Riflessioni sui Decreti attuativi della riforma dell’Ordinamento Penitenziario di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 30 gennaio 2018 Nei Decreti attuativi della riforma dell’Ordinamento penitenziario, la parte più interessante e decisamente positiva ci sembra quella dedicata alle disposizioni in tema di eliminazione di automatismi e di preclusioni nel trattamento penitenziario e la modifica delle norme in tema di misure alternative, accesso alla semilibertà per gli ergastolani, nuova liberazione condizionale. Negativo però, a nostro parere, il fatto che la revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative venga fatta “salvo che per i casi di eccezionale gravità e pericolosità, e, in particolare, per le condanne per i delitti di mafia e di terrorismo internazionale (comma 85, lettera b)”, per le quali è stata però la delega che ha escluso già a priori un intervento. Questa esclusione ci sembra in contrasto con il fatto che, come si ribadisce giustamente nei decreti, non si deve escludere in ragione del “tipo di autore”. Da tante esperienze del Volontariato con i detenuti delle sezioni di Alta Sicurezza, emerge con forza che non esistono i “cattivi per sempre” e che anche “i mafiosi” possono cambiare prendendo le distanze dal loro passato e condannando le scelte di vita fatte, anche se non collaborano per non compromettere la vita delle loro famiglie. La parte invece dedicata alla vita detentiva ci pare la meno innovativa, con alcune cose positive (disciplina dei trasferimenti, per i quali però dovrebbero essere più stringenti le forme di controllo), ma alcune decisamente vecchie (si parla di responsabilizzazione e poi si resta ancorati alla rappresentanza per sorteggio). Sezioni speciali per detenuti con patologia psichiatrica sopravvenuta in carcere La parte relativa alla patologia psichiatrica sopravvenuta in carcere, che prevede la creazione nelle carceri di sezioni speciali finalizzate a favorire il trattamento terapeutico, non deve rischiare di ricreare negli istituti di pena dei mini manicomi. Tra l’altro la riforma è a costo zero, dove si trovano le risorse per attrezzare questi reparti e dotarli di personale adeguato? E non è chiaro neppure come si faccia a uscirne quando cessano le condizioni di infermità psichica o di disabilità fisica Percorsi rieducativi Nei decreti si ribadisce il valore dell’osservazione scientifica della personalità, che in realtà è un concetto abbastanza superato, visto che nessuno ha gli strumenti per farla, e andrebbe a nostro avviso sostituito con una idea di rieducazione come apertura sempre maggiore alla società esterna, progetti che stimolino l’assunzione di responsabilità, confronto con le vittime. Importante invece, a nostro parere, l’art. 1, comma 2, che finalmente riconosce che l’accesso alle misure alternative è una tappa fondamentale del reinserimento “Il trattamento tende, prioritariamente attraverso i contatti con l’ambiente esterno e l’accesso alle misure alternative alla detenzione, al reinserimento sociale”, Serve, in proposito, una formazione congiunta dell’area pedagogica con il volontariato e il terzo settore, che sono i soggetti direttamente coinvolti nel reinserimento delle persone detenute. Il ruolo del Volontariato non è però previsto nella Commissione che cura le attività rieducative, dove viene introdotta come novità solo la presenza dei mediatori: “Una commissione composta dal direttore dell’istituto, dagli educatori, dagli assistenti sociali, dai mediatori culturali che operano nell’istituto ai sensi dell’articolo 80, quarto comma e dai rappresentanti dei detenuti e degli internati cura l’organizzazione delle attività…”: Rappresentanza Nei decreti è scritto che “Il trattamento penitenziario si conforma a modelli che favoriscono l’autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l’integrazione”: un passo importante verso la responsabilità è allora riconoscere ai detenuti il diritto di eleggere i propri rappresentanti. I percorsi di reinserimento delle persone detenute devono passare soprattutto dalla loro responsabilizzazione. Ma per promuovere un cambiamento nella direzione della assunzione di responsabilità nelle persone detenute è necessario anche un cambiamento delle modalità di relazione tra le persone detenute e l’Amministrazione Penitenziaria. Istituire, come già è stato fatto a Bollate e come si sta tentando di fare a Padova, una rappresentanza delle persone detenute va in questa direzione. Una rappresentanza vera, dunque eletta, perché la attuale