Il lungo lavorìo che ha portato alla riforma (storica) del carcere di Riccardo Polidoro* Il Dubbio, 4 gennaio 2018 La bozza di decreto lascia incompiuti alcuni importanti articolati, ma la sua entrata in vigore è importantissima e va difesa. Il 1975 rappresentò una data storica per l’esecuzione penale. Con il varo della legge sull’Ordinamento Penitenziario furono recepiti i principi costituzionali e dal concetto esclusivo di punizione, si passò a quello di “rieducazione”, istituzionalizzando le modalità del “trattamento”. Da allora, vi sono stati numerosi interventi legislativi che hanno modificato l’Ordinamento, alcuni dei quali hanno profondamente inciso sulle modalità di detenzione, con limitazioni che hanno penalizzato le ragioni che ispirarono il legislatore del 1975. Molte delle norme non hanno poi trovato concreta attuazione, per il costante disinteresse del mondo politico che, all’esecuzione penale, ha sempre dedicato poca attenzione e minime risorse. Nel 2010, il sovraffollamento nelle carceri italiane aveva toccato cifre insostenibili. I detenuti erano 67.820 (media aritmetica a fine mese), e si contavano 55 suicidi. A gennaio 2013, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, prendendo atto della situazione drammatica e della circostanza che in Italia mancava un meccanismo di tutela giurisdizionale per la violazione dei diritti del recluso, condannò l’Italia, emettendo una sentenza cosiddetta “pilota” che riconosceva il carattere sistemico delle violazioni riscontrate (caso Torreggiani). L’emergenza nazionale della detenzione, aveva oltrepassato i confini e l’Europa chiedeva urgenti rimedi. Era necessario intervenire. Nel dibattito politico, giungeva il messaggio alle Camere dell’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che evidenziava “la stringente necessità di cambiare profondamente la condizione delle carceri in Italia” che costituiva “non solo un imperativo giuridico e politico, bensì in pari tempo un imperativo morale”. Veniva approvata una serie di norme, che i media battezzarono “svuota carceri”, un termine che mal si addice all’uscita di persone da un luogo, ma è più propriamente usato per gli oggetti. Non vi fu alcun intervento di sistema, ma il sovraffollamento, pur ancora presente, diminuì notevolmente. Nel 2015, i detenuti erano 52.966 ed i suicidi 39. Si manifestò, però, la necessità di una riforma organica costituzionalmente orientata, che consentisse l’effettività del trattamento ed evitasse il ritorno a numeri di presenze ingestibili. Nel disegno di legge per la riforma del processo penale fu inserita la delega al Governo per la riforma dell’Ordinamento Penitenziario e il Ministro della Giustizia Andrea Orlando ebbe l’intuizione di chiamare alle armi gli addetti ai lavori e gli esperti del settore, dando avvio, il 19 maggio 2015, agli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Diciotto tavoli di lavoro sui temi più importanti relativi alla detenzione. Circa duecento persone coinvolte, in un percorso concluso ufficialmente il 12 aprile 2016, ma che segnava l’inizio di un nuovo modo di “pensare al carcere”, anche da parte del potere esecutivo. Con la Legge n. 203 del 23 giugno 2017, il Parlamento delegava il Governo a riformare l’Ordinamento Penitenziario, indicando i limiti d’intervento e gli istituti su cui intervenire. Intoccabile l’art. 41 bis dell’ Ordinamento Penitenziario e tutto ciò che riguarda i delitti di mafia e terrorismo, mentre si chiede di prevedere nuove norme per l’assistenza sanitaria, per la semplificazione dei procedimenti, per l’eliminazione di automatismi e preclusioni nel trattamento, per facilitare l’accesso alle misure alternative, per favorire il volontariato, per migliorare la vita penitenziaria con il diritto all’ affettività e al lavoro, per la libertà di culto, per la detenzione delle donne soprattutto se madri, per la tutela degli stranieri, per stabilire nuove regole per i minori, per migliorare la vita penitenziaria con il diritto Il Ministro Orlando istituisce tre Commissioni di Studio per l’elaborazione degli schemi del decreto legislativo, che si avvarranno di quanto elaborato dagli Stati Generali. Sono circa cinquanta gli esperti coinvolti, molti dei quali avevano già partecipato agli Stati Generali. Le Commissioni hanno concluso la prima fase del lavoro, consegnando gli articolati del decreto all’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia, che li ha inviati al Garante Nazionale per il suo parere. Le Osservazioni del Garante sono state, in parte, recepite dalle Commissioni ed il 22 dicembre scorso la bozza di decreto é stata approvata con alcune modifiche dal Consiglio dei Ministri. Un’approvazione in zona Cesarini, per usare un termine calcistico, in quanto con lo scioglimento delle Camere del 28 dicembre non sarebbe stato più possibile per il Governo esercitare la delega. Un atto importante per consentire la continuazione del lungo e travagliato percorso della Riforma. Su questo punto va sottolineato il merito del Ministro Orlando che ha spinto le Commissioni ad accelerare i lavori, pur avendo la delega la scadenza di un anno. Il viaggio della Riforma, dunque, continua nonostante il Presidente della Repubblica abbia sciolto le Camere. Le Commissioni Parlamentari avranno 45 giorni per esprimere il loro parere, dopodiché la bozza di decreto tornerà alle Commissioni Ministeriali che prenderanno atto di quanto indicato, per eventuali modifiche. Il testo sarà rimesso nuovamente alle Commissioni Parlamentari per poi pervenire al Governo per l’emanazione del Decreto Legislativo. Il traguardo, dunque, potrebbe essere vicino. Se lo augurano tutti coloro che hanno lavorato dal 19 maggio 2015 ad oggi e lo faranno anche nei prossimi mesi, per vedere concretizzarsi, almeno in parte, la loro idea di un carcere allineato ai principi costituzionali, che possa allo stesso tempo garantire maggiore sicurezza ai cittadini diminuendo la recidiva. In circa tre anni di confronto, i componenti gli Stati Generali e le Commissioni - con il coordinamento del Professore Glauco Giostra - hanno lavorato con impegno e passione e su quanto elaborato negli ultimi mesi é stato mantenuto il dovuto riserbo, nel rispetto del mandato ricevuto. La bozza di decreto lascia incompiuti alcuni importanti articolati, in materia di lavoro, di affettività, di preclusioni e automatismi, ma la sua entrata in vigore potrà costituire comunque un momento storico per l’esecuzione penale ed il banco di prova per ulteriori passi avanti verso un Ordinamento Penitenziario migliore. La Riforma va, dunque, difesa. Al fianco di coloro che hanno lavorato nelle Commissioni (Avvocati, Professori Universitari, Magistrati) ci sono già i Radicali, le Associazioni, l’Avvocatura con l’Unione Camere Penali, che da sempre si battono per la tutela dei diritti dei detenuti. Lo facciano apertamente anche altre associazioni di addetti ai lavori, di coloro che le pene le infliggono e ne modulano quantità e qualità. L’entrata in vigore del Decreto non farà altro che tracciare la rotta. Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e tra una legge scritta e la sua applicazione a volte c’è l’oceano. Come l’esperienza insegna, in materia di esecuzione penale, il mare é sempre in burrasca ed il vento contrario. La concreta applicazione delle norme, un porto sempre difficile da raggiungere. *Responsabile Osservatorio Carcere Ucpi - Coordinatore Tavolo XVI Stati Generali Componente Commissione Ministeriale Intercettazioni: peggio di prima. La seconda selezione è dei Pm. Perché non del giudice? di Domenico Cacopardo Italia Oggi, 4 gennaio 2018 La prima selezione sarà affidata alla polizia. È forse più affidabile dei magistrati? “Finalmente!”, dirà Anna Falchi, le cui telefonate personali con Ricucci finirono sui giornali. “Finalmente!”, diranno tutte le altre vittime di una macchina inumana e illegale che ha portato sui giornali frasi e discorsi che nulla avevano a che fare con reati o con ipotesi di reato. Frasi e discorsi che servivano soltanto ad arricchire (“ad colorandum”) le costruzioni accusatorie di pubblici ministeri ignari dei diritti costituzionali di accusati e di terzi. Invece no. Gli organi rappresentativi dell’avvocatura criticano il provvedimento. Anche l’Anm per bocca del suo presidente, Eugenio Albamonte non condivide (in parte). Parliamo delle nuove norme in materia di intercettazioni, approvate dall’ultimo consiglio dei ministri del 2017 e presentate da Andrea Orlando, l’abatino (secondo la “lectio” di Gianni Brera) che dirige il ministero della giustizia, come una profonda innovazione che eviterà, dal momento in cui entrerà in vigore, qualsiasi abuso nell’utilizzo delle intercettazioni. Bugia. Negli anni scorsi, s’è tentato di modernizzare il processo penale adottando le modalità in essere nel resto del mondo occidentale. Si sarebbe dovuti passare da un rito inquisitorio a un rito accusatorio. In poche parole: pubblico ministero e difesa sullo stesso piano e un giudice (terzo) che stabilisce i torti e le ragioni. La realtà, tuttavia, s’è incaricata di smentire quelle buone intenzioni di cui è lastricato l’inferno. L’assoluta preponderanza dei pubblici ministeri s’è, infatti, consolidata anche per il supporto oggettivo loro conferito da un’organizzazione unitaria del sistema giudiziario italiano: in altre parole dalla mancata separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e magistrati inquirenti. Così va l’Italia: per vedere un qualche progresso in materia dobbiamo aspettare che l’integrazione europea ci costringa a adeguarci agli standard comunitari e, quindi, alle regole organizzative prevalenti. Intanto, occorre rimuovere l’illusione che il coro conformista dei media ha alimentato. In qualche misura, sulle intercettazioni si è compiuto un grave passo indietro. Con la nuova normativa, una prima scrematura tra intercettazioni utili all’inchiesta e inutili deve essere effettuata dalla polizia giudiziaria. Il che non è di certo assicurazione di riservatezza, anche se, paradosso italiano, la polizia giudiziaria preoccupa meno di quanto non possano preoccupare alcuni pubblici ministeri. Il materiale così selezionato passa quindi nelle mani del pubblico ministero titolare del processo. E questi fa un’ulteriore selezione, rendendo (di fatto) pubbliche e fruibili le intercettazioni che giudicherà utili all’inchiesta e accantonando le altre. Questo significa che un pubblico ministero privo di remore, renderà pubbliche e fruibili solo le intercettazioni utili all’accusa, eliminando dalla scena quelle utili alla difesa. Non credete che si tratti di uno scenario “limite”. È uno scenario molto più plausibile di quanto non si possa ritenere. Era evidente che la selezione dovesse essere compiuta da un giudice (terzo per definizione, abbastanza terzo nella pratica). In mancanza, nulla di sostanziale è cambiato. Direte: “Ma Albamonte protesta”. Vi rispondo: “Se non protestasse, presterebbe acquiescenza alle posizioni dell’avvocatura, compromettendo la funzione corporativa della sua associazione”. I fratelli Savi nello stesso carcere e scoppia la polemica di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 gennaio 2018 I fratelli Savi della “Uno bianca”, da qualche mese, si trovano nello stesso carcere ed è polemica. Fabio Savi aveva chiesto e ottenuto il trasferimento dal carcere sardo di Uta (Cagliari) e ora si trova anche lui nella casa circondariale milanese di Bollate dove c’è il fratello Roberto. Entrambi, condannati all’ergastolo, si trovano ininterrottamente reclusi da più di 23 anni per le loro violenze e omicidi commessi tra il 1987 e il 1994. È sorpresa e sconfortata Rosanna Zecchi, presidente dell’associazione dei parenti delle vittime della banda della Uno Bianca e moglie della prima vittima, nell’apprendere la notizia. “Fino ad ora i fratelli Savi non erano mai stati nello stesso carcere - dice la Zecchi - e devo dire che questa cosa non mi piace affatto, anzi mi preoccupa. Per noi parenti delle vittime è l’ennesima botta, che arriva dopo i permessi premio concessi all’altro fratello, Alberto, e a Marino Occhipinti”. Da tempo Fabio Savi, 57 anni, chiedeva di poter scontare la sua pena in una struttura penitenziaria che permettesse di poter svolgere attività lavorative e per questo motivo ha inoltrato personalmente la richiesta di trasferimento dopo il parere favorevole degli assistenti sociali. Inoltre, si aggiunge anche il discorso della territorialità della pena, cioè l’opportunità per un detenuto di scontare il suo debito il più possibile vicino al proprio ambiente di origine. Si tratta di un principio democratico che è stato sancito per contemperare due aspetti inscindibili: quello giuridico, legato alla Carta costituzionale, e quello sociale, rispettoso dell’equità e appartenenza. La Costituzione stabilisce infatti che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione. Le norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle pene indicano infatti come finalità delle misure privative della libertà la loro funzione rieducativa per il reinserimento sociale di chi ha sbagliato. Sì, perché prima o poi i fratelli Savi dovranno uscire dal carcere, moti- vo per cui il discorso lavorativo è di vitale importanza. E il carcere di Bollate, si sa, è un esempio virtuoso in questo senso. Il regime attuale dell’ergastolo deriva da rilevanti modifiche introdotte nell’ordinamento con la Legge 25 novembre 1962 n. 1634. Tale legge oltre ad abrogare il 3 º e 4 º comma dell’art. 22 (che si occupavano dell’esecuzione dell’ergastolo in una colonia o in un possedimento d’oltremare), ha mutato il 2 º comma della versione originaria dell’art. 22, ammettendo l’ergastolano al lavoro all’aperto fin dall’inizio (mentre prima poteva esserlo soltanto decorsi tre anni). Inoltre, la Legge 1634 del 1962 ha innovato la disciplina della liberazione condizionale, ammettendovi il condannato all’ergastolo, quando abbia effettivamente scontato ventotto anni di pena. Ulteriori importanti temperamenti del rigore esecutivo dell’ergastolo sono stati introdotti, poi, con la Legge n. 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario. Con tale legge, sono stati innanzitutto, aboliti gli istituti penitenziari distinti in cui tale pena era scontata: i condannati sono ora assegnati a normali Case di reclusione. Infine l’art. 14 della Legge 10 ottobre 1986 n. 663 ha poi previsto la possibilità di includere l’ergastolano nel regime di semilibertà dopo l’espiazione di almeno venti anni; mentre l’art. 18 della Legge 10 ottobre 1986 n. 663 ha espressamente consentito di riferire all’ergastolano, quando dia prova di partecipare all’opera di riadattamento sociale, la detrazione di pena per ciascun semestre di pena detentiva scontata, in particolare al fine dell’anticipazione della liberazione condizionale rispetto al termine minimo fissato dall’art. 176 del Codice penale. L’art. 9 della Legge 663 del 1986 ha poi introdotto l’art 30- ter dell’ordinamento penitenziario che consente dopo dieci anni di reclusione - eventualmente ridotti di un quarto per l’attribuzione del beneficio della liberazione condizionale - l’ammissione per i condannati all’ergastolo ai permessi premio per non più di quarantacinque giorni l’anno. Infatti, ad esempio, sia il fratello Alberto e l’ex complice Marino Occhipinti avevano avuto un permesso premio come consentito dalla legge. Ma anche in quel caso scoppiarono forti polemiche. Eppure tutto ciò è contemplato dalle leggi proprio per fare fede all’articolo 27 della Costituzione che, tra le altre cose, prevede il recupero di chi ha sbagliato. Anche nei confronti di feroci assassini come i fratelli Savi, quando erano poco più che ventenni. Uno Bianca, i Savi di nuovo insieme. La rabbia delle vittime di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 4 gennaio 2018 Orlando ha chiesto una relazione al Dap sul trasferimento del “lungo” da Cagliari. Vent’anni sono passati da quando si sono visti l’ultima volta Fabio e Roberto Savi, dietro le sbarre del gabbiotto del Tribunale dal quale ascoltarono il verdetto del processo che li ha condannati all’ergastolo. Oggi sono di nuovo sotto lo stesso tetto, di nuovo dietro le stesse sbarre, nel carcere di Bollate, a Milano. Il “lungo” e il “corto”, i due killer sanguinari della banda della Uno Bianca, potranno anche chiedere un colloquio, che dovrà però essere valutato dal direttore del carcere. Alla vigilia della strage del Pilastro, il 4 gennaio di 27 anni fa, la notizia ha sollevato nuove polemiche. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha chiesto una relazione all’amministrazione penitenziaria, per avere chiarimenti sulla decisione che ha portato al trasferimento. “È un dolore continuo per noi parenti delle vittime - ha detto Rosanna Zecchi, presidente dell’associazione dei familiari, che arriva dopo i permessi premio concessi all’altro fratello, Alberto, e a Marino Occhipinti. Sono perplessa, se la giustizia lo permette dobbiamo prenderne atto, ma sapere che queste persone colpevoli di terribili omicidi possano addirittura avere la possibilità di incontrarsi riapre le ferite”. Fabio, il secondo dei tre fratelli che tra l’87 e il 94 uccisero 24 persone e ne ferirono 102, da tempo chiedeva di essere trasferito dal carcere di Uta, in provincia di Cagliari, dove non poteva svolgere attività lavorativa. Ha ottenuto il trasferimento nello stesso istituto in cui è rinchiuso il fratello prima dell’estate, ma il suo legale, l’avvocato Fortunata Copelli, spiega che si trovano in sezioni separate. Il presidente della Camera penale Roberto D’Errico, che fu legale di parte civile di una delle vittime, osserva: “È un suo diritto come per tutti i detenuti, se gli è stato concesso il trasferimento vuol dire che ha intrapreso un percorso riabilitativo. E anche qualora dovessero incontrarsi, sarebbe loro diritto, a meno che non ci fosse la presunzione che l’incontro possa essere occasione di reiterazione dei delitti. Capisco e rispetto il dolore delle vittime, ma lo Stato dirime le controversie in nome di una ragione superiore”. Questa mattina alle 9.30 nella chiesa di Santa Cristina al Pilastro il vescovo Zuppi celebrerà la messa in ricordo dei tre carabinieri Otello Stefanini, Andrea Moneta e Mauro Mitilini, a seguire la cerimonia commemorativa al cippo di via Casini. L’ergastolano ha il permesso di assistere la moglie per la nascita del figlio di Alessia Di Prisco iusinitinere.it, 4 gennaio 2018 La Corte di Cassazione con la sentenza n. 48424/17 ha chiarito che l’ergastolano ha il permesso di stare accanto alla moglie in occasione della nascita del figlio. Il caso specifico riguarda un’ordinanza con la quale il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha rigettato il reclamo che P. G., ergastolano, ha presentato contro il diniego del Tribunale del permesso di far visita alla moglie in occasione della nascita del figlio. Il Tribunale aveva negato il permesso, constatando che “pur non avendo il permesso richiesto dal detenuto natura di trattamento penitenziario, ma quella di rimedio eccezionale destinato a fronteggiare eventi familiari di particolare gravità, […] la nascita di un figlio non costituiva evento irripetibile della vita familiare, idoneo a integrare la particolare gravità postulata dall’art. 30 ord. pen., potendo in ogni caso il detenuto incontrare sia il figlio neonato che la moglie in sede di colloqui visivi presso l’istituto penitenziario di appartenenza, negli appositi spazi messi a disposizione.”