In carcere da innocenti: ne entrano tre ogni giorno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 gennaio 2018 Dal 1992 a oggi sono state indennizzate in media mille persone all’anno. Mille persone ogni anno ricevono un indennizzo perché sono stati ingiustamente detenuti. È quanto emerge da uno studio elaborato dai curatori del sito errorigiudiziari.com, sui dati del ministero dell’Economia. Il 2017 si è chiuso con un dato in aumento sia per quanto riguarda i casi di ingiusta detenzione che hanno toccato quota 1013, contro i 989 registrati nell’anno precedente, sia per l’ammontare complessivo dei relativi risarcimenti che superano i 34 milioni. La città con il maggior numero di casi indennizzati è stata Catanzaro, con 158. Subito alle sue spalle c’è Roma (137) e a seguire Napoli (113), che per il sesto anno consecutivo si conferma nei primi tre posti. Dal 1992 a oggi, 26.412 persone hanno subito una ingiusta detenzione. Per indennizzarli lo Stato ha versato complessivamente poco meno di 656 milioni di euro. Va anche sottolineato che non tutti quelli che hanno subito una ingiusta detenzione riescono a ottenere l’indennizzo, perché i giudici valutano i contesti delle indagini. Lo scorso anno si è chiuso con un aumento dei casi di ingiusta detenzione e, di conseguenza, lo Stato ha sborsato più soldi in indennizzi. Questo è il dato relativo al 2017 elaborato da Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, giornalisti che curano il sito errorigiudiziari.com. Andando sullo specifico, gli autori dello studio, elaborando gli ultimi dati disponibili del ministero dell’Economia, sono riusciti a fare un raffronto con l’anno precedente. Il 2017 si è chiuso con un dato in aumento sia per quanto riguarda i casi di ingiusta detenzione che hanno toccato quota 1013, contro i 989 registrati nell’anno precedente, sia per l’ammontare complessivo dei relativi risarcimenti che superano i 34 milioni di euro. La città con il maggior numero di casi indennizzati è stata Catanzaro, con 158. Subito alle sue spalle c’è Roma (137) e a seguire Napoli (113), che per il sesto anno consecutivo si conferma nei primi tre posti. Gli autori fanno notare come nella top 10 dei centri dove è più frequente il fenomeno della ingiusta detenzione prevalgano le città del Sud: sono infatti otto su dieci, con le sole Roma e Milano a invertire la tendenza. Catanzaro e Roma sono anche le città in cui lo Stato ha speso di più in risarcimenti liquidati alle vittime di ingiusta detenzione: nel capoluogo calabrese lo scorso anno si è fatta registrare la cifra enorme di circa 8 milioni e 900 mila euro, ben più del doppio di quanto si è speso per i casi della Capitale (poco più di 3 milioni e 900 mila euro). Al terzo posto Bari con indennizzi versati per oltre 3 milioni e 500 mila euro, che scavalca Napoli, quarta in classifica con più di 2 milioni e 870 mila euro. Il tema delle ingiuste detenzioni e degli errori giudiziari è scottante, eppure in occasione dell’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario, il 26 gennaio in Cassazione, non è stato nemmeno sfiorato. Come mai? Provano a rispondere Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone di errorigiudiziari.com, spiegando che le 1000 persone che finiscono in carcere ingiustamente ogni anno, e che per questo ricevono un risarcimento, secondo giudici e procuratori costituiscono un “dato fisiologico”, una sorta di “effetto collaterale” inevitabile di fronte alla mole di processi penali che si celebrano ogni anno nelle aule dei tribunali italiani. Prendendo in esame gli ultimi 25 anni, i dati complessivi risultano una ecatombe. Dal 1992 a oggi, 26.412 persone hanno subito una ingiusta detenzione. Per risarcirli, lo Stato ha versato complessivamente poco meno di 656 milioni di euro. Se poi si includono anche gli errori giudiziari, il numero delle vittime sale a 26.550, per una somma totale di 768.361.091 euro in risarcimenti versati dal 1992 a oggi. Parliamo dunque di una media annuale di oltre 1000 casi, per una spesa superiore ai 29 milioni di euro l’anno. I dati dei soldi sborsati dallo Stato sono anche poco indicativi. Prendiamo ad esempio l’anno 2016: c’è stato un brusco calo di indennizzi per ingiusta detenzione rispetto agli anni precedenti. Quindi meno innocenti in carcere? No, il vero motivo è un altro. Lo spiegano gli stessi esperti del ministero dell’Economia e delle Finanze: le diminuzioni degli importi corrisposti a titolo di R.I.D. (Riparazione per Ingiusta Detenzione) soprattutto negli ultimi anni non sono conseguenza di una riduzione delle ordinanze, bensì della disponibilità finanziaria sui capitoli di bilancio non adeguata. È necessario distinguere l’ingiusta detenzione dagli errori giudiziari. Nel primo caso si fa riferimento alla detenzione subita in via preventiva prima dello svolgimento del processo e quindi prima della condanna eventuale, mentre nel secondo si presuppone invece una condanna a cui sia stata data esecuzione e un successivo giudizio di revisione del processo in base a nuove prove o alla dimostrazione che la condanna è stata pronunciata in conseguenza della falsità in atti. Nel caso di ingiusta detenzione, l’indennizzo consiste nel pagamento di una somma di denaro che non può eccedere l’importo di 516.456 euro. La riparazione non ha carattere risarcitorio ma di indennizzo. Nel caso dell’errore giudiziario, invece, c’è un vero e proprio risarcimento. Il caso più eclatante di risarcimento è avvenuto esattamente un anno fa. Si tratta del più alto risarcimento per un errore giudiziario riconosciuto in Italia. Sei milioni e mezzo per ripagare 22 anni di carcere da innocente e circa 40 anni vissuti con una spada di Damocle sulla propria esistenza, tra galera e attesa delle decisioni dei giudici da Giuseppe Gullotta. Alle carceri minorili si applicano le stesse regole di quelle per adulti. Dal 1975 di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 31 gennaio 2018 L’ordinamento penitenziario, la legge che regolamenta il funzionamento delle carceri italiane, risale al 1975. Una buona legge, pensata tuttavia per un mondo oggi molto cambiato, con istituti di pena oggi molto differenti. Basti pensare che negli anni 70 quasi non c’erano stranieri in carcere, mentre oggi sono circa un terzo della popolazione detenuta in Italia. Si è dunque pensato, complice anche la pesante condanna inflitta nel 2013 all’Italia dalla Corte Europea dei Diritti Umani, di scrivere una nuova legge. È un percorso che va avanti da anni, con grande profusione di impegno ed energie intellettuali. Un percorso che ha visto inizialmente una decretazione d’urgenza per intervenire prontamente dopo la condanna; poi ha attraversato quella grande consultazione pubblica voluta dal ministro della Giustizia Andrea Orlando che è andata sotto il nome di Stati Generali dell’esecuzione penale, coinvolgendo tanti magistrati, avvocati, operatori penitenziari, accademici, esperti, membri dell’associazionismo e producendo molto materiale di grande qualità; infine ha visto la composizione di alcune commissione ministeriali, che hanno lavorato alla scrittura concreta del nuovo articolato normativo, secondo criteri dettati da una delega parlamentare. Tra le cose da riformare, una delle più rilevanti riguardava la gestione delle carceri minorili. La legge del ‘75 conteneva una norma transitoria che stabiliva che la legge stessa, pensata per le carceri per adulti, poteva applicarsi ai minori solo fino a quando il legislatore non avesse provveduto a scrivere un ordinamento penitenziario apposito. Si pensava che sarebbe stata questione di poco tempo. Ma dopo oltre quarant’anni tale ordinamento non ha ancora visto la luce. Alle carceri minorili si applicano ancora oggi le stesse regole delle carceri per adulti, con una evidente irrazionalità che chiunque può ben comprendere. I ragazzi, che la giustizia spera di recuperare alla società, hanno esigenze formative, educative, relazionali, disciplinari, emotive differenti rispetto a quelle degli adulti. Il legislatore del 1975 aveva dato per scontato che servisse una normativa specifica, fidandosi tuttavia un po’ troppo di chi lo avrebbe succeduto. Cosa accade oggi? Che tutto quel percorso che ho sopra brevemente descritto - Stati Generali, commissioni ministeriali - è andato per le lunghe ed è arrivato alle porte delle prossime elezioni di marzo. Tra le potenziali nuove norme alle quali si è lavorato, c’è anche un ordinamento penitenziario specifico per gli istituti penali minorili. Ma nel frattempo sono arrivate le baby gang (che ovviamente ci sono sempre state), la campagna elettorale, i proclami urlati dalle pagine dei giornali. E la nuova legge penitenziaria minorile è rimasta dentro a un cassetto. Si aspettava nelle scorse settimane un suo passaggio al Consiglio dei ministri, ma esso non è avvenuto. Nei giorni scorsi i giudici minorili dell’Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia (Aimmf) hanno rilasciato un allarmato comunicato stampa nel quale ribadiscono “la non più rinviabile necessità di prevedere misure alternative conformi e misurate alle istanze educative del condannato per reati commessi durante la minore età”, ricordando come ai minorenni e ai giovani adulti “dal 1975 (cioè da oltre quarant’anni) vengono purtroppo applicate norme pensate per i detenuti maggiorenni; norme che, come ripetutamente richiamato dalla Corte Costituzionale, solo transitoriamente avrebbero dovuto colmare questa seria lacuna normativa”. Stiamo parlando di operatori della giustizia estremamente specializzati ed esperti nella valutazione dei minorenni, persone dalla grandissima professionalità e competenza che nel corso degli ultimi trent’anni hanno difeso il sistema italiano della giustizia minorile e lo hanno reso quel modello cui l’intera Europa oggi guarda. I magistrati richiamano “il valore che l’approvazione di questa normativa potrà assumere, anche in una prospettiva europea e internazionale, dotando di strumenti nuovi e così rafforzando la giurisdizione minorile nell’attuazione di un sistema penitenziario orientato ai principi espressi dagli artt. 27 e 31 della Costituzione, tanto più attuali se posti a confronto anche con recenti fatti di cronaca nei quali spesso i minori rivestono al tempo stesso il ruolo di autori e vittime dei reati”. La cronaca e l’attualità non devono essere usate dall’istituzione per rincorrere la pancia dell’opinione pubblica. Vanno gestite all’interno di strategie profonde, pensate e radicate nei valori di una società. La riforma auspicata dall’Aimmf e da tanti altri soggetti che si occupano di giustizia minorile va incontro a questi valori. Ci auguriamo che il governo lasci da parte le timidezze elettorali e presenti subito il nuovo testo di legge. *Coordinatrice associazione Antigone Dell’Utri e tanti altri Dell’Utri lasciati a rischiare la vita in cella di Piero Sansonetti Il Dubbio, 31 gennaio 2018 Il Garante dei diritti dei detenuti, Mauro Palma, ieri è tornato a denunciare il caso Dell’Utri. Palma ha spiegato che a lui non interessano le questioni giuridiche legate al processo Dell’Utri, né la posizione giudiziaria (ricorsi e controricorsi in cassazione e alla Cedu), né tantomeno la sua collocazione politica. Ma interessa il diritto alla salute. Perché tra i suoi compiti istituzionali c’è quello di proteggere il diritto alla salute dei detenuti. Palma ha ricordato cosa c’è scritto sulla nostra Costituzione. Articolo numero 32: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo”. Ha detto che questo diritto è sovraordinato rispetto a tutte le altre esigenze di giustizia. E ha proclamato che nel caso di Marcello Dell’Utri questo diritto è violato in modo aperto. Dell’Utri ha un cancro e altre patologie gravi. Per curare il cancro ha bisogno che la sua pena venga sospesa. Invece la magistratura ha deciso di non sospendere la pena e di offrire a Dell’Utri altre vie per curarsi. Ma queste vie si sono dimostrate inagibili, tutte. E Dell’Utri, da luglio è senza cure, e rischia di morire per colpa dello Stato Italiano. Sono passati sei mesi da luglio, il cancro procede, nessuno si preoccupa di fermarlo. Mauro Palma ha detto che gli interessa parlare di Dell’Utri anche per fare di una vicenda nota all’opinione pubblica un caso più generale. Marcello Dell’Utri non è l’unico detenuto in queste condizioni. Ce ne sono molti altri, in tante prigioni italiane. E di loro nessuno si occupa. Mentre anche loro, come Dell’Utri, hanno diritto a vedere applicato l’articolo 32 della Costituzione. Che invece, anche per loro, è spavaldamente violato. Il caso Dell’Utri è clamorosissimo non solo per l’ingiustizia evidente che viene realizzata nei suoi confronti. Ma per la notorietà del personaggio. Non è un ladro di passo, un bricconcello sconosciuto: è stato un grande imprenditore, è uno dei fondatori di Forza Italia, è un personaggio di primissimo piano nella storia politica della seconda repubblica. Uno può immaginare che nei suoi confronti l’autorità si comporti con un occhio di riguardo, e magari può arrabbiarsi per questo motivo, ma a nessuno viene in mente che invece l’autorità possa accanirsi, fino a negargli il diritto alla salute e fino a prendere decisioni che possono essere la causa di una condanna a morte. E invece avviene questo. O forse, più semplicemente, avviene per lui quello che avviene per molti altri detenuti malati. Ma questa circostanza non attenua, anzi accentua la gravità del caso. Lo Stato italiano sta violando la legalità. E in modo sconsiderato. Non solo rendendo feroce, e inumana, la pesantezza della pena verso Marcello Dell’Utri, ma mettendo con estrema leggerezza a repentaglio la sua vita. E probabilmente anche la vita di tante altre persone. Se