Clemenza collettiva, una proposta al Parlamento di Andrea Pugiotto Il Manifesto, 3 gennaio 2018 Era il 1949 quando Gaetano Salvemini sulle pagine de Il Ponte definiva l’Italia “il paese delle amnistie”. È solo di due anni fa la risposta del vicequestore Rocco Schiavone al direttore del carcere che si lamenta per i troppi detenuti: “Ci sarà un bel indulto e cacceranno fuori un po’ di gente. Come sempre”. Ora come allora. A dimostrazione, si citano dati statistici che farebbero felice Trilussa: solo in età repubblicana, la clemenza di Stato si è tradotta in 24 leggi di amnistia e indulto, una ogni quattro anni. È una doxa falsa ma credibile, per questo diffusa e insidiosa. La realtà, oggi, non è solo diversa ma opposta. Del disegno costituzionale del diritto punitivo, infatti, gli istituti di clemenza rappresentano la parte più negletta, prossima a un’abrogazione di fatto. Dopo l’ampia amnistia di pacificazione concessa nel 1946, è vero che amnistia e indulto sono stati approvati con regolarità quasi ciclica: nel 1948, 1949, 1953, 1959, 1963, 1966, 1970, 1973, 1978, 1980, 1981, 1982, 1983, 1986, 1990, 1992. Da allora però, con l’unica eccezione dell’indulto nel 2006, sono trascorsi tre lustri senza una legge di clemenza: bulimico in passato, è da tempo che il Parlamento mostra una persistente anoressia. È un’eclissi quantitativa senza precedenti nella storia d’Italia, monarchica e repubblicana. È uno dei segni di quell’eccesso di penalizzazione che traccia l’orizzonte del nostro tempo. Non c’è spazio per amnistia e indulto, quando impera il primato della pena esclusivamente retributiva, revival della legge del taglione. Non esiste margine per atti di clemenza, quando la certezza della pena è declinata nel senso (distorto) che la collettività deve essere certa che la pena sarà irrogata ed espiata in tutto il suo rigore. C’è poi un mastice politico che salda tutto e tutti: essere contrari a leggi di clemenza è molto popolare, assicura facile consenso e garantisce dividendi elettorali. Approvarle è perciò un tabù, anche quando sarebbe necessario per interrompere tempestivamente violazioni in atto della Convenzione europea dei diritti: laddove, ad esempio, vieta un sovraffollamento carcerario inumano e degradante o impone una durata ragionevole per i processi. Eppure amnistia e indulto sono istituti “espressamente contemplati dall’articolo 79 della Costituzione, che ne contiene la disciplina. È inconcepibile considerarli, in sé e per sé, incompatibili con la Costituzione” (sentenza n. 171/1963). Piaccia o meno, rientrano tra gli strumenti di politica criminale che la Carta prevede come fusibili di un sistema inceppato, incapace di rispettare la sua stessa legalità. È interesse di tutti rianimarli, restituendoli a nuova vita. Come? Non si tratta di reiterare - inutilmente - la richiesta di una legge di amnistia e indulto. Serve, invece, proporne una rinnovata narrazione che restituisca ad entrambi agibilità, politica e costituzionale. A tal fine, promosso da La Società della Ragione, venerdì 12 gennaio si svolgerà a Roma (Senato, Sala di Santa Maria in Aquiro, ore 9.30) il Seminario “Costituzione e clemenza collettiva. Per un rinnovato statuto dei provvedimenti di amnistia e indulto”. Scopo dell’incontro pubblico è di elaborare una proposta di revisione dell’articolo 79 della Costituzione che, nella sua attuale formulazione, concorre all’oblio degli strumenti di clemenza. Il testo di riforma sarà poi messo nella disponibilità di tutti i parlamentari della prossima Legislatura, facendone mezzo e fine per una battaglia di politica del diritto. Il programma è consultabile su societadellaragione.it, iscrizione gratuita ma obbligatoria entro il 10 gennaio a info@societadellaragione.it. Fate girare. Una telefonata ti allevia la pena di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 3 gennaio 2018 In Francia prevista una linea fissa per ogni cella. Una piccola grande rivoluzione che apre al mondo esterno l’angusto universo carcerario. Una rivoluzione voluta dal presidente Macron e realizzata dalla ministra della Giustizia Nicole Belloubet. Come ha rivelato ieri il quotidiano Le Monde nei prossimi mesi nelle circa 50mila celle disseminate nelle 178 prigioni francesi verranno infatti installati altrettanti telefoni fissi per consentire ai detenuti di comunicare legalmente e 24 ore su 24 con familiari e amici. Il costo dell’operazione verrà finanziato da un’impresa privata scelta dal governo la quale verrà a mano a mano rimborsata dal costo delle telefonate “pagato” dagli stessi detenuti. Il costo sarà del 20% inferiore a quello delle normali tariffe di telefonia fissa. Naturalmente sono previste alcune restrizioni: ogni detenuto dovrà indicare fino a quattro diversi recapiti e le persone con cui entrerà in comunicazione dovranno essere identificate dalle autorità. La decisione non è frutto di un’improvvisata svolta libertaria, ma segue un esperimento realizzato lo scorso anno nell’istituto di pena di Montmédy dove, certifica la ministra, “grazie ai telefoni in cella le tensioni sono nettamente diminuite e il clima all’interno del carcere è diventato decisamente più vivibile”. Un altro benefico effetto riguarda il traffico illegale di telefonini che imperversa nelle carceri d’oltralpe: secondo un rapporto del ministero a Montmédy i sequestri di smart-phone e affini sono diminuiti del 31% in sei mesi. Solo nel 2016 sono stati sequestrati oltre 33mila telefonini e relativi accessori (su 70mila prigionieri condannati o in attesa di processo), un fenomeno che le autorità penitenziarie non riescono minimamente a sradicare e che la principale causa degli incidenti che avvengono all’interno delle case circondariali. Anche i sistemi per perturbare le comunicazioni attivi in diversi istituti non sono in grado di filtrare le telefonate che passano per il 4g, WhatsApp o Viber, mentre una sentenza del 2009 emessa dalla Corte europea per i diritti umani vieta la perquisizione sistematica dei detenuti. “Nelle nostre prigioni esistono già le cabine telefoniche, ma sono concentrate in un unico spazio comune, il personale è costretto ad accompagnare e a sorvegliare i detenuti, tutte operazioni che richiedono tempo, di fatto l’accesso ai telefoni avviene con il contagocce”, spiega Belloubet per poi aggiungere: “Mantenere legami quotidiani con la propria famiglia allevia il senso di isolamento ma soprattutto facilita la reinserzione nella società quando si è estinta la pena”. Carceri, la rivoluzione francese. Telefoni in cella per i detenuti. Ok alle chiamate in 180 prigioni di Francesco Ghidetti Il Giorno, 3 gennaio 2018 La Radicale Bernardini: “si faccia anche qui da noi”. Una cella. Con i detenuti. Che però (e alcuni dicono finalmente) potranno parlare con l’esterno, a certe condizioni, comunicare coi parenti, le mogli o i mariti, le figlie o i figli in condizioni decenti. Stiamo parlando di una nuova rivoluzione francese che dovrebbe avere i suoi primi effetti alla fine dell’anno. Il ministro della Giustizia transalpino Nicole Belloubet ha infatti dato il via libera all’installazione di telefoni nelle celle di tutti i detenuti. Con le dovute eccezioni per condannati particolarmente turbolenti o responsabili di violenze all’interno delle mura carcerarie. Perché questa decisione? Perché un contatto più regolare e più prolungato con le persone care favorisce il reinserimento nella società del condannato. Del resto, il vecchio principio del carcere come luogo non di vendetta bensì di ritorno a nuova vita non cessa (almeno in teoria) di essere uno dei cardini fondamentali della civiltà europea. Qualche numero: più di 50mila celle per circa 180 prigioni saranno attrezzate con apparecchi che permetteranno ai detenuti (già condannati o solo imputati) di chiamare i loro cari. Numeri preventivamente autorizzati dalle autorità. In tal senso, la decisione prende spunto da un esperimento compiuto a partire dal luglio del 2016 nella prigione di Montmédy (Meuse). In questo carcere, alla fine del 2017, ogni detenuto (per un totale di circa 300) poteva chiamare in qualsiasi momento. Di giorno, di notte. E pagando un 20 per cento in meno rispetto alle postazioni collocate nei corridoi. Quattro, in media, i numeri che è possibile chiamare con l’obbligo di identificazione di chi riceve la chiamata. L’obiettivo è dunque di mantenere saldi i legami familiari. Anche perché per i carcerati è sempre stato assai difficile accedere alle postazioni. Spesso non ci sono guardie carcerarie sufficienti ad accompagnare chi vuole telefonare, oppure il tempo a disposizione è troppo poco. E non solo. Sovente le fasce orarie sono inadeguate: corrispondono a quando i figli sono a scuola oppure le mogli o i mariti a lavorare. C’è poi la prevenzione: con le postazioni fisse dovrebbe diminuire il traffico dei cellulari. Una che da sempre, in Italia, si batte affinché le carceri non siano giorni infernali, Rita Bernardini del Partito Radicale nonviolento transnazionale e transpartito, sospira: “Se confermata, sarebbe un’ottima notizia. Anche perché da noi ogni detenuto ha 10 minuti di tempo alla settimana e solo per la famiglia. Con ovvie conseguenze, tipo il continuo sequestro di cellulari. Adesso si spera di ampliare i tempi con la riforma dell’ordinamento penitenziario. Altra storia in Spagna. Ogni detenuto ha una scheda. E può chiamare quando vuole”. Carceri: accordo Dap-Anci per biblioteche in istituti Agenzia Nova, 3 gennaio 2018 In virtù dell’accordo tra il Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap), Associazione italiana biblioteche (Aib) e Associazione nazionale comuni d’Italia (Anci) sarà possibile avere biblioteche in tutte le carceri. Nel protocollo si definisce il ruolo della biblioteca come “centro informativo e di supporto all’apprendimento della comunità penitenziaria e, compatibilmente con il regime detentivo cui sono individualmente sottoposti i soggetti reclusi, garantisce ai propri utenti un accesso ampio e qualificato alla conoscenza, all’informazione e alla cultura, senza distinzione di età, razza, sesso, religione, nazionalità, lingua o condizione sociale”. La relazione tra biblioteca e cultura della legalità è strettissima, per questo leggere non può essere un privilegio riservato a pochi: è un diritto fondamentale della persona ed è un’opportunità da favorire anche nell’interesse collettivo. La presenza in carcere di servizi di pubblica lettura e di bibliotecari specializzati contribuisce a rompere quel senso di isolamento che spesso i detenuti sentono anche dopo aver scontato la pena. È questo il principio per il quale è stato rinnovato fino al 2020 l’accordo per la promozione e la gestione dei servizi di biblioteca negli istituti penitenziari italiani, nato nel 2013, tra Ministero della Giustizia - Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap), Conferenza delle regioni e delle province autonome, Associazione nazionale comuni d’Italia (Anci) e Associazione italiana biblioteche (Aib). Il protocollo, sottoscritto in questi giorni, fornisce un quadro normativo unico a quanti si occupano a vario titolo di biblioteche penitenziarie, così da avere un modello di riferimento applicabile alle diverse realtà territoriali e parte dalle linee guida redatte dall’Ifla (International Federation of Libraries Associations and Istitutions), secondo cui le biblioteche carcerarie “devono emulare il modello della biblioteca pubblica fornendo, in aggiunta, risorse per i programmi educativi e riabilitativi del carcere”. Per le persone in esecuzione di pena il diritto alla lettura e l’accesso all’informazione sono fattori irrinunciabili per contrastare il rischio di marginalità e favorire il reinserimento sociale, come vuole la Costituzione Italiana che sancisce la finalità rieducativa della pena. La presenza di una biblioteca in ogni istituto penitenziario italiano è prevista dall’ordinamento carcerario, i libri e i periodici a disposizione della biblioteca devono garantire “una equilibrata rappresentazione del pluralismo culturale, assicurando ai soggetti in esecuzione di pena un agevole accesso alle pubblicazioni presenti in biblioteca”. In particolare, mediante accordi di collaborazione tra le amministrazioni locali e le direzioni degli istituti penitenziari, si cercherà di favorire “l’accesso al patrimonio librario e multimediale da parte dei detenuti anche attraverso appositi sistemi di consultazione informatizzata del catalogo”, formare professionalmente i detenuti incaricati del servizio; realizzare iniziative culturali quali incontri con l’autore, seminari e dibattiti su specifiche tematiche. Per i detenuti ammessi ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario è prevista anche la possibilità di svolgere tirocini finalizzati all’inserimento occupazionale. Il primo triennio di applicazione del Protocollo ha visto la nascita in varie carceri di nuovi progetti sul territorio nazionale. Cambiare la giustizia penale in poche, facili mosse di Luca Tescaroli Il Fatto Quotidiano, 3 gennaio 2018 Una nuova legislatura si aprirà nell’anno appena iniziato. L’auspicio per la