[1] Il ricorso proposto dall’ergastolano P.G., a sua volta, ha denunciato la violazione di legge e il vizio di motivazione riguardo l’art. 30 ord. pen., ritenendo censurabile la decisione del Tribunale, laddove aveva subordinato la concessione del permesso al verificarsi di un evento “irripetibile”, senza considerare il suo carattere rilevante e particolarmente significativo nella vita di una persona. Proprio per questo, i giudici Supremi, ritenendo il ricorso fondato, hanno deciso di annullare l’ordinanza impugnata, rinviando al Tribunale di Sorveglianza di Roma per un nuovo esame, da effettuare attenendosi ad alcuni principi. Ebbene, la Corte si focalizza sul contenuto dell’art. 30 comma 2 ord. pen., perché “la legge 354/75 all’art. 30, comma 2, prevede la possibilità eccezionale di concedere ai detenuti (e agli internati) il permesso di uscire dal carcere, con le necessarie cautele esecutive, per “eventi familiari di particolare gravità”, analogamente a quanto stabilito dal comma 1 della medesima norma per il caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente del soggetto interessato”.[2] La Corte, in seguito all’interpretazione giurisprudenziale di tale norma, riprende quanto stabilito nella sentenza n. 15953 del 27/11/2015, Rv. 267210 e afferma che “i requisiti della particolare gravità dell’evento giustificativo e della sua correlazione con la vita familiare, indispensabili per la concessione del permesso, devono essere verificati con riguardo alla capacità dell’evento stesso […] di incidere in modo significativo nella vicenda umana del detenuto, senza che debba trattarsi necessariamente di un evento luttuoso o drammatico: assume, invece, importanza decisiva la sua natura di evento inusuale e del tutto al di fuori della quotidianità, […] per la sua incidenza nella vita del detenuto e nell’esperienza umana della detenzione carceraria”.[3] Quindi, l’iter seguito dai giudici è quello che correla la concessione del permesso alla funzione rieducativa della pena (affermata e garantita dall’art. 27 comma 3 Cost.): il contatto con i familiari ed il ruolo della famiglia giocano un importantissimo ruolo ai fini del reinserimento del detenuto nella società, pertanto, l’evento nascita può sicuramente costituire un elemento che legittima la concessione del permesso c.d. di necessità. Inoltre, “la nascita di un figlio riveste quel carattere di eccezionalità e di inusualità che concretizza la particolare gravità dell’evento familiare postulata dall’art. 30 co. 2 ord. pen.”[4], per cui non è esclusa dall’ordinamento. Il carattere di novità della sentenza è il seguente: per i giudici “la nascita di un figlio rappresenta un evento che normalmente implica una notevole intensità emotiva che nella normalità caratterizza la partecipazione del padre alla nascita di un figlio, anche sotto il profilo della preoccupazione contestuale per la salute di madre e figlio”[5], pertanto, anche il genitore ergastolano necessità di partecipare personalmente e direttamente alla nascita di un figlio, evento eccezionale e prezioso e non sostituibile dal permesso di poter ricevere una visita da parte della madre e del neonato in un altro momento. [1] Cassazione Penale, sez. I, 20 ottobre 2017, n. 48424 [2]Tratto da www.miolegale.it [3] Cassazione Penale, sez. I, 20 ottobre 2017, n. 48424 [4] Tratto da www.miolegale.it [5] Tratto da www.cassaforense.it Detenuto al 41bis? Con il nipote, senza vetro divisorio, può parlare solo 10 minuti La Stampa, 4 gennaio 2018 Per un detenuto sottoposto al regime carcerario del 41bis, è sufficiente un colloquio di dieci minuti con un parente di età inferiore ai dodici anni, mentre gli altri congiunti possono dialogare col detenuto sino a un’ora, ma con la separazione del vetro divisorio. Lo ha deciso la Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso presentato da S.B., detenuto nel carcere di Novara. Nel ricorso è stato obiettato che le modalità del colloquio, che viene registrato e si svolge sotto la sorveglianza della polizia penitenziaria, impediscono qualsiasi trasmissione di messaggi all’esterno del carcere; inoltre, aggiunge il ricorso, non è mai stato provato l’invio di messaggi all’esterno del carcere servendosi dei colloqui coi congiunti, e invoca la funzione rieducativa attraverso una utilizzazione razionale della disciplina dei colloqui, che permette anche di coltivare gli affetti familiari. La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, perché i dieci minuti concessi all’incontro, senza nessun vetro divisorio, con il bambino che va a trovare il padre o il nonno in carcere, sono da considerare sufficienti a garantire le manifestazioni affettive. Il detenuto è stato condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento di millecinquecento euro alla Cassa delle Ammende. Brescia: detenuto in condizioni “inumane”, ministero condannato al risarcimento di Eleonora Martini Il Manifesto, 4 gennaio 2018 Sovraffollamento, per il tribunale civile il dicastero di via Arenula ha violato la legge del 1975. Per questo deve risarcire un uomo che ha scontato 2.090 giorni in condizioni “inumane”. Ed era innocente. Per aver violato la legge sulle carceri del 1975, il ministero di Giustizia è stato condannato dal tribunale civile di Brescia a risarcire con 14 mila 417 euro, più gli interessi, un uomo che ha trascorso 2090 giorni in carcere da innocente e per giunta in condizioni di sovraffollamento tali da ledere ogni diritto alla dignità umana, come stabilì peraltro nel 2013 la Corte Ue di Strasburgo nella cosiddetta “sentenza Torreggiani”. Anche per quello che fu il primo riconoscimento della violazione sistematica dei diritti umani nelle carceri da parte dello Stato italiano, Carmelo Gallico, che oggi ha 54 anni, ha potuto vincere la sua battaglia, combattuta da quando nel marzo 2016 decaddero le accuse per le quali venne accusato di affiliazione alla ‘ndrangheta e sottoposto per più di cinque anni a custodia cautelare, rinchiuso - anche in regime di 41 bis - in vari carceri italiane, da Canton Mombello di Brescia a Nuoro Badu e Carros, da Roma Rebibbia a Cuneo (dove mancava l’acqua calda) e, nel 2009, nella casa lavoro di Favignana dove l’uomo trascorse 336 giorni dormendo con altri nove detenuti in una cella di 32 metri quadri. Il giudice Giuseppe Magnoli del tribunale di Brescia, condannando il ministero di Giustizia per le “condizioni di non umanità vissute dal ricorrente durante il periodo di detenzione”, ha citato l’articolo della Costituzione italiana che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannati”. E nella sentenza scrive: “La legge 354/1975, per quanto qui rileva ed in attuazione del principio costituzionale di cui all’art.27, comma 3, della Carta Fondamentale, stabilisce espressamente che il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità, e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”. Il ministero di Via Arenula ha violato, secondo il giudice, l’articolo 69 della legge n.354/1975, quello che punisce l’”inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni previste dalla presente legge e dal relativo regolamento dalla quale derivi al detenuto o all’internato un attuale e grave pregiudizio all’esercizio dei diritti”. Per Carmelo Gallico il provvedimento “ha un significato fondamentale e spero - ha commentato l’uomo - serva a trovare soluzioni definitive per la situazione carceraria in Italia. È stata una battaglia che ho portato avanti per ristabilire un principio di civiltà all’interno del carcere”. “La speranza è che questa sentenza non si limiti al risarcimento economico - ha aggiunto il suo legale, l’avvocato Andrea Arcai - ma serva all’Italia a mettersi in regola come da tempo chiede l’Europa per le condizioni di vita nelle nostre carceri”. Vercelli: per la Regione il carcere di Billiemme resta inadeguato per i detenuti tgvercelli.it, 4 gennaio 2018 Inadeguato, con infiltrazioni e una struttura fatiscente. È quanto emerge sul carcere di Vercelli nel dossier criticità” elaborato dal coordinamento dei garanti dei detenuti piemontesi, che si riferisce alle principali problematiche di tipo strutturale riscontrate dai garanti nelle carceri piemontesi e che a loro avviso hanno ricadute negative su un’esecuzione della pena conforme al dettato costituzionale. La struttura della Casa Circondariale di Vercelli, 4.118 mentre la capienza regolamentare sarebbe di 4.048 con un tasso di affollamento: 101,72%. Le Detenute donne sono 151 il 3,66 % Detenuti stranieri: 1.731 - percentuale sul totale: 45,10 %, ha due caratteristiche imprescindibili: l’inadeguatezza funzionale della costruzione