leggete con una certa assiduità questo giornale avrete già letto molte storie simili. Che fanno fremere di rabbia. Di fronte a questa pochissimo edificante situazione, meraviglia il silenzio del mondo politico. Anche del mondo politico che è più vicino all’ex senatore di Forza Italia. Perché non insorge, perché non chiede conto? Ieri alla conferenza stampa c’erano solo i radicali. La moglie di Dell’Utri, che si sta battendo con tutte le forze che ha per salvare la vita al marito, è sola, con i suoi avvocati, con il garante, con le associazione dei diritti dei detenuti. E coi radicali. Ma questo forse è l’aspetto meno importante della vicenda. Non si può chiedere di intervenire solo agli amici di dell’Utri, sarebbe assurdo. Quella che è aperta non è una questione che riguarda le fazioni politiche, i partiti, i gruppi. Riguarda la civiltà. Anche il governo dovrebbe porsi la questione. Sarebbe giusto, sacrosanto, che lo facesse. Sì, anche in campagna elettorale. Anche se un provvedimento che dovesse avvantaggiare Dell’Utri potrebbe far perdere dei voti. La politica è “alta” quando è in grado di porre la civiltà davanti ai voti. E alla lunga la politica “alta” prevale sulla demagogia. Il Governo dovrebbe intervenire sul caso Dell’Utri. Non so come. Forse con un provvedimento urgente, se è necessario. Solo per ristabilire i principi della Costituzione. L’articolo 32. E per imporre ai tribunali di sorveglianza di sospendere la pena a chi ha una malattia grave, come lo è un tumore maligno, senza se e senza ma. PS: La questione delle carceri diventa sempre più attuale. E si presenta sempre più complicata. Non si può lasciare che vada in cancrena. Oggi pubblichiamo i dati sulle ingiuste detenzioni. Sono impressionanti. Ogni giorno vengono arrestati tre innocenti. Molti di loro restano in carcere per molto tempo. Subiscono una ingiustizia che segna a fuoco la loro vita. Sono vittime di un feroce atto di sopraffazione da parte dello Stato. Per colpa di chi? Non è vero forse che molti Pm e molti Gip utilizzano con troppa leggerezza, e talvolta anche fuori dalle norme di legge, l’arresto preventivo? Non c’è la possibilità di porre un freno a questo metodo? Non sarebbe utile, ad esempio, separare le carriere dei Pm da quelle dei Gip che dicono i dati - nel 99,9 per cento dei casi firmano senza obiezioni ogni richiesta di arresto? E la riforma carceraria, approvata in extremis dal governo Gentiloni, è ancora in attesa degli ultimi decreti. Se non ci saranno salterà tutto. Rita Bernardini è al nono giorno di sciopero della fame, per chiedere al governo di occuparsi di questa questione. Cioè di fare il proprio dovere. Qualcuno le risponde? La rabbia del Garante dei detenuti: “Dell’Utri ha diritto ad essere curato” di Valentina Stella Il Dubbio, 31 gennaio 2018 Mauro Palma: “non si può tollerare che non sia rispettato il diritto alla salute. È previsto dall’articolo 32 della Costituzione e viene prima di ogni altra esigenza di giustizia”. La difesa dell’ex senatore ha chiesto che l’udienza del Tribunale di sorveglianza del 2 febbraio sia a porte aperte. Marcello Dell’Utri e i suoi legali chiedono che l’udienza del 2 febbraio prossimo, nella quale il Tribunale di Sorveglianza di Roma dovrà esprimersi sulla richiesta di differimento della pena per le sue gravi condizioni di salute, sia pubblica. Lo hanno reso noto ieri, durante una conferenza stampa, gli avvocati dell’ ex senatore del PdL che sta scontando una pena a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa nel carcere romano di Rebibbia. Quel giorno Dell’Utri parteciperà in videoconferenza. “Vogliamo che l’udienza sia a porte aperte. Con un’udienza aperta ai giornalisti che potranno assistere al contradditorio delle parti - ha sottolineato l’avvocato Alessandro De Federicis che assieme alla collega Simona Filippi si sta occupando della vicenda - tutti potranno verificare la situazione di Dell’Utri e della mancanza di cure”, ha spiegato. “In questa vicenda - ha aggiunto il penalista - si devono vedere solo le carte, il nome di Dell’Utri deve essere messo da parte”. Attraverso il nuovo ricorso alla magistratura di sorveglianza, i legali dell’ex parlamentare tornano a sollecitare la scarcerazione per incompatibilità con le patologie di cui Dell’Utri soffre da tempo: l’uomo infatti ha una cardiopatia molto grave e una forma di diabete. A luglio gli è stato diagnosticato anche un tumore maligno alla prostata, “ma non ha ancora ricevuto cure” ha precisato la moglie Miranda Ratti Dell’Utri che ha spiegato: “Lo Stato dovrebbe garantire la salute di una persona che è sotto la sua custodia in quanto detenuto. Mio marito non vuole essere graziato, non vuole nulla che non sia giustizia - ha aggiunto. O si parla di diritto alla salute o si parla di pena punitiva”. Più in generale, riferendosi alla solidarietà dimostrata dai politici, la signora Dell’Utri ha detto: “I politici pensano alla politica non alla solidarietà, poi ci sono gli amici”, e ha ricordato l’impegno del Partito Radicale - tra gli intervenuti Rita Bernardini al nono giorno di sciopero della fame per l’approvazione definitiva della Riforma completa dell’Ordinamento Penitenziario - “che si batte da sempre per i diritti di chi sta in carcere”. Ha partecipato alla conferenza anche Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà: “Non si può tollerare che non sia rispettato il diritto alla salute di una persona. È previsto dall’articolo 32 della Costituzione e viene prima di ogni altra esigenza di giustizia. La magistratura di sorveglianza deve accertarsi che ciò che ordina sia concretamente eseguibile. Tali decisioni devono rispondere anche al criterio del diritto alla salute della persona, a prescindere dallo stato processuale. A me interessa la tutela dei diritti della persona, non il reato che ha commesso”. Palma si riferisce alla decisione del Tribunale di Sorveglianza che lo scorso 5 dicembre, rigettando la richiesta di differimento della pena avanzata dai legali di Dell’Utri, suffragata dalle cattive condizioni di salute del detenuto, aveva stabilito che la terapia sarebbe potuta essere effettuata in costanza di detenzione, piantonato h24, sia in regime ambulatoriale che in ricovero ospedaliero. Secondo il Tribunale, nonostante anche il parere contrario alla detenzione carceraria dei consulenti del procuratore generale di Roma, Dell’Utri avrebbe potuto fare la radioterapia recandosi ogni mattina dal carcere per 7 settimane circa in ambulatorio: tale procedura è stata fortemente sconsigliata dai medici del carcere perché avrebbe stressato ancora di più la salute del 76enne. L’alternativa era quella di recarsi in un centro ospedaliero protetto: ipotesi esclusa per un cardiopatico, dovendo il paziente rimanere sempre chiuso in stanza, senza poter accedere all’aria aperta. Appurato ciò, Palma il 21 dicembre scrive alla presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma che ha rigirato il giorno successivo gli atti al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e alla direzione del carcere di Rebibbia. Il 10 gennaio il magistrato di sorveglianza d’ufficio apre un fascicolo sulla possibilità di concedere la detenzione domiciliare a Dell’Utri, il 16 determina che non sussistano elementi di urgenza ma allo stesso tempo fissa l’udienza del prossimo 2 febbraio. Sull’operato della magistratura di sorveglianza al termine della conferenza abbiamo chiesto un commento all’avvocato De Federicis, esponente dell’Unione delle Camere Penali Italiane: “Noi abbiamo acceso un focus sulle problematiche della magistratura di sorveglianza; la popolazione detenuta sta crescendo molto, in particolare i definitivi, che sono di competenza della magistratura di sorveglianza. Le risorse e i mezzi sono scarsi. Premesso ciò, ho sempre sostenuto che il magistrato di sorveglianza, che dalla stessa magistratura è ritenuto una magistrato di serie B, in realtà ha un compito che bisognerebbe affrontare con uno spirito quasi missionario. Perché se uno non ha la cultura della rieducazione è chiaro che è più facile comunicare col detenuto in video conferenza, durante la quale insieme al recluso ci sono gli agenti penitenziari che gli impediscono in teoria di denunciare eventuali torture, minacce, pestaggi. Allora questo tipo di atteggiamento di tale magistratura che non si vuole muovere dall’ufficio perché casomai deve lavorare su altri cento fascicoli può derivare da una mancanza di vocazione e di attinenza al principio costituzionale della rieducazione durante la pena”. Una politica del diritto, nel segno del realismo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2018 Forse anche per il mondo del diritto è arrivata l’epoca delle passioni tristi. Senza più ambizioni per grandi disegni. Non è detto tuttavia che sia un male. E il ministro Andrea Orlando un po’ lo rivendica nell’intervento di sabato scorso, a Catanzaro: “non è più l’epoca, e non credo sia un caso per esempio, nella quale si realizzano grandi codificazioni. Una grande codificazione ha l’esigenza di avere alle spalle una visione omogenea del diritto penale o di quello civile. E una visione omogenea sarà sempre più difficile costruirla”. Una presa d’atto all’insegna del realismo alla quale si è conformata questa stagione di amministrazione della giustizia. Forte di una maggioranza debole e composita, non sembri un paradosso, il Governo ha navigato tutto sommato con buona efficacia. Con successi e limiti che in questa settimana di dati e cerimonie sono emersi con evidenza. Perché allo scorcio finale della legislatura una serie di risultati è stata senza dubbio raggiunta, da un clima migliore nei rapporti tra politica, magistratura e avvocatura, alla possibilità di affrontare il tema delle riforme contando su un contesto di dati più affidabile e raffinato. A diminuire, sia pure in maniera via via meno accentuata, sono arretrato e durata dei procedimenti, penali e civili. Certo ancora troppo poco per dare per acquisita una vera e propria svolta, ma la conferma di una progressione positiva. E poi, da una parte si è proseguito giustamente su interventi già avviati, senza stravolgerli, vedi nuova geografia giudiziaria, dall’altra si sono affrontati nodi irrisolti da anni come la prescrizione, con un po’ troppa timidezza, la responsabilità civile dei magistrati, con esiti meno catastrofici di quelli temuti, le intercettazioni, la riscrittura del falso in bilancio. Certo all’amministrazione della giustizia sarebbe improprio guardare con i soli occhiali dell’economista, in termini quali trend, stock, performances: l’irritazione del giurista sale e non è detto che la soddisfazione del cittadino migliori. Il punto di equilibrio è allora per definizione precario e da cercare con insistenza. Molte valutazioni sugli interventi realizzati sono oltretutto premature. Alcuni (vedi le nuove norme sulle intercettazioni) neppure in vigore, altri ancora da approvare definitivamente, come il nuovo ordinamento penitenziario. Altri infine tramontati, dopo essere stati abbozzati, come la riforma della crisi d’impresa, la procedura civile o la riforma costituzionale del Csm. Molto, non tutto, ma la stagione del pensiero debole non avrebbe potuto fare di più e di meglio. Se i legali dei boss processano i cronisti di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 31 gennaio 2018 Bologna, nel dibattimento contro la ‘ndrangheta del Nord gli avvocati accusano i giornalisti di essere di parte. E annunciano un osservatorio per l’informazione giudiziaria. Ordine e sindacato: “Tentano di intimidirci”. Anche ieri mattina c’erano tutti, come nelle precedenti 153 udienze che si sono celebrate a partire dal marzo 2016. Erano seduti in fondo all’aula bunker realizzata per il processo “Aemilia” nel cortile del tribunale di Reggio Emilia. In quello stanzone i cronisti che raccontano la ‘ndrangheta al nord non sono graditi. Ospiti fastidiosi per i 151 imputati e per molti dei loro legali, che li accusano “di essere di parte” e che per questo annunciano un “osservatorio per l’informazione giudiziaria”. Così nell’aula in cui si sta celebrando il più imponente procedimento contro i clan calabresi al nord Italia, si sta di fatto consumando un secondo processo, dove i penalisti siedono sul banco dell’accusa e i giornalisti si difendono parlando di “tentativo di intimidazione”. I primi a passare all’attacco sono stati gli avvocati di Modena che hanno annunciato un osservatorio perché “spesso l’informazione diventa strumento dell’accusa per ottenere consensi e così condizionare l’opinione pubblica e di conseguenza il giudicante”. Una follia per ordine e sindacato (sia nazionale che regionale) dei giornalisti che hanno espresso “grande preoccupazione di fronte a un’iniziativa che pare avere sapore intimidatorio”. Iniziativa, tra l’altro, arrivata nei giorni in cui uno dei pentiti ha raccontato che i clan stavano pensando di “sistemare un cronista (di cui non sapeva il nome) troppo curioso”. Qualche giorno dopo ai modenesi si sono aggiunti anche i penalisti reggiani preoccupati del “processo mediatico che ha assunto aspetti tali da condizionare e deformare la realtà”. L’insofferenza nei confronti dei cronisti è storia vecchia. Nell’abbreviato il giornalista Marco Gibertini è stato condannato in secondo grado a 9 anni e 4 mesi perché si era messo a disposizione dei clan. Allo stesso tempo però alcuni “amici” della cosca sono stati condannati per le minacce ai danni di altri due cronisti (Sabrina Pignedoli e Gabriele Franzini). È evidente che l’informazione non è mai piaciuti ai boss di Cutro. A gennaio 2017 i detenuti hanno chiesto udienze a porte chiuse contro la stampa di parte. Istanza respinta. A luglio poi, un avvocato li ha accusati