giustizia penale è che si assista a un fattivo impegno da parte della futura compagine governativa e degli operatori del diritto per disegnare un modello processuale capace di far fronte alle esigenze fondamentali del cittadino: accertare la verità, conoscere in tempi ragionevoli (non più di cinque anni una volta iniziato il processo) se un imputato, a prescindere dalla posizione sociale che riveste, sia colpevole o innocente e la certezza dell’espiazione della pena irrogata, che per tendere realmente alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato deve essere espiata in istituti penitenziari adeguatamente attrezzati. Si tratta di elementari pilastri, negli ultimi 25 anni persi di vista, mai concretamente perseguiti, idonei a dimostrare se un processo funzioni, che necessita di regole semplici organicamente concepite fuori dalle logiche emergenziali del momento in codici penali e di procedura penale, che dovrebbero, temo, essere riscritti e approvati in tempi brevi per poter perseguire solo i fatti che compromettono concretamente i valori costituzionali basilari, descritti in modo semplice e chiaro, e per poter razionalizzare le garanzie degli imputati e delle vittime, concentrandole su quelle davvero essenziali. Si potrebbe obiettare che il problema è rappresentato dal come raggiungere tali obiettivi. Solo qualche spunto di riflessione in tal senso. Sono davvero necessari tre gradi di giudizio, come accade oggi? O potrebbero bastarne due diversamente concepiti? Perché non rinunciare alla celebrazione dell’udienza preliminare, che molto spesso comporta inutili perdite di tempo (anche di anni) per traghettare il processo verso scontati dibattimenti? Perché accettare che la vera sanzione sia rappresentata dalla misura cautelare e non si debba invece espiare la pena detentiva in esito alla sentenza di condanna definitiva? Per punire, a titolo esemplificativo, il reato di corruzione non basterebbe una norma che preveda la punibilità del pubblico dipendente o del rappresentante dell’istituzione che percepisce denaro o utilità non dovute? Per rendere certa la pena non sarebbe sufficiente impedire l’operatività di provvedimenti di clemenza, di istituti giuridici vetusti, come ad esempio la prescrizione del reato prima della pronuncia sulla responsabilità, la sospensione condizionale della pena, ovvero prevedere piani di costruzione di carceri idonei ad assicurare adeguati trattamenti penitenziari dei detenuti? Perché non implementare il personale amministrativo, con assunzioni adeguate, che consentano la celebrazione di udienze nell’arco di intere giornate? In questa prospettiva le energie non dovrebbero essere dirottate solo per incidere anacronisticamente sull’apparato organizzativo della magistratura nella prospettiva di attuare la separazione della carriera dei magistrati inquirenti da quella dei giudicanti (come da talune parti autorevolmente si assume anche con proposte di modifica del- la Costituzione vigente) che in nessun modo appare idonea a migliorare il servizio “giustizia” per i cittadini. Un servizio che, in ragione della peculiarità del sistema criminale esistente nel nostro Paese, presuppone: una comune formazione culturale, una identica indipendenza e un’autonomia del pm (al quale sono attribuiti i compiti investigativi) e del giudicante per reprimere efficacemente la criminalità sempre più agguerrita (specie quella organizzata) ed esercitare l’azione penale con provviste probatorie sempre più solide; magistrati sempre più qualificati e dediti alla propria professione in via esclusiva, capaci sin dal momento dell’investigazione di individuare quegli elementi anche a favore dei sospetti e di evitare così inutili processi; l’assenza di poteri esterni alla magistratura che possano influenzare l’esercizio delle funzioni giurisdizionali e l’obbligatorietà dell’azione penale, baluardo irrinunciabile per assicurare l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla Legge. E proprio un “diritto penale minimo”, che selezioni i comportamenti meritevoli della sanzione penale, con un PM potenziato nella sua indipendenza, inserito in uffici meno gerarchizzati di quanto accade oggi, non burocrate e più qualificato, capace di dirigere e coordinare la polizia giudiziaria, consentirebbe di superare le difficoltà e i problemi che si frappongono all’effettiva applicazione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Minori, serve il recupero oltre la prevenzione di Vincenzo Morgera e Giovanni Salomone La Repubblica, 3 gennaio 2018 La nostra preoccupazione, rispetto alle recenti vicende, è che tra qualche giorno, come spesso avviene, passata la bufera mediatica sulla questione minorile e sulla violenza che questa esercita per le strade della nostra città, calerà il sipario e tornerà il silenzio. Questi fatti però devono essere una lezione per tutti. Compresi i media, perché il problema è grande e complesso, è la cartina di tornasole di una infanzia negata che affoga nelle contraddizioni vecchie e nuove della nostra città e della nostra Campania. Napoli bisognerebbe “commissariarla” come si è fatto con Bagnoli e togliere così ogni forma di alibi, ogni parafulmine su cui scaricare la responsabilità ogni qualvolta esplode la bolla mediatica legata ai fatti di cronaca che scandalizzano tutti per il coinvolgimento di bambini, minori, ragazzi in aperto conflitto con il vivere civile. La questione dei minori nella nostra città è seria e grave e, proprio per la loro vulnerabilità e per la responsabilità che abbiamo nei loro confronti e delle loro vite, merita il massimo rispetto e attenzione. Non è cosa da poco, ma una società civile degna di questo nome non può sottrarsi a questo dovere. Bisogna iniziare a de-ideologizzare la pedagogia affermando senza remore che il ruolo e il compito dei genitori come quello dell’insegnante, dell’educatore di comunità non è quello dell’amico, del confidente, del “complice”. Il ruolo dell’adulto deve essere svolto con coerenza e autorevolezza e tra gli strumenti utili per esercitare questo compito ci sono certamente l’ascolto, il sostegno, la comprensione, ma un significato importante in questo processo di maturazione del minore lo svolge anche la disapprovazione e la sanzione intesa non come punizione ma come opportunità concreta di crescita personale e sociale. Ma purtroppo siamo ostaggi di una cultura falsamente progressista che deresponsabilizza gli adulti e non tutela i minori. Stessa cosa vale per le Istituzioni e la società civile, perché tutti devono fare la propria parte e assumersi le loro responsabilità, partendo dalla considerazione che i territori dove vivono abbandonati i nostri ragazzi, fatto salvo qualche presidio di eccellenza, sono privi di adeguati servizi socio-educativi e, quando ci sono, soffocano tra mille difficoltà, lasciati soli in una situazione emergenziale che non consente di progettare e pianificare alcun intervento all’altezza della drammaticità della situazione. Per superare questa condizione di arretratezza c’è bisogno di risorse economiche e professionali ma principalmente di una “politica” di sviluppo che sappia emancipare e liberare il territorio dalle sue antiche debolezze. Purtroppo però, all’orizzonte non si vede niente che possa farci sognare e sentire orgogliosi della nostra città anche quando viaggiamo in una delle tante città della “civile” Europa. Un altro aspetto su cui vale la pena riflettere senza attriti di qualsivoglia natura è l’azione di recupero da attivare quando la soglia del rischio del minore viene ampiamente superata. Nessuno sembra porsi il problema del recupero di quei minori anche infra-quattordicenni che con il loro agire deviante dimostrano di porsi in aperto conflitto con la giustizia con un comportamento che mostra un adesione sostanziale ai valori e ai modelli della violenza e della sopraffazione propri della camorra. Questo aspetto, quello della pianificazione e del finanziamento delle attività di recupero nella programmazione del Welfare regionale è praticamente assente, il vuoto. Anche se prevenzione e recupero sono intimamente interconnesse sono infatti interventi diversi e richiedono procedure e programmi diversi. Una cosa è fare una lezione in una scuola sul bullismo, un’altra cosa è prendere in carico un bullo e aiutarlo ad affrontare i suoi problemi. Il corto circuito che viviamo è proprio questo: siamo troppo bravi a mitizzare la parola prevenzione e siamo praticamente incapaci di “praticare” la parola recupero, quando appare del tutto evidente che si tratta di due “momenti” concettualmente, ma anche temporalmente, differenti tra loro, il recupero infatti deve intervenire dove la prevenzione non è bastata, o meglio, dove essa ha fallito. Se, culturalmente non si fa questo passaggio, non si fissa questo concetto e lo si assume come linea guida le possibilità che tutto il clamore di questi giorni, che tutte le analisi possano essere utili ai minori e alla società si riducono al lumicino. Morto Ferdinando Imposimato, giudice del caso Moro, poi vicino al M5S di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 3 gennaio 2018 Aveva 81 anni: oltre dell’inchiesta sulla morte del segretario Dc si era occupato anche di quella sull’attentato a papa Wojtyla. I grillini lo volevano candidare al Quirinale. È morto ieri mattina al Policlinico Gemelli di Roma Ferdinando Imposimato. Era nato a Maddaloni (Caserta) il 9 aprile 1936. Magistrato, fu giudice istruttore di alcuni tra i più importanti processi di terrorismo, come quello per il caso Moro e quello per l’attentato al Papa. Nel 1987 venne eletto al Senato come indipendente di sinistra nelle liste del Pci, nel 1992 fu eletto Camera e poi nel 1994 nuovamente al Senato. Nel 2013 il Movimento Cinque Stelle lo aveva indicato, assieme ad altri nomi, per l’elezione a Presidente della Repubblica. Nella sua carriera di magistrato si era occupato anche di criminalità organizzata, impegno pagato a caro prezzo: nel 1983 suo fratello era stato ucciso per una vendetta trasversale dalla camorra. Le “verità alternative” - Imposimato era stato autore anche di numerosi libri sul terrorismo e sulle stragi. In particolare era convinto che esistesse un legame su tutta una serie di delitti politici avvenuti in Italia, a partire dalla strage di Portella della Ginestra per arrivare agli omicidi di Falcone e Borsellino; il giudice aveva puntato il dito sul ruolo ricoperto dai servizi segreti stranieri ma le sue tesi (ad esempio quella sul ruolo degli Usa nel rapimento di Moro) non avevano trovato riscontro. Su diversi casi si era fatto portavoce di “verità alternative”: ad esempio aveva dichiarato che il governo degli Stati Uniti sarebbe stato a conoscenza in anticipo della strage delle Torri Gemelle ma non avrebbe fatto nulla per impedirla; aveva denunciato anche un presunto ruolo del gruppo Bilderberg nella strategia della tensione italiana, in particolare quello di mandante degli attentati. Pochi mesi fa aveva assunto posizioni critiche anche sui vaccini, arrivando ad adombrare un peso di questi ultimi nella morte di una bimba per malaria avvenuto all’ospedale di Trento. Il cordoglio del M5S - Il primo messaggio di cordoglio per la scomparsa del magistrato è arrivato proprio dal Movimento Cinque Stelle: “Con Ferdinando Imposimato non sparisce soltanto un magistrato integerrimo e un grande giurista. Ma va via anche una persona splendida, di grande umanità e sensibilità. Per tutto il M5S sono momenti di enorme dolore, perché Imposimato ha rappresentato una luce vivida, una guida sicura sul percorso che abbiamo da anni intrapreso nella lotta alla corruzione, al malaffare e alle mafie. Esprimiamo il nostro cordoglio più profondo e la vicinanza ai suoi familiari” afferma in una nota il gruppo parlamentare del M5S della Camera. A seguire sono giunti anche i messaggi di Luigi Di Maio e della sindaca di Torino Chiara Appendino. Detenzione “inumana”. Processo senza spese se il ministero perde di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2018 Corte di cassazione - Ordinanza di remissione 37792/2017. Il ministero della Giustizia, che fa ricorso contro il provvedimento del Tribunale di sorveglianza contro la condanna al risarcimento del danno per la detenzione degradante, non può essere condannato a pagare le spese processuali e eventualmente a versare una somma alla cassa delle ammende in caso di rigetto o d’inammissibilità dell’opposizione. Le Sezioni unite della Corte di cassazione, con un’informazione provvisoria del 21 dicembre, forniscono la risposta, sollecitata nell’ordinanza di remissione 37793 del 2017, nella quale i giudici avevano esaminato il ricorso del ministero contro l’istanza di “indennizzo” presentata in base all’articolo 35-ter dell’ordinamento penitenziario. Il collegio aveva ritenuto di rimettere la questione al Supremo collegio in virtù della disparità di vedute esistente nelle sezioni semplici, sulla qualità rivestita dal ministero e dal direttore del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria nel processo. Le perplessità riguardavano, in particolare, la possibilità di applicare