realizzata negli anni ottanta e una trascuratezza pluridecennale nella manutenzione ordinaria e straordinaria dell’edificio. La struttura oggi dunque appare di difficile adeguamento alle nuove normative. Solo l’ultimo piano è stato ristrutturato ma ancora non finito. Vi si trovano detenuti a custodia attenuta, con patto trattamentale, ma ad oggi non è ancora stata finanziata la ristrutturazione della parte (detta “corpo C”) che dovrebbe comprendere palestra, locali per attività, cucine per la scuola alberghiera. Di fatto l’unico piano con camere di pernottamento a norma non possiede i necessari locali previsti per le attività trattamentali. A completamento di ciò il tetto del padiglione (immediatamente sopra il citato quinto piano) presenta enormi falle che creano infiltrazioni nelle sezioni ristrutturate. Per i restanti piani è necessario ed urgente provvedere al rifacimento delle docce e predisporre la videosorveglianza a supporto della costante carenza di personale della polizia penitenziaria. Per il padiglione femminile è stato appena finanziato ed appaltato il rifacimento del tetto che ha provocato negli scorsi anni numerosi danni alle camere, molte delle quali tutt’ora inagibili. La situazione delle camere considerate agibili ad oggi è disastrosa per ciò che riguarda infissi, impianti, servizi. Per ciò che concerne gli impianti generali di riscaldamento, in funzione vi è solo una caldaia sulle tre esistenti, con evidenti disagi e disfunzioni. La Caserma degli agenti ha due piani completamente inagibili e solo uno fruibile dopo una leggera ristrutturazione fatta nel corso di quest’anno. Sulmona (Aq): carenza di medici in carcere, turni “ai limiti di legge” di Simona Pace ilgerme.it, 4 gennaio 2018 Non se la stanno passando bene i medici in attivo nel carcere di Sulmona, in forte sottorganico da settembre ormai, e con una Asl sorda, disinteressata, che non riesce a fornire delle risposte adeguate alle richieste che il personale sta presentando da tempo. In passivo ci sono, infatti, ben tre medici perché se a fine estate un medico era andato via, una era andata in pensione, la situazione è peggiorata con il terzo che ha preferito altri lidi. Il risultato è che i dottori in servizio presso il carcere di via Lamaccio sono solo 5, costretti a coprire un monte ore di 900 mensili, circa 200 al mese a ciascuno. “Alcuni - denuncia il dottor Fabio Federico - arrivano a fare turni di 48 ore. Stiamo sfiorando tutti i limiti dettati dalla legge”. Il problema è molto serio perché il carcere di Sulmona è noto per il servizio sanitario h24 e quindi l’unico in cui vengono inviati detenuti del 41bis in malattia, senza calcolare, però, il sottorganico medico. “Un solo dottore per 500 detenuti- si sfoga Federico che aggiunge- secondo la legge ce ne dovrebbero essere due la mattina” con conseguenze facilmente immaginabili sulle ferie, i riposi ed i permessi e con il rischio che se solo uno di loro si ammali succeda un vero e proprio “patatrac”. “Ho scritto al direttore generale Asl per chiedere una sostituzione del pensionamento, ma non arriva alcuna risposta. C’è un responsabile di medicina penitenziaria completamente latitante” conclude Federico il quale non esclude una lettera al prefetto. Che la situazione nel carcere di via Lamaccio fosse difficile lo si sapeva già, non sono lontani i tempi in cui era stata portata alla luce anche la situazione degli infermieri precari del carcere. Anche in questo caso non si è risolto granché. S.M. Capua Vetere (Ce): la Comunità di Sant’Egidio organizza un pranzo per i detenuti di Claudio Coluzzi Il Mattino, 4 gennaio 2018 Il carcere è sempre separazione. Al di là delle colpe che si devono espiare, o purtroppo delle sentenze che si devono attendere (perché la custodia cautelare riempie le celle più delle pene inflitte), la reclusione è una condizione di non condivisione. Se poi a questo si aggiunge, e capita spesso, anche la scarsezza di mezzi o l’assenza delle famiglie all’esterno, l’essere detenuti significa soprattutto abbandono. Perciò il pranzo di ieri nella Casa Circondariale di S. Maria C. V., organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, ha una valenza particolare. Vi hanno partecipato circa 100 detenuti in media sicurezza, scelti proprio tra coloro che sono in difficoltà perché privi di sostegno dall’esterno. Molti quelli che hanno contribuito a rendere unica la giornata ai cento “invitati”: dagli agenti di polizia penitenziaria a quanti, come i diversi ristoratori della zona, hanno allestito il menu. I detenuti hanno potuto assaporare un momento di calore umano e di libertà pranzando assieme. Tutto questo ha fatto bene a chi vive giornate sempre uguali. Ma ha fatto bene soprattutto a coloro che hanno organizzato l’iniziativa. Chi commette crimini deve essere punito e si spera che il carcere possa servire alla “rieducazione”, come richiede la nostra Costituzione. Nel frattempo un po’ di umanità, proprio nei confronti di chi ha usato violenza e sopraffazione, serve più delle sbarre. Bologna: al Teatro Arena del Sole in scena i giovani detenuti del carcere Pratello Nova, 4 gennaio 2018 Dal 6 al 10 gennaio, all'Arena del Sole di Bologna, andrà in scena lo spettacolo “Mère Ubu - impresaria di teatro carcere”, realizzato con i giovani detenuti dell'Istituto penale minorile del Pratello. La rappresentazione teatrale rientra nel progetto annuale “Le Patafisiche 2017”, che vede sei carceri sul territorio regionale coinvolte in progetti su una stessa tematica: le patafisiche e l'opera di Alfred Jarry. Lo spettacolo è la conclusione di una serie di laboratori di teatro e di scenografia, realizzati da settembre a dicembre. All'interno dell'Istituto penale minorile del Pratello è stato realizzato il video di scena, un elemento fondamentale della scenografia. “Nello spettacolo la figura femminile creata da Alfred Jarry decide, dopo essere stata in prigione per 30 anni - ha spiegato il regista Paolo Billi, di lanciarsi nel business del teatro carcere”. Al progetto hanno partecipato “12 ragazzi detenuti, poi scesi a otto, e nove sottoposti ad altre misure, che alla fine si sono ridotti a cinque”, spiega Paola Ziccone del centro Giustizia minorile per l'Emilia-Romagna e le Marche. Foggia: nasi rossi e camici colorati in carcere, iniziativa di Dottor Clown e Csv statoquotidiano.it, 4 gennaio 2018 Jole Figurella: “Siamo felici ed emozionati di essere qui. Speriamo di poter regalare in questa giornata qualche sorriso in più”. L’allegria incontenibile dei clown dottori de Il Cuore Foggia ha colorato anche le pareti del teatro della Casa Circondariale. Sedici nasi rossi, con i loro camici colorati, il 3 gennaio hanno invaso il carcere foggiano per animare un pomeriggio speciale, con il coinvolgimento di 12 detenuti del “Nuovo complesso” e delle loro famiglie. Per oltre un’ora hanno danzato, cantato e coinvolto grandi e piccini, dai 2 ai 10 anni, in giochi e attività divertenti. Il pomeriggio si aperto, insieme con il sipario, sulle note di Jingle Bells. In sottofondo, il battito di mani e le risate dei bambini che hanno potuto conoscere, uno per uno, i clown dottori e la loro mascotte, “Biscottone”, che ha distribuito palloncini e caramelle. “Siamo felici ed emozionati di essere qui - ha spiegato la mamma clown e presidente dell’associazione, Jole Figurella - speriamo di poter regalare in questo pomeriggio qualche sorriso in più”. Entusiasti i detenuti, che hanno potuto stringere per tutto il tempo i propri bambini, ascoltarli recitare poesie di Natale e guardarli esibirsi in balletti e giochi insieme ai clown dottori. Un legame che non conosce barriere - “L’obiettivo dell’idea progettuale è stato quello di favorire tra i detenuti e i loro bambini una forma di rieducazione affettiva e sviluppare la genitorialità talvolta assopita, a causa delle lunghe separazioni tra padri e figli - spiegano i responsabili dell’associazione - Il clown dottore diventa uno strumento per sdrammatizzare i vissuti, perché la forza del naso rosso è rompere ogni tipo di schema e scardinare le convinzioni sociali”. L’inserimento dei clown dottori all’interno degli Istituti Penitenziari, infatti, ha lo scopo di portare un effettivo supporto ai soggetti detenuti, che vivono in primis situazioni di solitudine familiare. Ciascun clown ha portato con sé competenze artistiche e di gioco, ma anche professionali, come la conoscenza sociale e pedagogica degli adulti detenuti e dei minori. Il ruolo del Csv Foggia - L’iniziativa de Il Cuore è stata organizzata in collaborazione con il Csv Foggia, nell’ambito dell’Avviso “Iniziative di Solidarietà in Carcere - Natale 2017”, pensato proprio per alleggerire un periodo in cui la lontananza dagli affetti si fa più pesante per la popolazione detenuta. “Fine dell’Avviso, pubblicato con il sostegno della Fondazione dei Monti Uniti di Foggia - spiegano dal Centro Servizi al Volontariato - è stato quello di promuovere l’impegno delle associazioni di volontariato all’interno del carcere, al fine di contribuire alla finalità rieducativa dell’esecuzione della pena. L’idea è stata quella di fornire, attraverso il volontariato, un supporto concreto ai detenuti che trascorrono le festività natalizie in carcere, con particolare attenzione ai ristretti con scarsi riferimenti familiari e affettivi, tali da determinare una condizione di maggior solitudine o che versano