in aula di “scrivere falsi” e dalle gabbie i picciotti gli hanno fatto eco urlando “in galera”. Tensioni, che si sono acuite quando alcuni pentiti hanno raccontato di avvocati che portavano fuori dal carcere gli ordini dei capi clan. L’anomalia di chi vuole raccontare, di Giovanni Tizian Sentivamo la mancanza di un Osservatorio sull’informazione giudiziaria. Non c’è che dire, l’iniziativa della Camera penale di Modena è encomiabile. L’esperimento - analogo a quello istituito dall’Unione delle camere penali - trasforma gli avvocati in giudici morali del lavoro di altri professionisti già dotati di un ordine professionale e di un codice deontologico. Scopriamo così che tra i mali peggiori di questo Paese dopo mafie, evasione e corruzione, ci siamo noi giornalisti. Dunque, l’anomalia in Emilia è chi racconta gli affari delle cosche, le mazzette negli appalti, le corruzioni, i furbetti del Fisco, le infiltrazioni nella ricostruzione post terremoto, il caporalato antico e moderno. L’anomalia sono i colleghi minacciati dai clan, come Sabrina Pignedoli del Resto del Carlino e Gabriele Franzini di Tg Reggio che si sono costituiti parte civile nel maxi processo “Aemilia” contro la ‘ndrangheta emiliana e hanno ottenuto il risarcimento oltreché le condanne anche in appello dei mafiosi. L’anomalia sono tutti quei cronisti - tanti giovanissimi e precari - che a rischio della propria incolumità consumano la suola delle scarpe e raccontano dai palazzi di giustizia e dalla strada i poteri criminali, la collusione con la politica e le professioni, comprese le deviazioni della nostra stessa categoria. Il giornalista, soggetto pericoloso da mettere sotto osservazione, professionista di cui diffidare perché chissà da quale interesse è mosso. I boss imputati, invece, sono liberi di chiedere processi a porte chiuse per tenere fuori la stampa nella Reggio Emilia medaglia d’oro della Resistenza. Per questo non stupisce l’iniziativa della Camera penale di Modena. Il clima è quello che è, il lessico è ricco di termini offensivi nei confronti di chiunque provi a scavare nella realtà. Pennivendoli, il più in voga. E poco importa se un anno fa un giudice di Bologna stabiliva, in una sentenza contro un clan calabro-emiliano, che minacciare un giornalista è un atto eversivo, un attentato alla Costituzione. Il problema restano le parole scritte e pronunciate, i fatti documentati, le inchieste giornalistiche che spesso scatenano piogge di querele infondate e temerarie, usate per intimidirci. E benché certi dell’imparzialità di questo Osservatorio-tribunale speciale, suscita qualche perplessità la presenza tra chi dovrà “giudicare” e monitorare l’informazione di avvocati retribuiti per difendere clienti del giro della cosca della ‘ndrangheta d’Emilia. Un clan spavaldo a tal punto da urlare “in galera” ai cronisti presenti in aula e di intimidirne altri che hanno svelato gli affari dei padrini in Val Padana, trasfigurata in una Palermo anni 80. Avvocati contro giornalisti? Una falsità. Il nostro obiettivo è il processo mediatico di Renato Borzone* Il Dubbio, 31 gennaio 2018 Nei giorni scorsi il direttore Sansonetti si è già occupato della polemica sollevata dall’Ordine dei giornalisti sulla istituzione degli Osservatori sulla informazione giudiziaria degli avvocati penalisti modenesi, accusati di voler esercitare una forma di censura sulla stampa e di volersi asseritamente occupare di “screditare” il processo “Aemilia”. La polemica, tuttavia, non si è stemperata, e con un articolo on line del 30 gennaio, Il Fatto Quotidiano e un intervento sul blog di “Articolo 21”, si torna alla carica con titoli che già dicono tutto: “Gli avvocati controllano i giornalisti”. Nei brani, ancora una volta, previa la identificazione tra avvocati e loro assistiti propria di concezioni culturali autoritarie, si tornano ad accusare i legali di voler intimidire la stampa, di voler limitare il diritto di cronaca e di denunciare solo i casi di processi relativi a imputati ricchi, o potenti, o legati alla criminalità. E, stavolta, viene chiamato in causa anche l’Osservatorio nazionale sull’informazione giudiziaria dell’Unione Camere Penali italiane ed il libro bianco sull’informazione giudiziaria italiana, pubblicato con il controllo scientifico dell’Università di Bologna. Si reiterano poi le accuse ai legali di Modena e Reggio Emilia di voler usare strumentalmente gli osservatori per condizionare il processo Aemilia. Ferme restando le puntuali risposte già date dai colleghi emiliani e dal presidente Ucpi Migliucci e pubblicate dal Dubbio, quello che è davvero preoccupante (per chi dovrebbe fornire una informazione imparziale anche se riguarda la propria categoria) è la strumentalizzazione ed il travisamento delle altrui posizioni e la lettura distorta del libro bianco. Questa pubblicazione ha esaminato, su 25 quotidiani italiani, circa 8000 articoli di cronaca giudiziaria in sei mesi: articoli che riguardavano ogni tipologia di processo (per intenderci, anche quelli ai “poveri cristi”), raccogliendo dati che - seppure opinabili e discutibili come tutti - hanno consentito una lettura di politica giudiziaria sulla quale si è chiesto un confronto leale con i giornalisti. Confronto che in questi ultimi anni vi è stato (il libro è stato presentato in numerose città, presso diverse Università ed in altre sedi pubbliche: sempre invitando giornalisti e dando luogo a un dibattito anche acceso ma sempre civile). Il libro bianco propone certamente una tesi polemica: le risultanze della ricerca hanno dato conferma che, con le dovute e rispettabili eccezioni, l’impostazione delle cronache giudiziarie è quasi totalmente appiattita sulle tesi dell’accusa e sulla fase delle indagini preliminari e di polizia; lo spazio dato alla difesa è percentualmente irrisorio; le notizie pubblicate provengono in percentuale bulgara dall’accusa; le pubblicazioni avvengono molto spesso in violazione del disposto di due norme del codice (114 II co. e 329 c. p. p.) che vietano di riprodurre la testualità di atti processuali anche quando è venuto meno il segreto; le “fughe” di notizie comportano che spesso i legali apprendano notizie ed atti prima dalla stampa che nelle sedi processuali; l’immagine di chi è sottoposto al processo è “mascariata” prima ed a prescindere dal processo. E il tratto più preoccupante ed evidente è lo stabilirsi di un asse tra investigatori e informatori destinato, volontariamente o meno, a condizionare o a rischiare di condizionare gli sviluppi del processo (si pensi a testimoni che depongono dopo mesi di bombardamento mediatico e agli stessi giudici: proprio ieri, sul Dubbio, il presidente del Tribunale di Torino, non un avvocato “prezzolato”, ha denunciato il pericolo di un giudice preoccupato di assumere decisioni “impopolari”). Detto questo, non si pretende ovviamente che questa analisi sia accolta con entusiasmo, ma che almeno non sia stravolta: è falso, gravemente falso, che i penalisti vogliano limitare il diritto di cronaca ed è preoccupante che si assuma essere impossibile criticare il mondo dell’informazione giudiziaria: se “Articolo 21” ha letto il libro bianco troverà, contrariamente a quanto afferma, più volte richiamata la sacertà della libera manifestazione della critica giornalistica; se ha letto i documenti dell’Osservatorio, troverà anche quelli a difesa del segreto professionale dei giornalisti (mentre questi ultimi appaiono indifferenti alle violazioni di quello degli avvocati). E troverà anche spunti fortemente critici verso quegli avvocati che fanno strame del loro ruolo partecipando ai “processi mediatici” televisivi. Ed allora, posto che un confronto si impone senza toni (quelli sì) intimidatori, per una volta l’informazione giudiziaria - o almeno quella che assume queste posizioni - si interroghi anche su sé stessa, al di là delle norme di legge: sul rapporto con le proprie fonti investigative; sull’assenza di spirito critico verso le prospettazioni accusatorie; sulla necessità di rispettare la presunzione di innocenza; sulla impostazione che viene data alle notizie, ai titoli, alle decisioni assolutorie che vengono considerate “spreco di indagini”. E quanto all’accusa che ci viene rivolta di occuparci solo dei potenti, per una volta, completi il proprio compito informativo: si vada a documentare sulle battaglie storiche dell’Unione delle camere penali sui diritti dei migranti, sui processi agli stranieri, sulle denunce sui Cie, sul rispetto delle regole in ogni processo, chiunque sia accusato. Ché solo in Italia ricorre l’equivoco che “il potere” sia solo la politica, e che la magistratura sia il “contropotere”. *Responsabile dell’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione Camere Penali Italiane Gratuito patrocinio: no compenso al difensore se inammissibilità ricorso era prevedibile di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2018 Corte costituzionale - Sentenza 30 gennaio 2018 n. 16. L’esigenza di assicurare un punto di equilibrio tra il diritto di difesa e il contenimento della spesa pubblica in materia di giustizia, giustifica il mancato compenso al difensore della parte ammessa al gratuito patrocinio se il ricorso è considerato inammissibile, per una ragione che poteva essere prevista prima della proposizione. La Consulta, con la sentenza n.16, depositata ieri, considera non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione all’articolo 106 del Dpr 115/2002, nella parte in cui prevede che il compenso al difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato non venga liquidato in caso l’impugnazione venga dichiarata inammissibile, senza distinzione alcuna in merito alla causa di inammissibilità. Il giudice remittente aveva sollevato la questione relativamente ad un ricorso con il quale l’avvocato reclamava il suo compenso per una causa conclusa con il verdetto di inammissibilità per sopravvenuta mancanza di interesse, pur trovando fondate le ragioni dedotte dal ricorrente. Secondo il giudice remittente dunque la norma censurata non consentirebbe distinzioni tra i motivi neppure nel caso in cui, come nella vicenda esaminata, la proposizione del ricorso sia legittima, opportuna e necessaria. Per la Consulta però il risultato che il remittente chiede di raggiungere attraverso una sentenza di accoglimento è già insito nella ratio della norma. Non è vero infatti che la disposizione non escluda, se correttamente interpretata, dal suo raggio d’azione i casi in cui la ragione di inammissibilità sia in una carenza di interesse a ricorrere sopraggiunta per ragioni che erano del tutto imprevedibili al momento della presentazione del ricorso. Il comma 1 dell’articolo 106, ha infatti inteso scoraggiare chi propone, a spese dello Stato, impugnazioni del tutto superflue, semplicemente dilatorie e prive di effetti a favore della parte “il cui esisto di inammissibilità sia largamente prevedibile o addirittura previsto prima della presentazione del ricorso. Il presupposto interpretativo errato comporta la dichiarazione di non fondatezza della lesione dell’articolo 36 della Costituzione Legittime le videoriprese del lavoratore se è imputato di appropriazione indebita di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 30 gennaio 2018 n. 4367. In presenza di un reato le videoriprese hanno pieno valore probatorio. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 4367/18. La Corte si è trovata alle prese con una lavoratrice che, proprio in funzione degli accertamenti condotti, era stata ritenuta responsabile di appropriazione indebita. I gradi di giudizio - In primo grado la condanna era stata di 6 mesi di carcere, in appello in funzione della scelta del rito abbreviato la sanzione si era dimezzata a tre mesi di reclusione. Contro la decisione è stato presentato ricorso evidenziando l’uso illegittimo della videoriprese. I Supremi giudici, in piena sintonia con i giudici di merito hanno ritenuto utilizzabili i risultati delle videoriprese effettuate con la telecamera all’interno del luogo di lavoro ricordando che - secondo un consolidato orientamento di legittimità - le immagini sono utilizzabili nel processo penale, ancorché imputato sia il lavoratore subordinato. In particolare i risultati attraverso questi mezzi servono al datore di lavoro per esercitare un controllo a beneficio del patrimonio aziendale messo a rischio da possibili comportamenti infedeli, in quanto le norme dello Statuto dei lavoratori poste a presidio della loro riservatezza non fanno divieto dei cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l’esistenza di un divieto probatorio. Fatte queste precisazioni la Corte ha rilevato come fossero fuori luogo anche le affermazioni secondo cui le videoriprese fossero state eseguite “non in maniera consequenziale, non progressivamente, ma solo a giorni e orari scelti dai titolari della gelateria”. Conclusioni. Il ricorso è stato dichiarato inammissibile con la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di 2mila euro a favore della cassa delle ammende. Depenalizzazione delle omesse ritenute senza inversione dell’onere della prova di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2018 Corte di cassazione, Terza sezione penale, sentenza 7 dicembre 2017 n. 55020. Depenalizzazione ampia per le omesse ritenute. Scatta sulle pronunce già passate in giudicato e per le mensilità contestate. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. n. 4206 depositata ieri. La Corte ha così accolto il ricorso presentato dalla difesa di un imprenditore che, condannato definitivamente per omesso versamento di trattenute previdenziali, si era visto respingere dal tribunale, chiamato in causa come giudice dell’esecuzione, la richiesta di revoca del decreto penale di condanna. Il tribunale aveva ritenuto che l’imprenditore, malgrado l’avvenuta (parziale) depenalizzazione dell’inizio 2016 non avesse tuttavia fornito prove del mancato superamento della soglia di punibilità con riferimento a tutte le altre mensilità dell’anno: la condanna infatti aveva riguardato una sola mensilità. Una tesi che però non è sostenibile, sottolinea la Cassazione. Che innanzitutto ricorda che la sottrazione all’area del penalmente rilevante della condotta di omesso versamento di ritenute al di sotto della soglia di 10.000 euro all’anno riguarda anche fatti antecedenti alla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 8 del 2016. Trattandosi poi di abolitio criminis, spetta al giudice dell’esecuzione la revoca della sentenza definitiva o del decreto penale di condanna. In questo contesto, allora, il tribunale è andato oltre quanto avrebbe dovuto fare sul punto: non poteva cioè procedere a una rivisitazione del giudizio di merito. Avrebbe invece dovuto solo accertare la perdita di efficacia della norma incriminatrice nel caso esaminato dal momento che la violazione contestata per il mese di riferimento era ampiamente sotto la soglia di punibilità (arrivava infatti a poco di 3.500 euro). Anche la circostanza che la norma incriminatrice sia stata abrogata solo in parte, poteva consentire al tribunale, se avesse voluto procedere a una ricognizione su tutto l’anno di riferimento, di valorizzare eventualmente nel caso già giudicato elementi della nuova disciplina (come, per esempio, il superamento delle soglie) “utilizzando nell’ambito di una sostanziale ricognizione del quadro probatorio già acquisito, elementi che, irrilevanti al momento della sentenza, fossero, alla luce del diritto sopravvenuto, divenuti determinanti per la decisione sull’imputazione contestata”. Non è possibile invece che si verifichi, per effetto dell’operazione di depenalizzazione, un’inversione dell’onere della prova come invece ritenuto dall’ordinanza impugnata. Tocca al pubblico ministero la contestazione di eventuali e ulteriori mensilità rimaste inevase che determinano il superamento della soglia di punibilità con riferimento all’annualità oggetto di contestazione. Padova: cellulari in cella. Il direttore: “rischio isolamento per chi li utilizza” di Marina Lucchin Il Mattino di Padova, 31 gennaio 2018 Il nuovo direttore del carcere: “Non ci sono agenti infedeli”. Quindici giorni di isolamento e l’esclusione dalle attività ricreative o di lavoro. È questo quello che spetta ai detenuti della Casa di reclusione di via Due Palazzi che vengono scoperti dalla polizia penitenziaria con un cellulare a loro disposizione. D’altro canto il carcere di Padova nel suo recente passato è stato colpito dallo scandalo dei telefonini in cella, un mercato nero all’interno della prigione che è stato scoperchiato dagli stessi agenti della Penitenziaria assieme alla Squadra mobile. A spiegare la situazione è il nuovo direttore della struttura, Claudio Mazzeo, 58 anni, che venti giorni fa è arrivato a Padova dopo le esperienze delle case di reclusione di Trapani, Catania, Caltagirone e Cuneo. Al suo fianco il comandante della Penitenziaria, Carlo Torres, e l’assistente capo Andrea Azzarito del nucleo traduzioni e piantonamenti. “Il problema dei cellulari in carcere - evidenzia Mazzeo - è noto e non riguarda solo Padova, ma tutta Italia. Detto questo, di agenti infedeli qui non ce ne sono più e io mi fido sia dei miei uomini che dei volontari. Se entra qualcosa, cellulari o droga che sia, arriva da chi viene in visita o se lo portano loro quando rientrano dall’esterno”. Il comandante evidenzia: “Siamo molto bravi a scoprirli, in ogni caso. Ci sono dispositivi che riescono a passare per il metal detector, ma ora ci sono sistemi che permettono di captare il segnale. Quel che ci piace ricordare è che se l’operazione del 2014 ha permesso di identificare i colpevoli, tra cui dei colleghi, è stato grazie a noi che ci siamo impegnati a eliminare queste mele marce”. Il direttore spiega che solo una minima parte dei detenuti cerca questi escamotage: “La maggior parte di loro rispetta le regole e sa che non deve farlo, perché sennò ci rimetterebbero loro che finirebbero in isolamento e perderebbero alcuni privilegi. La legge consente di installare telefoni nelle celle, che i carcerati possono utilizzare per chiamare la famiglia. E se c’è una telefonata in più per sentire i parenti, non è mai stata negata”. Mazzeo evidenzia la preparazione degli agenti della Penitenziaria di Padova: “Questi poliziotti affrontano con una sensibilità esemplare il loro lavoro. Gli vengono richieste sempre più competenze, specialmente ora che è sorto il problema della radicalizzazione dei potenziali terroristi, che sappiamo avviene per buona parte proprio in carcere”. A tal proposito i sindacalisti hanno accusato l’amministrazione di lasciare impreparati gli agenti, ma il comandante Torres assicura che la situazione è diversa: “I corsi ci sono. Certo è un problema recente e quindi anche la preparazione è agli inizi, ma basti pensare che alcuni poliziotti hanno imparato l’arabo per poter comprendere meglio determinate dinamiche. Siamo noi che osserviamo e valutiamo i detenuti per capire se stanno covando credenze e convinzioni pericolose. Qui, ad esempio, ce ne sono 8 di “sorvegliati speciali”. Azzarito evidenzia a questo riguardo la missione di cui si sentono investiti i suoi colleghi: “Essere un poliziotto penitenziario è semplicemente dedizione e sacrificio in relazione del fatto che si hanno di fronte situazioni non sempre semplici, anzi, spesso presentano grandi difficoltà”. Infine non poteva mancare un battuta sul problema del sovraffollamento e del numero insufficiente di poliziotti penitenziari: “La situazione in realtà è migliorata rispetto al passato, ma i numeri dovrebbero essere diversi. Le cose però vanno bene, non c’è stato nessun suicidio tra i detenuti, nessun infortunio grave, a riprova del lavoro ben eseguito dei nostri uomini. Grazie a loro restituiamo alla comunità persone migliori”. Guardando ai numeri, i reclusi sono 537, di cui 150 che lavorano per le cooperative e altri 130 nell’amministrazione carceraria. Gli agenti invece sono 260 cui si aggiungono quelli del nucleo traduzioni, ma stando alla pianta organica, dovrebbero essere complessivamente 430. “Qualche unità in più sarebbe meglio, ma svolgiamo in ogni caso un lavoro eccellete” assicura il direttore della casa di reclusione. Santa Maria Capua Vetere (Ce): il Garante regionale “questo è un carcere modello” Il Mattino, 31 gennaio 2018 Ieri mattina il Garante per i Detenuti, Samuele Ciambriello, si è nuovamente recato in visita presso il Comando Organizzazione Penitenziaria Militare ubicato nella Caserma “Ezio Andolfato” di Santa Maria Capua Vetere dove sono ristrette 69 persone. In questa struttura esiste un campo da calcio regolamentare dotato di tribuna e uno da calcetto; dove c’è un’area verde piantumata a pini marittimi, attrezzata con gazebo, giochi per bambini, dondoli, scivoli, aperta ai familiari delle persone ristrette; vi è poi un bar per i detenuti ed è l’unico caso in Italia ogni cella è dignitosa, con tv bagno, tavolo e armadietto. Notevole è l’esistenza di un’unica mensa per gli “ospiti” e per i poliziotti. Il garante oggi si è fermato a pranzo con loro. Il menu quotidianamente cambia e permette ai detenuti di poter scegliere tra diverse pietanze a self-service. Il Garante, accolto dal Direttore, colonnello Gerardo Baiano e dal tenente colonnello Antonio Pellegrino, ha incontrato le persone ristrette nella sala utilizzata per il teatro ascoltando le loro esperienze positive e le loro criticità. Per il Garante Ciambriello: “Questi standard detentivi che sono normalità in uno stato di diritto, dovrebbero essere presenti in tutti gli istituti penitenziari. Queste condizioni materiali e igieniche delle strutture detentive dovrebbero essere norma. Io credo che dobbiamo costruire la normalità per ogni carcere. Segnalo che anche in qualche altro istituto penitenziario campano ci sono aree di socialità in cui vi è la presenza di piastre elettriche, frigoriferi, diversi tavolini per consumazione e un televisore. Ritengo che lo spazio sia fondamentale e vitale per la socializzazione del detenuto, che gli permette di vivere”. Napoli: carcere di Poggioreale, prove di vivibilità. Così cambia il padiglione Genova di Giovanni Marino La Repubblica, 31 gennaio 2018 Stanze divise in zona notte e zona giorno con due soli posti letto, bagni con tutti i servizi. Ma il cappellano del carcere avverte: “Ancora molto da fare”. Le immagini lasciano ben sperare. Ambienti ordinati. Spazi garantiti. Luce. Un’architettura civile e sociale. Il carcere di Poggioreale prova a voltare pagina. A diventare migliore, a lasciarsi alle spalle angosciose cronache di disagi, sofferenze, situazioni che fanno a pugni col rispetto del detenuto e delle sue possibilità di recupero. Uno sforzo encomiabile. Un primo passo, d’accordo, ma importante. Tenendo presente che il cammino sarà lungo ma, al contempo, indispensabile e da percorrere sino in fondo. Padiglione Genova. Parte da qui quello che si può definire il cambiamento positivo della struttura carceraria di Napoli. Colpisce vedere una stanza divisa in zona notte e zona giorno, con due posti letto soltanto e un bagno dotato di tutti i servizi così come appare nel giorno della sua inaugurazione, alla presenza del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Siamo nel secondo padiglione Genova dove la ristrutturazione è avvenuta seguendo tutte le prescrizioni del sistema penitenziario che riguardano il rispetto della dignità del detenuto e della sicurezza degli operatori. La capienza regolamentare complessiva va da un minimo di settanta a un massimo di centodue posti. Nel piano interrato sono stati sistemati i locali tecnici, al piano terra ci sono otto stanze per i detenuti, una stanza per le attività sociali, un’infermeria e la sala controllo. Nei tre piani superiori è prevista una stanza per disabili e altre otto per i detenuti, oltre alla stanza per le attività di gruppo. In questi luoghi andranno i detenuti condannati in via definitiva per crimini comuni. Un colpo d’occhio che allontana l’immagine negativa di quello che, di volta in volta, di stagione in stagione, è stato definito “inferno” o “grand hotel”. A significare, a seconda delle situazioni, le disumane condizioni dei reclusi o, in taluni casi, i privilegi di chi è finito dentro con lo status di padrino. Plaude al “nuovo” padiglione ma resta vigile e non nasconde ancora i gravi problemi che esistono il cappellano di Poggioreale, don Franco Esposito, profondo conoscitore della realtà penitenziaria. “Il Genova è stato adesso creato secondo i dettami che rispettano le normative e la dignità del detenuto - ragiona il sacerdote con “Repubblica” - ma il percorso non può affatto dirsi completato e resistono gravi problemi”. Il sovraffollamento in primo luogo, specifica il religioso: “Parliamo di 2.200 detenuti su una capienza che non dovrebbe superare le 1.400 presenze. E questo padiglione non risolve il problema”. E ancora: “Spero che si vada avanti e si creino ancora ampi spazi comuni dove svolgere la propria giornata, spazi fondamentali per inserire la popolazione carceraria in un autentico percorso lavorativo che ancora manca. Basti pensare che solo il dieci per cento di chi è recluso qui svolge una attività lavorativa”. Le parole di don Franco fanno capire quanto ancora ci sia da fare ma, ugualmente, quanto sia importante avere iniziato un percorso. I lavori di ristrutturazione sono cominciati nel 2016 e sono ancora in corso per altri reparti e per i laboratori. A breve sarà inaugurata la pizzeria di Poggioreale. “Certamente sono stati fatti dei passi in avanti per superare elementi patologici”, ha detto ieri il ministro. Uno sforzo sottolineato anche dal neo direttore Maria Luisa Palma per rendere l’istituto al passo con le direttive europee sulla riabilitazione e il reinserimento dei detenuti. “È sicuramente conforme alla normativa - ha spiegato Palma - sul rispetto dell’uomo detenuto e delle persone che ci lavorano”. Ma a ricordare quanto c’è ancora da fare è sempre il cappellano del carcere: “Questo è un segno di buona volontà ma restano troppi padiglioni invivibili e bisogna augurarsi che si vada avanti e che il Genova non resti un luogo isolato. Bisogna dare continuità a questi interventi”. Napoli: il Garante “una felice eccezione, ma ora dovrà diventare la normalità” di Ilaria Urbani La Repubblica, 31 gennaio 2018 “Il padiglione Genova ristrutturato è un’eccezione per Poggioreale ma dobbiamo lavorare affinché questi standard diventino la normalità, da qui dobbiamo costruire la nuova Poggioreale. Il prossimo da ristrutturare dovrà essere il padiglione Salerno: c’è degrado e non ci sono bagni decenti”. Il garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello, operativo da ottobre, saluta con favore le novità nel carcere, ma sottolinea le tante altre criticità del penitenziario da sempre noto per il sovraffollamento delle celle. Ciambriello come giudica questo cambiamento? “È un’evoluzione positiva verso quello che dovrà diventare Poggioreale. Il padiglione Genova per me è come il lievito per il nuovo pane. Le nuove celle hanno una zona giorno e una notte, sono areate, hanno bagni dotati di tutti servizi, esiste una stanza per i disabili e soprattutto le aree della socialità. Lo spazio per chi è in carcere è vitale, in carcere si entra colpevoli di un reato e spesso si esce con un reato subito, anche negli altri padiglioni gli standard devono essere mutati, in altri padiglioni non ci sono tutte le tutele