anche al dicastero di via Arenula l’articolo 616 del Codice di procedura penale che prevede la condanna alle spese del procedimento o al pagamento di una somma che oscilla da 258 a 2.065 per la parte privata che lo ha proposto. Secondo un filone della giurisprudenza (sentenza 53011/2014 e altre) anche nel procedimento che scaturisce dal reclamo del detenuto, “la Pubblica amministrazione assume il ruolo di contraddittore necessario e sostanziale del detenuto o dell’internato reclamanti in relazione, al dedotto “grave pregiudizio all’esercizio dei diritti”“. Circostanza che rende il ministero equiparabile alla parte privata, un concetto nel quale vanno ricomprese tutte le parti processuali diverse dal pubblico ministero, unico ad avere il “diritto” di essere considerato parte pubblica. Altrettanto numerose sono anche le sentenze che si sono espresse per l’esclusione della condanna alle spese del ministero della Giustizia nell’impossibilità di assimilarlo a un “privato”. Tra queste, la 30359 del 2017 che richiama a supporto della sua tesi un verdetto del 1988, a dimostrazione della solidità di un orientamento al quale le Sezioni unite si sono uniformate con la sentenza del 21 dicembre. L’articolo 35-ter introdotto nell’ordinamento penitenziario sul ricorso contro la detenzione inumana e degradante è un rimedio previsto dal governo, dopo la sentenza della Corte Cedu sul caso Torreggiani, con la quale Strasburgo, in considerazione del sovraffollamento delle carceri, ha chiesto all’Italia di adottare misure attivabili dai detenuti per mettere fine alle condizioni di contrasto con l’articolo 3 della Cedu che vieta la tortura. Assoluzione in appello senza testi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2018 Il giudice di appello che ribalta una sentenza di condanna “trasformandola” in assoluzione non é tenuto a rinnovare il dibattimento, riascoltando i testimoni che hanno fatto dichiarazioni decisive in primo grado. La facoltà di evitare il passaggio, impone però il dovere di motivare l’assoluzione in modo puntuale e adeguato, fornendo una razionale giustificazione dei motivi che hanno portato il giudice di seconda istanza a prendere le distanze dalla scelta fatta dal Tribunale. Le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno reso noto, con un’informazione provvisoria, la soluzione adottata in merito al dubbio sul dovere o meno di rinnovare l’esame dei testi chiave. Resta fermo, ovviamente il potere del giudice di rinnovare, “ove occorra” la prova dichiarativa, ritenuta fondamentale in base all’articolo 603 del Codice di procedura penale. Il Supremo collegio si era espresso con la sentenza 27620 nel 2016 affermando il dovere di risentire i soggetti determinanti solo nel caso della cosiddetta reformatio in peius e dunque quando si passa dall’assoluzione alla condanna. Maglie più larghe invece quando il verdetto è favorevole al reo. La questione era finita sul tavolo delle Sezioni unite, per evitare l’accentuarsi di contrasti, su una questione della massima importanza, dopo che, con la sentenza 41571 del 15 settembre 2017, la Cassazione aveva affermato la necessità di usare lo stesso criterio sia quando in appello si assolve sia quando si condanna, se c’è uno scollamento con il primo grado. Una parità di trattamento, imposta secondo la sentenza 41571, dall’articolo 6 della Convenzione nel rispetto dei diritti della parte offesa. La volontà del legislatore di dare al processo una veste “triadica”, assicurando alla vittima del reato un’ampia possibilità di partecipazione emerge, avevano fatto notare i giudici, anche dal nuovo codice di rito. In sede di redazione della legge 103/2017 è stato, infatti, accantonato, in nome della ricerca della verità, il dubbio sull’incompatibilità della persona offesa costituita parte civile a testimoniare, in quanto possibile portatrice di un interesse personale. Ovviamente il dovere di rinnovare il dibattimento vale solo nel caso in cui si possa parlare effettivamente di diversa valutazione della prova dichiarativa e dunque non quando la divergenza sia il risultato di un errore “revocatorio”, di un’omissione, invenzione o falsificazione. Il primo presidente aveva preso atto del contrasto che il verdetto creava con le sentenze delle Sezioni unite 27620/2016 e 18620/2017 che avevano limitato l’esigenza di una nuova istruzione al solo ribaltamento dell’assoluzione. Un indirizzo al quale i giudici si sono riallineati. Per sapere con quali argomenti sarà necessario attendere il deposito della sentenza. Nomi oscurati su istanza, prima che sia definito il grado di giudizio di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 3 gennaio 2018 In alternativa, dice la Cassazione, la sentenza esce coi dati in chiaro. L’oscuramento dei nomi riportati nelle sentenze va chiesto a tempo debito e cioè prima che venga definito il grado di giudizio. Se si arriva troppo tardi non c’è rimedio e le sentenze si possono pubblicare con i nomi in chiaro. È quanto desumibile dalla decisione della Corte di cassazione penale, sezione terza, n. 55500 del 13 dicembre 2017, che si è occupata della richiesta di oscuramento dei nomi di due condannati per reati tributari con una pronuncia del 2015. Solo due anni dopo gli interessati hanno richiesto l’oscuramento dei propri dati personali in essa contenuti, ai sensi dell’articolo 52 del Codice della privacy (dlgs n. 196 del 2003). Gli interessati hanno messo in evidenza che la notizia di quella condanna impediva loro di aprire conti bancari. Tra l’altro le persone in questione hanno riferito che i dati erano conservati nel sito web word-check.com, che consentiva di accedere alla pagina web della suddetta sentenza pronunziata nei loro confronti. Anzi a causa della notizia vari istituti di credito, italiani e stranieri, non solo avevano loro negato di costituire un rapporto di conto corrente, ma avevano anche cessato quelli in essere, impedendo così anche il reinserimento sociale dei due condannati. La Cassazione ha respinto il ricorso, giudicato inammissibile, poiché tardivo. In effetti l’articolo 52 del codice della privacy stabilisce che l’interessato può chiedere per motivi legittimi, con richiesta depositata nella cancelleria o segreteria dell’ufficio che procede prima che sia definito il relativo grado di giudizio, che sia apposta a cura della medesima cancelleria o segreteria, sull’originale della sentenza o del provvedimento, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della sentenza o provvedimento in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi del medesimo interessato riportati sulla sentenza o provvedimento. Ci sono, dunque, due condizioni da rispettare. Primo: la richiesta degli interessati deve comunque essere sorretta da motivi legittimi; secondo: la richiesta deve rispettare un preciso di termine di decadenza, dovendo essere presentata prima che sia definito il relativo grado di giudizio. Nel caso specifico la richiesta è stata presentata oltre il termine di legge. D’altra parte, aggiunge la cassazione, il termine è logico: non serve a niente un ordine di oscuramento dei dati successivo alla pubblicazione del provvedimento e, quindi, alla sua diffusione indiscriminata e senza limiti. Una volta pubblicato su internet, un ordine di cancellazione ha ben scarsa efficacia. D’altra parte nel caso concreto non ricorrevano nemmeno i casi in cui l’oscuramento va ordinato d’ufficio (per esempio, per i casi concernenti minori), visto che il giudizio riguardava reati tributari. Si aggiunge che, anche quando la richiesta è presentata in tempo, l’oscuramento non è e non può essere automatico, in quanto di deve valutare se la richiesta sia assistita da motivi legittimi. In proposito si ritiene che si deve tenere conto anche dell’effetto disincentivante dei profili afflittivi derivanti dalla sentenza di condanna. Niente tenuità del fatto per l’abbandono di rifiuti in terreno altrui di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 29 dicembre 2017 n. 57903. Esclusa la non punibilità per particolare tenuità del fatto in favore di chi abbandona dei rifiuti in terreni altrui. La Cassazione conferma il no al beneficio allineandosi alla Corte d’Appello che lo aveva negato pur avendo assolto gli imputati dal reato previsto dall’articolo 6 lettera a della legge 210 del 2008 in materia sulle misure straordinarie per lo smaltimento dei rifiuti adottata sull’onda dell’emergenza in Campania. La norma punisce, infatti, chi scarica o abbandona rifiuti presso siti non autorizzati rifiuti che superano una determinata dimensione. Secondo il ricorrente i giudici si erano contraddetti, assolvendolo da una parte dal reato e negandogli al tempo stesso la non punibilità prevista dall’articolo 131-bis del codice penale in caso di condotte di particolate tenuità. Per la Suprema corte però i giudici di seconda istanza hanno invece agito correttamente, assolvendo dal reato di abbandono di rifiuti ingombranti o pericolosi in assenza di una prova certa del volume del materiale edile abbandonato in un terreno altrui. L’impossibilità di dimostrare che il materiale “scaricato” superava il limite di “grandezza” imposto dalla legge, non comporta però, secondo i giudici, alcun diritto all’“impunità”. A deporre contro l’applicazione del trattamento di favore previsto dal codice penale c’è la modalità con la quale, il meno grave reato di smaltimento non autorizzato di rifiuti (lettera d) della legge 210/2008) è stato messo in atto: l’utilizzo di un’area di proprietà di terzi, trasformato in discarica abusiva e già oggetto di sequestro, per abbandonarvi del materiale edile e inerte. Condannato l’infermiere che non avvisa il medico se il paziente peggiora e muore di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 2 gennaio 2018 n. 5. Responsabilità penale per l’infermiere che - pur accorgendosi che le condizioni del paziente siano peggiorate - ometta di avvertire il medico e il tutto si concluda con il decesso del ricoverato. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 5. La Corte in particolare ha chiarito come tra le due figure, quella cioè dell’infermiere e del medico deve esserci un rapporto di estrema collaborazione. L’infermiere in particolare è onerato di vigilare sul decorso post-operatorio, proprio al fine di consentire, nel caso, l’intervento del medico, che oggi va considerato non più “ausiliario del medico”, ma “professionista sanitario”. La vicenda - Nel caso concreto un paziente a seguito di un intervento aveva accusato una crisi ipotensiva. E l’infermiere - pur essendosi accorto del peggioramento delle condizioni - non aveva prontamente avvertito il dottore che avrebbe preso le misure del caso. La Cassazione richiama un passaggio della sentenza di merito di condanna secondo cui l’infermiere era responsabile di una gravissima omissione di non chiamare immediatamente il medico dell’inter-divisione nonostante gli episodi ipotensivi del paziente. Peraltro anche le testimonianze rese dalle persone presenti in corsia erano state univoche nel raccontare che dopo la chiusura dei liquidi il paziente ebbe una prima crisi ipotensiva che, lungi dal risolversi spontaneamente, aveva imposto la necessità della riapertura dei liquidi del posizionamento di cuscini sotto i piedi al fine di far confluire il sangue alla testa. L’errore clamoroso - Quindi l’imprudenza degli infermieri di non chiedere immediatamente l’intervento del medico ha costituito “l’errore clamoroso” che è costato la vita al paziente, che in quel momento sottoposto a nuovo controllo dell’emocromo, avrebbe manifestato un ulteriore abbassamento del valore, che unitamente alle crisi ipotensive, avrebbero permesso di formulare l’esatta diagnosi e procedere alle trasfusioni. Respinto in conclusione il ricorso dell’infermiere con il reato estinto per prescrizione e con la sola validità delle statuizioni civili. Roma: a Regina Coeli i “nuovi giunti” vivono come dei sepolti vivi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 gennaio 2018 La denuncia di Rita Bernardini dopo la visita di capodanno al carcere romano. L’esponente Radicale spiega che in quella sezione “i detenuti stanno in tre (letti a castello a tre piani) in celle minuscole, sporche e buie per 23 ore e 40 minuti al giorno con il blindo chiuso”. “Per cominciare bene l’anno, la chiudiamo, ministro Andrea Orlando, questa VII sezione di Regina Coeli?”, così Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale, conclude la lettera aperta nei confronti del guardasigilli a proposito della sezione “nuovi giunti” del carcere romano di Regina Coeli. A capodanno, come già riportato da Il Dubbio, la delegazione del Partito radicale composta dalla Bernardini stessa, insieme ai dirigenti di Nessuno Tocchi Caino Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, ha fatto tappa anche al carcere di Regina Coeli. Gli esponenti radicali hanno così potuto visitare dettagliatamente l’ultimo piano della sezione destinata ai “nuovi giunti”. Parliamo di una sezione importate, perché si tratta di “accogliere” le persone che subiscono i primi momenti della detenzione. Eppure, come