in stato di profonda indigenza”. Nell’Istituto foggiano è stato finanziato anche un progetto all’Arci Solidarietà, che ha visto l’istituzione un fondo solidale. Le risorse economiche sono state depositate su un conto corrente dedicato dell’associazione che lo verserà al Carcere. Dal conto dedicato presso l’Ufficio Ragioneria della Casa Circondariale saranno movimentate, di volta in volta, le somme da destinare ai detenuti, con il consenso delle autorità carcerarie. Nel Carcere di San Severo, invece, sono stati realizzati progetti natalizi delle associazioni Superamento Handicap e Fidas Dauna; nell’Istituto di Lucera, un’attività dell’Ass. Lavori in Corso. Migranti. LasciateCIEntrare: “gravi carenze nei Centri di accoglienza per minori” laltrocorriere.it, 4 gennaio 2018 L'appello della Campagna LasciateCIEntrare riguarda, in particolare, alcune strutture per migranti presenti nel Vibonese: “In alcuni casi mancano acqua calda e riscaldamenti. Sindaci e prefetto garantiscano la tutela dei diritti”. Interviene anche il Garante per l'infanzia. Sono all’incirca 14mila i minori non accompagnati sbarcati in Italia dall’inizio del 2017 ad oggi. Spesso partono senza i genitori. Talvolta li perdono durante il viaggio. Molti quelli che arrivano dopo aver visto morire padri e madri, massacrati nei lager libici o affogati in fondo al Mediterraneo. Portano impressi sulla pelle e nella mente i segni delle violenze subìte durante il viaggio. “Tristi testimoni, assieme alle donne, di una pratica sempre più in auge nelle carceri libiche: lo stupro! Parcheggiati, il più delle volte e per un tempo indeterminato, all’interno di centri di accoglienza inadeguati e insicuri. Piccoli uomini e donne cresciuti in fretta all’interno di una società distratta che affoga in un mare di indifferenza e di ipocrisia. In barba a leggi, a trattati e a convenzioni internazionali!”. È quanto si legge in un documento redatto e diffuso dagli attivisti della Campagna LasciateCIEntrare, che aggiungono che un numero considerevole dei minori accolti all’interno dei centri di accoglienza, scappano dalle strutture. “Altri rimangono ma rientrano solo per dormire. A testimonianza di un sistema di accoglienza assolutamente inadeguato e inefficiente che delega le vite dei minori nelle mani di cooperative improvvisate e di attori sociali di dubbia integrità. In molte occasioni - si legge ancora nel documento - li abbiamo incontrati, abbiamo parlato con loro, ci siamo vergognati della nostra impossibilità di offrire loro risposte rassicuranti. Dimenticati dallo stato e dalla società, mentre chi sarebbe deputato a occuparsene fa business sulla loro pelle”. Secondo LasciateCIEntrare nei centri di accoglienza si registrano gravi carenze: “Mancanza di acqua calda e di riscaldamenti, nonostante le temperature rigide di alcuni periodi dell’anno; ritardi o mancate erogazioni del pocket-money; abusi e soprusi da parte di operatori; vestiti inadeguati per il periodo (alcuni portano addosso ancora i vestiti che indossavano al momento dello sbarco); cibo di scarsa qualità; mancata nomina del tutore”. “Senza considerare - proseguono gli attivisti - le misure di tutela psicologica completamente assenti nei confronti di bambini che hanno affrontato e che si trovano ad affrontare tutta una serie di sfide: l’angoscia della fuga, i pericoli, i lutti e le paure provate durante il viaggio, le torture e gli stupri, le sfide di adattamento che li aspettano al momento dell’arrivo in Italia e, ancora, gli ulteriori abusi ai quali possono essere sottoposti”. A destare “molti timori” nella Campagna LasciateCIEntrare sono dunque le segnalazioni che arrivano da alcuni centri di accoglienza vibonesi per minori stranieri non accompagnati: “A Brognaturo così come a Mongiana, a Joppolo così come a Filadelfia e a Bivona. Chiediamo dunque, con forza, ai sindaci dei comuni interessati, al presidente della Regione Calabria, al Prefetto, al Garante per i Diritti dei Minori, di voler predisporre ogni opportuna azione al fine di garantire ai minori presenti nei suddetti centri l’effettivo esercizio dei diritti di cui sono titolari ed evitare l’adozione di provvedimenti che possono essere gravemente lesivi di tali diritti, consapevoli tutti che disinteresse e indifferenza non sono crimini meno deplorevoli della violenza che già ha sconvolto le loro fragili vite”. Le verifiche del Garante - “A fronte di tale denuncia - dichiara il Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza della Regione Calabria, Antonio Marziale in merito alle segnalazioni rese note dalla Campagna LasciateCIEntrare - ho immediatamente intrapreso un percorso di verifica affidando al coordinatore della mia Consulta sui Msna, Maurizio Alfano, il compito di affiancarmi in questa azione e, al tempo stesso, ho attivato un confronto con la prefettura di Vibo Valentia considerato che le denunce non sono di poco conto, soprattutto laddove si parla di abusi e soprusi da parte di operatori. È mia intenzione inoltre chiedere ai prefetti delle cinque provincie calabresi - conclude il Garante - una mappatura esatta dei centri dislocati su tutto il territorio e del numero degli ospitati”. Migranti e salute: basta bufale, ecco tutto quello che bisogna sapere di Cristina Da Rold L'Espresso, 4 gennaio 2018 Sull'onda lunga delle centinaia di commenti da parte dei nostri lettori, abbiamo selezionato le vostre domande più frequenti e abbiamo chiesto alla dottoressa Pier Angela Napoli della ASL Roma 2 di rispondere punto per punto. La salute dei migranti che arrivano nel nostro paese è uno degli esempi oggi più eclatanti di quello che Claire Wardle e Hossein Derakhshan, in un recentissimo rapporto pubblicato dal Consiglio d'Europa, chiamano Information disorder, come termine sostitutivo rispetto all'abusato “Fake News”. Lo è per due ordini di motivi: anzitutto perché l'accoglienza nei confronti dei migranti, è percepita da molti come una minaccia del proprio status quo, generando paura e quindi odio; secondo, perché la medicina, e più in generale la scienza, usa un linguaggio spesso complesso, la cui padronanza richiede anni di studio, dal momento che i fenomeni che spiega sono essi stessi complessi. La conseguenza in questo caso è che risulta difficile comunicare i dati in maniera efficace, per quanto pubblici e facilmente accessibili e verificabili. Eppure questi dati sulla non-minaccia che i migranti rappresentano per la nostra salute pubblica ci sono e parlano chiaro: primo, i migranti non ci stanno portando malattie infettive. Le persone che sbarcano sono sane, se non qualche episodio di scabbia e poco altro, ma solo molto vulnerabili, specie se finiscono per vivere in condizioni di povertà e di non inclusione sociale. Secondo, il sistema di sorveglianza sanitaria nel nostro paese è solido. Chi sbarca, ma anche chi vive nei centri di accoglienza di diverso tipo, è comunque controllato ed eventualmente curato. Abbiamo in più di un'occasione provato a fare il punto, dati alla mano e facendoci aiutare da esperti in salute pubblica che si occupano di salute dei migranti in arrivo e in transito, ma dai commenti che abbiamo ricevuto è evidente che non siamo riusciti a essere sempre efficaci nel raccontare come stanno le cose. Fermo restando che quello che ci preme è fare informazione, abbiamo dunque deciso di estrapolare le domande più frequenti da parte dei commentatori de L'Espresso e abbiamo chiesto di rispondere in modo chiaro a ognuna di esse a una persona che si occupa ogni giorno di migranti e della loro salute a Roma, la Dottoressa Pier Angela Napoli, Direttore UOC Tutela degli Immigrati e Stranieri della ASL Roma 2. Perché il personale adibito al loro primo contatto porta scafandri bianchi e maschere da scenario di guerra batteriologica? In molti casi si tratta di immagini di repertorio trasmesse dai telegiornali senza alcun collegamento con situazioni di effettivo rischio infettivologico. Per quanto riguarda i migranti che sbarcano, i dati diffusi dalla Marina militare in accordo con i dati della sorveglianza sindromica dell’ISS non hanno registrato situazioni reali di allarme, in quanto risultano assenti casi di gravi patologie infettive trasmissibili. Ci possono essere situazioni che richiedono l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale da parte degli operatori impegnati in attività di assistenza e soccorso, ma questo rientra tra le normali misure di tutela in ambiente di lavoro previste dalla normativa italiana in presenza di rischi biologici (ai sensi del Decreto 81/2008 e ss.mm.). Il mio medico di base, il cui ambulatorio è ubicato in un quartiere dove la percentuale di extracomunitari e in particolare africani è altissima, afferma che la maggior parte di questi ultimi non è vaccinata e che da qualche tempo si assiste alla ricomparsa di malattie un tempo da noi debellate. Come la mettete? Gli stranieri arrivano in Italia sani, perché chi è malato non riesce ad affrontare il viaggio né ha la forza di investire in un progetto migratorio che si nutre essenzialmente di buona salute e attitudine al lavoro. A conferma di ciò, si registra a tutt’oggi una bassissima prevalenza delle patologie infettive di importazione, oltretutto con rischi minimi di trasmissione alla popolazione ospite, in assenza di vettori o comunque di condizioni favorenti il contagio. Anche i dati del sistema di sorveglianza sindromica