aveva fatto la stessa operazione e adesso non so se avrà candidati magistrati. Ho letto che come testimonianza del suo impegno su questo fronte, il Pd candiderà il fratello del giornalista Siani, assassinato dalla camorra per quel che coraggiosamente scriveva. E poi il Movimento 5 Stelle vuole proporre come ministro il Pm di Palermo, Di Matteo, altro livello, ma la logica è sempre la stessa. Ciò che voglio sottolineare è che nessuno si propone di candidare militanti che hanno lottato la mafia nello scontro sociale e politico nei paesi dove la mafia e la camorra sono intrecciati con il sistema sociale e politico. È vero: c’è qualche sindaco minacciato perché fa il suo dovere onestamente e non concede appalti a ditte che sono in mano ai mafiosi. Persone certamente da sostenere e lodare e qualcuno di questi sindaci è stato, in passato, anche eletto in parlamento. Quel che manca è un dirigente di partito che ha combattuto a viso aperto, sul terreno sociale, politico e culturale. Qualcuno che ha lottato nel territorio la mafia e la camorra e che si sia messo sulla scia di Pio La Torre e di altri. Questo fatto rivela oggi cosa sono i partiti. Io non li definisco tali proprio perché un partito di sinistra nel Sud e non solo nel Sud se non lotta, non con le chiacchiere ma con i fatti, su questo fronte è solo un movimento politico-elettorale. Non è forse questo un argomento su cui occorrerebbe discutere seriamente? Accesso alla magistratura, un meccanismo che interessa tutti di Vincenzo Maiello Il Mattino, 5 gennaio 2018 La vicenda del Consigliere di Stato, dottor Bellomo, ha avuto il merito di aprire un cantiere di discussione sull’accesso in magistratura, segnatamente sulla normativa che ne detta le regole e sulla gestione della relativa preparazione. Diversi gli aspetti affrontati dai commentatori: l’iniquità sociale di un sistema che comporta il bisogno di partecipare a lunghi e costosi percorsi formativi; l’ingresso ritardato in magistratura con ricadute negative sulle aspettative previdenziali dei vincitori di concorso; l’inopportunità del coinvolgimento di magistrati (per fortuna, oggi, solo di quelli amministrativi) in occupazioni da cui possono originare introiti rilevanti e che, talvolta, sono connesse ad importanti attività di impresa. Sullo sfondo si intravede un ulteriore profilo - cui hanno accennato sulle pagine di questo giornale Giovanni Fiandaca e Giuseppe Di Federico - che merita una riflessione particolare per la sua connotazione addirittura “assorbente”, in quanto legato all’interesse della collettività a selezionare l’élite della nostra classe dirigente chiamata a svolgere funzioni cruciali per la democrazia e lo Stato di diritto. Si tratta di discutere della capacità delle attuali forme di reclutamento di “sdoganare” una tipologia di magistrato all’altezza del compito di “fare giustizia”, nel senso auspicato dalla complessa conformazione, costituzionale e multilivello, dell’odierno ordinamento. A parere di molti ed acuti analisti, la selezione concorsuale è profondamente mutata negli ultimi decenni, per effetto della qualità, considerevolmente differente, delle prove scritte definite dalle scelte ministeriali. Un tempo, i temi assegnati riguardavano istituti generali delle singole discipline e si ponevano in una linea di sostanziale continuità con l’insegnamento universitario: il loro compito era di collaudare la capacità di orientamento sistematico del candidato, la sua idoneità a “circolare” nei meandri dell’ordinamento con consapevole rigore concettuale, mostrando padronanza dei criteri di impostazione e di svolgimento del ragionamento giuridico. L’obiettivo perseguito, in altri termini, consisteva nella verifica del grado di maturità dell’aspirante magistrato a costruire la soluzione dei casi esaminati secondo declinazioni argomentative coerenti con le premesse del sistema di valore e, perciò, giuridicamente immuni da errori. Insomma, ciò che stava a cuore del meccanismo di selezione era il “sapere come fare giustizia”. Questa impostazione è stata travolta dal trend degli ultimi anni. Le prove di concorso, oggi, hanno ad oggetto il più delle volte questioni specifiche, prevalentemente estratte dal crogiolo del diritto giurisprudenziale, talvolta di quello più recente costituito da peculiari sentenze delle Corti superiori e non sempre riguardanti materie di frequente applicazione giudiziaria. Il compito di questo genere di selezione non è più quello di attestare “come saper fare giustizia” da parte del futuro magistrato, bensì il suo possesso di un patrimonio immane di conoscenze sull’universo giuridico vigente ed “agito” (comprensivo, cioè, delle sua proiezioni giurisprudenziali), che egli avrà potuto attingere (solo) grazie a straordinarie capacità mnemoniche. Si tratta di una mutazione che ha molteplici riflessi sia sulle modalità della formazione, sia sulla dimensione culturale del (la figura di) magistrato così scrutinato. Sul primo versante, il sottolineato “cambio di paradigma” spinge verso un allungamento dei tempi di formazione e verso una concentrazione dell’apprendimento tutto centrato sulla conoscenza a tappeto dell’esistente giuridico. Di qui, la necessità di una preparazione finalizzata ad imbottire il patrimonio cognitivo della più ampia quantità di nozioni, ma avulsa da riflessioni di stampo teleologico/funzionali relative sia ai principi delle discipline di settore, sia ai fondamenti ed al ruolo della stessa attività giurisdizionale nel contesto delle dinamiche del nostro tempo. Ma di qui anche la necessità dell’aspirante candidato a partecipare a corsi di formazione ed a servirsi di un materiale didattico (manuali) aventi compiti di contenitori enciclopedici del diritto vivente (non solo di quello che appropriatamente merita tale appellativo, vale a dire il diritto consolidato delle Supreme Corti, ma anche quello minoritario e di contorno). Sul secondo aspetto, evidente appare la ricaduta negativa sul modello di magistrato delineato dal meccanismo. La figura di “giusdicente” che finisce per risultarne sublimata (naturalmente il riferimento corre ad una figura “astratta”, essendo ben consapevoli che tantissimi vincitori di concorso posseggono le qualità dell’idealtipo auspicabile di magistrato) è quella di un soggetto custode di una massa sterminata di informazioni, piuttosto che la rappresentazione autorevole del “signore del diritto” nel tempo in cui le trasformazioni che stanno ridelineando il ruolo della giurisdizione - anche nei rapporti con la società e la politica - gli chiedono responsabilità, cultura del limite, equilibrio e coraggiosa moderazione. La giurisdizione è il luogo destinato a simboleggiare il volto di una comunità politica fondata sul riconoscimento dei diritti e sulla dimensione personalistica del diritto: essa esige di essere esercitata dai nostri figli migliori. Per questo la definizione delle sue forme di accesso è affare di noi tutti. Ingorgo Cassazione il ministero richiama i giudici in congedo di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 5 gennaio 2018 Per agevolare la definizione dei procedimenti civili in materia tributaria attualmente pendenti in Cassazione, il Governo ha deciso di ricorrere alla nomina straordinaria di magistrati ausiliari. La novità è contenuta nella legge di bilancio 2018. Entro gennaio è prevista la pubblicazione del decreto del ministro della Giustizia, sentito il Consiglio superiore della magistratura, con cui verranno indicate le modalità di presentazione delle domande. Potranno partecipare al bando i magistrati ordinari in pensione da non più di 5 anni e che non abbiano compiuto i 73 anni di età. È sufficiente aver prestato venticinque anni di servizio in magistratura. L’aver già svolto funzioni di legittimità costituirà titolo preferenziale, e a parità di anzianità di servizio la priorità di scelta ricadrà sul più giovane. L’organico dei magistrati ausiliari di Cassazione è stato fissato in cinquanta unità. Essendo l’incarico di tipo onorario, è attribuito a titolo di rimborso spese forfettario un importo omnicomprensivo di 1.000 euro mensili per undici mensilità l’anno. Tale importo, che andrà a sommarsi alla pensione, non costituirà reddito e non sarà soggetto a ritenute previdenziali né assistenziali. Il mandato di magistrato ausiliario avrà durata triennale senza possibilità di rinnovo. Praticamente si ricorre allo stesso schema, oggetto in questi mesi di forti proteste, utilizzato per la magistratura onoraria. I magistrati ausiliari andranno a comporre i collegi che si occupano in particolare dei ricorsi contro le decisioni delle Commissioni tributarie in materie di accertamento delle imposte. Per ciascuno di loro è previsto un numero minimo di procedimenti da definire entro l’anno che è fissato in centocinquanta. Un numero inferiore di procedimenti definiti determinerà automaticamente la revoca dell’incarico. In ogni collegio non potranno esserci più di due magistrati ausiliari. Tutto avverrà sotto la supervisione del primo presidente della Cassazione. Il giudice, durante il mandato, a differenza dei magistrati onorari non potrà svolgere l’attività forense. La scelta di ricorrere ai magistrati ausiliari in Cassazione riporta ancora una volta all’attenzione il tema dell’età pensionabile delle toghe. Nel 2014, come si ricorderà, il governo decise di abbassare da 75 a 70 anni l’età massima del loro trattenimento in servizio. Ciò causò ampie scoperture di organico, specie in Cassazione, non compensate dalle successive assunzioni straordinarie di magistrati di prima nomina. Il governo decise allora di procedere con una serie di proroghe che hanno però riguardato in questi anni solo i vertici della Cassazione e delle altre magistrature superiori. Proroghe definitivamente scadute lo scorso 31 dicembre. L’Anm aveva chiesto di portare l’età pensionabile a 72 anni per tutti. Ma il governo, irremovibile, non aveva raccolto il suggerimento insistendo sulla necessità di “ringiovanire” la magistratura. Salvo ora dover correre ai ripari, per gestire un contenzioso tributario fuori controllo, richiamando in servizio le toghe che aveva forzatamente pensionato. Il tutto con uno stanziamento, per il quadriennio 2018-2021, della ragguardevole somma di un milione e 650mila euro. “Al 41bis innocente e senza dignità. Ora lo Stato mi deve risarcire” di Valentina Stella Il Dubbio, 5 gennaio 2018 La storia di Carmelo Gallico, figlio e fratello di boss, in cella per 2.090 giorni e poi assolto. “La mia famiglia ha una storia, e il peso di quella storia lo porto ogni giorno sulle mie spalle, ma io non sono la storia della mia famiglia. La