dei diritti fondamentali, alla persona che sbaglia va tolto il diritto alla libertà ma non alla dignità. Poggioreale è una casa circondariale, i condannati in via definitiva dovrebbero essere spostati altrove, invece ce ne sono 600: se venissero spostati si potrebbero recuperare celle per creare nuove aree di socialità negli altri padiglioni”. Qual è oggi l’area più critica all’interno del carcere di Poggioreale? “Bisogna intervenire al più presto nel padiglione Salerno, esistono spazi promiscui tra servizi igienici e spazi per cucinare, c’è degrado, non ci sono bagni decenti, c’è solo la doccia comune e un lavandino per tutta la cella, non c’è un bidet, spesso in una cella, oggi definita “camera di pernottamento”, in tre metri quadrati ci sono anche sei o sette detenuti, ma dovrebbero essere quattro in sei metri. L’ho fatto notare alla direzione del carcere, mi hanno detto che al più presto la ristrutturazione verrà fatta anche lì, a partire dal terzo piano. Lo spero. La sentenza della Corte di Strasburgo che ha condannato l’Italia nel 2013 per le condizioni delle carceri si fondava proprio sulle condizioni di alloggio dei detenuti, non solo sul sovraffollamento, ma anche sul “trattamento inumano e degradante”. Come sono invece le condizioni igienico-sanitarie? “A Poggioreale c’è un’esperienza positiva: l’area per le radiografie. Ma ci sono tossicodipendenti e malati di Aids che dovrebbero essere trasferiti altrove, poi c’è un centro clinico che non funziona più. Funzionava quando la sanità delle carceri era in mano al ministero della Giustizia, da una decina d’anni però la sanità è regionale, c’è stata una giusta equiparazione del detenuto al cittadino, ma le liste d’attesa sono troppo lunghe. Ma esistono solo 12 posti letto al Cardarelli per i malati di Poggioreale e Secondigliano: sono pochissimi”. Orlando inaugura un nuovo padiglione a Poggioreale Napoli: Ioia (Ex-Don) “negli altri padiglioni di Poggioreale condizioni drammatiche” di Fabrizio Ferrante Ristretti Orizzonti, 31 gennaio 2018 Si è inaugurato ieri, 30 gennaio, alla presenza del ministro della Giustizia Andrea Orlando, il nuovo padiglione Genova nel carcere di Poggioreale a Napoli. Una novità attesa ormai da mesi ma non destinata a mutare in modo significativo le condizioni difficili del maggior istituto di pena partenopeo. Questo perché, ci ha spiegato Pietro Ioia, storico attivista e leader degli ex detenuti organizzati di Napoli che nei mesi scorsi ha già avuto modo di visitare il padiglione inaugurato oggi: “A Poggioreale il sovraffollamento è di circa 600 detenuti e il nuovo padiglione potrà contenerne solo 60. Va sempre bene quando si inaugura un nuovo padiglione ma non basta questo per risolvere i tanti problemi dei detenuti e delle loro famiglie”. Utile infatti ricordare che la struttura potrebbe contenere circa 1.600 persone a fronte degli oltre 2.200 ristretti che al momento ospita. Il rischio paventato da Ioia è che, così come già avviene per prassi in tutte le carceri, la capienza regolamentare lasci il posto a quella tollerata e così “in quei 60 posti potrebbero essere stipati fino a 120 detenuti”. Ioia ha inoltre smentito la voce secondo cui le celle nel nuovo padiglione sarebbero alla stregua di camere d’albergo con zona giorno e zona notte, affermando che si tratta di un padiglione in tutto e per tutto simile a tutti gli altri. A proposito degli altri padiglioni, Ioia ha ricordato che: “Non è sufficiente inaugurarne uno nuovo, in quanto la priorità è ristrutturare quelli già esistenti, alcuni dei quali a mio parere andrebbero abbattuti per poi essere ricostruiti. In particolare i padiglioni Milano e Salerno dove i detenuti vivono in condizioni drammatiche. Fino a nove detenuti in una cella compresi ammalati che andrebbero curati altrove, servizi igienici non degni di questo nome, docce rotte, mancanza d’acqua, insetti e pareti scrostate”. Nel frattempo va avanti all’esterno del carcere di Poggioreale la campagna promossa da alcuni militanti di Radicali Italiani (in primis Raffaele Minieri) e dagli ex detenuti organizzati di Pietro Ioia, mirante a chiedere al sindaco de Magistris e al consiglio metropolitano della città di Napoli, l’istituzione di un garante dei detenuti per la città metropolitana di Napoli. Tale figura affiancherebbe il garante regionale e dovrebbe occuparsi esclusivamente delle carceri situate sul territorio di Napoli e provincia (Poggioreale, Secondigliano, Nisida, Pozzuoli e in futuro forse Nola) che al momento ospitano circa 3.500 detenuti. Oggi a Poggioreale anche il ministro Orlando e solo il futuro sarà in grado di dire se i tempi di questa inaugurazione saranno meramente funzionali alla campagna elettorale o se siamo all’inizio della reale riqualificazione di una struttura ottocentesca. Struttura che obbliga anche i parenti dei detenuti a lunghe attese all’interno del carcere prima dei colloqui e a usare servizi igienici non degni di questo nome con tanto di bagno alla turca. Insomma, al di là del nuovo e tanto agognato padiglione Genova, a Poggioreale c’è ancora tanto da fare. Andria (Bat): progetto “Senza Sbarre”, la masseria San Vittore prende forma e sostanza di Sabino Liso andrialive.it, 31 gennaio 2018 Il progetto di accoglienza residenziale e non per detenuti pronto ad essere avviato tra maggio e giugno dell’anno in corso. Il progetto “Senza Sbarre” prende forma e sostanza. L’antica masseria di contrada San Vittore, che un tempo ospitava la “Comunità Incontro” (per il recupero di tossicodipendenti), torna ad essere protagonista di un grande progetto pilota di inclusione sociale per detenuti ed ex detenuti nelle carceri di Puglia e Basilicata. Il progetto, finanziato dalla nostra Diocesi, con l’aiuto di tanti benefattori che negli anni non hanno fatto mancare il loro supporto economico, è coordinato da don Riccardo Agresti e don Vincenzo Giannelli che da anni ormai continuano a sostenere moralmente e spiritualmente, presso il carcere di Trani, coloro che hanno incontrato la devianza nel corso della propria vita, animati dallo spirito del Vangelo di Matteo che invita tutti a confrontarsi con il giudizio universale: “… Quando ti abbiamo visto affamato, assetato, in carcere … ogni volta che avete fatto questo a uno di miei fratelli, lo avete fatto a me” (Mt 25). L’esperienza pastorale parrocchiale svolta dai due sacerdoti in quartieri a rischio ha permesso di evidenziare una piaga nota: la micro e macro criminalità presente da decenni e le relative famiglie oppresse da scelte sbagliate e dal disagio che la detenzione provoca ad esse e alla comunità. Da qui la scelta di non tralasciare nessun delle persone affidate alla cura spirituale, invitando i fedeli a creare “ponti tra il carcere e il mondo”. L’iniziativa “Senza sbarre” si pone come obiettivo quello di concretizzare una rete di accoglienza residenziale e semiresidenziale per detenuti ed ex, nell’agro di San Vittore, ad Andria, tramite l’Associazione “Amici di San Vittore”. 8 ettari di terreno da sistemare e coltivare, spazi che saranno poi adibiti alla lavorazione di prodotti esclusivi a marchio “Senza Sbarre”, perché sia chiaro: il lavoro nobilita l’uomo e lo rende libero. Un work in progress in costante evoluzione finalizzato ad integrare e soprattutto dare una opportunità di lavoro e nuova vita a coloro che hanno sbagliato e che sono pronti a rimediare ai loro errori. “I luoghi di detenzione - commentano don Riccardo Agresti e don Vincenzo Giannelli - sono spazi di segregazione dalla società. La nostra Diocesi sta scommettendo su questo progetto. Ora si passa dalle parole ai fatti e tra Maggio e Giugno facciamo decollare questa nuova realtà in cui è presente anche la Caritas Nazionale. Daremo la possibilità a circa 10 persone di partecipare al progetto formativo e lavorativo”. Nei primi tempi ci sarà da lavorare la terra, sistemare i luoghi ma, come già accennato, è in serbo la possibilità di creare piccole nicchie di prodotti alimentari. Un percorso educativo complesso che si avvarrà ovviamente anche di una equipe socio-psico-pedagogica in un contesto paesaggistico dove la calma e la bellezza del territorio murgiano, con le sue varietà di flora e fauna, possono fare davvero la differenza Il 20 Maggio intanto è in programma al palasport di viale Germania, ad Andria, il concerto di Al Bano. Nel giorno del suo 75esimo compleanno il cantante di Cellino San Marco ha deciso di cantare per agli ultimi, sposando la causa “Senza Sbarre” - il ricavato del concerto infatti servirà per sostenere le attività della masseria di San Vittore. Il costo del biglietto è di 30 euro parterre e di 15 gradinate. SI può acquistare il biglietto presso la parrocchia S.M. Addolorata alle Croci oppure presso Eredi Vincenzo Ernesto, in piazza Imbriani 12, ad Andria. Lecce: detenuto morto in carcere, il pm chiede l’archiviazione per i tre medici indagati Corriere Salentino, 31 gennaio 2018 La Procura di Lecce chiede l’archiviazione del procedimento a carico di tre medici del carcere di Lecce finiti nel registro degli indagati per la morte del detenuto Donato Cartelli, 59enne originario di Uggiano La Chiesa. L’esito della consulenza medico-legale eseguita dalla dottoressa Gabriella Cretì ha infatti escluso responsabilità o negligenze da parte dei medici. Da qui la richiesta di archiviazione del procedimento avanzata dal pubblico ministero Francesca Miglietta che, ora, dovrà finire al vaglio di un gip. L’inchiesta su questo presunto caso di malasanità dietro le sbarre era stata avviata dopo una denuncia dei familiari del detenuto assistiti dall’avvocato Andrea Conte. Cartelli stava scontando una condanna a nove anni di reclusione per reati contro la persona. Il decesso risale al 19 febbraio scorso quando l’uomo venne ritrovato ormai privo di vita all’interno della propria cella. A causare la morte fu un arresto cardiaco. Per i parenti, il decesso del 59enne si rivelò un fulmine a ciel sereno. Cartelli, a loro dire, non aveva mai lamentato alcun problema di salute. E ai familiari non aveva riferito di alcun malanno. Anzi, nel corso dei colloqui, il detenuto avrebbe sempre rassicurato i propri familiari augurandosi di poter beneficiare della liberazione anticipata alla luce della buona condotta tenuta dietro le sbarre. L’unico malanno segnalato risaliva ad un mese prima dal decesso ed era legato ai fastidi per un’influenza stagionale. Il detenuto venne sottoposto ad un trattamento farmacologico consistito in quattro iniezioni. Sulle circostanze del decesso, invece, le informazioni fornite ai parenti sarebbero risultate del tutto frammentarie e lacunose. Da qui la decisione di presentare una denuncia con cui i familiari di Cartelli avevano chiesto di fare piena luce sulle cause della morte “e fugare così qualsivoglia sospetto sui fatti e sulle circostanze che, purtroppo, quando accadono all’interno delle mura carcerarie tendono ad avere contorni poco precisi”. Gli accertamenti medici, però, hanno escluso qualsiasi responsabilità. Gli indagati sono assistiti dagli avvocati Vincenzo e Antonio Venneri e Vincenzo Perrone. Velletri: Protocollo di intesa tra direzione del carcere e Asl per prevenire suicidi ilcaffe.tv, 31 gennaio 2018 Sono molto frequenti, nelle carceri, suicidi e atti di autolesionismo tra i detenuti. Incessante è l’opera delle equipe mediche penitenziarie di ciascun istituto, e l’impegno della polizia penitenziaria per attenuare l’entità del fenomeno. Dopo le varie sollecitazioni dei sindacati, in particolare la Ugl Pol.Pen. e della stessa dirigenza del penitenziario, presso la sede della Asl Roma 6, è stato sottoscritto un protocollo d’intesa per la prevenzione del rischio suicidario e autolesionistico dei detenuti del carcere di Velletri. Nata dalla collaborazione tra l’amministrazione penitenziaria dell’istituto di pena e la stessa Asl dei Castelli Romani, diretta dal dottor Narciso Mostarda, il documento, firmato dai dirigenti delle due amministrazioni, indica le modalità d’intervento che operatori sanitari e agenti penitenziari dovranno osservare per prevenire gli episodi e per gestire il disagio psichico dei detenuti, in un continuo e professionale monitoraggio delle varie situazioni. Nel progetto figurano il controllo dei traumi subiti dal recluso nell’impatto col regime del carcere, il tenere sotto controllo le persone a rischio, individuare e trattare disagi psicologici, psichiatrici, fisici e stati di dipendenza. “ In questo modo potremmo dare inizio alcune azioni di sostegno alle persone recluse con queste problematiche, dice un sanitario che opera in carcere. Molto importante sarà lo scambio di informazioni tra operatori sanitari e penitenziari e la continua formazione del personale e l’eliminazione del sovraffollamento carcerario che dovrà essere un obiettivo primario delle autorità ministeriali preposte”. Busto Arsizio: il palco diventa lo spazio per integrare “dentro e fuori” di Claudio Bottan InFamiglia, 31 gennaio 2018 A teatro? prenotate in galera. Il 9 febbraio l’associazione “Oblò-Liberi dentro” lancia una scommessa, ospitando nel carcere di Busto Arsizio lo spettacolo “Figurini” della compagnia Teatro Città Murata di Como. Tornano gli spettacoli con le scuole e inizia un nuovo laboratorio aperto a tutti. E se il carcere di Busto Arsizio diventasse uno dei “teatri” della città? Non è (solo) una provocazione, ma un’idea di integrazione fra “dentro e fuori” che ancora una volta vede protagonista l’attività teatrale. Da anni, con la regista Elisa Carnelli, l’associazione lavora nell’istituto bustocco e piano piano la compagnia che si è formata è cresciuta. Dagli spettacoli “interni” per la festa del papà alle iniziative con le scuole, passando per le cene con delitto aperte al