denuncia Rita Bernardini, permane l’indecenza. Sì, perché non ha fatto altro che riscontrare problematiche già denunciate in tutte le visite precedenti, anche con Marco Pannella. In particolare nel 2015 quando, un “nuovo giunto”, si suicidò proprio in quella sezione che risultava già fatiscente. L’esponente radicale denuncia, in primis, la mancanza dei controlli da parte del “giudice di sorveglianza che, in base al comma 2 dell’art. 69 della legge penitenziaria, deve esercitare anche “la vigilanza diretta ad assicurare che l’esecuzione della custodia degli imputati sia attuata in conformità delle leggi e dei regolamenti”. La Bernardini spiega che in quella sezione “i detenuti stanno chiusi in tre (letti a castello a tre piani) in celle minuscole concepite per un detenuto, celle sporche, buie, dove manca l’aria, cuscini e materassi sudici e smozzicati; riscaldamento e acqua calda per le docce non pervenuta”. Come se non bastasse l’esponente radicale rivela che l’ora d’aria è quasi del tutto inesistente, perché “uno dei due passeggi che consentiva ai detenuti di fare almeno una sola ora di aria è inagibile in quanto cadono i calcinacci in testa ai frequentatori. Non solo detenuti, ma anche agenti”. In pratica, la Bernardini, denuncia che i detenuti stanno “sepolti lì dentro con il blindo chiuso” per 23 ore e 40 minuti. “Non convince - prosegue Rita Bernardini nella lettera aperta - la giustificazione “ma lì ci stanno per pochi giorni prima di essere assegnati in sezione”, non solo perché anche un solo giorno in quelle condizioni è traumatizzante, ma perché per non pochi detenuti i giorni possono diventare - e diventano - anche mesi”. L’esponente del Partito radicale, infine, conclude con un invito al ministro della Giustizia Andrea Orlando affinché venga al più presto chiusa la sezione. Ricordiamo che “i nuovi giunti”, proprio perché subiscono i primi momenti della detenzione, secondo diverse direttive emanate con il tempo dal Dap, devono vivere reclusi in un ambiente meno traumatizzante possibile. Per questo esiste il servizio di accoglienza per le persone detenute. Nello specifico, viene - o dovrebbe - messo in atto un protocollo per prevenire il rischio suicidario, particolarmente presente nei primi periodi di detenzione; conoscere la persona ai fini del successivo programma di trattamento individualizzato; ridurre la conflittualità intersoggettiva che - anche a causa dalla mancata o scarsa conoscenza delle regole della vita penitenziaria - può dar luogo a conseguenze disciplinari e penali, soprattutto nella prima fase della detenzione; prevenire le malattie e garantire la continuità delle terapie eventualmente già in corso al momento dell’ingresso in Istituto. Nel servizio operano, unitamente allo psicologo, altre figure professionali, in modo da costituire uno staff di accoglienza multidisciplinare che prenda in carico i detenuti nuovi giunti, anche al fine di predisporre azioni specifiche per prevenire atti di autolesionismo. Lo staff si compone del direttore che lo coordina, del medico incaricato o del medico Sias (Servizio. Integrativo di Assistenza Sanitaria), dell’infermiere, dello psicologo, dello psichiatra, del responsabile dell’area educativa (o di un suo delegato) e del comandante del reparto di polizia penitenziaria (o di un suo delegato). Viene integrato con la presenza di altri specialisti come: gli operatori del Ser.T., gli assistenti sociali e i mediatori culturali e/o sociosanitari, a seconda delle esigenze e dei problemi manifestati dal detenuto. Inoltre, ricorre alla collaborazione esterna di operatori del volontariato con specifiche qualifiche. A tutto questo, ovviamente, deve corrispondere anche una struttura adeguata. Difficile garantire questo servizio con l’ora d’aria di venti minuti al giorno, materassi sporchi e acqua calda inesistente. Napoli: morto in carcere, la famiglia “aspettiamo di conoscere la verità da sei anni” Cronache della Campania, 3 gennaio 2018 “Aspettiamo giustizia da circa 6 anni. Vogliamo almeno sapere come e perché é morto nostro padre”. È Renato Ruggiero, 21 anni, che parla. È il figlio di Augusto Ruggiero considerato un esponente di primo piano del clan Contini del Vasto e morto in carcere nel luglio del 2012. Renato aveva poco più di 10 anni quando suo padre fu arrestato nel 2006 perché accusato di associazione camorristica e ora vuole capire qualcosa in più sulla sua morte. Uno dei tanti decessi di detenuti nelle carceri italiane. “Io non discuto ne voglio giudicare quello che ha fatto mio padre. Era stato condannato e stava scontando la sua condanna. Noi oggi, come famiglia, a circa sei anni di distanza dalla sua morte non sappiamo come è morto. Ci hanno negato addirittura di conoscere i risultati dell’autopsia. Io non credo che questa sia una giustizia giusta. Se esiste un diritto questo spetta a noi familiari e noi vogliamo sapere solo la verità”. È turbato ed emozionato allo stesso tempo il giovane Antonio Ruggiero quando racconta la storia di suo padre. La forza di volontà dei suoi 21 anni lo porta a chiedere di sapere qualcosa in più sulla morte di suo padre. La storia giudiziaria ma soprattutto la vita carceraria di Augusto Ruggiero è alquanto complessa. Arrestato nel 2006 dopo due anni di carcere a Poggioreale viene colto da malore. Ebbe un ictus cerebrale ma nonostante le sue condizioni abbastanza serie fu riconosciuto dal medico del carcere idoneo alla struttura carceraria e addirittura sospettando che stesse simulando la direzione del carcere gli assegnò alcuni giorni di isolamento. Ma dopo tre giorni le sue condizioni di salute peggiorarono e durante un’ispezione gli agenti penitenziari si accorsero che il detenuto era ormai incapace di intendere e volere e fu chiamato uno specialista dell’ospedale Cardarelli per una visita. Fu disposto subito il suo ricovero in ospedale dove gli furono diagnosticati un ictus, trombosi alle gambe e perdita di memoria. Dopo il ricovero ospedaliero durato otto mesi iniziarono i primi cenni di miglioramento per la sua salute e ne furono disposti gli arresti domiciliari. Nel frattempo i vari gradi di giudizio a suo carico andavano avanti. Ruggiero fu condannato a 18 anni di carcere con sentenza definitiva della Cassazione. Ma nonostante avesse avuto una serie di infarti durante la detenzione domiciliare e nonostante il parere negativo di alcuni medici il giudice che lo aveva condannato agli inizi del 2012 ne dispose di nuovo la custodia cautelare in carcere. Augusto Ruggiero fu rinchiuso nel padiglione Firenze del carcere di Poggioreale. A giugno fu colto di nuovo da malore. Trasportato d’urgenza all’ospedale Loreto Mare, morì dopo circa un mese. E ora la famiglia vuole sapere cosa è accaduto. Sassari: detenuto al 41bis con un tumore al cervello, aperta un’inchiesta sui suoi ultimi mesi di vita stylo24.it, 3 gennaio 2018 La Procura di Milano vuole fare piena luce sugli ultimi mesi di vita del boss Biagio Cava, deceduto a novembre dello scorso anno a causa di un tumore al cervello. I pm meneghini hanno aperto un fascicolo di inchiesta in seguito a un esposto depositato circa l’excursus carcerario del camorrista. Il 62enne è morto all’ospedale Cardarelli, ma fino alla fase più grave della sua malattia, è stato detenuto al carcere duro presso il penitenziario Bancali di Sassari. È proprio in Sardegna, nella primavera del 2016, che Cava avverte i primi sintomi della patologia. A questo punto, trapela da indiscrezioni, nonostante le istanze dei legali, non sarebbero stati inviati i certificati medici al magistrato di sorveglianza. Una consistente documentazione proverebbe - sempre stando a indiscrezioni - la mancata trasmissione di tali atti al Tribunale della Sorveglianza di Sassari. C’è di più. Al 62enne, una volta diagnosticato il tumore, era stato affidato un tutore dal Tribunale civile sassarese. A ricoprire la delicata funzione era stato chiamato lo stesso specialista che ha operato Cava in Sardegna. Ma poco dopo l’operazione e nonostante la richiesta della sospensione della pena, il boss ha continuato ad affrontare la sua detenzione presso il carcere milanese di Opera, laddove era stato trasferito da Sassari. Quando invece le sue condizioni di salute si sono irrimediabilmente aggravate è stato disposto il trasferimento presso la sua abitazione. Napoli: all’Ipm di Nisida agente preso in ostaggio e picchiato in cella Il Mattino, 3 gennaio 2018 Una ritorsione per la perquisizione a sorpresa del 30 dicembre scorso, quando con l’aiuto delle unità cinofile erano state controllate tutte le celle ed erano saltate fuori dosi di stupefacenti. Ci sarebbe questo dietro il pestaggio di un giovane agente della polizia penitenziaria in servizio nel carcere minorile di Nisida, picchiato e sequestrato da tre detenuti mentre era al lavoro nella tarda mattinata di ieri. La dinamica dei fatti è ancora in via di definizione, restano da chiarire diversi punti oscuri. L’agente coinvolto, accompagnato dai colleghi al Pronto Soccorso dell’ospedale San Paolo con contusioni su tutto il corpo, è stato dimesso con una prognosi di venti di giorni. L’aggressione sarebbe avvenuta mentre il poliziotto stava supervisionando le operazioni di smaltimento dei rifiuti dalle celle. Secondo la ricostruzione il detenuto addetto al servizio lo ha aggredito improvvisamente alle spalle mentre si stavano occupando dell’ultima cella. Altri due ragazzi sono immediatamente intervenuti e lo hanno spalleggiato, anche loro scagliandosi sull’agente. Il poliziotto è stato picchiato con calci e pugni, gli sono state sottratte le chiavi, con le quali poi i ragazzi hanno tentato di aprire le altre porte, ed è stato rinchiuso nella cella. È riuscito a liberarsi solo dopo oltre un’ora, quando finalmente i colleghi, che erano nelle altre aree del penitenziario, hanno sentito le sue urla e le richieste di aiuto. I tre ragazzi, identificati, sono stati ieri pomeriggio ascoltati dal magistrato. I motivi dell’aggressione non sono stati ancora chiariti ma potrebbe esserci un collegamento con la perquisizione di pochi giorni fa. “Sembrerebbe si sia trattato di una vendetta verso la polizia penitenziaria - dice Ciro Auricchio, segretario regionale Uspp - di una risposta al sequestro di stupefacenti che c’era stato nella serata prima dell’ultimo dell’anno. Abbiamo notato un aumento degli episodi critici negli istituti minorili in seguito alla norma che prevede che i detenuti fino a 25 anni possano scontare la pena in queste strutture. Chiediamo una immediata revisione della legge 117/2014, si deve rivedere la normativa sia per i minorenni che sono accusati di un reato associativo sia per quei ragazzi, maggiorenni, che vengono ritenuti affiliati a un clan e che dovrebbero espiare la pena negli istituti per adulti”. Secondo Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, “gli istituti penali per minorenni stanno diventando come quelli per gli adulti, anche come pericolosità. Il dipartimento della Giustizia minorile si è rivelato inadeguato, così come il dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria. Auspichiamo che vengano sostituiti i vertici”. Per Angelo Urso, segretario generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria, “il senso di impunità che si respira nelle carceri italiane favorisce il proliferare di eventi critici. Ciò che è drammatico, se fosse confermato, continua Urso - è che il gesto in questione pare abbia all’origine una rivalsa nei confronti del personale ritenuto responsabile di aver realizzato, qualche giorno fa, una perquisizione straordinaria all’interno dell’istituto minorile che ha portato al rinvenimento e al sequestro di sostanze stupefacenti. In altre parole chi gli ha “rovinato la festa di Capodanno” doveva in qualche modo pagare, a dispetto di tutte le opportunità del trattamento e di rieducazione che l’istituzione carcere si sforza di assicurare”. sono tantissime attività manuali oltre a quella letteraria, molti imparano l’arte della cucina con don Peppino ad esempio. Qui si offre un’altra chance ai ragazzi anche se non tutti vengono recuperati, perché poi tornano nei contesti sbagliati”. Roma: le donne del “carcere bianco” e il Capodanno davanti a Rebibbia di Cecilia Ferrara Il Fatto Quotidiano, 3 gennaio 2018 “La cosa più dura? La solitudine”. Com’è la vita in carcere durante le feste? Come è la vita dei familiari dei detenuti? “Capodanno è uno dei giorni più pesanti per chi sta in carcere. Durante le feste i detenuti sanno più chiusi in cella, ci sono meno attività e i colloqui con i familiari si diradano - racconta Michela del progetto Matricola XX. Per questo da molti anni il 31 dicembre Radio Ondarossa assieme ad altre associazioni organizza una passeggiata e una lenticchiata di fronte al carcere romano di Rebibbia per far sentire loro un la solidarietà dal mondo esterno”. Durante la camminata attorno al carcere i detenuti salutano i manifestanti da lontano. In alcuni punti comunicano urlando con il corteo: slogan contro il carcere, auguri o a volte richieste di informazioni dall’esterno e saluti. “Siamo fermamente convinti che il carcere non sia