richiesta di risarcimento non l’ho presentata solo per me ma per far sì che si discuta di carcere, si capisca che occorre far qualcosa per migliorarlo”. Il tribunale civile di Brescia ha deciso che un ex detenuto dovrà essere risarcito dal ministero della Giustizia con oltre 14mila euro per la “detenzione contraria alla dignità” che ha subìto. È stato in carcere per 2090 giorni, 1754 dei quali trascorsi in custodia cautelare senza che poi venissero provate le accuse di mafia che gli erano state contestate dalla procura di Reggio Calabria e che sono cadute, con relativa scarcerazione, nel marzo del 2016 davanti alla Corte d’appello calabrese. Carmelo Gallico, 54 anni, ha trascorso - per accuse di associazione mafiosa poi risultate infondate secondo la Cassazione - un lungo periodo di detenzione preventiva - la quasi totalità al regime duro del 41bis - tra le carceri di Brescia, Cuneo, Nuoro, Rebibbia a Roma, e in misura di sicurezza detentiva nella casa di lavoro di Favignana. Il giudice civile Giuseppe Magnoli nelle sue motivazioni sottolinea che non è stata rispettata la legge penitenziaria del 1975, redatta per sorpassare quella fascista, con lo scopo di umanizzare la pena, in attuazione del principio dell’art. 27 della Costituzione che “stabilisce espressamente - scrive il giudice - che il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità, e deve assicurare il rispetto della dignità della personà. Per il legale di Gallico, l’avvocato Andrea Arcai: “La speranza è che questa sentenza non si limiti al risarcimento economico ma serva all’Italia a mettersi in regola come da tempo chiede l’Europa per le condizioni di vita nelle nostre carceri. Questa sentenza mi ha fatto particolarmente piacere perché purtroppo anche io in gioventù - (nel gennaio del 1977, l’anno del suo esame di maturità, Arcai fu arrestato per la strage di piazza Loggia) - fui implicato in un processo ingiustamente e da innocente restai tre mesi e mezzo in carcere”. Abbiamo raggiunto Carmelo Gallico al telefono nella sua casa di Palmi, in Calabria: qui è tornato per assistere l’anziana madre, mentre il resto della famiglia è in carcere. Da qui, in un regime di sorveglianza speciale, dà seguito al suo processo di riabilitazione, iniziato a Brescia, laureandosi in giurisprudenza, scrivendo libri premiati diverse volte. Quali sono state nel dettaglio le condizioni di disumanità in cui è stato detenuto? Al 41bis, regime molto afflittivo, vigeva uno stato di isolamento totale dai familiari e dagli altri detenuti. Ero chiuso in cella 22 ore da solo. E poi c’era l’obbligo del silenzio: non potevo parlare - al di fuori dell’ora di socialità - con i tre membri del mio gruppo scelti dalla direzione carceraria. L’uomo scompare e il detenuto arriva ad identificarsi con il numero della propria cella. Poi c’erano le gravi carenze strutturali: nella colonia penale di Favignana le celle erano sotto il livello del mare, senza finestre e sovraffollate, a Cuneo non funzionavano i riscaldamenti e mancava l’acqua calda, in Sardegna eravamo in 8 in una cella per 3 con un bagno a vista senza divisori né muri. Le condizioni erano davvero disumane. Lei ha trovato nella scrittura una catarsi, un riscatto sociale che gli ha fruttato anche numerosi premi, tra cui il Bancarella 2002 e il Casalini 2016 con la sua autobiografia “Senza Scampo La mia vita rubata da faide e ‘ndrangheta”. Alcuni suoi racconti sono stati messi in scena in uno spettacolo teatrale diretto da Emanuela Giordano. La scrittura e i libri mi hanno permesso di non smarrirmi e di mantenere la lucidità durante la mia dura detenzione. Ho trasformato quello che ho vissuto in racconti. Mi sento la voce narrante del dolore di tutte quelle persone recluse che non hanno gli strumenti per farsi sentire, far conoscere le loro storie. Cosa lo ha spinto a fare questo ricorso? La richiesta per detenzione inumana si inserisce proprio in questo filone. Non l’ho fatto solo per me ma per far sì che si discuta di carcere, si capisca che occorre far qualcosa per migliorarlo. Io ho intrapreso questo percorso con l’associazione Carcere e Territorio di Brescia, presieduta dal professore Carlo Alberto Romano, e fondata da un magistrato di sorveglianza. Alla fine degli anni 70 Palmi è stata il teatro di una sanguinosissima faida tra la sua famiglia e i Condello: oltre 60 i morti. Lei ha scritto più volte: “Sono nato libero e ho smesso di esserlo il giorno dopo. Non ho scelto in che famiglia nascere, ma ho potuto scegliere cosa diventare”. La mia famiglia ha una storia, e il peso di quella storia lo porto ogni giorno sulle mie spalle, ma io non sono la storia della mia famiglia. Non sei tu che scegli la faida, è la faida che ti sceglie. Invece la scelta di appartenere a una associazione criminale è una scelta individuale. Con la mia presenza in Calabria vorrei dimostrare che si può vivere in un luogo come questo, col mio passato dietro, ma senza aderire a quella cultura, prospettando una alternativa a chi vorrebbe intraprendere la strada dell’illegalità o rinnegare questa terra. Io vorrei avere il diritto di amare la mia famiglia e separare il piano dell’affetto da quello che ogni individuo sceglie per la propria vita. Lei fu arrestato la prima volta per aver coperto la latitanza nel bunker di casa vostra dei suoi fratelli. Oggi direbbe ad un ragazzo nelle sue stesse condizioni di denunciare? Chiedere a un ragazzo di denunciare il padre o il fratello significa fare una violenza contro quel ragazzo. Il nostro codice non prevede il reato di favoreggiamento per il familiare che non denuncia. Ma la mia domanda era dal punto di vista morale e culturale. Per me, quello che gli altri vedono solo come un reo, rimane sempre mio fratello o mio padre. Poi ovviamente se quel familiare commette un reato sarà compito della giustizia fare il proprio corso e se ritenuto colpevole sconterà la pena. Non vorrei scomodare Antigone ma io mi riconosco spesso nella sua storia: mi sento spesso con quel travaglio interiore tra il dover scegliere tra la legge naturale che ti porta verso la tua famiglia e la legge imposta dall’uomo. Si tratta di un conflitto irrisolvibile. Qual è quindi il suo impegno civile e sociale oggi? Partecipo ad incontri nelle scuole e convegni per sensibilizzare sul tema del carcere. Oggi sono tornato in Calabria perché credo che il mio impegno sociale abbia una forza maggiore se condotto da questa terra, conosciuta soprattutto per la criminalità. Qui serve di più la sensibilizzazione sul carcere e su quello che può condurvi. La mia battaglia è anche quella personale di liberarmi per sempre dell’etichetta di mafiosità, è una battaglia di verità. E poi si può vivere in Calabria senza dover essere per forza un mafioso o con un destino già segnato. Ora attendo che si chiudano degli strascichi giudiziari per riprendermi con una piena assoluzione la mia libertà e dignità. Poi potrò pensare a fare causa per ingiusta detenzione. Prevenzione per mafia senza presunzioni di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 111/2018. Nel procedimento per applicare la misura di prevenzione personale agli indiziati di appartenere all’associazione mafiosa, bisogna accertare il requisito dell’attualità della pericolosità sociale. Con la sentenza 111 depositata ieri, le Sezioni unite penali, archiviano definitivamente la possibilità, affermata da parte della giurisprudenza, di fare ricorso a delle presunzioni in tema di partecipazione ai clan. Secondo il principio meno restrittivo, dal quale le Sezioni unite prendono le distanze, infatti, la conferma dell’attualità e della persistenza della pericolosità sociale si può trarre dai vincoli di coesione e di solidarietà degli associati, a meno che non ci sia la dimostrazione concreta dello scioglimento della compagine, o del recesso dell’interessato. Un orientamento che il Supremo collegio considera superato, sia alla luce delle modifiche legislative - che ad esempio valorizzano il fattore “tempo” e dunque la distanza tra gli indizi o i fatti addebitati e il momento applicativo della misura - sia dalla giurisprudenza nazionale e sovranazionale. La prova che il principio della presunzione deve intendersi come superato sta nel fatto che le decisioni successive all’entrata in vigore del Codice antimafia (Dlgs 159/2011, articolo 4) raramente si sono allineate alla “vecchia” impostazione. Sul punto, le Sezioni unite ricordano anche il recente intervento normativo sull’articolo 4 del Codice antimafia (Dlgs 161/2017). Un’innovazione dalla quale si può desumere la conferma dell’impossibilità di qualificare come appartenenza la “semplice” contiguità o vicinanza al gruppo “che non sia riconducibile ad un’azione, ancorché isolata, che si caratterizzi per essere funzionale agli scopi associativi”. Il Supremo collegio chiarisce che il richiamo alle presunzioni semplici deve essere supportato dalla valorizzazione di fatti specifici che evidenzino la natura strutturale dell’apporto e sostengano “la connessione con la fase di applicazione della misura”. Inoltre in linea con quanto si è già stabilito in sede di applicazione della misura cautelare, per la valutazione della persistente pericolosità, è necessario confrontarsi con qualunque elemento in grado “anche sul piano logico, di mutare la valutazione di partecipazione al gruppo associativo”. È necessario andare oltre la dimostrazione del dato formale del recesso dal clan, anche quando questo sia astrattamente evocabile, e valutare se il decorso di un rilevante periodo di tempo o il mutamento delle condizioni di vita, siano tali da rendere incompatibile la persistenza del vincolo associativo. Niente tenuità se il risarcimento del manager è basso di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 3 gennaio 2018 n. 48. Niente tenuità del fatto per l’ex presidente di un’azienda di trasporti, condannato per truffa, se il danno risarcito dall’imputato, è di minima entità sia in assoluto, sia rispetto al patrimonio dell’azienda della quale era al vertice. La Corte di Cassazione, respinge il ricorso dell’ex manager (sentenza 48), per la parte che riguarda l’applicazione dell’articolo 131-bis che consente l’impunità quando il fatto è considerato di particolare tenuità. I giudici però riconoscono al ricorrente, condannato nell’ambito di un’inchiesta sui cosiddetti rimborsi “facili” l’attenuante, prevista dall’articolo 62, n.4 del Codice penale che scatta, nei delitti contro il patrimonio, quando il danno patrimoniale è di speciale tenuità. Circostanza che la Corte territoriale aveva escluso, considerando che dei tredici reati di truffa addebitati all’imputato avevano comportato