pubblico esterno (oltre 150 partecipanti in due serate). E poi anche gli spettacoli fuori dal carcere. Adesso parte una nuova sfida: saranno le compagnie teatrali di professionisti a recitare in carcere. Gli spettacoli saranno aperti alle persone detenute e anche al pubblico esterno. “Uno spettacolo teatrale ha la meravigliosa responsabilità di raccontare una storia e lo fa distinguendosi dalle altre forme d’arte e comunicazione per forza, potenza, poesia” dice Elisa. Lo spettacolo “Figurini - Storie di uomini da incorniciare” è un album da collezione dei nostri eroi preferiti. E alcuni di questi eroi, ebbene sì, sono calciatori, magari non conosciuti, magari hanno giocato una sola partita, magari non hanno mai visto l’ombra di un pallone, figurarsi una vittoria, ma sono i nostri eroi. “Figurini” utilizza il calcio per raccontare storie di uomini che hanno, a diverso titolo, avuto a che fare con il pallone ma rivelandone la natura più umana, emozionale, romantica, uomini da incorniciare perché non si sono fatti corrompere, perché hanno lottato a volte perdendo la loro battaglia ma mantenendo integra la loro sensibilità. C’è chi ha rischiato la vita, chi l’ha persa e chi ha fatto semplicemente il suo dovere e merita di essere ricordato. Napoli: dal disagio della strada alle luci del palcoscenico di Stefano de Stefano Corriere del Mezzogiorno, 31 gennaio 2018 Il teatro come terapia sociale: non strumento pedagogico rivolto al pubblico, quanto palestra laboratoriale aperta a giovani, donne e anziani residenti in aree difficili e degradate della città, fra centro e periferia. Nel giro di una settimana due fra i principali palcoscenici cittadini, il Bellini (con il suo Piccolo) e il San Ferdinando, ospiteranno due spettacoli che hanno questa matrice: stasera “Il cunto del viaggio dei due nobili gentiluomini”, tratto da Shakespeare e Terenzio, per la regia di Nicola Laieta, coordinatore del Laboratorio delle Arti di Maestri di Strada, rivolto ai giovani della periferia est con gli educ-attori del gruppo Trerrote, e martedì prossimo “Dieci storie proprio così. Terzo Atto” diretto da Emanuela Giordano per “Il palcoscenico della legalità”, progetto nazionale lanciato da Giulia Minoli per un impegno civile di contrasto alle mafie. Il fenomeno non poteva non dilagare proprio a Napoli, dove la compresenza fra pressanti emergenze territoriali e l’effervescenza creativa del settore spettacolo possono essere messe virtuosamente in relazione. A partire da “Arrevuoto”, il progetto battistrada ideato da Marco Martinelli nel 2005 a Scampia (poi proseguito da Maurizio Braucci) e da cui si è gemmata anche l’esperienza di “Punta Corsara”, più mirata verso una dimensione professionistica. Mentre, parlando più in generale dei mestieri del teatro, bisogna risalire molto più indietro, ai primi anni ‘80 quando fu lo stesso Eduardo a volere laboratori scenici professionali all’interno del carcere giovanile di Nisida. Lì dove solo un anno e mezzo fa la sua versione della “Tempesta” è stata rappresentata da Michele Placido insieme ad alcuni ragazzi detenuti. Per quanto riguarda il presente su questa linea si è poi mossa la rassegna “Quartieri di vita”, ideata da Ruggero Cappuccio per il Napoli Teatro Festival, che ha sin qui raccolto le tante esperienze di coinvolgimento attive in città. Dal Teatro Sanità, ora capofila con i suoi giovani allievi anche del progetto internazionale “Cities on the egde” con Marsiglia e Bochum, alla Giostra Speranzella dei Quartieri Spagnoli con il lavoro fra ragazzi della zona e altri provenienti dall’Africa, coinvolti in una rilettura de “I giganti della Montagna” di Pirandello fatta da Maria Angela Robustelli. E ancora il Nest di San Giovanni con il “Laboratorio di barbonaggio teatrale” di Ippolito Chiarello su Totò per l’allestimento itinerante di “Siete uomini o caporali”, e gli ex lavoratori dell’Italsider di Bagnoli coinvolti ne “Il Bugiardino - Istruzioni per l’uso”, rilettura di Dario Fo a cura di Alfonso D’Auria e Anna Carla Broegg. Da segnalare infine l’iniziativa di Davide Iodice con la sua Scuola elementare del teatro attiva all’ex Asilo Filangieri, e quella di Marina Rippa e Alessandra Asuni dell’associazione Femminile Plurale impegnata con le donne di Forcella. Modena: “Ubu Re”, sul palco i detenuti del carcere nello spettacolo del Teatro dei Venti modenatoday.it, 31 gennaio 2018 Torna in scena con diverse repliche al Teatro dei Segni di Modena il 2, 3 e 4 febbraio lo spettacolo Ubu Re realizzato dalla compagnia Teatro dei Venti in collaborazione con il Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna. Lo spettacolo nasce nell’ambito delle attività del Coordinamento per il biennio 2016-2018, incentrato su un classico del teatro moderno, quell’Ubu Re, scritto e rappresentato da Alfred Jarry, catalizzatore e anticipatore dei temi del teatro dell’assurdo e del movimento surrealista. Con gli attori detenuti e internati della Casa Circondariale di Modena e della Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia, con attori e allievi attori del Teatro dei Venti. Allestimento scenico Teatro dei Venti. Costumi Alessandra Faienza e Teatro dei Venti. Sound designer Domenico Pizzulo. Assistente alla regia Simone Bevilacqua. Regia e drammaturgia Stefano Tè. Una produzione Teatro dei Venti con il sostegno della Regione Emilia-Romagna e con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena all’interno della Rassegna Andante. All’interno dei Laboratori sostenuti dal Comune di Modena, dal Comune di Castelfranco Emilia e dal Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna. Questo spettacolo mette a confronto l’opera di Jarry, caposaldo del teatro contemporaneo, con temi sempre attuali quali il rapporto dell’uomo con il potere, attraverso il lavoro di attori professionisti e attori detenuti. Lasciandosi dietro una scia di delitti Padre Ubu e Madre Ubu si impossessano del trono di Polonia. Il buio accompagna un’assenza di morale in cui tutto è possibile e in cui nessuno è responsabile delle proprie azioni. Soprattutto Padre Ubu, che avanza come una marionetta nelle mani della consorte. Lo spettacolo va in scena la Teatro dei Segni di Modena (Via San Giovanni Bosco 150). Gioni e orari: 2 febbraio ore 21.00; 3 febbraio ore 21.00; 4 febbraio ore 17.30 e ore 21.00. Biglietto intero: 10 €; ridotto under 25: 5 €. Posti limitati, prenotazione obbligatoria: biglietteria@trasparenzefestival.it - 345 6018277 (attivo dal lunedì al venerdì, dalle ore 11.00 alle 18.00). Milano: “derby Beccaria”, il liceo classico incontra sul campo i detenuti del minorile di Simona Ballatore Il Giorno, 31 gennaio 2018 “Beccaria versus Beccaria”: il liceo classico incontra sul campo i detenuti del carcere minorile. Il primo fischio d’inizio è stato dato dieci anni fa, da allora la tradizione si rinnova ed è stata inserita all’interno di un progetto che porta i liceali all’interno della realtà carceraria milanese. Una partita di calcio può abbattere i muri, la convinzione dei prof: anche quest’anno hanno chiesto agli studenti maggiorenni chi volesse scendere in campo, liberamente, e hanno raccolto la nuova squadra che questo quadrimestre rappresenterà il classico Una quindicina di ragazzi si sta già allenando. Sa che la vera partita sarà “fuori casa”: “Lasciano tutto per quelle ore - spiega la professoressa di educazione fisica Mariateresa Gullotta, capiscono per davvero cosa significa perdere il contatto col mondo fuori. Sul campo c’è pieno rispetto, da ambo le parti. Lo sport è un tramite fondamentale per condividere le regole. Dopo il match c’è chi si ferma per un momento conviviale e chi è più schivo, ma c’è sempre uno scambio”. Capita anche che alcuni ragazzi delle due squadre si ritrovino: giocavano nella stessa società calcistica quando erano piccini, uno dei due ha sbagliato strada, è all’altro Beccaria per scontare una pena, ma si guardano con gli occhi di allora. Il progetto continua in classe: il Beccaria ha appena riaperto le porte al “Gruppo della trasgressione”. È nato attorno allo psicologo Angelo Aparo nelle carceri di San Vittore, Bollate e Opera. È composto da detenuti, ex detenuti e liberi cittadini, studenti universitari e neo laureati. Organizzano pièce teatrali e incontri nelle scuole. “Uno dei momenti più forti è la giornata con i carcerati - continua la professoressa Gullotta, responsabile del progetto -, cerchiamo di sfatare pregiudizi, ricordiamo il messaggio, la possibilità del riscatto. Ci sono studenti che in questi incontri hanno scoperto la loro strada, fanno volontariato nelle carceri, si sono iscritti a Giurisprudenza”. Francesca Zambrini, ex studentessa del Beccaria, si sta laureando alla Statale di Milano: mancano pochi esami e la tesi. “Avevo già visitato il carcere di Bollate con la mia famiglia e mi aveva colpito molto - racconta - al quarto anno di liceo ho partecipato a un incontro dentro il carcere di Opera e mi si è aperto di più un mondo. Avevo sempre tenuto in considerazione Giurisprudenza, ma quelle esperienze al liceo sicuramente mi hanno aiutato ad approfondire”. Da due anni è anche volontaria allo “Sportello giuridico” di Bollate, che presta ai detenuti una prima assistenza, nei permessi, nelle visite, nella redazione di istanze. “Il Beccaria è sempre stata una scuola aperta, queste esperienze servono ai ragazzi”. Dura la lotta contro le fake news. Il rimedio? Educare i giovani all’amore per la verità di Gianfranco Morra Italia Oggi, 31 gennaio 2018 La balle circolano da sempre. Ma ora il web rende possibile a tutti diffamazioni planetarie. L’anno appena finito ha visto entrare prepotentemente nell’uso mondiale un anglicismo che indica una notizia falsa, contraffatta, finta, fasulla: fake news, ormai accolto in tutti i dizionari. Non si tratta di una notizia trasmessa tra due o pochi individui, ma socialmente pubblicizzata dai media per milioni di persone. L’elenco delle fake news, a parole o per immagini, che sono diventate virali è senza fine: Obama non eleggibile perché nato, non a Honolulu (Usa), ma in Kenia; la ragazza islamica indifferente accanto ai cadaveri sul ponte di Londra; la foto (montaggio) di Boschi e Boldrini ai funerali di Riina; la bambina islamica di 9 anni sposata a Padova con un uomo di 35; in Germania il Lisa-Case, il sequestro e stupro di una 13enne da parte di tre migranti (in realtà una invenzione della ragazzina per nascondere una fuga da casa). Le fake news ci sono sempre state, ma la loro trasmissione era lenta. Solo i mass-media elettrici le hanno rese immediate e ultra convincenti. La prima grossa fu con la radio: nel 1938 Orson Welles simulò una invasione dei marziani, che scatenò un enorme panico fra le masse. Oggi servono a screditare le persone, a denigrare gli avversari, a condizionare le elezioni e le decisioni politiche. Non v’è dubbio che si tratta di un terribile problema dei nostri tempi. Politici e gestori dei media ci stanno lavorando. In Germania è stata approvata la Netzwerkdurchsetzungsgesetz (“Legge di applicazione del diritto nella rete”). Essa obbliga i gestori dei social network a cancellare le false notizie che incitano all’odio o diffamano, con multe sino a 50 milioni di euro. Al ministero della Giustizia già funziona un team di 50 specialisti. Era giusto farlo, ma le difficoltà e anche i pericoli sono enormi. E i ricorsi già sono partiti. Come evitare che una legge contro le notizie false possa limitare la libertà di espressione, fondamento della stessa democrazia? Chi decide che cosa è falso? Chi stabilisce quello che va cancellato? Come monitorare milioni di notizie giornaliere? I recettori delle fake news, si dice, dovrebbero verificare le fonti, ma chi ha il tempo, i mezzi e la voglia di farlo? L’invenzione nel 2017 del neologismo fake news è stata preceduta, l’anno prima, da un altro neologismo: la “post-verità” (post-truth). Un termine usato sporadicamente dal 1992 e divenuto nel 2016 la “parola dell’anno” (Oxford Dictionary). Esatta al cento per cento. Tutte le società occidentali hanno avuto la Verità: quella filosofica la greco-romana (Parmenide: “Il cuore inconcusso della ben rotonda Verità”); quella religiosa la cristiana (Gesù: “Io sono la Verità”), quella scientifica la modernità, le “idee chiare e distinte” (Cartesio), che cacciano miti e superstizioni. A partire dal Novecento nasce la consapevolezza che esistono “le” verità, ma non “la” Verità. L’epoca postmoderna è relativista e, al limite, nichilista. Essa ha “s-fondato”, cioè privata dei fondamenti, la verità (Vattimo), ha detto addio ai princìpi” (Marquard) e capito che tutte le verità sono solo delle “grandi narrazioni” (Lyotard). Il pensiero che era “forte” (Rosmini: “Pensare in grande”) si è fatto “debole”, il compito della ragione non è più la ricerca della verità, ma una comprensione della “instabilità” delle molte verità, che consente dialogo e rispetto fra uomini e culture diverse. La chiamano “ermeneutica”. Al “politeismo dei valori” (Max Weber) corrisponde il rifiuto del monoteismo ebraico-cristiano, tendenzialmente totalitario, e la riscoperta del politeismo greco. Col termine post-truth la società attuale, che è della contemporaneità e della immediatezza, è stata definita con esattezza nella sua tendenza prevalente: valutare una affermazione, non per il suo valore di verità, ma perché corrispondente alla sensibilità e al narcisismo emotivo. L’uomo postmoderno, perduta la memoria del passato e privo di speranza per il futuro, vive nel presente, nel “carpe diem” e nell’”ora che fugge”. La verità è il “qui” e “ora”. Per un momento. Appare evidente che una società della post-truth non possiede gli anticorpi per smascherare le fake news. Per rifiutare il “falso” occorre il “vero”, non