riformabile - spiega Michela - il carcere andrebbe abolito. Non è demagogia, lo dicono molti giuristi che spiegano come questo possa essere fatto, già in Europa ci sono paesi come l’Olanda o la Norvegia in cui il carcere quasi non esiste e il paese funziona meglio. Anche solo facendo un’analisi dei dati: la recidiva in Italia è vicina all’70%, segno che il sistema non funziona”. Da un anno assieme ad alcuni detenuti porta avanti un progetto di arte e carcere “Matricola 01030102”, un blog iniziato da un detenuto che si firma Edmond Dantès, come il Conte di Montecristo. “Parlare di carcere però non muove le coscienze - continua Michela - per questo usiamo il linguaggio dell’arte, della scrittura. I sentimenti di cui parla Matricola 01030102, il dolore, l’angoscia la nostalgia li viviamo tutti, sono universali”. Anche Michela vive il carcere attraverso un familiare ristretto “Esiste un’altra forma di galera, il carcere bianco. Il carcere delle persone che non stanno né dentro né fuori, che hanno sempre un piede dentro e fuori subiscono angherie e emarginazione”. Da questa considerazione è nato il progetto “Matricola XX” per raccontare la condizione dei familiari dei detenuti che entrano ed escono dal carcere per prendersi cura dei propri cari. In schiacciante maggioranza sono donne, mogli, sorelle, madri, compagne di detenuti. “Quando abbiamo iniziato le donne non hanno fatto che dirci “grazie, grazie”. Per la prima volta potevano parlare di se, condividere la loro condizione. Quello che schiaccia è soprattutto la solitudine”. Brescia: dialoghi tra città e carcere di Carlo Alberto Romano Corriere della Sera, 3 gennaio 2018 Nella settimana precedente il Natale per tre volte la comunità esterna ha valicato le mura di Canton Mombello, creando tre insolite occasioni di dialogo con la comunità carceraria, rappresentata sia dalle persone detenute sia dalle donne e dagli uomini che in essa svolgono quotidianamente il proprio lavoro. Nella prima, un noto leader di un partito politico, diciamo poco propenso all’inclusione degli stranieri, ospite di un sindacato di polizia penitenziaria, si è intrattenuto con alcuni astanti su temi inerenti la gestione del sistema carcerario. Ne sono scaturiti concetti di marcata intransigenza verso i detenuti stranieri, spesso sconfinati in palese ostilità verso gli stessi. Nella seconda alcuni bambini di una scuola primaria e ragazzi di una secondaria di primo grado, stimolati dalla Garante dei detenuti e dai loro docenti, hanno scritto biglietti di auguri per le persone recluse nei due istituti penali bresciani, esprimendo i loro sentimenti di auguri per le imminenti festività e dando vita a una comunicazione vivace ed edificante, naturalmente comprensiva anche degli stranieri, sia fra i mittenti sia fra i destinatari, e anche per questo, di significativo valore aggiunto. Nella terza un detenuto mussulmano ha chiesto al Vescovo di Brescia, prima della messa natalizia in carcere, di pregare insieme a lui e agli altri detenuti, italiani e stranieri, per le persone in difficoltà in questo nostro mondo. Il Vescovo ha risposto accettando l’invito. E tutti i presenti hanno levato al cielo le loro suppliche di pace. Tre modi diversi di avvicinare la comunità carceraria; il primo accentua e rimarca le differenze, mentre gli altri due evidenziano i punti di contatto. Tre modi diversi anche di affrontare un problema esistente e concreto, quello delle persone straniere recluse, portatrici di culture e fedi differenti. Un tema particolarmente sentito in un carcere come il “Fischione” (l’ex Canton Mombello) dove la presenza degli stranieri è storicamente consistente e dove i problemi della convivenza si sono più volte appalesati; ma sono proprio tali episodi, gestiti soprattutto grazie alla primazia della legalità, riconosciuta e quotidianamente declinata, nel rispetto della nostra Costituzione, da molti operatori penitenziari, che dimostrano come la strada da percorrere sia quella dell’inclusione e del dialogo e non quella della segregazione e della ostilità. Tendo a pensare che anche il Bambin Gesù, nato straniero in terra straniera, concorderebbe. Roma: “Regina Coeli”, lo spettacolo sulle violenze nelle carceri, vince il Premio “Dante Cappelletti” di Nicola Mariuccini umbria24.it, 3 gennaio 2018 La “Regina Coeli” di Carolina Balucani, vincitrice nei giorni scorsi del Premio Tuttoteatro.com alle arti sceniche “Dante Cappelletti” 2017, trae ispirazione dagli episodi di violenza e di abusi carcerari riproposti in chiave evocativa e spirituale. È un testo potente, capace di portare la luce dove non ce ne è più; illumina, d’improvviso, le vite dei mortali come un faro in un campo di prigionia, di notte. Un racconto amaro, sofferente, un lamento confuso, quello che il protagonista, l’attore Matteo Svolacchia, conduce chiamando la madre fino a che non si spengono gli occhi e si accende una luce accecante. “I pastorelli rispondono sì sì, abbiamo dato dei calci alla Signora sì, perché non era possibile, no, stà davanti a sto sole che è la tua mamma”. Un lampo schioccato, come un colpo di frusta che blocca la scena, ferma l’immagine, taglia il respiro di chi scappa e di chi insegue, quasi a volerne invertire i ruoli, quasi, per un attimo, a voler costringere tutti a riflettere, per la durata di un istante, su chi davvero stia scappando e da cosa. Chi guarda la scena, nel cono d’ombra dello spazio silenziato (e censurato), non sa e non vede che cosa accade, ha solo davanti a sé un uomo che prega. Lo spettatore è un testimone confuso, magnetizzato ma spiazzato: non sente i colpi sordi delle botte e delle grida soffocate, le minacce, forse le imprecazioni. Lo spettacolo Le immagina ma non le distingue, perché il testo non le dice, e dunque ordina le cose per come dovrebbero essere: c’è la giustizia e c’è un delinquente, ci sono le guardie e c’è un ladro, un tossico, uno che rovina la vita sua e la ruba alle persone per bene. Sembra tutto facile. Poi la luce, come un’alba di Gadda, “suscitata” da una preghiera che si fa sempre più intensa, taglia la scena attraversando “le stecche delle persiane” e illumina tutto, distingue i corpi, le cose, le denomina; ora chi guarda può vedere ed è tutto chiaro, troppo chiaro. Il testo di Carolina Balucani non sembra avere interesse a descrivere la cronaca, se ne distanzia, si alza da essa alla ricerca di luce e di una verità che non è tra le cose, si può intuire ma non spiegare, come anche il dolore d’altronde. La madre/Madonna, “La mia mamma è la Madonna, se veste de azzurro come la Madonna. Appare”. Invocata dal povero cristo morente, non ha l’autorizzazione per entrare a salvarlo ma può sollevarlo per sempre dalla sofferenza illuminandolo nella sua purezza. Perché? Il testo non spiega e non giudica ma pone domande, una più cruda di tutte le altre: perché? In quali abissi umani, dentro a quali paure si cela la rabbia ancestrale che fa colpire con furia cieca un ragazzo di trent’anni che chiede perdono? Quando è che la luce della consapevolezza illumina finalmente anche i carnefici e rende tutti consci del frutto malato di quegli istanti di brutalità animale? La Balucani forse le risposte da darci non ce l’ha, ma con il suo testo sentiamo che fa le domande giuste, ci incalza, ci interroga, ci scuote. Il suo linguaggio spontaneo, fluido, non forzato, scorre in un “italiano parlato medio” e trae efficacia, da ciò, per alzare il registro di una preghiera alla madre che accorre, appena può, non appena le è consentito, a portare fiori al suo “amoroso giglio” perché egli possa rifiorire. Non è stato nessuno, come spesso accade, nessuno ha commesso niente ma almeno c’è qualcuno che non dimentica e ci aiuta a tenere alta la luce del ricordo, a tenere a mente. Troppo odio sul web, i grandi marchi levano la loro pubblicità di Francesco Lo Dico Il Dubbio, 3 gennaio 2018 In crisi Google e Facebook che assumono nuovo personale per i controlli. Fake news, video violenti, contenziosi fiscali e giudiziari che hanno messo l’Europa e gli Stati Uniti alle calcagna dei colossi della rete. È stato un anno difficile per Google, Facebook e Youtube, che finiti nel mirino di tutti per aver alimentato il linguaggio dell’odio, provano a voltare pagina nel 2018. Se non per amore, per interesse. Negli ultimi anni il mercato della pubblicità online si è trasformato nel duopolio di Mountain View e Manlo Parl, che sono riusciti a conquistare il 70 per cento del mercato pubblicitario anche grazie a politiche sin troppo lassiste: sono milioni e milioni i clic e i guadagni generati dal circolo vizioso dei video violenti. Ma alla lunga, il metodo di raccolta pubblicitaria indifferenziato che ha accostato spesso i grandi marchi a clip che inneggiavano all’odio e al bullismo, ha destato forti polemiche politiche e la fuga di investitori di peso. Basti pensare, ad esempio, alla scelta di lasciare YouTube, adottata a marzo scorso da marchi come T & T, Johnson & Johnson Verizon, e Disney, indispettiti dopo aver scoperto che i loro annunci accompagnavano video che inneggiavano al nazismo, che avevano circolato liberamente sulla piattaforma per quattro mesi senza alcun intervento degli operatori. Ma la classica palla di neve, è diventata un’autentica slavina quando il Times ha denunciato che le pubblicità del governo britannico e di svariate società multinazionali di Sua Maestà erano state trasmesse su siti di istigazione all’odio e di aperto sostegno all’Isis. In men che non si dica, si sono a quel punto volatilizzate dalla piattaforma ben 250 aziende, tra cui anche General Motors, Pepsi Cola, e McDonald’s, per un danno complessivo stimato in 750 milioni di euro. Invertire la rotta, a fronte di un servi- zio che ogni sessanta minuti consente di sfornare quattrocento ore di video in tutto il mondo, era ormai una necessità ineludibile. Specie perché non era ormai più ammissibile che anche nella sezione Kids di YouTube, si potesse vedere Spider-Man urinare nella vasca da bagno della protagonista del film Frozen, Mickey Mouse in una pozza di sangue investito da un’auto, o i personaggi di una serie di animazione in subbuglio ormonale all’interno di uno strip club. E così, a fare da apripista della svolta del 2018 è stata Facebook, finito nell’occhio del ciclone per essere stato usato come mezzo di propaganda dall’amministrazione Trump, per le tasse non pagate, e non da ultimo per alcune gravi dichiarazioni di membri apicali del suo team, come l’ex manager Chamath Palihapitiya: “Facebook sta facendo a pezzi la nostra società”. Dopo mesi di polemiche, il vicepresidente delle Operazioni globali di Manlo Park, Justin Osofsky, ha annunciato che la squadra che si occupa di monitorare i video di casa Zuckerberg verrà raddoppiata nel 2018, con l’assunzione di altri 10mila revisori pronti a moderare post e clip violente. L’azienda ha fatto sapere che sarà inoltre introdotto contro lo stalking un sistema, chiamato snooze, che consentirà di bloccare temporaneamente persone indesiderate (come gli ex), e un sistema di monitoraggio degli indirizzi Ip che proverà ad arrestare i molestatori che raggiungono spesso la vittima grazie a nuovi profili fasulli. Un annuncio solenne, che tenta però di tenere a bada milioni di genitori preoccupati dal lancio imminente di Messenger Kids, il servizio di messaggistica Facebook, agli albori negli Stati Uniti, che apre le porte dei social anche ai minori di tredici anni. Si tratta di un client, cioè di un’app collegata al profilo di mamma o papà, che consentirà ai piccoli di chattare grazie all’autorizzazione dei genitori. E che tuttavia non è esente da rischi. Anzi. Tutto da rifare anche sul fronte delle fake- news. Le “disputed flags”, ossia i segnali in rosso impressi sulle notizie fasulle introdotte da Facebook e affidati a organismi specializzati in fact checking, si sono infatti dimostrate un fiasco clamoroso: anche se sono riuscite a rallentare il numero di condivisioni, hanno infatti incrementato i lettori di bufale, ancora più eccitati dal presunto clima di censura. Nel tentativo di mettere una toppa, l’azienda di Zuckerberg ricorrerà agli articoli correlati, che consentiranno agli utenti di mettere a confronto la stessa notizia, attinta da più fonti. Sull’altra sponda della Silicon Valley, non si è fatta attendere neanche la risposta di Google. Incassato il knock out d’immagine, che ha portato via da YouTube anche colossi come Etihad, Marriot e Deliveroo, ma anche il partito laburista britannico, big G ha deciso a sua volta di intraprendere un restyling di YouTube, nel tentativo di riportare a casa gli investitori perduti. Anche in questo caso, come annunciato dal ceo della piattaforma video, Susan Wojcicki, arriveranno in azienda 10mila nuovi addetti incaricati di valutare i contenuti pubblicati sul network e di addestrare la macchina che presiede all’individuazione dei contenuti violenti, chiamata, con eco kubrickiana, Al. Gli algoritmi di apprendimento automatico implementati nella piattaforma a giugno, hanno consentito di rimuovere infatti poco più di 150mila video, e di supplire a un lavoro che avrebbe reso necessario