l’indebita erogazione di rimborsi che oscillavano dai 107 euro ai 553: importi non compatibili con l’invocata attenuante applicabile, solo se il danno cagionato è lievissimo. La Suprema corte, sul punto, abbraccia la tesi del difensore secondo il quale per tre episodi di truffa, posti in continuazione, l’importo del danno era inferiore ai 200 euro, proprio il tetto citato dalla Corte dei merito rispetto ad un precedente della Cassazione. La Suprema corte procede dunque a ridurre la pena. Una correzione che può fare agevolmente grazie alla riforma del codice di rito in vigore dal 3 agosto 2017 (legge 103/2017), avendo la corte di territoriale determinato i parametri di configurabilità dell’attenuante richiesta e fatto il conteggio della pena in modo articolato “tale da consentire - scrivono i giudici - l’agevole correzione, senza dover far ricorso all’annullamento del provvedimento della pena, con la deduzione di quanto ridotto per il riconoscimento dell’attenuante”. Nel furto non sussiste la quasi flagranza se all’azione manca subito l’arresto di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 2 gennaio 2018 n. 39. Nel reato di furto non è individuabile la quasi flagranza quando tra l’azione delittuosa e il fermo del reo non ci sia un carattere di immediatezza. La Cassazione con la sentenza n. 39/2018 ha così respinto la richiesta del pg per l’applicazione dell’aggravante della quasi flagranza per una sottrazione di abiti in un grande magazzino. Identificazione del reo - Questo perché la polizia giudiziaria era pervenuta all’identificazione del responsabile del furto tramite le indicazioni di un testimone oculare e le dichiarazioni rese dal responsabile del centro commerciale quanto alla provenienza delittuosa dei capi contenuti. D’altra parte - si legge nella sentenza - in tema di arresto da parte della polizia giudiziaria lo stato di “quasi flagranza” non sussiste nell’ipotesi in cui l’inseguimento dell’indagato avvenga da parte della vittima o di terzi, dovendosi in tal caso escludere che gli organi di polizia giudiziaria abbiano avuto diretta percezione del reato. La nozione di “inseguimento” caratterizzata dal requisito cronologico dell’immediatezza (subito dopo il reato) postula, quindi, la necessità della diretta percezione e constatazione della condotta delittuosa da parte degli agenti della polizia procedenti all’arresto. Risulta in definitiva affermato il principio che la “quasi flagranza” legittimante l’arresto da parte della polizia giudiziaria è configurabile tutte le volte in cui sia possibile stabilire un particolare nesso tra il soggetto e il luogo del reato, che pur superando l’immediata individuazione dell’arrestato sul luogo del reato, permetta comunque la riconduzione della persona all’illecito sulla base di una continuità del controllo, anche indiretto, eseguito da coloro i quali si pongano al suo inseguimento. Conclusioni - Situazione che ricorre con inseguimento in cui non si perda mai il contatto percettivo anche indiretto con il fuggitivo. Respinto quindi il ricorso della Procura. Asti: violenze su un detenuto islamico, la Cassazione conferma le condanne di Massimo Coppero La Stampa, 5 gennaio 2018 È diventata definitiva la sentenza per lesioni gravi per il caso del pestaggio nel 2010 di un giovane detenuto italiano di fede islamica nell’infermeria del carcere di Quarto. La vittima aveva riportato varie ferite, riconosciute da un medico legale e guarite in 1 mese. In primo grado in tribunale ad Asti nel 2014 erano state disposte le pene di 2 anni e 8 mesi per un sovrintendente della polizia penitenziaria e di 2 anni e 2 mesi per un assistente. Nel 2016 in Corte d’Appello a Torino i giudici avevano invece condannato entrambi ad 1 anno, concedendo la sospensione condizionale e riducendo da 10 a 5 mila euro il risarcimento da versare al detenuto. L’accusa di ingiurie era caduta perché nel frattempo il reato era stato abrogato e quella di violenza privata era stata ritenuta “insussistente”. Ora la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dal sovrintendente mentre per l’assistente non si è pronunciata, mancando l’impugnazione della sentenza d’appello. Secondo la denuncia, ritenuta veritiera in tutti i gradi di giudizio, il sovrintendente avrebbe fatto un’affermazione scorretta nei confronti della religione islamica professata dal detenuto. In seguito ad una reazione verbale del giovane sarebbe scattato il pestaggio. La somma di 5 mila euro è stata già interamente pagata dai due imputati. Il giovane nel luglio scorso è tornato in carcere sulla base di un’ordinanza di custodia cautelare per presunti reati avvenuti in ambito familiare ed è ora recluso a Cuneo. Nel procedimento penale è stato assistito come legale di parte civile dall’avvocato Guido Cardello. I due agenti penitenziari, uno dei quali nel frattempo è andato in pensione, erano difesi dagli avvocati Enrico Calabrese e Maurizio La Matina. Reggio Calabria: carabiniere sparò a un migrante, rivista l’accusa di Claudio Dionesalvi Il Manifesto, 5 gennaio 2018 Sekine Traorè venne ucciso a San Ferdinando dal colpo sparato da un carabiniere. Dovrà rispondere del reato di eccesso colposo di legittima difesa Antonino Catalano, il carabiniere che l’8 giugno del 2016 ha ucciso nella tendopoli di San Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria, il giovane 27enne rifugiato del Mali, Sekine Traorè. Il processo avrà inizio il 2 maggio 2018 nel tribunale di Palmi. Competente sarà il giudice monocratico, essendo l’accusa relativa ai reati per i quali sono previste pene minori. I legali dell’imputato hanno avanzato la proposta di rito abbreviato condizionato all’esame degli altri tre carabinieri presenti. L’avvocato di parte civile si è opposto: “Sarebbe stata una prova tutta sbilanciata in favore dell’imputato dal momento che i carabinieri affermavano che la situazione era fuori controllo, contrariamente a quanto dichiarano i due poliziotti intervenuti che invece affermano che era sotto controllo al momento dello sparo”. La proposta della difesa del carabiniere è stata rigettata dal giudice. Ammessa invece la costituzione di parte civile dell’Associazione Contro gli Abusi in Divisa che in dibattimento sarà rappresentata dall’avvocato Santino Piccoli. Poco chiare sono apparse sin dal principio le circostanze che hanno portato all’uccisione del giovane migrante, raggiunto da un proiettile all’addome esploso dalla pistola del militare. Di sicuro all’interno della tenda adibita a bar improvvisato, si verificò una colluttazione per cause che adesso spetta all’autorità giudiziaria chiarire. Da una prima ricostruzione dei fatti, in preda a un raptus la vittima avrebbe più volte aggredito il carabiniere con un coltello, prima che il militare estraesse la pistola e facesse fuoco. Sekine Traorè, che viveva in Francia, era sceso in Italia tre mesi prima per rinnovare il permesso di soggiorno. A San Ferdinando e nei dintorni, centinaia di africani sfruttati nella raccolta di agrumi e ortaggi, da anni vivono in condizioni di sostanziale apartheid. Nelle ore successive all’uccisione del giovane malese, i migranti manifestarono davanti al municipio del paese. Il presidio si protrasse per alcuni giorni all’ingresso della tendopoli, dove gli abitanti respinsero i camion di aiuti umanitari, in segno di indignazione. Un comitato spontaneo ha chiesto in questi mesi giustizia e verità per Sekine. Biella: i detenuti che cuciono divise per le guardie di Mariachiara Giacosa La Repubblica, 5 gennaio 2018 Uniformi firmate da Ermenegildo Zegna e cucite dalle mani dei detenuti, gli stessi che le vedranno ogni giorno addosso alle 30mila guardie penitenziarie italiane. Succede nel carcere di Biella, dove il dipartimento di amministrazione carceraria ha investito un milione e 700mila euro per costruire una fabbrica tessile dentro le mura della prigione. Non un laboratorio artigianale come sperimentato già in altre strutture, bensì un vero stabilimento destinato alla produzione industriale di decine di migliaia di capi, posto al centro di uno dei distretti tessili più importanti d’Italia. Di cui potrà sfruttare il know how nella fase di produzione e poi l’offerta di posti di lavoro quando i novelli sarti avranno scontato la loro pena. Nella fabbrica del carcere lavoreranno 65 detenuti, assunti come tessitori, per disegnare, tagliare, cucire e confezionare giacche, pantaloni, camicie e gonne. “Un’occasione straordinaria per dare un futuro a chi fa fatica a costruirne uno, che rischia tuttavia di rimanere al palo” secondo la garante dei detenuti Sofia Caronni. “Ci aspettavamo di iniziare la produzione già nel 2017 - spiega - invece manca ancora un capannone per cui è in corso una gara d’appalto. È importante fare in fretta, però, perché i detenuti hanno già fatto la formazione e il rischio è di tradire la loro legittima aspettativa al lavoro”. “Sono procedure lunghe ma contiamo di rispettare i tempi: l’accordo è valido fino a giugno” ribatte la direttrice dell’istituto di pena Antonella Giordano. Già da alcuni. mesi i detenuti che hanno deciso di lanciarsi nell’avventura della sartoria prendono lezioni di taglio e cucito e studiano i prototipi. Sono state allestite due aule, con postazioni singole, dove i sarti della casa di moda di Ermenegildo Zegna hanno portato i macchinari e insegnano i segreti del mestiere. Tre settimane di scuola per ogni capo d’abbigliamento da realizzare, con particolare attenzione alla praticità della divisa. Che deve essere comoda, ma resistente, adatta ad essere indossata per molte ore durante la giornata. “Progetti come questi qualificano in maniera radicale le strutture carcerarie - spiega il garante regionale dei detenuti e ex parlamentare dei Radicali Bruno Mellano - In Italia non esiste un’esperienza simile”. Un esperimento innovativo di collaborazione tra dentro e fuori, tra amministrazione e impresa privata capace di dare reali occasioni di recupero a chi sta scontando la pena. Bolzano: carcere, spazio alla speranza di Fabrizio Mattevi Corriere dell’Alto Adige, 5 gennaio 2018 Il 2018 dovrebbe finalmente vedere l’avvio dei lavori di costruzione del nuovo carcere di Bolzano. L’attuale edificio di via Dante fu realizzato dell’amministrazione asburgica come luogo di sola custodia: lunghi corridoi sui cui si affacciano le celle. Per favorire il trasbordo dei detenuti venne collocato a fianco del tribunale, all’epoca situato nell’odierna sede dei carabinieri. Sono facilmente immaginabili carenze e inadeguatezze strutturali in cui si trovano a operare gli agenti di polizia penitenziaria (in deficit di organico) e il personale amministrativo, che