dell’ISS non hanno evidenziato, in questi anni, alcuna situazione di reale emergenza sanitaria, nemmeno tra i profughi e i richiedenti asilo che sbarcano sulle nostre coste e che soggiornano nei centri di accoglienza distribuiti sul territorio nazionale. Diverse indagini pubblicate dall’Istat e gli indicatori del Rapporto Osservasalute ci consegnano l’immagine di una popolazione “normale”, del tutto estranea agli esotismi sanitari, solo più esposta alle insidie della marginalità. I controlli ci saranno anche ma quelli che sbarcano senza essere neppure fermati non sono fantasmi. Oltretutto vivono in città e nei parchi in condizioni di igiene inammissibili sia italiani che extracomunitari. I migranti che si vedono per le strade a fare niente tutto il giorno, quelli come li controllate? Nella nostra esperienza, accade talvolta di dover assistere persone che si trovano in situazioni di estremo bisogno, a tal punto da non riuscire nemmeno a raggiungere i servizi sanitari. E in questi casi, un approccio di offerta proattiva mediante impiego di unità mobili si rivela altamente efficace nell’ottenere significativi impatti sulla salute. A tale riguardo, particolarmente significativa è stata l’esperienza condotta dalla mia ASL, in stretta collaborazione con l’INMP (Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti ed il contrasto delle malattie della Povertà), la Croce Rossa e altre associazioni del privato sociale, sul fronte dell’assistenza alle popolazioni migranti in transito. A seguito degli sbarchi, si è registrato negli ultimi anni a Roma un aumento di migranti in transito (anche solo per pochi giorni) nel nostro Paese, molti dei quali intenzionati a richiedere asilo in altri Stati UE e diretti verso il Nord Europa. Per tale ragione, è stato sviluppato un piano di intervento, attraverso un importante lavoro di rete, che ha previsto l’invio di équipe sociosanitarie composte da medici, infermieri e mediatori culturali, per offrire attivamente visite, medicazioni, fornitura di farmaci, oltre che beni di prima necessità, direttamente nei luoghi di aggregazione spontanea. Nel biennio 2014-2015, sono stati visitati circa 12 mila persone, in prevalenza maschi (88%) e giovani (età media 22 anni), provenienti da Eritrea e Somalia. Sono state riscontrate maggiormente patologie dermatologiche non gravi e facilmente curabili (soprattutto scabbia e foruncolosi), comuni infezioni delle prime vie aeree e sindromi influenzali. Inoltre, nel 2014 sono stati segnalati 21 casi di malattie infettive sistemiche (pari allo 0,5% della casistica totale). Per quanto riguarda la tubercolosi polmonare, nessun caso è stato registrato nel 2014, e 2 soli casi nel 2015. Esperienze analoghe sono state realizzate anche in altre città, ad es. a nel biennio 2013-14 dal Comune di Milano, in collaborazione con la ASL e diverse organizzazioni del privato sociale (City Angels, Save the Children, Naga, Medici Volontari Italiani, Opera San Francesco, GrIS Lombardia). E la tubercolosi? Erano 70 anni che in Italia era stata debellata, oggi si ripresenta! La tubercolosi è una malattia che in Italia era quasi scomparsa, grazie al miglioramento delle condizioni di vita, e che oggi ritorna con l’aumento diffuso della povertà. In questo senso, si può dire che la tubercolosi è una malattia infettiva solo a metà, in quanto il germe attecchisce più facilmente se trova condizioni di precarietà abitativa, scarsa igiene e malnutrizione. Peraltro, i dati epidemiologici resi pubblici da Ministero della salute rivelano che l’incidenza della tubercolosi negli ultimi anni è in calo, anche tra gli immigrati: dal 2006 al 2016 i tassi si sono quasi dimezzati, passando da 84 a 45 su 100.000 stranieri residenti (Ministero della salute - dati Osserva Salute in press). Questo vuol dire che non siamo di fronte a un’epidemia montante e che i sistemi di sorveglianza sanitaria e di presa in carico attivi nel nostro Paese si dimostrano in grado di controllare il fenomeno. Inoltre, nello stesso periodo, non si è registrato a carico degli italiani alcun aumento dei casi di tubercolosi. Ma se l'africa è piena di malati di AIDS come facciamo a pensare che queste persone arrivino sane qua? Se si considerano i casi di AIDS relativi a stranieri residenti in Italia, si osserva che, dopo un primo aumento dei livelli di malattia dal 1992 al 1995, si è passati da 58 casi su 100.000 stranieri (in particolare maschi, più colpiti rispetto alle donne) a 7 nel 2016. Tale inversione di tendenza si deve essenzialmente a due ragioni concomitanti: da una parte, l’arrivo delle terapie efficaci e, dall’altra, la possibilità per gli immigrati di usufruirne, grazie a una normativa che permette anche agli irregolari di accedere ai servizi. La disponibilità di cura è in grado di arrestare la progressione dalla sieropositività alla malattia conclamata, ma riduce anche la diffusione dell’infezione, in quanto i pazienti trattati hanno una carica virale più bassa. Si sottolinea comunque la necessità di mantenere alto il livello di attenzione e di utilizzare le misure di prevenzione e protezione individuale. Ho portato mia figlia con un piccolo taglio da suturare al pronto soccorso di un notissimo ospedale romano. Ero incinta e mi hanno detto: lei qui non può stare, abbiamo un immigrato con l'ebola che gira nel reparto. Però se vuole ci lasci la bambina. Surreale, a dir poco. Come la mettiamo? Il rischio Ebola nel nostro Paese è difficilmente ricollegabile all’immigrazione: il breve tempo di incubazione (mediamente 8-10 giorni) fa sì che l’infezione, qualora presente, si manifesti piuttosto precocemente e con ogni probabilità prima dell’arrivo in Italia. Questo anche in considerazione del fatto che molti migranti sbarcano in Italia dopo aver affrontato lunghi viaggi, attraverso Paesi attualmente non toccati dall’epidemia. In ogni caso, le misure di sorveglianza sanitaria predisposte dal Ministero della Salute hanno la funzione di controllare e gestire al meglio il rischio di diffusione della malattia sul territorio nazionale. In Italia abbiamo sempre avuto le zanzare e ci abbiamo convissuto tranquillamente, mentre oggi è diverso! E poi Chikungunya non mi sembra un nome italiano...chi volete che l'abbia portata? In Italia, la prima epidemia si è verificata nel 2007 in Emilia Romagna, e adesso (a distanza di dieci anni) si sono registrati nuovi casi nel Lazio. È una malattia legata ai viaggi e non in maniera specifica alla migrazione anche per il breve periodo di tempo (circa 7 giorni) durante il quale un malato può infettare la zanzara (che a sua volta potrebbe trasmettere l’infezione ad una persona sana). Altre considerazioni sono il numero limitato di casi di Chikungunya importati, la non severità del quadro clinico, l’assenza di epidemie tra i migranti. Infine, è una malattia che si contrasta efficacemente con le precauzioni generali per difendersi dalle punture di zanzara, unitamente a un’efficace disinfestazione ambientale. Perché noi ci dobbiamo vaccinare contro queste malattie quando andiamo nei loro paesi? Quando si visitano Paesi in cui sono presenti, in forma endemica, malattie infettive prevenibili con vaccino, è opportuno (in alcuni casi, come la febbre gialla, è un requisito per ottenere il visto d’ingresso) vaccinarsi per evitare di contrarle. Esistono protocolli internazionali da seguire in relazioni ai paesi visitati, e servizi di medicina dei viaggi presso le ASL cui rivolgersi per avere informazioni ed essere vaccinati. Andatelo a dire ai genitori della bimba morta di malaria! La malaria è una malattia in larga misura importata in Italia con il turismo, e non si diffonde in Italia per assenza di vettori. Si possono verificare dei casi isolati, non direttamente ricollegabili a viaggi in Paesi endemici, per i quali le indagini epidemiologiche non siano riuscite a identificare con certezza la fonte d’infezione; in queste rare situazioni (se ne sono contate poche unità negli ultimi 5 anni), vengono formulate diverse ipotesi collegate all’arrivo accidentale della zanzara infetta (all’interno di bagagli), spesso in prossimità di aeroporti, o all’acquisizione attraverso mezzi artificiali (trasfusioni, trapianti, contaminazioni nosocomiali). Si tratta di una malattia curabile e da cui si guarisce nella stragrande maggioranza dei casi. È importante porre tempestivamente il sospetto diagnostico, in presenza di sintomatologia tipica. A tale riguardo, le ultime linee guida elaborate dall’INMP, dall’ISS e dalla SIMM, sui controlli sanitari da effettuare nei confronti dei migranti allo sbarco o presso i centri di accoglienza, raccomandano la ricerca attiva di segni e/o sintomi suggestivi di malaria (in particolare febbre) in persone che riferiscono di aver vissuto o viaggiato in aree a endemia malarica. Questo, al fine di attuare una sorveglianza sanitaria in grado di intercettare efficacemente i casi e curarli efficacemente. Perché dovremmo fidarci di quello che ci racconta l'istituto superiore di sanità e dei vostri dati? Dobbiamo fidarci, perché si tratta di flussi informativi consolidati e gestiti da istituzioni sanitarie pubbliche che agiscono secondo modalità trasparenti, all’interno di sistemi di raccolta con obbligo di notifica delle malattie infettive da parte di tutti i medici del Servizio sanitario nazionale. Cannabis terapeutica, le scorte sono esaurite. Cento chili