l’apporto di 180mila persone per 40 settimane. Ma nell’oceano di YouTube, 150mila video rimossi sono poco più che un’inezia. E così, per combattere l’odio, si riparte dagli umani. Comprendere la modestia di certi risultati, è d’altra parte piuttosto semplice, se solo si coglie la fallimentare impostazione di Al. Alcuni dipendenti di Google hanno infatti rivelato che l’algoritmo non fa una vera cernita “etica”, ma puramente qualitativa. La piattaforma premia in pratica i video di buon livello, che mostrano un buon montaggio e una sapiente regia: in pratica un lasciapassare per la fucina dell’Isis, che per anni ha imperversato su YouTube grazie a clip di propaganda che hanno sorpreso gli analisti internazionali per l’alto grado di specializzazione. Nell’era in cui l’opera d’odio è entrata nella stagione della sua riproducibilità tecnica, un fatto davvero inammissibile che ha prodotto un mutamento epocale. Dopo anni di irresponsabilità dichiarata, i colossi del web accettano di dover vigilare sui propri contenuti. E che non tutto è pubblicabile in nome del clic. L’entità liquida dei social, diventa entità sociale che alla società può e deve rispondere. Se non per amore, per interesse. Migranti, non c’è posto per loro di Alex Zanotelli Il Manifesto, 3 gennaio 2018 Questo Natale ha visto milioni di migranti in fuga da fame e da guerre, che bussano alla porta dell’Europa, ma non c’è posto per loro, restano fuori. Proprio come in quel primo Natale, quando per quei due poveri migranti, “non c’era posto nella locanda”. Gesù nasce fuori. Così oggi i migranti, la “carne di Cristo” come ama chiamarli Papa Francesco, restano fuori. Per tenerli fuori, l’Europa “cristiana” ha fatto prima un patto con Erdogan perché bloccasse in Turchia milioni di rifugiati siriani, regalando a quel despota sei miliardi di euro. Poi, sempre per tenerli fuori, la Ue ha convinto l’Italia a bloccare la rotta dei migranti africani in fuga da guerre e fame. Per cui il governo italiano ha siglato un accordo con uno dei leader libici, El Serraj per bloccare i migranti in Libia e così restano fuori. Risultato: un milione di migranti nell’inferno libico, rinchiusi in lager, violentati, torturati e stuprati. In quei lager vengono persino allestite aste di profughi-schiavi. “È disumana la politica dell’Unione Europea di assistere le autorità libiche nell’intercettare i migranti nel Mediterraneo e riconsegnarli nelle terrificanti prigioni - così l’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Zeid Raad Al Hussein - la sofferenza dei migranti detenuti in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità”. Ancora più dura Amnesty International: “I governi europei, in particolare l’Italia,sono complici delle torture e degli abusi sui migranti detenuti dalle autorità libiche”. Infine il Tribunale permanente dei popoli,riunitosi a Palermo pochi giorni fa, ha emesso una storica sentenza : Italia e Ue sono corresponsabili degli abusi sui migranti. È altrettanto disumana la politica della Ue, quando chiede all’Onu di evacuare i migranti bloccati nell’inferno libico. A parte i pochi rifugiati (somali e eritrei) che verranno riconosciuti dall’Onu, dove andranno tutti gli altri? Saranno rispediti nel disastro dei loro paesi, da dove sono fuggiti? È disumana la politica dell’Europa verso l’Africa quando proclama: “Aiutiamoli a casa loro”. Nel vertice di Abidjan (Costa d’Avorio), i leader Ue hanno promesso ai leader dell’Unione Africana (Ua) un Piano Marshall per l’Africa. Quanto sia ipocrita questa politica la si evince dal viaggio in Africa di Macron e di Gentiloni proprio alla vigilia del summit di Abidjan. Gentiloni ha visitato quattro paesi: Tunisia, Angola, Ghana e Costa d’Avorio, tutte nazioni dove l’Eni ha enormi interessi di petrolio e di gas. È una politica la nostra che non aiuta le comunità africane a rimettersi in piedi ma aiuta noi a continuare a saccheggiare il continente africano. Il vero slogan della nostra politica estera è: “Aiutiamoci a casa loro!” La maledizione dell’Africa è la sua ricchezza! È disumana la politica Ue di esternalizzare le frontiere per bloccare le rotte africane. La nuova frontiera per bloccare i migranti ora diventa quella saheliana: Niger, Ciad e Mali. È disumana questa politica perché finanziata utilizzando i soldi del Fondo per l’Africa e della Cooperazione italiana che dovrebbero invece essere usati per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni. Ben 50 milioni di euro di quei fondi finiranno nelle casse del Niger per la militarizzazione dei suoi confini. Come se questo non bastasse, l’Italia, d’accordo con Francia e Germania, schiererà in Niger una missione militare che nel 2018 conterà 470 soldati “per la sorveglianza e il controllo del territorio del Niger”. L’Italia ha già una presenza militare in Mali. Ne avremmo presto una anche in Ciad? È questa la politica disumana che la Ue e il nostro governo stanno perseguendo in questo continente crocifisso. Papa Francesco con grande coraggio ha bollato tali politiche disumane in tanti suoi interventi coraggiosi. Un coraggio che non trovo nelle chiese europee né in quella italiana. Troppo silenzio anche da parte degli ordini religiosi che operano in Africa. È necessario soprattutto che noi missionari condanniamo questa politica criminale del nostro governo e della Ue. Pena di morte, in Egitto impiccate 15 persone accusate di terrorismo La Repubblica, 3 gennaio 2018 L’anno si apre con un lungo elenco di esecuzioni in Egitto, Stati Uniti, Iran, Bahrain, secondo il consueto report di “Nessuno Tocchi Caino”. Ma anche di pene capitali commutate in ergastolo. Le autorità egiziane - si apprende dal sito di Nessino Tocchi Caino - hanno giustiziato 15 prigionieri condannati per attacchi contro le forze di sicurezza nella penisola del Sinai. Lo hanno riferito funzionari della polizia. Gli uomini sono stati impiccati nelle due carceri in cui erano stati rinchiusi da quando i tribunali militari li avevano condannati per gli attacchi omicidi nel Sinai. Si tratta della più grande esecuzione di massa effettuata nel Paese nordafricano dal 2015. Le impiccagioni sono state eseguite una settimana dopo che il gruppo dello Stato Islamico (IS) aveva attaccato un elicottero con un missile anticarro, in un aeroporto del Sinai del Nord, dove i ministri degli Interni e della Difesa del Paese si erano recati per una visita. I rappresentanti del governo del Cairo sono rimasti incolumi, ma un aiutante del ministro della Difesa è rimasto ucciso assieme ad un pilota. Arizona - Fine dell’isolamento nel braccio della morte. Il governo dell’Arizona mette fine all’isolamento nel braccio della morte e ne traggono vantaggio tutti. Il 23 luglio l’Amministrazione Penitenziaria aveva annunciato che stava cercando un accordo con i difensori di diversi detenuti del braccio della morte che contestavano il regime di stretto isolamento che veniva applicato “in automatico” per tutti i condannati a morte. Oggi, Carson McWilliams, alto dirigente dell’Amministrazione Penitenziaria, ha dato la conferma ufficiale: il regime di detenzione è stato attenuato e la cosa sembra avere inaspettati effetti positivi per tutti. “Le nuove condizioni di detenzione creano un’atmosfera dove i detenuti possono socializzare, con il risultato di minore ansietà, e questo aumenta il livello di sicurezza della prigione”. Calano i costi e le condizioni sono meno indecenti. Inoltre, secondo i dirigenti del carcere, sono diminuiti anche i costi di gestione del braccio della morte. Il regime precedente prevedeva che il detenuto rimanesse chiuso in una piccola cella per almeno 23 ore e i colloqui con familiari e avvocati erano senza contatto fisico, e ogni volta che il detenuto lasciava la cella veniva ammanettato dietro la schiena e subiva perquisizioni anche alla cavità anale, mentre le opportunità di fare esercizio fisico e una doccia venivano limitate a tre volte a settimana. Inoltre nel braccio della morte mancavano opportunità di lavoro, e non veniva svolta nessuna attività educativa. Il commento cinico del dirigente. McWilliams, nel rimarcare gli sviluppi positivi del nuovo regime, ha detto: “Più una persona è limitata all’interno di una cella, più è probabile che sviluppi depressione, ansia, o altri tipi di problemi mentali, che alla fine creano problemi al sistema penitenziario, sia che si tratti di autolesionismo, o suicidio, o aggressioni nei confronti del personale penitenziario o di altri detenuti”, ha detto cinicamente l’alto dirigente, sottolineando più i vantaggi economici e non solo per il sistema carcerario, che per il sebbene minimo progresso di trattamento per i detenuti, comunque destinati alla condanna capitale. “Oggi abbiamo bisogno di meno agenti - ha aggiunto McWilliams - perché non c’è più bisogno di consegnare i 120 pasti uno a uno, o di scortare ogni singolo prigioniero in ogni movimento”. Bahrain - Sei condanne a morte per terrorismo. L’Alta Corte Militare del Bahrain ha condannato a morte sei imputati, tra cui un soldato, con l’accusa di aver formato un gruppo terroristico, tentando di assassinare il Comandante in Capo della Forza di Difesa del Bahrain (Bdf) e di portare a termine attacchi terroristici. Secondo i documenti del caso, 18 sospetti erano accusati degli attacchi terroristici e della formazione del gruppo, ma solo 10 sono stati rinviati in carcere. Gli altri otto sono latitanti in Bahrein o all’estero, in Iran e in Iraq, secondo un rapporto diffuso dalla Bahrain News Agency (Bna). I sei condannati a morte dovranno scontare anche 15 anni di carcere e la revoca della cittadinanza. Iran - Due donne condannate all’impiccagione per adulterio. Una donna è stata condannata a morte per adulterio dalla prima sezione del tribunale penale di Alborz, nella omonima provincia. È la seconda condanna a morte emessa negli ultimi giorni nei confronti di una donna dalla magistratura iraniana. L’imputata, che sarebbe stata messa di fronte a prove inconfutabili e nell’impossibilità di difendersi, avrebbe ammesso le accuse. I giudici hanno quindi condannato la giovane a morte per adulterio, dopo aver esaminato il suo caso il 19 dicembre scorso, secondo il sito web Fararu, gestito dallo Stato. La seconda è madre di un bambino di 4 anni. Solo pochi giorni prima, una donna di 23 anni, madre di un bambino di quattro anni, è stata condannata a morte per omicidio. La donna, di nome Mojgan, è stata accusata di aver ucciso suo marito due anni fa, nel luglio 2015, quando aveva 21 anni. Secondo i media statali, il tribunale l’ha prima scagionata dall’accusa di omicidio premeditato e poi condannata a versare il prezzo del sangue per aver commesso un omicidio non intenzionale. La Corte Suprema, tuttavia, non ha confermato il verdetto e alla fine l’ha condannata a morte. Indonesia - Per un ex prete la pena capitale tramutata in ergastolo. La Corte Suprema indonesiana ha commutato la pena di morte emessa nei confronti di un ex prete cattolico per aver ucciso la sua amante - un’ex suora - e i suoi due figli, più di dieci anni fa. La Corte Suprema ha commutato la pena capitale in ergastolo, in seguito all’appello di Herman Jumat Masan, ex sacerdote della diocesi di Larantuka, che era stato condannato a morte dalla stessa Corte nel 2014, dopo aver annullato un originario ergastolo emesso da un tribunale di grado inferiore. Masan era ancora un prete quando ebbe una relazione illecita con Yosefin Kredok Payong, un’ex monaca che aveva lasciato la Congregazione delle Suore Serve dello Spirito Santo nel 1997. Strangolò suo figlio neonato. Il risultato fu la nascita di un primo figlio nel 1999 e - come risulta dagli atti del processo - Masan lo avrebbe strangolato per coprire la faccenda. La relazione, tuttavia, continuò e nel 2002 nacque un secondo bambino. Questa volta ci furono delle complicazioni che portarono Payong a soffrire di gravi emorragie e a morire, così come il bambino qualche tempo dopo. Masan fu accusato di omicidio per averli lasciati morire seppellendo poi i corpi nel complesso di una scuola appartenente al Seminario Maggiore di San Pietro, nel distretto di Sikka, nella provincia orientale di Nusa Tenggara. Lasciò il sacerdozio nel 2008 e andò nell’East Kalimantan prima di consegnarsi alla polizia nel 2012, in seguito alla scoperta dei corpi. Brasile. Maxi rissa in carcere, nove morti e oltre cento evasi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 gennaio 2018 Morti nove detenuti, tra i quali uno è stato decapitato, e oltre cento sono evasi. Questo è stato il frutto di una maxi rissa avvenuta in un carcere nello Stato brasiliano del Goias, al centro del paese. La rivolta è iniziata quando un gruppo di detenuti armati ha invaso un’ala del carcere controllata da un’altra gang, è seguita una sparatoria al termine della quale sono evasi un centinaio di detenuti e ne sono morti nove. Non è un caso eccezionale. Nei penitenziari brasiliani, risse del genere sono all’ordine del giorno. C’è una motivazione precisa. Le rivolte nelle carceri brasiliane si sono esasperate dall’inizio del 2017 ed erano legate ad uno scontro tra Cartelli per il controllo