gestiscono molteplici servizi per un centinaio di detenuti (in soprannumero). Accanto a pesanti limiti di funzionalità, l’edificio è sprovvisto di sufficienti ambienti per attività comuni. Potrebbe apparire un elemento secondario, in realtà si tratta di una mancanza opprimente. Senza spazi, il tempo è più vuoto e assillante: i giorni scorrono ripetitivi e monotoni. Come in ospedale le ore sono cadenzate dalle routine e protese verso un’uscita lontana mesi o anni. Tale condizione sospesa favorisce inedia e passività socialmente sterili. In quale modo riempire il periodo della detenzione? Come rendere proficua una permanenza che ha comunque un costo? Sono questioni assai più intricate e ardue di quanto lasciano credere slogan e proclami a effetto. Affrontarle richiede risorse, lungimiranza, inventiva ed espone al rischio costante dell’insuccesso. Se il tempo vuoto si arricchisce di gesti significativi e azioni coinvolgenti, le persone possono provare a riprendere in mano la propria vita e darvi valore. Coltivando interessi, realizzando manufatti e svolgendo bene il proprio compito, cresce la fiducia in se stessi, si sperimenta la dimensione collaborativa, si produce per la collettività. La legge prevede che i detenuti svolgano mansioni e assumano incarichi lavorativi negli istituti di pena. Così è nella casa circondariale di Bolzano, ma la carenza di locali restringe i margini progettuali e operativi. Le esperienze virtuose in atto in altre strutture dimostrano che le attività realizzate con i detenuti possono generare risultati lusinghieri ed economicamente apprezzabili. È il caso del nuovo carcere di Trento, dove una cooperativa sociale ha coinvolto un gruppo di ospiti nella coltivazione di zafferano, erbe medicinali, cavoli, venduti nelle botteghe equo-solidali, favorendo futuri sbocchi occupazionali. Un esempio virtuoso da seguire. Pianosa (Li): oltre il carcere lo spettacolo della natura di Pier Luigi Berdondini La Repubblica, 5 gennaio 2018 Presidiata dagli uomini del Parco, frequentata da studiosi e ricercatori, è un’isola lontana e selettiva. Un’associazione tramanda i suoi racconti. “La notte scende o madre mia ed io sono lontano”. Inciso nel 1898 in una lapide del cimitero di Pianosa. Una semplice frase che racconta storia e presente di una comunità lontana. Pianosa è un’isola fuori stagione. Non solo per il clima, è l’isola più temperata del mediterraneo. È un’isola lontana. Perché atipica, incontaminata, selettiva. Abitata da detenuti e personale penitenziario impegnati in un’esperienza unica nel panorama carcerario italiano. Visitata in estate da un numero prestabilito di turisti. Presidiata dagli uomini del Parco. Frequentata da studiosi e ricercatori. Raccontata dagli attivisti di una Associazione. Spicca il fresco amaranto dipinto sulle pareti intonacate della casa delle poste e dei telegrafi, sede dell’Associazione per la difesa di Pianosa. Una parte della casa ospita le attività, l’altra una foresteria che consente ai soci, che si autotassano, di alternarsi sull’isola. “Siamo nati subito dopo la chiusura del carcere di massima sicurezza avvenuta nel 1998. Difendiamo una memoria di valori, l’identità distintiva di questa isola che ha saputo unire la vita del carcere allo sviluppo di un paese che ora non c’è più”. Commenta Fausto Amedeo Foresi, storico di Pianosa. L’associazione edita libri, video, contribuisce con propri finanziamenti al restauro del patrimonio dell’isola. Un proprio sito fornisce informazioni storiche e notizie legate all’attualità. Un ricco archivio di documenti e foto consente ogni anno all’associazione di organizzare interessanti mostre che raccontano aneddoti, abitudini, mestieri e attività dell’isola. E personaggi. La foto di una enorme verdesca issata da un gancio sul molo del porto mostra a fianco Zì Procolo, al secolo Doriano Procolo, pescatore. Pescava polpi con la pipa, indossava maglie a manica lunga estate e inverno per nascondere il tatuaggio e non essere confuso con un carcerato dalla gente che visitava l’isola. Di gente ne passava tanta a Pianosa negli anni 50. Più di ottocento abitanti, più di mille detenuti e un traffico continuo con il continente. Il porticciolo più bello del mondo raccolto attorno a un’eclettica architettura ottocentesca che alterna merli e volte, finestre e terrazze in una alternanza vertiginosa di profili. Qui c’erano il Trento, il Trieste, due alberghi, e Viareggio, una galleria che conduce al porticciolo, il punto più fresco dell’isola. Oggi gran parte dei questa architettura, viva per un secolo e mezzo, è disabitata. E su essa si affaccia la necessità di un urgente piano di recupero e utilizzo. E poi ci sono i racconti e le attività delle guide del Parco. Silvia e Patrizio: “Accompagnando i turisti noi raccontiamo il fascino incontaminato della storia e dell’ambiente di questa isola che va tutelato e costantemente monitorato”. In cinquanta si alternano per tutta l’estate, guidano i turisti, non più di 250 al giorno attraverso percorsi a piedi, in bici, in calesse. E anche snorkeling con pinne maschera e boccaglio alla Cala dei Turchi per ammirare il fascino dei fondali marini. Il Parco abbina alla tutela ambientale progetti di valorizzazione del patrimonio, come il restauro della ottocentesca casa dell’Agronomo, che sarà sede di un eco museo dell’agricoltura. E ci sono i racconti degli studiosi delle acque sorgive. Un fuoristrada del Cnr attraversa le strade sterrate dell’isola. Sono tre ricercatori, due dell’Istituto di Geoscienze e Georisorse del Cnr e con loro Roberto Giannecchini del Dipartimento di Scienze della Terra della Università di Pisa. Studiano il mutamento delle acque sotterranee in rapporto ai mutamenti climatici. Perché a Pianosa? L’isola con 32 pozzi ha una significativa riserva idrica sotterranea, la qualità e la quantità di questa riserva sono particolarmente sensibili ai mutamenti del clima. Varia costantemente il rapporto tra le componenti di acqua dolce e le infiltrazioni di acqua salata dal mare. Pianosa ha un sottosuolo assorbente, una sensibilità unica e utile per gli scienziati. “Agli estremi opposti si può affermare che Artico e Pianosa rappresentano i punti di maggior interesse per i nostri studi” commenta Marco Doveri del Cnr. “La tipicità del mutamento in questi luoghi così diversi fornisce dati utili alla ricerca scientifica e indicazioni operative per le dinamiche di approvvigionamento”. Per i ricercatori il progressivo riscaldamento della crosta terrestre ridurrà il volume di acqua dei fiumi e dei laghi, il futuro delle riserve dell’acqua è sottoterra. A Pianosa, nei dieci anni di monitoraggio dei mutamenti climatici si è registrato un decremento delle infiltrazioni di acqua piovana nel sottosuolo con incrementata contaminazione da parte di acque salate. Sede di una esperienza di colonia penale agricola unica nel nostro paese, di una casa del Parco che tutela e racconta le bellezze della natura, di una Associazione che custodisce la storia e di ricercatori che studiano le acque, Pianosa offre un fascino umano e ambientale incomparabile. Nella continua ricerca delle proprie vocazioni. Roma: i detenuti di Isola Solidale scrivono al Papa per ospitare le famiglie in difficoltà La Stampa, 5 gennaio 2018 A Francesco la richiesta di indicare alcuni bisognosi da invitare nella struttura di Via Ardeatina a Roma per offrirgli il pranzo con i prodotti coltivati dagli ex carcerati. Gli ospiti dell’Isola Solidale - struttura che da oltre 50 anni accoglie detenuti che hanno commesso reati per i quali sono stati condannati, che si trovano agli arresti domiciliari, in permesso premio o che, giunti a fine pena, si ritrovano privi di riferimenti familiari e in stato di difficoltà economica - hanno scritto una lettera a Papa Francesco per invitare il prossimo 6 gennaio 2018 presso la struttura di via Ardeatina 930 di Roma alcune famiglie in stato di disagio per festeggiare insieme l’Epifania. A firmare la lettera è stato Mario Gattuso, uno degli “ospiti” dell’Isola Solidale, il quale, dopo aver raccontato questa sua idea agli altri ospiti della struttura, ha deciso di scrivere al Papa così da farsi indicare alcune famiglie bisognose alle quali verrà offerto il pranzo, in occasione dell’Epifania, preparato con i prodotti che gli ex detenuti coltivano proprio presso l’Isola Solidale. “Mi permetto di scriverle - si legge nella lettera di Gattuso al Pontefice - perché ho sentito da sempre la sua paterna vicinanza nonostante che molti non ci considerino più nemmeno esseri umani. Ci tengo ad essere chiaro, ho sbagliato ed è giusto che io paghi, ma credo che tutti dovrebbero avere una seconda opportunità. La mia è una storia lunga, fatta di scelte e di amicizia sbagliate, ma anche, mi creda Santità, di tanta sofferenza e solitudine. La nostra idea è quelle di ospitare queste famiglie qui a pranzo da noi con un menù semplice non ricercato, ma cucinato da noi con il nostro cuore. Ebbene sì anche i carcerati hanno un cuore e lei, Santità, lo ha capito sin dal primo momento che ha deciso di andare a trovare i detenuti qui a Roma e in tanti dei suoi viaggi”. “Qui da noi - prosegue la lettera - coltiviamo la maggiore parte di quello che viene servito a tavola e credo che questa condivisione sia un segno di riconoscenza nei suoi confronti che non ci ha mai abbandonato soprattutto con le sue preghiere. A questo vorrei aggiungere anche che con questo pranzo vogliamo offrire un segno di speranza a quanti come noi sono detenuti con la convinzione che si possa cambiare guardando al futuro con fiducia”. Roma: i detenuti di Rebibbia creano una birra fatta con il pane di Luigi Frasca Il Tempo, 5 gennaio 2018 Si chiama RecuperAle. Il progetto in cerca di fondi. Una birra artigianale preparata dai detenuti di Rebibbia con il pane che altrimenti finirebbe nella pattumiera. Si chiama RecuperAle l’ambizioso progetto che Vale La Pena Onlus e EquoEvento hanno lanciato alla fine del 2017. E che continua nel 2018 con una campagna di crowfunding su Eppela, in questo inizio anno italiano segnato dal “caso” dei sacchetti biodegradabili per la frutta. RecuperAle Bread è una pale ale chiara, dove la materia prima recuperata (il pane, appunto) va a sostituire in parte il malto conferendo profumi e sapori di crosta di pane a una bevanda dalla gradazione alcolica di 6.5 ABV. “Un terzo del pane prodotto ogni giorno viene sprecato. Il 70% dei detenuti che sconta la pena solo in carcere torna a delinquere. E se non fosse sempre così?”, recita lo spot della birra RecuperAle Bread che - si evince dal nome - si pone così il doppio obiettivo di recuperare cibo (il pane