dall’estero di Nadia Ferrigo La Stampa, 4 gennaio 2018 L’appello dei malati: “Costretti a rivolgerci al mercato nero”. Possibile che l’erba del vicino sia sempre più verde? Mentre il ministero della Difesa pubblica un bando per acquistare all’estero 100 chili di cannabis terapeutica per una spesa di circa 600 mila euro, i pazienti costretti a sospendere le terapie scrivono lettere di diffida indirizzate a ministero della Salute e Asl. “I pazienti pur di non interrompere le cure sono costretti a ricorrere al mercato nero e all’auto-coltivazione. Da troppo tempo con la mancata erogazione di farmaci regolarmente prescritti viene calpestato il diritto alla salute di persone con gravi patologie”, denuncia nella campagna “Non me la spacci giusta” la Cild, coalizione di Ong che si occupano di diritti umani come le associazioni Antigone e Luca Coscioni. Ancora non sono disponibili dati e statistiche sulle prescrizioni italiane di cannabis a uso terapeutico, ma a testimoniare il vertiginoso aumento della domanda sono le previsioni della Direzione dei dispositivi medici e del servizio farmaceutico del ministero della Salute. Negli ultimi tre anni l’aumento del fabbisogno nazionale è stato di 100 chili l’anno, con una previsione di 350 chili per il 2017 e 500 per il 2018. La produzione della Fm2, varietà coltivata dallo Stato, che al momento è l’unico ad avere un’autorizzazione, non basta per soddisfare le richieste dei pazienti. Anche l’alternativa olandese - i farmaci prodotti dalla Bedrocan, assai più costosi della varietà made in Italy - si è esaurita troppo in fretta: l’Office of Medicinal Cannabis del ministero della Salute olandese ha detto di non poter aumentare l’esportazione oltre i 250 chili. I conti non tornano, le prescrizioni aumentano e le medicine non bastano per tutti. Anche se sono stati assegnati all’Istituto fiorentino un milione e 600 mila euro per le nuove coltivazioni, non sono sufficienti per stare dietro al fabbisogno nazionale. In ogni caso alle piantine bisogna pur dare il tempo di crescere, un lusso che chi è malato di cancro, sclerosi multipla oppure Sla non si può permettere. Federcanapa, associazione che dal 2016 tutela gli interessi dei coltivatori italiani di canapa, ha scritto al ministero guidato da Beatrice Lorenzin confermando piena disponibilità e volontà di coltivare la cannabis terapeutica nei campi italiani. L’Italia infatti ha una lunga tradizione di coltivazione della canapa - negli Anni Quaranta era la prima produttrice al mondo - e alcune varietà eccellenti, come la piemontese Carmagnola. Manca però un quadro normativo. Nella nuova legge, approvata lo scorso ottobre dalla Camera, ma non in Senato e quindi destinata all’oblio fino alla prossima legislatura, è prevista la possibilità di individuare “uno o più enti e imprese da autorizzare alla coltivazione nonché alla trasformazione di cannabis a uso terapeutico”, ma non c’è alcun accenno a come e quando saranno autorizzati. A rispondere al bando del ministero della Difesa sono state due aziende: la tedesca Spektrum Cannabis, subito esclusa dalla gara per una irregolarità nella presentazione della domanda, e la Pedanios GmbH, al momento unica in gara, sussidiaria tedesca della canadese Aurora Cannabis. Non stupisce che a rispondere all’appello siano due tedesche: la Germania ha autorizzato le prescrizioni a uso medico a marzo di quest’anno - l’uso ricreativo della cannabis è illegale - assegnando ai privati dieci licenze di produzione. Mentre l’Italia rinuncia al ruolo da produttore per relegarsi a quello di cliente. L’Iran, il terrorismo e i numeri in calo di Danilo Taino Corriere della Sera, 4 gennaio 2018 Secondo i dati del Dipartimento di Stato Usa, pubblicati dal portale Statista.com, nel 2016 ci sono stati 11.072 atti di terrorismo a livello globale. In calo rispetto ai 13.482 del 2014. Nel rapporto annuale sul terrorismo internazionale del giugno scorso, il Dipartimento di Stato americano ha scritto che “l’Iran è rimasto il maggiore Stato sponsor del terrorismo nel 2016”. Con ogni probabilità, l’affermazione, che Washington ripete da anni, rimarrà anche nel rapporto che riguarda il 2017. La repressione interna, in azione in questi giorni in Iran, è insomma portata avanti in parallelo a operazioni internazionali di destabilizzazione, soprattutto in Medio Oriente. I casi più terribili e conosciuti di terrorismo degli anni scorsi sono stati compiuti dall’Isis (che è considerata un attore non statuale). Il numero di attacchi nel mondo è però stato sempre elevato anche prima della nascita dell’Isis e poi durante il declino dell’organizzazione guidata da al-Baghdadi, che alla fine del 2016 aveva già perso più del 60% del territorio in Iraq, il 30% in Siria, il 100% in Libia e nel 2017 è stata sconfitta ovunque. Secondo i dati del Dipartimento di Stato, pubblicati dal portale Statista.com, nel 2016 ci sono stati 11.072 atti di terrorismo a livello globale. In calo rispetto ai 13.482 del 2014. Già tra il 2006 e il 2011, quando l’Isis non era attivo, il numero di attentati era stato elevatissimo, sopra i diecimila all’anno con un record di 14.414 nel 2007. Poi si era registrato un calo, a 6.771 nel 2012, seguito da una risalita con l’arrivo sulla scena dello Stato Islamico. Il numero di morti da terrorismo ha raggiunto un picco nel 2014, a 32.763, per poi scendere a 29.424 nel 2015 e a 25.621 nel 2016. Il Paese di gran lunga più colpito è l’Iraq, 2.965 attentati nel 2016, seguito da Afghanistan (1.340), India (927), Pakistan (734), Filippine (482). Gran parte delle vittime degli scorsi anni sono dovute ad attentati di Isis e Al-Qaeda, organizzazioni non statuali. Un ruolo rilevante nel sostenere altre organizzazioni terroristiche l’ha però giocato Teheran, secondo le autorità americane. “I corpi della Guardia Rivoluzionaria Islamica iraniana, assieme a partner, alleati e organizzazioni collegate, hanno continuato a giocare un ruolo destabilizzante nei conflitti militari in Iraq, Siria e Yemen”, dice il rapporto del Dipartimento di Stato: attraverso il reclutamento di fighters per le milizie sciite e in collaborazione “stretta” con Hezbollah. È anche contro queste attività internazionali di sostegno al terrorismo che si stanno mobilitando molti iraniani. Iran. Narcos, giornalisti, oppositori: cappio per tutti di Andrea Valdambrini Il Fatto Quotidiano, 4 gennaio 2018 Fra i reati che costano la vita la “guerra contro Dio” e “spargere corruzione sulla terra”. È l’Iran il primo Paese in tutto il Medio Oriente per numero di esecuzioni capitali. Il rapporto Amnesty 2017 (riferito a dati del 2016) ne registrava almeno 576, la maggior parte delle quali per reati legati al traffico di stupefacenti. Teheran si attesta al secondo posto nel mondo dopo la Cina - dove il numero stimato di oltre 1000 esecuzioni all’anno è probabilmente approssimato per difetto - e prima dell’Arabia Saudita, dove la pena capitale è stata inflitta più di 150 volte. Secondo dati forniti da Iran Human Rights, nei primi sei mesi del 2017 sono state eseguite 260 condanne a morte, mentre il 2015 aveva registrato il record di 940 esecuzioni. Per quali reati viene applicata la pena capitale nella Repubblica islamica? Oltre il 60% delle esecuzioni è legato al traffico di droga. Segue per numero di esecuzioni il reato di omicidio. Puniti con la stessa moneta anche due crimini che hanno implicazioni politiche. Uno è quello definito in farsi moharebh, alla lettera “guerra contro Dio”, che si applica a oppositori politici o a minoranze etniche come i curdi. Il secondo è definito “spargere corruzione sulla terra”, spesso dedicato a figure come attivisti, giornalisti, avvocati. O ad accademici come Ahmad Djalali, ricercatore iraniano condannato a morte nel 2016 con l’accusa di essere una spia dei servizi segreti israeliani e detenuto nel famigerato carcere di Ervin. “Un caso gravissimo, anche se non isolato, che getta ombre sulla libertà di ricerca scientifica”, sottolinea Eleonora Mongelli, vicepresidente della Federazione italiana per il Diritti Umani (Fidu). Secondo Djalali l’accusa di spionaggio rappresenta una ritorsione per non aver voluto collaborare con il governo di Teheran, a cui in qualità di ricercatore in medicina dei disastri, avrebbe potuto fornire preziose informazioni. Almeno sulle esecuzioni per droga si è aperto uno spiraglio: nel novembre 2017 il parlamento ha approvato un emendamento che limita la pena di morte per i reati legati a traffico e consumo di stupefacenti, con la speranza di commutare la pena per i circa 5.000 detenuti nel braccio della morte. Una piccola vittoria dell’avvocatessa Narges Mohammadi, collaboratrice della premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi e membro di Legam, associazione abolizionista messa fuori legge da Teheran. Mohammadi ha però pagato a caro prezzo il suo impegno, dato che si trova in carcere con una condanna a 16 anni, dieci dei quali per aver difeso prigionieri curdi accusati di attentare alla sicurezza del Paese. “Nella società iraniana la cultura della pena di morte è ampiamente diffusa. Molte esecuzioni vengono fatte in pubblico e perfino i bambini vi assistono”, osserva la presidente della sezione italiana di Iran Human Rights, Cristina Annunziata. Una preoccupazione condivisa dal portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury: “La pena di morte rappresenta una costante