del traffico di coca. Quello che dal Perù e dalla Bolivia transita in Amazzonia e poi finisce in Europa. Per un business da un milione di euro a settimana sono morti, fatti a pezzi e decapitati, centinaia e centinaia di detenuti. Le rivolte, non a caso, avvengono all’interno di carceri situate nel nord del Paese, vicino alla frontiera amazzonica con Colombia, Perù e Bolivia, Stati che come noto sono grandi produttori di coca. Con la smobilitazione delle colombiane Farc (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) si è aperto, infatti, un vuoto importante per quanto riguarda la gestione del mercato della cocaina. Questo le fazioni criminali del Brasile, definite ancora “pre-mafie” perché prive di una struttura transnazionale, lo hanno capito benissimo. Riempire quel vuoto permetterebbe loro di fare un salto di qualità, crescendo in modo vertiginoso in potere e lucro. Se davvero le fazioni criminali brasiliane riusciranno nel loro intento, il rischio è che il Paese possa trasformarsi presto nella Colombia dei tempi di Escobar. Purtroppo le politiche governative finora sono state fallimentari. Oltre a subappaltare a società private la gestione di numerosi penitenziari, il governo centrale non è riuscito a fronteggiare l’emergenza posti letto. Così oggi, a fronte di circa 622mila detenuti che fanno del Paese il quarto al mondo per popolazione carceraria, la capienza massima resta di 372mila persone. A tutto questo si aggiunge una mappa della violenza in rapida crescita. Se davvero le fazioni criminali brasiliane riusciranno nel loro intento, il rischio è che il Paese possa trasformarsi presto nella Colombia dei tempi di Escobar. Purtroppo le politiche governative finora sono state fallimentari. Oltre a subappaltare a società private la gestione di numerosi penitenziari, il governo centrale non è riuscito a fronteggiare l’emergenza posti letto. Un sovraffollamento carcerario che fanno del Paese il quarto al mondo per popolazione carceraria. Ma la causa principale del sovraffollamento - come denuncia l’ultimo rapporto della Ong Human Rights Watch - è dovuta principalmente ad una interpretazione restrittiva della legge sulla droga. Approvato nel 2006, il provvedimento imponeva al giudice di valutare una serie di circostanze prima di comminare la pena: quantità sequestrata, storia e precedenti dell’imputato, condizioni in cui era avvenuto il fatto. Insomma, la condanna non doveva essere un atto automatico: ti hanno beccato con la roba, è illegale, applichiamo il codice e ti sbatto in galera. La riforma è stata praticamente disattesa. Così, rileva il dossier, se nel 2005 i detenuti per reati legati agli stupefacenti erano il 10 per cento, alla fine del 2016 erano il 28 tra gli uomini e il 64 tra le donne. L’aumento, quasi tre volte, non è dovuto tanto ad un incremento del traffico e dello spaccio che appaiono costanti, quanto piuttosto ad un’interpretazione restrittiva della legge. Le sue maglie sono buchi più che filtri. Il magistrato si ritrova davanti l’ennesimo imputato, scorre velocemente il rapporto della polizia, capisce subito di che si tratta e infligge la pena senza perdere molto tempo. Perché ce ne sono tanti altri come lui (o lei) in attesa con una storia più o meno simile. Il 40 per cento dei detenuti è in attesa di giudizio. La magistratura è sommersa dai casi legati agli stupefacenti. Il proibizionismo non perdona e, a quanto pare, non fa che aumentare il potere ai cartelli della droga. Iran. L’urlo delle piazze in fiamme: “ci picchiano con i bastoni” di Francesca Paci La Stampa, 3 gennaio 2018 Oscurati i social network: “Ma sappiamo aggirare la censura” “La repressione aumenta ogni giorno, gli agenti sono ovunque”. “Da tre giorni il governo blocca Telegram e Instagram come mai prima, non ho avuto alcuna connessione a Internet per ventiquattrore, ma questa conversazione prova che noi giovani iraniani troviamo sempre un’alternativa per comunicare”. Ali (un nome di fantasia come tutti gli altri citati in questo articolo), 31 anni, lavora in un centro grafico a Shiraz, è stato arrestato durante le proteste del 2009 e, ammette, non pensava di tornare in piazza adesso: “Il piano dei conservatori era di lanciare una grande protesta contro i riformisti a Mashhad, ma hanno fallito perché non si aspettavano questo effetto domino che si è rivoltato contro il regime. Non me lo aspettavo neppure io. E invece succede che persone di idee opposte fraternizzino in strada. Ogni giorno succede di più, anche se stamattina (ieri per chi legge) ci hanno picchiato fortissimo. Quelli come me, storici sostenitori dei riformisti, hanno capito che l’unica differenza tra i Rohani e i fondamentalisti è nei sorrisi: oggi li vediamo reprimere il popolo tutti insieme. Stanno dicendo che siamo infiltrati dall’estero, che siamo spie, a breve mostreranno finte confessioni in tv, può darsi che ci battano di nuovo ma ormai abbiamo capito e ormai è l’inizio della fine”. Il sesto giorno di rabbia contro il governo si chiude con decine di video che mostrano le forze di sicurezza disperdere brutalmente i manifestanti. Goli, 25 anni, seguiva le proteste da dentro la sua automobile, vicino all’università di Teheran. “La repressione è aumentata, gli agenti sono ovunque - racconta-. Oggi (ieri per chi legge) se ne contavano più degli attivisti, sono armati di bastoni e li usano, hanno colpito il vetro della mia macchina e mi hanno ordinato di andarmene, sono tornata a casa e dopo mezz’ora tremavo ancora dalla paura”. Gli slogan, diretti da subito, si sono fatti sfrontati come le scritte sui muri di Karmanshah, dove si legge “Down with Khamenei”, lo stesso impresso dal ‘79 sull’edificio dell’ex ambasciata americana a Teheran, “Down with the USA”. “Quando per strada senti gridare “Fondamentalista, riformista, questa è la fine della storia” capisci che la gente intorno a te non ha più pazienza” ci dice Ivan, studente di economia nella capitale. Ha contato meno persone che nei giorni scorsi, ha sentito l’odore della paura vera: “Dal 28 dicembre ogni sera il centro di Teheran si è acceso, adesso è più difficile, ci braccano, le persone tornano a casa ma la rabbia cresce. Qualcuno inizia a chiedere un referendum per cambiare il governo, altri immaginano uno sciopero del pagamento delle bollette: si torna a casa ma non domati”. Non tutti partecipano con lo stesso entusiasmo. La giovane impiegata Nahdal teme che finirà peggio del 2009 e preferisce non uscire. Il 31enne consulente finanziario Amir, emblema di quella classe media che diversamente dagli intellettuali engagé come il regista Asghar Farhadi è rimasta un po’ alla finestra, non si fida dei “sanculotti” affamati di pane ma non diritti. Eppure, la ragazza che sventola il chador da cui si è appena liberata ha fatto scuola: almeno altre due l’hanno seguita chiedendone la liberazione dal carcere, qualcuna potrebbe seguitare oggi, primo “white wednesday” della protesta, l’evento ideato dalla giornalista in esilio Masih Alinejad, ideatrice del movimento contro l’obbligo del velo “My Stealthy Freedom”. “Non è vero che queste proteste nascono dal nulla - ci spiega Alinejad. In piazza c’è la voce dei minatori che chiedevano 5 mesi di salari arretrati e sono stati arrestati, quella dei professori in sciopero contro lo stipendio misero silenziata mesi fa, quella di Narges Mohammadi imprigionata perché difendeva le donne sfregiate dall’acido, quella delle ragazze a processo per qualche capello scoperto: il piazza c’è la gente esasperata da 40 anni di regime clericale che ha privato il paese di qualsiasi opportunità”. Alinejad ha letto il tweet con cui il ministro degli esteri Zarif si pronuncia a favore delle protesta pacifiche. Una provocazione: “Era pacifica la protesta dell’insegnate Esmail Abdi, del conducente di autobus Reza Shahabi: sono tutti in cella. Erano proteste individuali ma essendo cadute nel vuoto hanno montato l’onda di oggi”. Iran. Rivolte imperscrutabili e assenza di ideologia di Marina Calculli Il Manifesto, 3 gennaio 2018 Dall’onda verde a oggi. La matrice delle rivolte che hanno marcato il passaggio dal 2017 al 2018 sembra, per il momento, ben differente dal 2009: la polifonia delle voci di piazza, l’assenza di una forza genuinamente contro-egemonica in grado di immaginare, prima ancora che perseguire, il cambiamento, ricorda piuttosto i momenti spontanei del 2011 nel mondo arabo, almeno per quel che possiamo constatare da un osservatorio lontano e nel tempo limitato di questo abbrivio di rivolta. La debolezza di quell’afflato rivoluzionario, come ha scritto lo studioso marxista Asef Bayat, è da ricercare non soltanto nella forza della repressione ma piuttosto nell’assenza di una vera “idea”. Entrate nel loro quinto giorno, le proteste iraniane restano un fenomeno imperscrutabile, quantomeno per la varietà di slogan e domande che le piazze in subbuglio hanno confezionato, mescolando la frustrazione di una classe lavoratrice tradita alla nostalgia confusa e grottesca per lo Shah, rovesciato nel 1979 dalla rivoluzione che portò a instaurare la repubblica islamica. Con 20 manifestanti uccisi molto probabilmente dalla polizia, nonostante i toni conciliativi di Rohani, il regime ha di fatto già mostrato quanto lo slancio verso un cambiamento reclamato dalla storia (e più volte interpretato e assecondato dalla stessa élite del regime) sia ancor più spesso trattenuto dallo sguardo corto della sua anima più autocratica e cinica. La reazione dell’establishment è certo ben diversa da quella che Ahmadinejad orchestrò durante la cosiddetta “onda verde” del 2009. Ma di fronte ai martiri di questa sollevazione popolare, l’evocazione di “agenti stranieri” mescolati alle piazze per seminare panico e sedizione risuona francamente come il solito disco rotto dei poteri insicuri e isterici. Questo, tuttavia, non vuol dire che e attori politici - all’interno e soprattutto all’esterno del paese - non siano già protesi verso un’operazione di sciacallaggio politico e strategico, capitalizzando sull’esposizione negativa che le proteste stanno dando al governo di Rohani ma soprattutto sul carattere destrutturato e confuso di queste rivolte per destabilizzare l’Iran secondo le proprie agende internazionali. Tanto per intenderci: la società iraniana, fin dal 1979, è pregna di una assai radicata opposizione politica al regime e all’uso strumentale di un conservatorismo religioso per limitare l’espressione della società, a partire dai corpi dei propri cittadini. Fu questo, per esempio, il caso dell’onda verde del 2009. Allora, un vero e proprio movimento per i diritti civili si strutturò attorno a Mir-Hossein Mousavi e Mehdi Karrubi, due figure politiche d’opposizione al governo di Ahmadinehjad ma pur sempre due membri dell’élite, chiedendo “dov’è il mio voto?” e denunciando i brogli elettorali concertati dall’establishment dell’allora presidente conservatore. Si trattava di un movimento ben strutturato, in continuità con l’attivismo degli anni ‘90, con un’agenda politica precisa che non mirava a rovesciare il sistema ma piuttosto a trasformarlo dal di dentro, percorrendo ogni possibilità offerta dal pluralismo iraniano. Il sistema politico della Repubblica Islamica permette, infatti, un genuino confronto democratico, seppur soggetto alle limitazioni evidenti di un clero oppressivo e autoritario. Non a caso, nonostante la durissima repressione del 2009, le istanze della piazza penetrarono nelle stanze del potere, innescarono un processo di (ulteriore) cambiamento che portò alla progressiva marginalizzazione di Ahmadinejhad e del suo circolo conservatore, fino all’elezione del riformista Rohani. L’apertura politica del presidente in carica ha segnato solo l’ultimo tassello di un processo trasformativo lento ma che, con alti e bassi, è cominciato all’indomani stesso della rivoluzione del 1979. La matrice delle rivolte che hanno invece marcato il passaggio dal 2017 al 2018 sembra, per il momento, ben differente da quella del 2009: la polifonia della piazza, l’assenza di una forza genuinamente contro-egemonica in grado di immaginare, prima ancora che perseguire, il cambiamento, ricorda piuttosto i momenti spontanei del 2011 nel mondo arabo, almeno per quel che possiamo constatare da un osservatorio lontano e limitato nel tempo di questo abbrivio di rivolta. La debolezza di quell’afflato rivoluzionario, come ha scritto lo studioso marxista Asef Bayat, è da ricercare non soltanto nella forza della repressione ma piuttosto nell’assenza di una vera “idea rivoluzionaria”. È proprio per questo che la restaurazione del nocciolo duro dei regimi e il trionfo delle forze islamiste (non protagoniste delle prime fasi delle rivolte) hanno prevalso nella resa dei conti tra il potere e le società nel mondo arabo. Il sospetto è che una dinamica simile si stia riproducendo in Iran oggi: in parte fomentata dai conservatori ostili a Rohani (e forse già sfuggite di mano anche a loro), in parte frutto del disappunto popolare delle classi lavoratrici per la politica economica del governo - impregnata di slanci neoliberisti e ultimamente focalizzata sui pesanti