viene raccolto dai volontari di EquoEvento all’Hotel Cavalieri Hilton di Roma) e le persone (i detenuti che hanno la possibilità di accedere alle misure di detenzione alternativa lavorano quotidianamente al birrificio allestito all’Istituto Agrario “Emilio Sereni”). La birra, quindi, mette insieme due criticità: quello dello spreco alimentare (il 30% del pane non venduto finisce nella spazzatura ogni giorno) e quella della recidiva, ovvero la reiterazione del reato per chi è già stato in carcere. E per questo ultimo fenomeno i dati parlano chiaro: in Italia, quasi il 70% dei detenuti che non gode di misure alternative torna in galera, un dato che scende al 2% per coloro che, invece, hanno la possibilità di accedere a un percorso di formazione e inserimento lavorativo. Come succede alle persone coinvolte nella produzione della Bread e di altre 17 tipologie di birre. Dietro al progetto c’è il lavoro di EquoEvento, che recupera e dona le eccedenze alimentari di qualità ad enti caritatevoli, case famiglia, poveri e bisognosi, e di Vale la Pena, progetto di inclusione sociale ideato e gestito da Semi di Libertà Onlus, un birrificio artigianale dove persone in esecuzione penale esterna, provenienti dal carcere romano di Rebibbia, vengono inserite nella filiera della birra artigianale. Per la prima cotta di RecuperAle (1800 litri) sono necessari 5800 euro. Fondi che le due associazioni stanno raccogliendo online con una campagna sui social network. E i progetti per il 2018 non finiscono qui: se la versione Bread dovesse avere successo, è già pronta la birra aromatizzata alla frutta. Cagliari: stipendi ridotti ai medici del carcere, a rischio l’assistenza ai detenuti castedduonline.it, 5 gennaio 2018 I 17 medici che operano all’interno del penitenziario “non ricevono lo stipendio come stabilito dalle Linee Guida regionali da due mesi”. Il 2018, dietro le sbarre, inizia tra i problemi. “Le Festività di fine anno non hanno portato buone nuove nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta. Anzi la situazione nelle ultime settimana è precipitata e i detenuti, sia quelli ricoverati nel Servizio Assistenza Intensiva (ex Cdt) - cioè persone che hanno necessità di un monitoraggio costante per contrastare pericolose crisi - sia quelli con disturbi e/o malattie in atto rischiano di non poter più contare sui livelli essenziali di assistenza. Insomma il diritto costituzionale garantito alle persone private della libertà è in predicato perché i 17 medici del punto di primo intervento (118) non ricevono lo stipendio come stabilito dalle Linee Guida regionali. È evidente che il perdurare del problema, per alcuni ormai da circa due mesi, non può far presagire positivi esiti”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, avendo appreso della grave situazione creatasi in seguito al mancato rispetto della delibera della Giunta regionale emanata fin dal 2012. La “crisi” in atto, se non prontamente sanata, potrebbe quindi comportare la riduzione del numero dei medici - sottolinea - anche se la problematica appare più come il risultato di una sottovalutazione delle necessità derivanti da una realtà particolarmente complessa che una scelta meditata. La Regione Sardegna aveva infatti disposto le linee guida per la disciplina dell’ordinamento della Sanità Penitenziaria ponendo l’accento soprattutto sul “riconoscimento della piena parità di trattamento, in tema di assistenza sanitaria, degli individui liberi e degli individui detenuti ed internati e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale”. Senza il rispetto dei contratti di lavoro però tutto questo non potrà essere garantito. “I problemi nella Casa Circondariale si sono accentuati - ricorda la presidente di SDR - a partire dall’1 dicembre scorso, in seguito alla decisione da parte della Direzione del “Brotzu” di voler ridisegnare la convenzione con l’ATS, prevista dalle Linee Guida regionali, con un drastico taglio orario (da 10 a 4 ore) del Medico internista. Dall’1 dicembre la presenza dello specialista, responsabile peraltro del SAI (ex Centro Clinico), è stata ridotta senza apparenti motivazioni. Una scelta della Direzione Generale dell’Azienda Sanitaria che ha messo a rischio la qualità del servizio per la salute dei ristretti e il mantenimento del presidio “ospedaliero” nell’Istituto Penitenziario”. “Non conosciamo le più profonde ragioni. È certo però che nessuna di queste scelte - conclude Caligaris - è orientata al risparmio. Paradossalmente si può affermare che aumenteranno le spese perché così come stabiliscono le Linee Guida le patologie “croniche” devono essere curate in ambito detentivo ma è difficile comprendere in che modo, senza figure professionali adeguate. I medici del 118 intervengono in tutti i casi di emergenza urgenza ma assicurano anche il servizio di assistenza di base. Aldilà degli aspetti tecnici, ciò che si profila è una grave situazione per lo scadimento di diritti inviolabili come quello alla salute. Auspichiamo quindi un immediato intervento da parte dell’assessore regionale della Sanità”. Bologna: carcere e retorica, che teatro di Emanuela Giampaoli La Repubblica, 5 gennaio 2018 Paolo Billi porta in scena all’Arena la pièce dove provocatoriamente s’interroga sui suoi vent’anni di lavoro nel minorile del Pratello. Lui la chiama la retorica che svuota, banalizza, plastifica la necessità di chi ha deciso di fare teatro dietro le sbarre. Teatro in carcere, da cui sono discesi fiumi di inchiostro, parole, scritti, articoli, discorsi, infarciti di luoghi comuni. “Soprattutto dopo il film dei fratelli Taviani “Cesare deve morire”, girato con i detenuti di Rebibbia - dice Paolo Billi, regista -. Poi tutto è svaporato ed è rimasto solo il buonismo”. Così, nell’anno in cui Billi festeggia i vent’anni di lavoro teatrale nel carcere minorile del Pratello, quei testi li ha riletti, tutti o quasi, e poi rimpastati in un pastiche metafisico e grottesco, dando vita a “Mère Ubu impresaria di teatro carcere”, che debutta il 6 gennaio all’Arena del Sole, restandovi fino al 10. In scena, i ragazzi della Compagnia del Pratello - 8 ospiti dell’Istituto penale minorile e 5 da aree esterne come le comunità insieme ad attrici e attori di Bottega Molière. “Lo spettacolo - spiega - si inserisce nel progetto Patafisiche che nell’ultimo triennio ha coinvolto tutte le realtà di teatro nelle strutture detentive dell’Emilia Romagna, a partire dall’opera di Alfred Jarry. Io ho scelto di concentrarmi su Mère Ubu, un personaggio alla Lady Macbeth, cattivo e scorretto”. È a lei che Billi affida riflessioni farneticanti sull’esperienza del lavoro teatrale dietro le sbarre. Lei, che durante la detenzione ha scoperto il valore - in ogni senso - dell’arte drammaturgica, al punto che, una volta scontata la pena, si dedica al teatro Galera, quale strumento di redenzione sociale, diventando impresaria per far esibire il monstrum e suscitare nel pubblico pietà e sconcerto. L’aiutano le dame della compagnia di Santa Scalognata e gli attori galeotti impegnati a recitare Rabelais, Cervantes, Swift, Goldoni e Pirandello. “Metto alla berlina prima di tutto me, sono cattivo con me stesso”, osserva il regista. E quali sono, allora, le ragioni vere, profonde del teatro in carcere? “Venite a vedere lo spettacolo”, dice. Chi lo farà, troverà a fare da sponda alla vuota retorica di Mere Ubu un video, girato dentro l’ex chiesa del carcere minorile. È lì che Billi tiene i suoi laboratori oggi, ed è lì che fino a quattro anni fa si sedevano i tanti bolognesi spettatori delle rappresentazioni del Teatro del Pratello. Un tassello importante del progetto del regista, da quattro anni andato perduto. “In realtà - interviene Paola Ziccone, del centro di Giustizia minorile per l’Emilia Romagna e le Marche - per i ragazzi è importante calcare le scene, come avviene ora, dell’Arena del Sole. E lo è anche per la città che impara a vedere il carcere come risorsa”. Eppure il teatro dentro al Pratello esiste fin dal 1700, quando era un orfanotrofio, nato come sala di musica, trasformato in palcoscenico e poi in cinema. È in quello spazio che Billi ha cominciato. “Era il 1998, rispondemmo a una chiamata della legge Turco, Bologna era una delle città pilota. Nei primi tre anni abbiamo lavorato su quel palcoscenico. Poi ebbe inizio la ristrutturazione mai conclusa”. “Esiste un progetto depositato al Ministero di Grazia e Giustizia - conclude Ziccone per ristrutturarlo e riaprirlo dopo 15 anni. È un gioiellino e speriamo già nel 2018 di ottenere risposta positiva. Potrebbe diventare un teatro pubblico, specie se la città si impegna”. Nel frattempo, la prossima estate, i bolognesi potranno di nuovo varcare i cancelli dell’Istituto minorile per gli spettacoli estivi di Billi. Per la prima volta saranno allestiti nel cortile usato di giorno dagli ospiti della struttura. Stavolta, lasciando fuori la retorica. “Mère Ubu, impresaria di teatro carcere” è lo spettacolo diretto da Paolo Billi con ragazzi detenuti e attori di Bottega Molière. Genova: un laboratorio per i detenuti di Marassi diventa spettacolo teatrale di Medea Garrone La Repubblica, 5 gennaio 2018 Gli “amori di sola andata” sono quelli che non progrediscono, sono “vuoti a perdere in cui si creano meccanismi di annullamento reciproco”. Quello che può condurre alla violenza estrema, che nel 2017 ha fatto salire a 58 le vittime di femminicidio in Italia. Ed è proprio per informare e formare il pubblico sul tema della violenza di genere, che sono nati uno spettacolo e un laboratorio di rieducazione dei cosiddetti sex offenders. Si tratta, appunto, di “Amori di sola andata”, che andrà in scena al Teatro dell’Ortica di Genova il 13 gennaio, di e con Anna Solaro, che insieme agli operatori della Onlus White Dove si occuperà, attraverso la teatro-terapia, di detenuti a Marassi per violenza. “È un progetto finanziato dalla Regione attraverso un bando del Fondo Sociale Europeo -spiega Anna Solaro - della durata di un anno. Le persone coinvolte intraprenderanno dei percorsi di formazione e sostegno attraverso una serie di laboratori, e il teatro sarà il setting in cui potranno riconoscere e indagare le emozioni che portano alla violenza”. Perché il punto di partenza per la riabilitazione deve essere l’assunzione di responsabilità di quanto commesso e quindi “l’obiettivo è rafforzare quanto già fanno nei loro percorsi terapeutici -sottolinea Solaro - attraverso il teatro, che è una specie di palestra pratica, in cui si lavora su paradigmi vocali e corporei, su narrazioni ad impeto, improvvisazioni e riscrittura creativa del sé. Questo laboratorio, quindi, sarà