violazione dei diritti fondamentali. Anche i bambini subiscono la pena capitale, senza contare che le esecuzioni pubbliche sono all’ordine del giorno”. La libertà di espressione è limitata, tanto che l’Iran rimane ai primi posti nel mondo per numero di giornalisti detenuti. “Con centinaia di arresti in questi giorni, c’è anche preoccupazione riguardo alle condizioni carcerarie - continua il portavoce di Amnesty - c’è il rischio che i manifestanti arrestati vengano torturati e persino condannati a morte”. Iraq. I patiboli (invisibili) e il silenzio dell’Occidente di Paolo Mieli Corriere della Sera, 4 gennaio 2018 Il regime di Bagdad ha festeggiato la sconfitta dell’Isis, dopo una guerra sfibrante, riapplicandosi alle esecuzioni capitali di “terroristi”, soprattutto sunniti. Noi occidentali dovremmo imparare ad analizzare meglio le conseguenze della fine di un conflitto. Soprattutto a sorvegliare che non vengano commesse ingiustizie: in particolare laddove ci consideriamo vincitori, o, quantomeno, nei posti in cui le cose, sotto il profilo militare, sono andate come era nei nostri auspici. E invece… Il 2017 è stato l’anno del tracollo dell’Isis, per fronteggiare il quale ci eravamo alleati con entità abbastanza virtuose (i curdi) ed altre meno raccomandabili, come il regime di Bagdad. Regime del quale, adesso che “abbiamo vinto”, non dovremmo mai perdere d’occhio la gestione del dopoguerra, quantomeno in tema di amministrazione della giustizia. O, per essere più precisi, della somministrazione di sentenze capitali. Non è questa la sede per riproporre la totale ripulsa, ovunque in ogni parte del mondo, di quel genere di pena. Qui ci limitiamo ad alcune considerazioni su come essa viene applicata in Iraq. Con una premessa: nel 2013, l’anno che precedette la nascita di Daesh, gli iracheni mandati al patibolo furono 169, tra i record dell’orbe terracqueo. Con l’aggravante che quella pena era utilizzata soprattutto su presunti rei d’osservanza sunnita. Nel marzo di quell’anno, il viceministro della Giustizia Busho Ibrahim annunciò di aver mandato alla forca venti “oppositori” e la ministra degli Esteri europea, Catherine Ashton, levò il suo grido di dolore contro quella rivelazione dicendosene “profondamente rammaricata”. A fine 2013 Amnesty International certificò che l’incremento di sentenze capitali in Iraq, rispetto all’anno precedente, era stato del 30%. Molti di quegli impiccati - dopo processi che lasciavano a desiderare - erano, ripetiamo, sunniti. E nella popolazione sunnita fu questo un argomento fra i più persuasivi che agevolò il reclutamento da parte delle organizzazioni terroristiche. Il 24 giugno 2014 Abu Omar al-Baghdadi proclamò nella moschea di al-Nuri a Mosul la nascita dell’Isis e il califfato si distinse immediatamente con la vendicativa messa a morte di molti “prigionieri” orribilmente decapitati davanti alle telecamere: David Haines, Alan Henning, James Foley, Steven Sotloff, Peter Kassig, Hervé Gourdel, il giapponese Haruna Yukawa, in un crescendo che lasciò senza fiato il mondo intero. Venne, poco dopo, il ritrovamento di una fossa comune, ad Hamam al-Alil, con cento cadaveri decollati. Poi fu la volta delle immagini di un bambino - d’ una decina d’anni, vestito di nero - che “giustiziava” con una calibro 9 due supposte “spie russe”. E successivamente di un altro piccolo - avrà avuto quattro o cinque anni - che pigiando un pulsante faceva saltare in aria un’auto con a bordo tre “condannati”. Gridammo tutti all’orrore: in quei giorni giurammo pubblicamente che, nel caso l’Isis fosse stata sconfitta, avremmo fatto sì che quelle mostruosità non si ripetessero. E facemmo valere la circostanza che nel 2015, anno in cui finalmente ci eravamo impegnati in una lotta senza quartiere contro Daesh, nella retrovia irakena, anche per merito nostro, erano stati punite con la pena di morte “appena” ventisei persone. Sempre troppe, ma decisamente meno numerose di quelle che avevamo dovuto conteggiare tre anni prima. E in numero minore anche di quelle uccise tra il 2014 e il 2015 dagli uomini del califfo. Nel 2017 infine, a prezzo di una guerra sfibrante, l’Isis è stata sconfitta, quantomeno nel suo insediamento territoriale. Sicché il regime di Baghdad è tornato pienamente in possesso della sua sovranità. E come ha festeggiato? Riapplicandosi alle esecuzioni capitali di “terroristi”, prevalentemente sunniti. A fine anno le autorità irachene hanno rivelato che nel corso dell’autunno in soli due giorni (25 settembre e 14 dicembre) ne sono stati fatti fuori un’ottantina, al cospetto del ministro di giustizia Haidar Al-Zamili. Il quale Al-Zamili ha spiegato che le condanne a morte erano state, a novembre, 459 a fronte di 1.490 assoluzioni e in ciò, a suo dire, sarebbe la prova di una giustizia amministrata con equità. Ma l’organizzazione Human Rights Watch ha fatto presente che in alcuni casi i processi sono durati poco più di un’oretta, Amnesty International ha eccepito circa la loro regolarità e il pur contestato Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite guidato dal principe giordano Zeid Raad Zeid al-Hussein ha chiesto l’immediata sospensione delle esecuzioni irachene. In Italia soltanto l’associazione radicale “Nessuno tocchi Caino” ha dato prova di una qualche sensibilità nei confronti di questa orribile carneficina. In Europa non si è levata una sola voce di sdegno: neanche Federica Mogherini ha ritenuto di ricalcare le orme della Ashton. Ricordiamocene quando entrerà in scena una nuova formazione terroristica sunnita: quel giorno dovremo riconoscere che parte della responsabilità va attribuita a noi che, nel momento in cui avremmo dovuto denunciare quegli orrori, ci siamo distratti. E abbiamo fatto finta di non accorgerci dei patiboli di Bagdad. Israele. Pena di morte per i “terroristi”, ma solo palestinesi di Michele Giorgio Il Manifesto, 4 gennaio 2018 La Knesset ha approvato in prima lettura una proposta di legge del ministro della difesa Lieberman che permetterà ai tribunali militari in Cisgiordania di emettere sentenze capitali per i “terroristi”. I coloni ebrei invece sono soggetti alla legge civile israeliana. Primo sì della Knesset, con 52 voti favorevoli e 49 contrari, alla legge proposta dal ministro della difesa Avigdor Lieberman con il pieno sostegno del premier Benyamin Netanyahu che consente ai tribunali militari, che operano solo nei Territori occupati, di decretare la pena di morte per i “terroristi”. La proposta di legge - diretta solo contro i palestinesi poiché i coloni ebrei in Cisgiordania sono soggetti alla legge civile israeliana - emenda le norme attuali che consentono di comminare la pena capitale solo in presenza di una decisione unanime di tutti i giudici che formano una corte militare. Se sarà approvata, per mandare a morte un condannato palestinese basteranno due giudici su tre. Netanyahu la descrive come una “giustizia in situazioni estreme”. Per giustificare la legge, il primo ministro ieri ha ricordato l’uccisione di tre israeliani accoltellati nell’insediamento coloniale di Halamish. L’assassino, secondo Netanyahu, “massacrava” le sue vittime e “rideva”. “Stiamo cambiando la legge per situazioni come queste”, ha aggiunto. L’ordinamento israeliano già prevede la pena di morte per i crimini contro l’umanità e l’alto tradimento. L’ultima sentenza capitale è stata emessa nei confronti di Adolf Eichmann, l’ufficiale nazista impiccato per partecipato allo sterminio degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. L’Etiopia pronta a rilasciare i detenuti politici di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 4 gennaio 2018 Con una mossa a sorpresa il premier Hailemariam Desalegn, insieme con i quattro presidenti dei partiti membri della coalizione di governo etiope, l’Eprdf, ha annunciato il rilascio di tutti i prigionieri politici. La decisione è stata presa contestualmente a quella della chiusura del famigerato carcere di Maèkelawi, che ospita numerosi detenuti politici. Secondo i media etiopi, il premier ha detto che il penitenziario sarà trasformato in un “museo moderno”. Hailemariam ha anche affermato che è stato creato un nuovo centro di detenzione per sostituire Màekelawi sulla base delle linee guida del parlamento nazionale sui diritti umani per il rispetto degli standard internazionali. Non è ancora chiaro però chi e quando sarà rilasciato. Desalegn ha dichiarato che le accuse saranno ritirate anche contro coloro che sono ancora in attesa di processo. Secondo il premier, il provvedimento mira a consentire il dialogo politico. In carcere ci sono gli attivisti dell’opposizione che vengono dalle regioni di Amhara e Oromia, al centro delle proteste antigovernative del 2015 e del 2016 come anche i giornalisti critici verso il governo. Il numero delle persone che potrebbero essere scarcerate è imprecisato: si parla di circa mille persone ma la cifra potrebbe essere molto più alta. L’Etiopia, fedele alleata dell’Occidente, è accusata da diversi gruppi per i diritti umani di condurre arresti di massa per soffocare il dissenso. Amnesty International ha apprezzato la mossa di Hailemariam che “potrebbe segnare la fine della sanguinosa repressione nel Paese” ma ha anche avvertito che la chiusura del carcere di Maèkelawi non dovrà essere usata come un colpo di spugna per cancellare gli eventi orribili che sono avvenuti in quel luogo.