tagli ai sussidi, con l’inflazione in crescita e l’occupazione in calo - e in parte venata di rigurgiti “retrotopici”, che guardano ad una mai esistita “età dell’oro” proiettata nel passato (come il governo autoritario e corrotto dello Shah) per assenza di creatività programmatica rivolta al futuro. Il grande assente di queste piazze iraniane, finora più ristrette numericamente rispetto al 2009, è insomma l’ideologia, che a sua volta definisce la struttura dei movimenti: un vacuum entro cui facilmente potrebbero sguazzare attori indesiderati a gran parte della società. Non a caso, le rivolte propagatesi persino nelle città iper-conservatrici di Mashhad e Qom, non hanno avuto molta eco nella capitale, Teheran, dove il sentore è che buona parte della piccola e media borghesia ostile al regime tema decorsi imprevedibili e orchestrati da attori poco interessati al cambiamento democratico più in retorica che in prassi. Occorre ricordare che il “grande popolo iraniano” cui Donald Trump ha concesso l’euforico endorsement di un tweet è lo stesso stigmatizzato dal travel ban promosso dalla sua amministrazione. Inoltre, mentre i cori in favore della “transizione democratica” si sprecano sui media occidentali, è forse il caso di ricordare che un Iran reintegrato nella comunità internazionale facilmente conquisterebbe la leadership regionale: esattamente quello che la nuova Casa Bianca ha voluto scongiurare, boicottando il nuclear deal di Obama e rallentando il processo di sblocco delle sanzioni, provocando un arresto della crescita economica attesa all’interno del paese. La cautela epistemologica è insomma di dovere non certo per (s)cadere nell’elitismo intellettualista che tende a denigrare e orientalizzare qualsiasi protesta in Medio Oriente abbia gli onori della cronaca in occidente, accanto alle molte altre proteste ignorate o vilipese, soprattutto quando rivolte contro regimi amici. Ma il rischio è che il coro mediatico pressoché unanime nel suo appiattimento sul pregiudizio anti-Iran e recidivamente restio ad apprezzare la complessità tanto della società quanto del sistema politico di questo paese, finisca per materializzare - in questa post-modernità in cui le cose “accadono” prima di tutto nella dimensione virtuale della comunicazione - il wishful thinking dei circoli conservatori di Washington, Tel Aviv e Riad, piuttosto che il volere della società iraniana verso cui millanta vicinanza emotiva. Somalia. Un mondo spietato con i bambini di Federica Iezzi Il Manifesto, 3 gennaio 2018 Nel paese con i più alti tassi di malnutrizione acuta e mortalità infantile del mondo, dopo un anno di conflitti in cui 5 milioni di persone sono rimaste prive dei servizi sanitari essenziali. La salute è un modo potente per uno Stato di esercitare la sua autorità. E spesso le guerre civili coinvolgono Nazioni che sono grandi beneficiarie di aiuti internazionali. La malattia non rispetta i confini di un Paese. Tra i chirurghi italiani che operano nella regione del Somaliland, abbandonata dall’Oms perché “autonoma”. La situazione umanitaria in Somalia continua a deteriorarsi per portata geografica e complessità. Secondo il recente report Somalia - Humanitarian Needs Overview 2018, più di sei milioni di persone - dunque metà della popolazione, compresi tre milioni e mezzo di bambini - hanno bisogno di assistenza e protezione umanitaria. Il numero di bambini con diagnosi di malnutrizione acuta è aumentato del 50% dall’inizio del 2017, sfiorando il milione. I tassi di “Malnutrizione acuta globale” si confermano al 17,4%, ben al di sopra delle soglie di emergenza, fissate dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Oltre 5,7 milioni di persone hanno bisogno di servizi sanitari di base, compresi i bisogni critici nella salute materna e infantile. Malattie prevenibili nella prima infanzia come diarrea, colera e morbillo continuano a mietere spietatamente vittime. Più di 20.000 casi sospetti di morbillo sono stati recentemente segnalati nelle aree di Nugaal, Mudug, Bari, Banadir e Lower Shabelle, l’84% di questi casi in bambini sotto i dieci anni. E le promesse del governo di Mohamed Abdullahi Mohamed per il 2018, prevedono una campagna nazionale di vaccinazione contro il morbillo che si prefigge di raggiungere più di quattro milioni di bambini. Se l’attività vaccinale è ormai ritenuta come affidabile indice di qualità di buona sanità in Occidente, nelle realtà rurali africane è considerata ancora un bene di lusso. E il governo di Mogadiscio, al momento, si classifica negli ultimi posti del panorama mondiale. La copertura vaccinale del tetano-pertosse raggiunge il 51%, per il morbillo è stata invece segnalata una copertura del solo 6% nel periodo neonatale. Il sistema sanitario somalo è stato significativamente sotto pressione per anni a causa dell’instabilità legata al conflitto civile, che affonda le sue radici negli anni 90. Ulteriormente sovraccaricato durante il 2017 a causa di siccità, malnutrizione e malattie infettive, è stato contrassegnato da elevati tassi di morbilità e mortalità evitabili. La mancanza di un servizio di epidemiologia completo e affidabile, ha reso difficile identificazione, valutazione e informazione sui focolai infettivi in tutte le regioni del Paese, con riscontro di lacune nella fornitura di servizi conseguentemente faticoso. Per un bambino nato in Somalia, il rischio di morire è il più alto al mondo. Il tasso di mortalità dei bambini sotto i 5 anni è di 137/1000 nati vivi e il tasso di mortalità materna non è molto più rassicurante, è dello 0,7%. Su più di mille strutture sanitarie in Somalia, quasi 300 sono inaccessibili o impraticabili. C’è meno di una struttura sanitaria per 10.000 abitanti. Persino questi numeri nascondono le significative disuguaglianze in termini di disponibilità di servizi sanitari nelle diverse aree del Paese. Le stime attuali parlano di almeno cinque milioni di persone, rispetto ai 12 milioni della popolazione complessiva, senza accesso ai servizi sanitari essenziali. Almeno tre milioni di civili vivono in aree difficilmente raggiungibili dai corridoi umanitari, che cercano di far fronte al dramma di un Paese mai uscito dalla guerra, un Paese che cerca invano di opporsi al potere delle decine di milizie senza distintivo che amministrano il territorio. Nelle aree più colpite da conflitti e dislocamenti, la fornitura di farmaci essenziali e del materiale sanitario di base segue percorsi infiniti. Lo conferma il direttore internazionale del Mohamed Aden Sheikh - Children Teaching Hospital di Hargheisa, nella regione autonoma del Somaliland, il professor Piero Abbruzzese. “Il programma dell’ospedale - dice -, risultato della professionalità italiana, dovrebbe essere quello di autonomizzarsi almeno per le spese del personale e per le forniture mediche di base. Occorre ancora il supporto italiano invece per i programmi di teaching e per il reintegro di materiali di alta specializzazione”. L’ospedale resta un punto di riferimento nell’intero territorio del Somaliland, incidendo tenacemente sulle politiche sanitarie del Paese. La fornitura di servizi sanitari di base è ancora scadente per i circa 30.000 sfollati interni che abitano le regioni di Lower Shabelle e Galmudug. E considerando la grande portata degli spostamenti interni e la persistente siccità, gli sfollati interni delle aree di Doolow, Luuq, Baidoa, Marka, Bossaso, Garowe, Burco, Gaalkacyo e Buuhoodle, non hanno addirittura un accesso sicuro all’acqua. L’impegno esclusivo con le istituzioni ufficiali, in realtà valuta male l’impatto politico di quegli aiuti internazionali che dovrebbero essere neutrali e apolitici. La limitatezza di assistenza di base in quelle zone in cui la minima soglia di sicurezza non viene assicurata, alimenta il vortice della strumentalizzazione dell’accesso ai servizi sanitari, che sempre più spesso purtroppo etichetta il corso dei conflitti armati. E allora, il benessere diventa un modo ancora più potente per uno Stato di esercitare ed estendere la sua autorità. Spesso, i territori contesi nelle lotte civili, coinvolgono Nazioni catalogate come grandi beneficiarie di aiuti internazionali. Le malattie non considerano i confini di un Paese come limitazioni. Ne è un esempio evidente la regione indipendente del Somaliland, di fatto non riconosciuta come tale dalla comunità internazionale. Abbandonata totalmente, per esempio, dall’Organizzazione mondiale della sanità, che considera la sovranità di un Paese come prerequisito essenziale per l’accesso agli aiuti. Il risultato è una fetta di popolazione, che conta 750.000 persone rinchiuse nella soglia di povertà, esclusa da servizi igienici e sanitari, scolarizzazione, assistenza sociale. Con programmi centralizzati che si dimostrano inefficaci e fallimentari, la cooperazione diretta con le giurisdizioni locali, sembra l’unica soluzione. È proprio questo lo spirito su cui si basa il lavoro portato avanti dalla dottoressa Elisabetta Teruzzi, direttore f.f. della Chirurgia pediatrica dell’Azienda ospedaliero-universitaria Città della salute e della scienza di Torino, impegnata in una missione umanitaria al Mohamed Aden Sheikh - Children Teaching Hospital di Hargheisa. “Sono rimasta molto colpita dallo stato di indigenza in cui vive la popolazione del Somaliland - ci dice - e in particolar modo dalla mancanza dei basilari servizi igienici e sanitari. I bambini sono le persone che pagano di più in termini di malattie e istruzione, basti pensare che un bambino affetto da una patologia da trattare chirurgicamente, per poter essere assistito, non può che lasciare il Somaliland”. “Non esistono centri ospedalieri - prosegue Teruzzi - dove i piccoli pazienti vengano operati da chirurghi a loro dedicati e questo non solo in Somaliland, ma anche in tutto il territorio somalo e in quello della vicina Etiopia”. È innegabile che l’intera Somalia abbia fatto rilevanti progressi nel rafforzare i suoi servizi sanitari, ma restano aperte notevoli sfide da affrontare: un maggior sostegno nelle voci di bilancio annuale, che al momento garantisce meno del 3% al settore sanitario, l’enorme divario tra le aree urbane e quelle rurali, la necessità di una maggiore professionalizzazione e la regolamentazione dei servizi. Continua la dottoressa Teruzzi: “L’assistenza sanitaria è solo a pagamento presso cliniche fatiscenti. A una famiglia, composta mediamente da 6 o 7 figli, sottoporre uno di essi a una radiografia o a un’ecografia, costa dai 50 ai 100 dollari americani, l’equivalente di uno stipendio medio mensile. Tengo però anche a sottolineare che i medici e gli infermieri incontrati durante la missione umanitaria si sono rivelati tutti validi e preparati, anche se rassegnati alla situazione imperante. La speranza è quella di poter continuare a sostenere strutture di assistenza sanitaria, in cooperazione con le giurisdizioni ministeriali locali, in modo che tali strutture possano continuare ad esistere e lavorare dopo che le missioni internazionali abbiano concluso il loro intervento locale”. Germania. Il tweet di Beatrix che aiuta la legge sui “discorsi di odio” di Paolo Lepri Corriere della Sera, 3 gennaio 2018 La parlamentare di Alternative für Deutschland (il partito nato per combattere l’euro e poi diventato una forza nazionalista e xenofoba) è la prima vittima delle norme tedesche che puniscono li linguaggio aggressivo sui social media. È lei, Beatrix von Storch, la prima vittima della legge contro i “discorsi di odio” entrata in vigore il primo gennaio in Germania. Una coincidenza? Sembrerebbe proprio di no, visto che Alternative für Deutschland(il partito nato per combattere l’euro e poi diventato una forza nazionalista e xenofoba) aveva già criticato con durezza il provvedimento del governo Merkel firmato dal ministro della Giustizia Heiko Maas, socialdemocratico. Si ignora se la deputata di estrema destra abbia agito in modo calcolato, per diventare un simbolo, oppure se quanto è accaduto non sarebbe prima o poi dovuto accadere comunque. I fatti sono chiari. A Colonia (città teatro due anni fa di gravi aggressioni contro le donne compiute da gruppi di immigrati, segnale di un problema da affrontare e risolvere senza isterismi) la polizia ha diffuso a Capodanno una serie di messaggi augurali in varie lingue, tra cui l’arabo. Secondo von Storch lo scopo dell’iniziativa era blandire “orde di musulmani barbari e stupratori” in un Paese dove “non si sa più cosa possa succedere di peggio”. Il tweet è stato cancellato, come prevede il testo approvato dal Bundestag, e l’account sospeso per dodici ore. Anche la pagina Facebook della parlamentare di AfD è stata oscurata. Poi, una nuova dichiarazione: “Lo Stato costituzionale è finito”. Politici, intellettuali ed esperti di comunicazione si sono divisi, in queste settimane, sul giudizio nei confronti della legge, accusata da alcuni di violare la libertà di opinione. Il dibattito è aperto. Ma qualcosa va fatto per limitare il veleno sui social media. I tedeschi ci hanno provato e probabilmente stanno avendo ragione. Grazie anche al contributo di Beatrix von Storch.