un’indagine di parola e narrazione corporea in cui poter riscrivere il loro cambiamento”. Ed è un ricrearsi e rigenerarsi attraverso il mezzo teatrale, che possono sperimentare anche gli spettatori di “Amori di sola andata”, che mette in scena storie tratte liberamente anche da testimonianze vere, riscritte da Marco Tulipano, e interpretate, con lui e Anna Solaro, da Luca Puglisi, Luca Raiti, Danilo Spadoni e Nicoletta Tangheri, attraverso cui si racconta come la violenza si innesta nel nostro quotidiano, ma con una via d’uscita nel momento in cui ci si fa aiutare. Da qui il teatro sociale: “Il nostro fare cultura - conclude Solaro - ha lo scopo di soffermarsi su alcuni aspetti del nostro vivere comune, creando uno spazio di riflessione e discussione”. La stagione “Diverse differenze” dell’Ortica continuerà poi, sabato 20 gennaio, con “È quello che vedo”, lo spettacolo che segna il ritorno de “Il Bloko” groppo protagonista della scena teatrale genovese degli anni Ottanta. Il testo è di Marco Tulipano, uno dei fondatori del gruppo, che ritrova la sua vena creativa più folle, esilarante e aggrappata ostinatamente al nulla. Dopo alcune presentazioni in forma ridotta, lo spettacolo completo va in scena anche grazie alla campagna di crowdfunding, indispensabile per contribuire ai costi di allestimento, dai video agli elementi scenografici, al lavoro di artisti e tecnici che collaborano con il gruppo. A seguire, il sabato successivo, “La Grande Guerra - Eppure si rideva” di Lorenzo Costa, in scena insieme a Federica Ruggero. La guerra vista attraverso gli occhi e la sensibilità dei poeti che l’hanno vissuta, particolarmente d’Annunzio e Ungaretti. Sondrio: la musica del coro Cai apre le porte del carcere di Camilla Martina Il Giorno, 5 gennaio 2018 Il concerto sarà il 5 gennaio 2018, dalle 20 alle 20.45, al termine, ci sarà la cena con la pasta del pastificio 1908. La musica del coro Cai di Sondrio entra in carcere. Il concerto sarà il 5 gennaio 2018, dalle 20 alle 20.45. Al termine, ci sarà la cena, a offerta libera, preparata dai detenuti con la pasta per celiaci del pastificio 1908, creato all’interno dell’Istituto. A offrire il vino saranno le Cantine Nera, mentre i panettoni don Ferruccio, cappellano della Casa circondariale, e il dottor Francesco Venosta, presidente della Bps. Come spiega la direttrice Stefania Mussio, “sarà un momento per stare insieme, per portare una voce positiva e armoniosa all’interno dell’Istituto. Un momento di condivisione che sono certa arricchirà tutti. Da tempo desideravo che il coro, con i suoi 42 elementi, potesse raggiungere anche la Casa circondariale. Quest’anno ce l’abbiamo fatta, grazie anche alla preziosa disponibilità del suo presidente, Aurelio Benetti”. Il coro Cai, che rappresenta in provincia l’antica tradizione dei cori maschili di ispirazione popolare, un genere musicale che ha visto armonizzazioni e nuove composizioni di grandissimi musicisti, si è costituito nel 1964 e, nel corso della sua più che quarantennale attività, è stato protagonista di numerosi concerti in Italia e all’estero. Si è inoltre più volte distinto in diversi concorsi nazionali. Plasmato e diretto per oltre un trentennio dal compianto maestro Siro Mauro, il complesso è dal 2000 affidato alla direzione del maestro Michele Franzina. Torino: il “gioco della vita” lo raccontano i detenuti di Manuela Marascio torinoggi.it, 5 gennaio 2018 Una fiaba di burattini alla Biblioteca Mirafiori. Oggi pomeriggio uno spettacolo per bambini a cura dell’associazione La Brezza e della compagnia teatrale In volo. Un progetto nato nella Casa circondariale Lorusso e Cotugno e nella Casa di reclusione di Quarto d’Asti. La vita è un gioco da prendere a cuor leggero e tenere tra le mani con dolcezza, senza stringere troppo né rischiare che scivoli via. Soprattutto quando quelle stesse mani possono dare vita ad altri mondi, altre storie, plasmando dalla realtà un immaginario fantastico e meraviglioso. È quanto succede in ambienti marginali, spesso dimenticati dalla società e considerati unicamente luoghi di detenzione e pena, dimenticandone qualsiasi altra finalità umanistica. Proprio in due di questi, il Blocco B della Casa circondariale Lorusso e Cutugno e la Casa di reclusione di Quarto d’Asti, è nata una magia. Il gioco della vita, un progetto curato dall’associazione La Brezza con la partecipazione del collettivo Compagnia In volo, è uno spettacolo di burattini realizzati proprio dai detenuti nel corso di specifici laboratori artistici. Gli stessi che, qualche mese fa, hanno portato in tour per dieci carceri italiane la trasposizione teatrale del romanzo La piuma di Giorgio Faletti, con grande successo e partecipazione collettiva. Un grande lavoro di squadra, in debutto lo scorso 9 aprile al Teatro Alfieri di Asti, che ha visto la partecipazione di ben sette realtà sociali, creando sinergia tra spazi detentivi, case di riposo e scuole primarie. Oggi pomeriggio, dalle ore 17, la Biblioteca civica Mirafiori, in corso Unione Sovietica 490, accoglierà tutte le famiglie che vorranno assistere a questa fiaba animata. A muovere i personaggi, le varie parti del corpo dell’attrice e psicoterapeuta Josephine Ciufalo, con le musiche di Sandro Martinetti e la voce di Lorella Zambon. Sarà l’occasione per conoscere da vicino la onlus La Brezza, nata inizialmente nel 2001 come associazione d’ascolto per persone sieropositive all’ospedale Amedeo di Savoia, e il collettivo In volo, che crede nel teatro di figura come stimolo concreto per tutte le persone in difficoltà, dai detenuti alle persone con disagio psichico. L’arte si rivela, così, ancora una volta, uno degli strumenti riabilitativi più potenti ed efficaci, in grado di creare socialità laddove sembra imperare la segregazione. E dietro le sbarre un soffio di teatralità può davvero far volare i reclusi verso la libertà e l’evasione. Migranti. Niger ma non solo, l’Italia va in Africa di Carlo Lania Il Manifesto, 5 gennaio 2018 30 milioni di euro per fermare i migranti al confine con la Libia. Ma solo fino a settembre. Costerà poco più di trenta milioni di euro la missione militare italiana nel Sahel. Cifra utile a mantenere in Niger fino al prossimo 30 settembre un contingente che, una volta a regime, potrà contare su 470 uomini, 130 mezzi terrestri e due aerei. La cifra è contenuta nella delibera inviata nei giorni scorsi dal governo al parlamento e che sarà discussa a partire dalla prossima settimana dalle commissioni congiunte Esteri e Difesa di Camera e Senato. Salvo sorprese la missione non dovrebbe incontrare ostacoli visto che oltre a Pd e Ap anche Forza Italia si è detta favorevole alla nuova impresa africana, come ha confermato lo stesso Silvio Berlusconi. Nel presentare la missione al termine dell’ultimo consiglio dei ministri, il premier Paolo Gentiloni ha spiegato come l’impegno italiano sia stato richiesto lo scorso 1 novembre dal governo nigerino. L’obiettivo, ha spiegato il premier, è quello di “consolidare quel Paese, contrastare il traffico di esseri umani ed il terrorismo”. Obiettivi da conseguire - è spiegato ora nella delibera - addestrando la forze nigerine e in particolare esercito, gendarmeria nazionale, Guardia nazionale e forze speciali nelle attività di “contrasto del fenomeno dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza”, ma anche nell’incrementare la sorveglianza delle frontiere e concorrere allo “sviluppo della componente aerea della Repubblica del Niger”. Scopo principale della missione sarà comunque quello di rendere sempre più difficile il passaggio delle carovane di migranti che cercano di arrivare in Europa, aiutando le forze nigerine a rafforzare ulteriormente la sorveglianza del confine con la Libia. L’arrivo dei militari italiani sarà scadenzato nel tempo. Una volta ottenuto il via libera dal parlamento partiranno 120 uomini per il primo semestre per arrivare a 470 entro la fine dell’anno. Per quanto riguarda mezzi e rifornimenti, come punto di imbarco e sbarco è stato individuato il porto di Cotonou, nella repubblica del Benin, a più di mille chilometri di distanza dalla capitale del Niger Niamey, ma altre vie di comunicazione potranno passare anche dalla Nigeria. A essere coinvolta sarà anche la Mauritania, altro Paese dell’area Sahel. Un team di addestratori opererà presso il Defense College della Nato, mentre tra gli altri specialisti che saranno presenti in Niger figurano medici, personale del genio per lavori infrastrutturali, una squadra addetta alle rilevazioni contro le minacce chimiche-biologiche-radiologiche-nucleari (Cbrn), un forza di protezione e un’unità di racconta informativa, sorveglianza e ricognizione a supporto delle operazioni. Gentiloni aveva spiegato come i soldati dovranno svolgere attività di contrasto al terrorismo ma visto il ridotto numero di uomini impiegati molti esperti ritengano che, a parte le attività di addestramento, i soldati italiani verranno utilizzati soprattutto per proteggere e gestire la base operativa che troverà posto probabilmente nell’aeroporto di Niamey. Non è escluso, però, che il primo invio serva a impostare la presenza militare italiana nel Paese, rimandando al prossimo governo il compito di decidere eventuali compiti operativi. Una cosa è invece sicura: i finanziamenti per la missione ci sono solo fino a settembre, poi occorrerà trovare altri fondi. A spiegarlo è una circolare del ministero dell’Economia datata 28 dicembre che avverte come i nuovi impegni che si aggiungono a quelli già in corso (oltre a Niger anche Tunisia e Libia, per complessivi 125 milioni di euro circa) fanno salire le spese per le missioni a 1.504 milioni di euro contro i 1.427 del 2017. Spese che è possibile coprire per i primi nove mesi dell’anno dopo i quali, spiega il ministero di via Venti Settembre, serviranno “ulteriori 491 milioni di euro”. Salvo, è la conclusione, drastici tagli al budget. È spice la droga sintetica in voga tra i giovani. Seconda solo alla cannabis di Sara Pero La Repubblica, 5 gennaio 2018 Per il rapporto di Espad Italia riproduce gli effetti della sostanza psicoattiva più utilizzata dagli adolescenti ma rischi sono ancora poco conosciuti. E cresce il consumo di altri stupefacenti soprattutto tra le ragazze. Si presenta come un miscuglio di erbe essiccate e una volta consumata è in grado di riprodurre gli effetti della cannabis. È la spice, una droga sintetica reperibile sul web della quale ancora non si conoscono i rischi per la salute ma il suo consumo tra i giovani italiani sta scalando la classifica delle sostanze psicoattive più in voga del momento. Secondo lo studio Espad Italia 2016 (European