come verità definita e indiscutibile, ma come tendenza e aspirazione di avvicinarsi senza fi ne ad una verità che pienamente rimane irraggiungibile (la fi lo-sofi a non è possesso, ma amore, nel senso di ricerca, della verità). Quella filosofia che è stata ormai cacciata dalle scuole, dove si parla quasi sempre solo del presente. Gli stessi giovani non sono invitati alla riflessione, per approfondire nell’interiorità lo spirito critico, unica vera difesa contro le fake news. Vengono stimolati al contatto perenne, grazie alle antenne dei social consentiti anche nell’aula scolastica, con gli eventi contemporanei. Tra post-truth e fake news c’è un satanico legame di interdipendenza. Sono entrambe fi glie del relativismo contemporaneo. Una società che si definisce della “post-verità” ben difficilmente riuscirà e smentire le “false notizie” (che in fondo non sono più “false”, ma solo “diverse”). La prima è la madre delle seconde. Forse per la verità vale quanto Gilbert Chesterton affermava di Dio: “Chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente, perché comincia a credere in tutto”. Fake news. Il Garante della privacy: “attenti alla opacità della democrazia elettronica” di Nicola Lillo La Stampa, 31 gennaio 2018 Per Antonello Soro “la risposta sulle fake news non può arrivare da un algoritmo”. “Nella democrazia elettronica il tasso di opacità potrebbe non essere minore rispetto al tradizionale gioco democratico. Occorrerà avere spirito critico rispetto a quello che può apparire un calcolo matematico. Non sarebbe male se l’opinione pubblica accendesse qualche riflettore in più sulla democrazia elettronica”. Il Garante della Privacy Antonello Soro mette in guardia dall’uso delle nuove tecnologie nella vita politica del nostro paese. Soro preferisce però non entrare nei casi specifici, nonostante il Garante della privacy stia valutando se sanzionare l’associazione Rousseau, responsabile del trattamento dati del sito del Movimento 5 Stelle e della piattaforma Rousseau. Soro è intervenuto al convegno “Uomini e macchine. Protezione dati per un’etica del digitale”, organizzato dall’Autorità in occasione della Giornata europea della protezione dei dati personali, appuntamento a cui ha partecipato anche il sottosegretario Maria Elena Boschi. Soro: “Sulle fake news la risposta non può arrivare da un algoritmo” - Il garante della Privacy ha parlato inoltre di un altro argomento al centro di questa campagna elettorale, e cioè le fake news: “Mi sembra - ha detto - che in Italia si sia sufficientemente sollevato e ancora bisognerà farlo, un atteggiamento di grande attenzione nei confronti dei rischi per la circolazione di informazioni false nella rete, che non sono figlie degli algoritmi, ma degli uomini che usano gli strumenti della rete”. Ed è proprio per questo motivo dunque che la risposta, secondo Soro, “non può essere genericamente affidata agli algoritmi, rischieremmo di fare un corto circuito. Dobbiamo mettere in conto che non tutto quello che appare obiettivo lo è necessariamente”. “Serve un’etica per l’algoritmo sul web” - Al centro dell’intervento del Garante c’è comunque il tema della neutralità dell’algoritmo, dell’equità delle sue soluzioni e, più in generale, della sostenibilità etica e giuridica della tecnologia. Un aspetto che “diviene, oggi, una questione democratica cruciale. Per scongiurare, o quantomeno minimizzare, i rischi connessi al digitale, valorizzando peraltro le sue straordinarie opportunità, è necessaria un’assunzione di responsabilità da parte di ciascun soggetto coinvolto nel governo della tecnologia, che per restare umano deve incentrarsi su irrinunciabili principi etici e giuridici”. Stiamo infatti vivendo la più radicale trasformazione sociale, economica e politica dalla fine della Seconda guerra mondiale, secondo Soro, ed è dunque necessario governare il processo di connessione di tutti i dati con lungimiranza. Basti pensare che “nel 2016 abbiamo generato tanti dati quanti ne ha prodotti l’intera storia dell’umanità fino al 2015. Tra dieci anni questa quantità raddoppierà ogni dodici ore”, ha spiegato il Garante. Per questa ragione dunque Soro sottolinea la necessità di algoritmi neutri ed equi. Boschi: “La prima tutela è dare consapevolezza ai cittadini” - A conclusione della giornata è intervenuto il sottosegretario Maria Elena Boschi, secondo cui “consapevoli della velocità della scienza, dobbiamo essere pronti ad acquisire saggezza per quella che dev’essere una priorità, la tutela della persona”. Secondo Boschi le grandi sfide del governo in materia di dati personali sono, “in termini di difesa e sicurezza, la tutela dei singoli individui nella loro libertà e autodeterminazione; contribuire ad attività che lo Stato deve portare avanti in alcuni settori, come amministrazione della giustizia e profilature che possano servire per accertamenti tributari o fiscali; cogliere potenzialità economiche sia nell’utilizzo di questi dati ma anche nella necessità della loro limitazione e regolamentazione”. La metà degli italiani crede alla propaganda razzista sui migranti di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 31 gennaio 2018 30° rapporto Eurispes: più del 50% ne sovrastima la presenza. Ritratto di un paese dove i penultimi fanno la guerra agli ultimi. Smontare le fake news che alimentano la propaganda contro i migranti e per il rafforzamento delle politiche securitarie. Per di più in campagna elettorale dove le destre razziste e liberiste sono lanciatissime. Succede nel trentesimo rapporto Euripses, pubblicato ieri da cui risulta che più della metà del campione interpellato “sovrastima” la presenza di immigrati nel nostro Paese. Partiamo dai dati conosciuti. Gli stranieri residenti in Italia sono oltre 5 milioni, pari all’inizio del 2017 all’8,3% della popolazione residente. Se agli stranieri regolari si sommano quelli che la legge “Bossi Fini” definisce “clandestini (tra le 500-800 mila unità) si arriva al massimo al 10% sulla popolazione. Ancor prima delle politiche, discutibilissime di Minniti, secondo l’Istat le immigrazioni si sono ridotte del 43% Negli ultimi dieci anni, passando da 527mila nel 2007 a 301mila nel 2016. La percezione di questa realtà è completamente diversa grazie al ruolo propagandistico a favore del neo-razzismo di molti media e delle conseguenti decisioni della politica “democratica” che cerca di inseguire il panico mediatico con strumenti che, invece di calmarlo, lo consolidano. Risultato: pur in presenza di dati inequivocabili, il sistema mediatico e quello politico cancellano la realtà della situazione. Ecco i risultati. Per il 35% degli interpellati dall’Eurispes sarebbe presente sul territorio nazionale una quota di stranieri pari al 16% della popolazione totale. Per il 25,4% degli interpellati un residente su quattro in Italia sarebbe non italiano. La realtà è, invece, un’altra. L’incidenza di stranieri sulla popolazione è, come detto, all’incirca del 10%. Il problema è che lo sa solo il 28,9% degli interpellati. Va un po’ meglio il dato sulla conoscenza di quanti cittadini stranieri di religione musulmana sono presenti nel nostro paese: il 31,2% è consapevole che si tratta di una quota minima: allo stato è il 3%. In tutti gli altri casi (68,7%) gli interpellati rivelano una percezione distorta di una presenza in fondo molto minoritaria. Per non parlare della presenza in Italia di immigrati di origine africana. Stando alla rilevazione risulta che solo il 15,4% degli italiani è consapevole del fatto che la loro presenza è esigua rispetto alla popolazione residente (l’1,7%). Non si conosce esattamente nemmeno da quale nazione africana provengano queste donne e uomini. Per il 27,4% degli interpellati arrivano dall’”Africa del Nord”. In realtà, le statistiche riportano un dato del tutto diverso: i cittadini arrivati da questa zona sono meno della metà: solo il 12,9% degli stranieri in Italia. Questi dati sono già emersi nel lavoro della commissione “Jo Cox”, istituita alla Camera, e sono stati citati nel quindicesimo “Rapporto Diritti globali 2017”, curato da Sergio Segio. Qui si è appreso che l’Italia è il paese con il più alto tasso di ignoranza sullo stato dell’immigrazione. La maggioranza pensa che gli immigrati siano il 30% della popolazione, anziché l’8%, e che i musulmani siano il 20%, mentre sono solo il 3%. Sui richiedenti asilo la situazione è la seguente: nel 2016 sono stati registrati in Italia 123.600 richiedenti asilo. Nel 60% dei casi la loro richiesta è stata respinta. In Germania sono stati 722.300, il 60% del totale all’interno dell’Ue. Alla faccia dell’invasione. Questo senso comune è alimentato dal “razzismo istituzionale e democratico”, che ha gradatamente permeato la società italiana impedendo - anche a causa della gestione politica timorosa del Pd e del governo Gentiloni, l’approvazione di una misura molto condizionata di “ius soli”. Secondo l’Eurispes solo il 17,7% degli interpellati conosce i contenuti della proposta. E solo il 17,7% la associa non solo alla nascita, ma anche alla frequentazione della scuola italiana. In realtà la prima proposta risale al 1992 e prevedeva che chiunque nasca in uno Stato ne ottenga automaticamente la cittadinanza. Dal Rapporto Eurispes emerge, in generale, il ritratto di un paese deluso e confuso, tradito da un “sistema” che non riesce più a garantire crescita, stabilità, sicurezza economica e prospettive per il futuro. In questo paese quattro persone su 10 arrivano a fine mese usando i risparmi e solo il 30,5% riesce a far quadrare i conti. Il 18,7% riesce a risparmiare, mentre il 29,4% ha difficoltà a pagare le utenze. Inoltre, il 23,2% ha difficoltà ad affrontare spese mediche, il 25,4% a sostenere il mutuo e il 38% a pagare l’affitto. È il ritratto di un paese dove i penultimi odiano gli ultimi e il “sistema” contrappone poveri a disperati, giovani a genitori, attivi a pensionati. Droghe. Parole nuove per vincere lo stigma di Grazia Zuffa Il Manifesto, 31 gennaio 2018 La Global Commission on Drug Policy, l’organismo presieduto da Kofi Annan che raccoglie una ventina di personalità politiche di rilievo internazionale, è da anni impegnata a produrre documenti e riflessioni per la riforma della politica delle droghe. Il rapporto 2017 - The World Drug Perception Problem, affronta la delicata questione della percezione sociale del fenomeno droga, tuttora fortemente condizionata dai pregiudizi e dalla stigmatizzazione di coloro che usano droghe. E poiché il linguaggio veicola, e al tempo stesso indirizza l’orientamento sociale, una parte del rapporto è dedicata a come si parla e si scrive della droga: dando il suo contributo alla campagna internazionale per un “miglior linguaggio” (better language), sull’esempio della battaglia vincente a suo tempo condotta da altri gruppi stigmatizzati, come gay, lesbiche e transgender. Prendendo spunto dall’inventario stilistico 2017 della Associated Press, il rapporto presenta un primo elenco di termini stigmatizzanti, con relative sostituzioni “politicamente corrette”. Alcune delle espressioni all’indice sono per fortuna già desuete e le alternative proposte fanno già parte del senso e dell’uso comune di molti (anche se non di tutti). Pochi ad esempio parlano più di “tossici”, o definiscono “pulito” chi ha smesso di usare droga? E chi direbbe “sporche” le urine positive a una qualche sostanza? O chiamerebbe in maniera dispregiativa “stanze del buco” le “stanze per il consumo sicuro” (Safe Consumption Rooms)? Allo stesso modo il linguaggio bellico (si veda “lotta alla droga”), a simboleggiare l’intolleranza verso le sostanze e coloro che le usano, comincia a essere fuori corso: sempre più si preferisce parlare di “risposte” politiche al problema droga. Più difficile la ricerca del miglior linguaggio quando si arriva al cuore del problema, la definizione di chi consuma droghe. Il suggerimento, quasi scontato, è di sostituire “consumatore di droga” (drug user) con “persona che usa droga”, in modo da evitare che un determinato comportamento (l’assunzione di sostanze) riassuma in sé l’identità del soggetto (che è poi l’essenza dello stigma, per Erving Goffman). Ma questa formula ridondante, specie se ripetuta molte volte nel corso di uno scritto o di un discorso, rischia di suonare impacciata, risuscitando per contrasto la dizione stigmatizzante (ma più facile) destinata all’oblio. Il successo delle nuove espressioni sta anche nella brevità e nell’eleganza stilistica, come la fortuna di “gay” suggerisce. A ciò si aggiunga che l’italiano non ha la risorsa degli acronimi come l’inglese, che abbrevia in “Pud” Person who Uses Drugs. Altre soluzioni suggerite dal rapporto suscitano molte perplessità. È davvero preferibile “in via di recupero” o “in via di recupero a lungo termine” al posto di “ex dipendente” (ex addict)? È vero che la parola inglese addict è fortemente segnata e perfino il concetto a monte di dipendenza è oggi controverso anche in ambito scientifico; e tuttavia “persona in via di recupero” crea forse più problemi di quanti ne vorrebbe risolvere. Dietro questa sostituzione si intravede una precisa (e obsoleta) concezione della addiction come “malattia cronica recidivante”, in origine coniata per l’alcol: riassumibile nel famoso detto “chi è alcolista o dipendente da droga lo è per sempre” (once an addict, always an addict). Perciò non si è mai fuori dalla dipendenza, e anche chi ha smesso di bere o usa alcol o droghe in maniera controllata è permanentemente “in via di recupero”. In conclusione: facciamo ogni sforzo per trovare nuove parole, ma con un poco di pragmatismo. E occhio all’etichettamento “patologico”, che rischia di riprodurre altri stereotipi. Turchia. Il giorno in