School Survey Project on Alcohol and other Drugs) dell’Istituto di fisiologia clinica del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche) il consumo di spice è infatti al secondo posto dopo la cannabis. Tendenze delle sostanze stupefacenti fra i giovani - Tra le sostanze stupefacenti utilizzate dai più giovani “la cannabis rimane la sostanza psicoattiva illegale più diffusa, un dato confermato anche dalla relazione al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze dove si rileva che i quantitativi di sostanza sequestrati corrispondono a più del 90 per cento del totale dei sequestri e le segnalazioni per detenzione di cannabis per uso personale rappresentano l’80 per cento dei casi”, spiega Sabrina Molinaro, coordinatrice dello studio. I ragazzi iniziano a sperimentarla a partire dai 15 anni, rivela il rapporto: quasi un terzo degli adolescenti di età compresa tra 15 e 19 anni ha utilizzato una sostanza psicoattiva illegale almeno una volta nel corso della propria vita, con una differenza di consumo tra i generi di circa il 10% (maschi 37,7% e femmine 28%). Nell’ultimo anno lo ha fatto il 25,9% dei ragazzi (maschi 30,9% e femmine 20,7%). Del cannabinoide sintetico spice “ne ha fatto uso l’11 per cento, circa 275mila ragazzi, almeno una volta nella vita e il 35,5 per cento di questi lo ha fatto 10 volte o più” continua Molinaro, che pone l’attenzione sui possibili rischi per la salute: “Il dato che la spice sia diventata la seconda sostanza più diffusa fra gli studenti è però preoccupante poiché gli effetti sulla salute non sono ancora ben noti ed è quindi ancor più pericolosa”. Aumenta il consumo di droghe tra le ragazze - Cocaina, stimolanti e allucinogeni seguono poi nella lista delle sostanze utilizzate dai teenager. “Si osserva, inoltre, la diffusione delle nuove sostanze psicoattive, quali oppiacei sintetici e catinoni sintetici come mefredone, ketamine, fenetilamine, utilizzate almeno una volta nella vita dal 3,5 per cento degli studenti e quindi diffuse tanto quanto la cocaina o anche più diffuse se si considera l’eroina. Le nuove droghe sono diffuse anche tra le studentesse: il 2,8 per cento le ha utilizzate almeno una volta nella vita”, prosegue Molinaro. Le informazioni raccolte nel rapporto, infatti, confermano che è in crescita l’uso di droga tra le ragazze, seppur con livelli di consumo inferiori ai coetanei maschi. “Quasi 20mila sono le donne in trattamento presso i Servizi per le dipendenze per uso di oppiacei, cocaina e cannabis e l’universo femminile ha assunto caratteristiche preoccupanti, seppure consumi, denunce e arresti siano a livelli inferiori rispetto a quelli maschili: delle 32.992 persone segnalate all’autorità giudiziaria per reati droga-correlati, il 7 per cento ha riguardato donne e quasi due terzi delle persone segnalate sono giovani adulti di età compresa tra i 20 e i 39 anni”. Israele non è un Paese per i rifugiati africani di Michele Giorgio Il Manifesto, 5 gennaio 2018 Entro il 1 aprile sudanesi ed eritrei dovranno scegliere tra il carcere a tempo indeterminato o lasciare volontariamente il Paese per rientrare in patria o andare in Rwanda o Uganda. Per i rifugiati il ritorno in Africa spesso si traduce in detenzioni, violenze e morte. “Se gli israeliani mi costringeranno ad andare in Rwanda allora morirò”. Gabriel, nome scelto a caso per coprire la sua identità, non ha più certezze. Eritreo, 27 anni, entrato illegalmente in Israele quattro anni fa per sfuggire al lungo servizio militare obbligatorio nel suo Paese e a minacce degli apparati di sicurezza, ora è sicuro solo di una cosa: non uscirà vivo dal Rwanda. Gli chiediamo di spiegarci le ragioni delle sue paure. “Alcuni ragazzi eritrei che erano qui - racconta - e che sono partiti (su pressione di Israele, ndr) per il Rwanda mi hanno scritto di una situazione drammatica, di abusi e di persone sparite nel nulla”. Ci troviamo nel mercato adiacente a via Levinsky, non lontano dalla stazione degli autobus di Tel Aviv. Nei giardinetti di Levinsky per anni si sono radunati i richiedenti asilo africani, in gran parte sudanesi ed eritrei. Ora vivono nascosti. Gabriel accetta di parlare con noi solo dopo le rassicurazioni avute da un nostro contatto. “Niente foto mi raccomando. Siamo in pericolo, mi nascondo, ci nascondiamo tutti. Ma sappiamo che loro (i funzionari del Dipartimento popolazione e immigrazione, ndr) sanno dove trovarci”. La conversazione dura pochi minuti. Gabriel prima di lasciarci e di svanire nel nulla ci dice che forse “sceglierà di andare in prigione” piuttosto che lasciare Israele per il Rwanda. Nelle prigioni del Neghev comunque non sarà una vacanza. Due giorni fa il governo israeliano ha emesso un avviso. Se i 27.494 eritrei e 7.869 sudanesi che si trovano nel Paese non andranno via volontariamente entro il 1 aprile, accettando un biglietto aereo e 3.500 dollari, saranno incarcerati a tempo indeterminato. Il piano esenta, per ora, i bambini, gli anziani e le vittime della schiavitù e della tratta di esseri umani. Le garanzie offerte non convincono affatto l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) secondo il quale il provvedimento viola le leggi internazionali. Per l’esecutivo israeliano, forte del sostegno di buona parte dell’opinione pubblica, in particolare degli israeliani dei quartieri meridionali di Tel Aviv dove per anni hanno vissuto gli africani, al contrario è tutto regolare e legale. Il premier Netanyahu ha più volte affermato che l’afflusso e la presenza degli africani minaccia il “carattere ebraico” di Israele. E due giorni fa il ministro per la sicurezza interna Ghilad Erdan, possibile successore del primo ministro, ha addirittura parlato di “provvedimento storico” che permetterà a migliaia di israeliani di ricominciare una esistenza normale, sena gli africani. Non sorprende l’approvazione alla decisione di Netanyahu giunta dalla Lega che ha esortato l’Italia a fare altrettanto e a cacciare via migranti e richiedenti asilo. La chiamano “rimozione accelerata” ma è una deportazione mascherata dal piccolo incentivo economico offerto agli africani per andare via volontariamente in alternativa al carcere, e dagli accordi che il governo israeliano ha raggiunto con il Rwanda e l’Uganda. Questi due Paesi si sono detti disposti ad accogliere sudanesi ed eritrei, dietro il versamento nelle loro casse di 5mila dollari per ciascun espulso e, si sussurra, di forniture militari ed appoggi diplomatici. L’Uganda però smentisce di aver raggiunto un accordo con Tel Aviv per accogliere gli africani ai quali il governo Netanyahu ha intimato di lasciare il Paese. “Non abbiamo alcun accordo di questo genere con il governo israeliano perché mandi qui i migranti - ha detto ieri il ministro degli esteri, Henry Okello Oryem - Israele deve essere in grado di spiegare questa affermazione. Questa informazione deve essere considerata falsa”. Tuttavia nessuno crede alla smentita di Kampala. Le autorità ugandesi probabilmente preferiscono fare le cose in segreto, dietro le quinte e non alla luce del sole, per evitare imbarazzi. “Gli eritrei e i sudanesi fanno bene ad avere paura perché in Rwanda ed Uganda corrono dei pericoli reali”, spiega al manifesto Sigal Avivi, una attivista dei diritti dei richiedenti asilo e dei migranti. Avivi, che abbiamo incontrato ieri a Tel Aviv, un anno fa è andata in quei due Paesi per seguire il percorso di alcuni dei circa 20mila africani che hanno già “lasciato” Israele. “È tutto molto grigio, opaco, a cominciare dalla impossibilità di avere accesso qui in Israele all’elenco dei richiedenti asilo già partiti”, dice l’attivista, “durante il mio viaggio in Rwanda e Uganda ho avuto incontri importanti ma anche tante difficoltà ad ottenere informazioni. Ho accertato però che gli africani (partiti da Israele) vengono subito fermati e interrogati una volta giunti a destinazione. Poi sono inviati in qualche centro o località che non sempre nota”. Avivi ha constatato che l’impossibilità per i nuovi arrivati di ottenere il rispetto dei loro diritti e una vita dignitosa li spinge a lasciare subito Rwanda e Uganda. “Perciò sono vittime ancora una volta dei trafficanti di essere umani” prosegue “vengono fatti passare per gli Stati confinanti, poi in Sud Sudan e spesso anche in Sudan, quindi trasportati attraverso il deserto fino alla Libia da dove sperano di andare via mare in Europa, ma in Libia subiscono violenze, torture e spesso sono ridotti in schiavitù”. Peraltro pochi riescono ad arrivare in Libia, aggiunge Avivi. “Il passaggio per il deserto significa la morte per molti di loro, senza dimenticare che anche il mare fa le sue vittime durante i viaggi sulle imbarcazioni di fortuna dirette alle coste italiane - ci dice - in Europa ho incontrato africani che erano qui in Israele e mi detto che tanti dei loro compagni sono morti, di stenti nel deserto, di malattie o affogati. Chi invece torna nei Paesi d’origine, specialmente in Sudan, è arrestato e punito severamente per essere stato in Israele. Sappiamo che 6mila sudanesi e 2mila eritrei sono già stati costretti a rimpatriare e di loro non si sa più nulla”. Netanyahu, conclude l’attivista, “deve fermare le espulsioni e concedere finalmente l’asilo a tutte queste persone giunte in Israele per sfuggire a guerre e violenze”. Egitto. Pena di morte, l’ultima arma di al-Sisi di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2018 Occhio per occhio, dente per dente. Il presidente Abdel Fattah al-Sisi ha deciso di applicare la legge del taglione per nascondere la sua debolezza interna dopo i recenti attacchi terroristici. Nel mirino ancora i cristiani copti, il 29 dicembre scorso nella chiesa di Mar Mina, alla periferia sud del Cairo, e, a Capodanno in un negozio della città-quartiere di Giza. A corto di soluzioni per limitare la progressione di sangue e morte, al-Sisi ha scelto la via del pugno di ferro. In meno di una settimana ha fatto giustiziare 19 presunti terroristi, coinvolti in una serie di attentati nel Sinai tra il 2013 e il 2015. Colpisce la tempistica: il 30 dicembre scorso, il giorno dopo il massacro della chiesa copta, al-Sisi ha firmato 15 condanne a morte per un attacco del 2013 contro le forze armate ad al-Arish, nel Sinai, nei pressi del varco frontaliero con la Striscia di Gaza: “Siamo sconvolti, ci hanno avvisato delle esecuzioni a giochi fatti. Non siamo neppure riusciti a incontrare i nostri cari nel giorno della sentenza, così come prevede la legge” hanno denunciato i parenti delle vittime. Numeri alla mano, il Cairo in una manciata di giorni ha eseguito più condanne capitali di quante effettuate nel 2014, dopo che nel 2013 - al-Sisi è salito al potere con il colpo di Stato anti-Morsi, leader dei Fratelli Musulmani, in estate - non ce n’erano state. Condanne a morte in crescita nel 2015 (22), e nel 2016, ben 44: “Per i quattro giustiziati martedì c’erano prove concrete per la loro assoluzione - sostiene Hend Soliman, giornalista egiziana dell’agenzia Nova-le autorità sono preoccupate dalla piega che stanno prendendo le cose e non perdono occasione per lanciare messaggi diretti alla Fratellanza Musulmana e alle sue fazioni armate come Hasm e Kated al-Edam, per riportare l’ordine. Dopo l’attacco alla chiesa di Mar Mena le forze di sicurezza sembrano molto attive. Mezzi blindati stazionano fuori delle chiese e nei punti di maggior afflusso per dare un messaggio di tranquillità, ma dopo la strage della moschea di Rawda, a novembre, è difficile capire dove attaccheranno i terroristi”. I quasi cinque anni della legislatura corrente sono stati caratterizzati da rapimenti, processi sommari, torture e violenze. E una raffica impressionante di arresti per questioni che in alcuni casi fanno discutere. Laila Amer, cantante egiziana, è stata condannata a 15 giorni di carcere per un video apparso su Youtube ritenuto inopportuno dal regime. Amer è stata accusata di incitamento alla depravazione e insinuazioni sessuali. A dicembre era toccato alla pop star Shaima Ahmed, finita in carcere per un altro video in cui - scenografia una classe scolastica ballava e ammiccava mangiando una banana. C’è poi la vicenda di Giulio Regeni, il ricercatore italiano trovato morto al Cairo il 3 febbraio 2016. Alla vigilia del secondo, triste anniversario, secondo il quotidiano inglese The Guardian ci sarebbero forti tensioni tra la famiglia della vittima e l’Università di Cambridge. A fine gennaio, proprio nei giorni dell’anniversario, la tutor di Regeni, Maha Abdelrahman sarà ascoltata dagli inquirenti italiani. La docente per due volte ha evitato le domande degli investigatori sulla natura del lavoro che aveva affidato al ricercatore italiano. Il giornale parla di accanimento verso il mondo accademico britannico e di una strategia del governo italiano, impegnato a spostare il focus delle indagini e dei sospetti dall’Egitto al Regno Unito. Svizzera. Dopo 200 anni chiude il primo (e più severo) carcere svizzero Ats, 5 gennaio 2018 Dopo 200 anni il Sennhof di Coira va in pensione. Gli edifici della struttura verranno convertiti. In che modo lo deciderà il Cantone: “Pianifichiamo un avviso per richiamare investitori”. Dopo 200 anni la prima prigione cantonale grigionese, nonché il più “rigido” carcere della Svizzera, va in pensione. Gli edifici del penitenziario, con un’estensione di quasi 3000 metri quadri per 57 posti, verranno così convertiti: le opzioni sono ancora aperte ma il Cantone pianifica già un avviso pubblico per richiamare investitori. “Qualsiasi bambino conosce il Sennhof di Coira”, scrive il Consigliere di Stato e direttore di polizia Christian Rathgeb nella prefazione al libro sui due secoli del carcere, anniversario che ricorre quest’anno, un anno prima della trasformazione dell’istituto penitenziario e del suo trasferimento in una nuova e più moderna struttura a Cazis (GR). Il carcere, ai margini della città, è un complesso di diversi edifici, i più vecchi sorti già nel 1600. La torre rappresenta uno degli ultimi resti delle antiche mura cittadine. Inizialmente le strutture non furono pensate come prigione, ma fungevano da abitazioni e per scopi agricoli. Successivamente i locali furono adibiti alla produzione di saponi. Solo nel 1817 il Cantone acquistò il complesso immobiliare per farne un penitenziario. Fino al 1995 l’istituto è rimasto sotto la direzione della procura grigionese, la quale ancora oggi possiede uffici all’interno della struttura che, in ogni caso, dovrà presto trasferire altrove. Da sei anni a dirigere il carcere è Ines Follador-Breitenmoser, sotto la cui direzione, nonostante alcuni tentativi, nessuna evasione è andata a buon fine. Del penitenziario si parlò nel settembre 2014 quando un detenuto diede fuoco ad asciugamani, lenzuola e materassi nella propria cella, incidente che si concluse senza gravi conseguenze. Insieme al penitenziario bernese di Thorberg, il Sennhof è non solo uno degli istituti carcerari più antichi della Svizzera ma anche uno dei più rigidi e severi a livello nazionale: nota per i suoi spazi angusti e troppo stretti, la struttura, con celle di appena 8,5 metri quadri a fronte dei 12 minimi obbligatori per legge, è oggi inadatta. Tra i più “famosi” carcerati del Sennhof ci furono lo scrittore svizzero, autore di best seller, Erich von Däniken, che in cella scrisse il suo secondo romanzo “Zurück zu den Sternen” (Ritorno alle stelle), e l’ebreo David Frankfurter, il quale, condannato per avere ucciso nel 1936 a Davos Wilhelm Gustloff, capo della sezione svizzera del partito nazista tedesco, trascorse nove anni nel penitenziario prima di essere graziato. Anche a livello turistico il carcere di Coira gode di una certa fama, essendo tappa fissa e apprezzata delle visite guidate della città, come ha confermato Leonie Liesch, direttrice dell’Ufficio del Turismo di Coira. Per il sindaco di Coira Urs Marti si tratta di una vera e propria attrazione turistica. La città tuttavia non ha intenzione di acquistare il complesso: “Attendiamo con ansia di conoscere i piani del Cantone in merito e saremo lieti di esserne coinvolti”. Sull’esempio dell’ex carcere di Lucerna, da cui è sorto il “Jailhotel Löwengraben” e dell’ex prigione Lohnhof di Basilea, anch’essa trasformata in un hotel, con aggiunta di abitazioni, di un museo, un teatro e un club jazz, anche il Sennhof di Coira potrebbe diventare un albergo. Sul destino della struttura, però, il Cantone non ha ancora idee definitive, ha detto all’ats Markus Dünner, capo servizio cantonale delle costruzioni: “Stiamo pianificando un avviso per richiamare investitori”. Il bando dovrebbe essere pubblicato la prossima primavera. Vista la centralità della struttura, il Cantone ritiene che la richiesta di aree ad uso abitativo o commerciale potrebbe essere elevata. Delle possibili destinazioni del Sennhof si occupa anche una comunità d’interesse sorta appositamente, che favorisce l’ipotesi di un mix di abitazioni, cultura, gastronomia e un ostello della gioventù. Stati Uniti. Rikers Island addio: Di Blasio mette i sigilli al carcere degli orrori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 gennaio 2018 Il sindaco di New York annuncia la chiusura del “carcere degli orrori” di Rikers Island per trasferire i detenuti in carceri più piccole. L’amministrazione della Grande Mela Bill de Blasio spiega che il primo complesso sarà chiuso questa estate e porterà progressivamente allo smantellamento del carcere di massima sicurezza dell’isola di New York. I numeri delle persone incarcerate sull’isola sono in costante declino: in questo momento ci sono 8.705 detenuti, cifra che non veniva raggiunta dal 1982. “Ogni giorno rendiamo il sistema carcerario di New York più piccolo e sicuro”, si legge in una nota del sindaco. L’idea è quella di usare le piccole prigioni presenti in tutti i quartieri di New York. Tuttavia prima di concludere il piano i numeri dei detenuti devono scendere, visto che la capienza massima delle prigioni diffuse è di 2.300 persone. New York ha il più basso tasso di incarcerazioni tra le grandi metropoli degli Stati Uniti, con una percentuale di 167 detenzioni per 100mila abitanti, contro i 229 di Los Angeles, i 252 di Chicago e i 784 di Philadelphia. ll progetto, elaborato da una commissione indipendente nominata ad hoc, è di trasferire i detenuti in un sistema di prigioni più piccole in ognuno dei cinque distretti della città, di dimensioni variabili a seconda del numero di abitanti. La più grande sarà a Manhattan e la più piccola a Staten Island, il tutto ad un costo di oltre dieci miliardi di dollari. Il penitenziario dell’isola destinato finalmente a chiudere è uno dei carceri più grandi e duri degli Stati Uniti. Viene definito non a caso “carcere degli orrori”, soprattutto dopo che un’indagine del Dipartimento di Giustizia americano - quando c’era Obama - ha documentato una lunga serie di violenze di ogni genere, in particolar modo ai danni dei detenuti più giovani. Il ministero in quell’occasione ha persino fatto causa a New York per spingere l’amministrazione cittadina a portare avanti le riforme necessarie a ristabilire gli equilibri a Rikers Island. a la prigione, considerata un vero inferno e finita da anni nel mirino per le morti sospette e i maltrattamenti, è conosciuta anche come il carcere dei famosi, perché nelle sue celle ha ospitato Mark David Chapman, l’assassino di John Lennon, prima che venisse trasferito ad Attica, nel nord dell’Empire State. Così come il serial killer David Berkowitz, arrestato nel 1977 dopo aver terrorizzato la Grande Mela con una serie di efferati omicidi. Il bassista dei Sex Pistols Sid Vicious, invece, ci ha trascorso sette settimane dopo che la polizia ha trovato la sua fidanzata Nancy Spungen pugnalata a morte allo storico Chelsea Hotel, nel 1978. Ci passarono anche la rapper Foxy Brown, il campione di football dei Giant Plaxico Burres, Joe Halderman, l’anchor che ha tentato di ricattare David Letterman, e altri tra politici, musicisti e celebrities. A Rikers Island ci è finito anche l’ex direttore del Fondo Monetario Internazionale Dominique Strauss Khan, arrestato nel 2011 (e poi scagionato) con l’accusa di aver aggredito sessualmente una cameriera di un hotel di Manhattan. Mentre chiudono alcune carceri per volere dell’amministrazione locale, negli Usa però rimane comunque il rischio di ritornare indietro. Durante l’amministrazione Obama, ci furono diversi provvedimenti per porre rimedio ad un sistema carcerario considerato tra i più duri al mondo, dove le pene sono altissime, soprattutto per i reati legati alla droga. Obama aveva apportato diversi miglioramenti, non da ultimo la riduzione delle carceri in mano ai privati. Sì, perché da una indagine commissionata dalla scorsa amministrazione, emerse che le prigioni gestite da privati sono più pericolose. L’accertamento mise in luce che nelle carceri private ci sono più incidenti legati alla sicurezza e incolumità dei detenuti. Immediate furono le reazioni dei difensori dei diritti umani, secondo cui la detenzione è una responsabilità sociale e non può essere affidata a società basate sul profitto che prosperano su condizioni inumane. Donald Trump, in controtendenza ha ritirato anche l’ordine di ridurre gradualmente i contratti con gli operatori privati di carceri.