cui Taner Kiliç mi tirò fuori di prigione di Gabriele Del Grande Il Manifesto, 31 gennaio 2018 Cinque settimane dopo, Taner, che aveva smosso mari e monti per ottenere la mia liberazione, è stato arrestato a sua volta. La sua detenzione è una triste conferma della sempre più pericolosa deriva in cui scivola un paese straordinario come la Turchia. Avevo trascorso dodici giorni in carcere, di cui gli ultimi nove in isolamento, quando venni a sapere che l’avvocato che mi avrebbe rappresentato era un uomo di nome Taner Kiliç. Mi sentii immediatamente sollevato. Ero sollevato non solo perché Taner è un ottimo avvocato e il presidente di Amnesty International in Turchia ma anche perché è mio complice e compagno di lotte da molti anni. Ero stato arrestato dalla polizia in borghese vicino al confine siriano. La polizia mi aveva accusato di essere entrato senza permesso in una zona militare vicino alla città di Reyhanli, nella provincia di Hatay. Avevo paura che potessero tenermi in carcere per mesi, forse anche anni. Due giorni dopo che Taner ha cominciato a rappresentarmi, però, le porte della mia cella si sono aperte e sono stato rilasciato. Il giorno dopo ero in volo verso Bologna, estremamente sollevato dal fatto che la mia traversia avesse avuto breve durata. Cinque settimane dopo, Taner, che aveva smosso mari e monti per ottenere la mia liberazione, è stato arrestato a sua volta. Alle 6.30 della mattina del 6 giugno la polizia si è presentata a casa sua e se l’è portato via. Tre giorni dopo, è stato accusato di “adesione all’organizzazione terroristica di Fethullah Gülen” (Fetö) ed è stato messo in custodia preventiva presso il carcere di Sakran, vicino a Izmir, dove si trova da allora. È stato accusato di “adesione a un’organizzazione terroristica”. Se giudicato colpevole, potrebbe dover scontare fino a 15 anni di carcere. Trovo estremamente allarmante anche il solo pensiero di questa eventualità. Ho incontrato Taner per la prima volta nel 2006. Era una fredda giornata di dicembre e io ero sbarcato a Izmir alla fine del mio lungo viaggio attraverso il Mediterraneo, da cui poi sarebbe nato il mio primo libro “Mamadou va a morire”. Ci incontrammo in uno degli affollati bar della città. Ero andato lì proprio per cercare di incontrarlo. Taner, infatti, rappresentava i superstiti dell’affondamento di un gommone in acque turche da parte della guardia costiera greca durante un respingimento illegale verificatosi tre mesi prima. Si trattava di una vicenda terribile, finita con la morte di nove passeggeri che erano annegati a pochi metri dalla riva. Una storia su cui le autorità greche e turche avrebbero preferito che calasse il silenzio, se non fosse stato per la persistenza di Taner e di due donne straordinarie che hanno lavorato al caso ma di cui ora evito di fare il nome, vista la situazione corrente. Secondo le autorità, l’accusa principale che rappresenta il presunto collegamento fra Taner Kiliç e il movimento di Gülen è il fatto che nell’agosto 2014 è stata scaricata sul suo telefono ByLock, un’applicazione di messaggeria mobile sicura che le autorità ritengono sia stata usata per comunicare dal movimento di Gülen. Non è stata presentata alcuna prova credibile a supporto dell’”adesione a Fetö” di Taner. Taner Kiliç nega di aver mai scaricato o usato ByLock, o perfino di averne mai sentito parlare fino a quando il suo presunto uso è stato ampiamente pubblicizzato in relazione ai recenti arresti e procedimenti penali. Due esami forensi indipendenti commissionati da Amnesty International ed eseguiti sul suo telefono non hanno individuato alcuna traccia del fatto che ByLock sia mai stata scaricata. Lo scorso mese, il governo turco ha riconosciuto che oltre 11.400 persone accusate di aver usato ByLock non hanno mai effettivamente scaricato quest’app sui propri telefoni e ha cominciato a rilasciare quanti erano stati arrestati. Taner non rientra nell’elenco dei rilasciati ma i rilasci stessi riconoscono de facto che sono stati commessi errori. Oggi, dopo quasi otto mesi di carcere, riprende il processo a Taner. La sua detenzione è una triste conferma del fatto che Taner non è mai sceso a compromessi. Inoltre, è anche la triste conferma della sempre più pericolosa e ridicola deriva in cui sta scivolando un paese straordinario come la Turchia. Esprimo tutta la mia solidarietà a Taner e aggiungo la mia voce al coro di quanti richiedono la sua liberazione e la liberazione di tutti i giornalisti, gli avvocati, gli accademici, gli attivisti, i deputati e in generale di tutti gli esponenti dell’opposizione turca che, durante lo scorso anno, sono stati imprigionati a migliaia con accuse preconfezionate di terrorismo. Iran. La rivoluzione silenziosa delle donne contro l’obbligo del velo di Farian Sabahi Il Manifesto, 31 gennaio 2018 Le donne iraniane rappresentano una forza sociale che ogni giorno combatte per la libertà di scelta, scardinando così un sistema che lentamente sta implodendo. Rischiano due mesi di carcere e venti euro di multa. È questa la pena per le donne che osano liberare la chioma al vento nella Repubblica islamica dell’Iran, dove il velo è obbligatorio nei luoghi pubblici dal 1980. Negli anni successivi alla Rivoluzione del 1979 il codice di abbigliamento era severo: nelle università era di norma il maghnaeh che somiglia al velo delle suore perché è cucito in modo da lasciare lo spazio per infilare la testa senza dovere fare il nodo al collo e quindi senza il rischio che scivoli; il maghnaeh era consuetudine anche negli uffici pubblici, dove ad attendere noi donne erano le dipendenti pubbliche munite di detergente per togliere il trucco troppo pesante; il chador era l’abito di ordinanza per i ceti bassi ed era obbligatorio nei mausolei meta di pellegrinaggio: in quello di Masumeh nella città santa di Qum e in quello dell’Imam Reza a Mashhad. Il velo è sempre stato l’oggetto della discordia in Iran, basti pensare che nel 1936 lo scià di Persia lo aveva vietato, mettendo in difficoltà tante signore non abituate a mostrarsi agli estranei a capo scoperto. Abolendo il velo, Reza Shah aveva evitato di occuparsi di questioni più significative: gli uomini continuavano a vantare svariati privilegi, come la possibilità di contrarre matrimonio con quattro donne, divorziare a proprio piacimento ed ereditare una quota maggiore rispetto alle sorelle. Reza Shah fu costretto all’esilio dagli inglesi, nel 1941. Con suo figlio Muhammad Reza Shah, il divieto del velo venne meno e ognuno tornò a vestirsi come voleva: la buona borghesia a capo scoperto, la stragrande maggioranza con il velo nelle sue diverse declinazioni. Il velo è poi diventato obbligatorio dopo la Rivoluzione del 1979. In questi quattro decenni il foulard è diventato sempre più striminzito, per mostrare un numero di ciocche di capelli sempre maggiore. Ma rimane l’obbligo di coprirli almeno in parte con un tessuto. Leggero, trasparente. Poco importa. Ma resta il fatto che il velo resta obbligatorio: per alcune può essere una libera scelta, mentre per altre non lo è. Con un pizzico di solidarietà femminile, ora le iraniane protestano di fronte all’obbligo dell’hejab. Anche le donne che invece lo mettono per libera scelta. QUELLA delle donne iraniane è così diventata una rivoluzione. Silenziosa, non violenta. Scelgono di indossare il velo bianco, per distinguersi dalle tante che optano, convinte, per il nero. Alcune se lo tolgono, si fanno fotografare, vengono arrestate. Era successo a Vida Movahed, il 27 dicembre. Trentun anni, un bimbo di 19 mesi, si era tolta il velo in pubblico il giorno prima delle proteste in via Enghelab, la via della Rivoluzione a Teheran. Il giorno dopo era stata arrestata. Domenica è stata rilasciata, a comunicarlo su Facebook è stata il suo avvocato, Nasrin Sotoudeh, nota attivista per i diritti umani. “La sua liberazione viene attribuita alla pressione internazionale, ma in realtà è la pressione interna che preoccupata le autorità iraniane, anche perché nei giorni scorsi una delegazione parlamentare ha potuto visitare il carcere di Evin, dove si trovano i prigionieri politici”, spiega Anna Vanzan, esperta di Iran e docente all’Università Statale di Milano. E aggiunge: “Le donne in Iran rappresentano ormai una forza sociale che, con una protesta silenziosa ma quotidiana, stanno scardinando la presunta monoliticità di un sistema che lentamente - ma inesorabilmente - sta implodendo”. È effetto domino: lunedì mattina un’altra ragazza si è tolta il velo ed è salita su un blocco di cemento. Bene in vista. È stata fotografata per dieci minuti. Poi sono arrivati gli agenti in borghese ad arrestarla. Si chiama Nargues Hosseini. Al polso ha un braccialetto verde, segno che gli iraniani hanno memoria del movimento verde d’opposizione del 2009 e dei suoi leader, agli arresti domiciliari dal 14 febbraio 2011. Il luogo è il solito, significativo: via Enghelab, ovvero via della Rivoluzione. Ieri, la stessa iniziativa è stata presa da altre tre ragazze. Sui social network circolano le loro foto. Si trovano nella capitale Teheran, per terra c’è la neve. Alcune hanno i capelli scuri, lunghi e mossi. Un’altra li ha corti, colorati di verde. Alcune si tolgono il velo nella capitale, altre a Isfahan, Shiraz e località minori. La loro è una forma di ribellione. Non necessariamente contro il velo, ma contro l’obbligo del velo che dovrebbe essere invece una libera scelta. Di certo, conclude Anna Vanzan, “eliminare l’obbligatorietà del velo non è una priorità per le iraniane, ma la loro protesta in questo senso diviene simbolica di altre ingiustizie che da anni le donne patiscono e per le quali da anni combattono, come la riforma del codice di famiglia che contiene articoli discriminanti le donne in istituzioni fondamentali quali, per citare i più importanti, il matrimonio, il divorzio e l’affidamento dei figli minori, la ripartizione dell’eredità perché in Iran alle figlie femmine spetta la metà rispetto ai maschi”. Turchia. Minacce e arresti contro chi critica l’invasione militare nel nord della Siria di Riccardo Noury Corriere della Sera, 31 gennaio 2018 Come raccontiamo da tempo in questo blog, in Turchia la soglia di tolleranza del dissenso è praticamente pari a zero, soprattutto quando le critiche riguardano questioni che il governo ritiene di sicurezza nazionale. Il 24 gennaio l’Associazione medica turca (Ttb), che da anni si occupa di salute e diritti umani e che segue molti casi di violenza e tortura denunciandone le responsabilità istituzionali, ha emesso una dichiarazione per sollecitare la fine dell’offensiva militare contro la regione di Afrin, nella Siria settentrionale, iniziata quattro giorni prima. Le conseguenze delle operazioni militari turche sulla popolazione civile, minimizzate dal governo di Ankara, sono state rese note al mondo da Robert Fisk, il primo giornalista occidentale giunto ad Afrin. Non appena la dichiarazione è diventata pubblica, gli uffici e i responsabili della Ttb hanno iniziato a ricevere pesanti minacce anonime. La sede principale della Ttb di Ankara ne ha ricevute molte via telefono e posta elettronica. Sui social media è stato annunciato che la sua sede sarebbe stata oggetto di irruzione e sono stati presi di mira singoli esponenti dell’associazione, etichettati come “traditori” e minacciati di “farla finita”. Il 26 gennaio lo stesso presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha pubblicamente attaccato “la sedicente Associazione medica turca, ossia gli amici dei terroristi”. Lo stesso giorno due sindacati vicini al governo hanno svolto picchetti di fronte alla sede di Istanbul. Per precauzione, la Ttb ha evacuato la sede di Ankara chiedendo, per ora invano, misure di protezione. Ieri, infine, in uno sviluppo assai preoccupante sono stati arrestati 11 membri del comitato direttivo della Ttb, compreso il presidente Rasit Tükel. Brasile. Scontro tra detenuti in prigione sovraffollata, dieci morti e otto feriti Nova, 31 gennaio 2018 Almeno dieci detenuti sono stati uccisi e otto feriti in uno scontro tra fazioni criminali rivali avvenuto ieri nella prigione di Itapaje, nello stato del Cearà, a 125 km da Fortaleza, nel nord del Brasile. Lo ha reso noto il Consiglio penitenziario dello stato del Cearà (Copen), ente collegato al ministero di Giustizia e cittadinanza dello stato brasiliano. In una nota, il ministero di Giustizia e Cittadinanza di Cearà ha confermato il bilancio delle vittime. “I detenuti hanno iniziato una lotta tra gruppi rivali che ha provocato la morte di dieci persone. La polizia e le guardie carcerarie del Gruppo di operazioni regionali hanno effettuato un intervento dentro la struttura penitenziaria, riprendendone il controllo”, si legge nel documento. Secondo le informazioni della stazione di polizia di Itapaje, 113 uomini erano detenuti nell’unità penale, la cui capacità massima è di 25. Secondo il presidente della Copen, Claudio Justa, il conflitto è stato motivato dalla mancata separazione delle fazioni rivali in piccole prigioni dello stato del Cearà, a differenza di quanto fatto nelle grandi unità carcerarie, appunto per evitare casi del genere. Gli scontri, iniziati verso le 8:30 del mattino, sarebbero una rappresaglia per la strage che ha avuto luogo a Fortaleza all’alba di sabato, nella quale sono rimaste uccise 14 persone. In totale la settimana scorsa sono stati registrati 25 morti a Fortaleza. Nella lotta si sono affrontati la fazione dei Guardiani dello stato (Gde), alleati con la più grande fazione criminale del paese, il Primo comando della capitale (Pcc), e il Comando Vermelho (Cv). Pcc e Cv sono in lotta in tutto il Brasile, principalmente dentro le carceri, per il controllo dei traffici di droga e armi.