forma di rappresentanza, per sorteggio, presente in alcune commissioni, non responsabilizza minimamente le persone detenute. Una proposta seria di rappresentanza mira ad istituire la figura del rappresentante di sezione, una persona detenuta eletta dai compagni con il compito di rapportarsi alla Direzione per rappresentare le istanze della sezione, individuare malfunzionamenti, proporre soluzioni o idee per il miglioramento della vita detentiva. I rappresentanti possono occuparsi di tutto quello che riguarda la vita quotidiana della sezione; i casi singoli vengono rappresentati se emblematici di una situazione che può riguardare tutti. L’attività di facilitazione delle rappresentanze (organizzazione elezioni, formazione rappresentanti, predisposizione incontri) dovrebbe essere affidata ogni anno ad un’associazione di volontariato o del terzo settore, previo accordo tra le associazioni stesse. Comunicazione mediante programmi informatici Il capo VI, art. 25, comma g, punto 4, tratta di comunicazione mediante programmi informatici. La disposizione, che prevede che tale possibilità non si applichi ai detenuti e internati per i reati di cui all’articolo 4-bis, è gravemente lesiva dei diritti al mantenimento di relazioni, all’affettività e in generale ai diritti umani: si pensi ad esempio ai casi in cui un detenuto ha familiari lontani malati o impossibilitati a spostarsi. O anche solo all’importanza di una comunicazione visiva nei confronti delle persone care. Stupisce quanto scritto nella relazione illustrativa, che giustifica tale preclusione con la presenza di una norma che prevede per i colloqui telefonici la possibilità della registrazione. Questa possibilità esiste anche per le comunicazioni via Skype e via altri metodi analoghi, con molteplici soluzioni tecniche. Il legislatore può quindi, coerentemente a quanto normato, prevedere che la comunicazione con supporti informatici sia ammessa condizionandola (ove previsto dalle norme) alla disponibilità di idonei strumenti di registrazione. Commissione per il regolamento interno Nell’art. 16 dell’Ordinamento penitenziario, si integra la composizione della commissione competente all’elaborazione e approvazione del regolamento d’istituto con la presenza - oltre che del magistrato di Sorveglianza, del direttore, del medico, del cappellano, di un educatore - anche “di un assistente sociale e dei rappresentanti del volontariato operante a titolo gratuito nell’istituto”. È importante che siano state inserite le associazione di volontariato in una commissione, che elabora il Regolamento di Istituto, proprio perché il Regolamento ha un peso notevole rispetto ai percorsi delle persone detenute, mancano però le cooperative, che devono essere coinvolte perché, nelle carceri in cui operano, possono avere un ruolo fondamentale nell’accompagnare i detenuti dal dentro al fuori. Volontariato Riassumendo le annotazioni sul ruolo del Volontariato, osserviamo che tale ruolo è stato finalmente introdotto nella Commissione per il Regolamento interno, la sua presenza non è prevista invece nella Commissione che si occupa delle attività rieducative, nonostante siano proprio le Associazioni di Volontariato ad avere un ruolo preponderante nelle proposte di attività rieducative presenti nelle carceri. Nell’art. 17 è stata aggiunta una parte riguardante le attività di Volontariato nell’area penale esterna “Sono ammessi a frequentare gli istituti penitenziari e a collaborare, a titolo gratuito, con gli uffici di esecuzione penale esterna, tutti coloro che (…) dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità penitenziaria e la società libera”. Viene così codificata una presenza, già prevista da un Accordo di collaborazione tra il nuovo Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità e la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. L’autorizzazione invece all’ingresso in Istituto ex art. 17 O.P. nei nuovi decreti viene delegata ai direttori, e il magistrato interviene solo in alcune situazioni : “In caso di inerzia, diniego o revoca dell’autorizzazione provvede, sentito il direttore, il magistrato di Sorveglianza”. La formula “provvede” non è però chiara, e non è chiaro il fatto che non siano sentite le associazioni o la Conferenza Volontariato Giustizia, come previsto invece dal Protocollo operativo tra il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. Conclusioni Queste sono alcune riflessioni sui decreti attuativi. Ribadiamo però con forza la necessità di riprendere i temi del lavoro e degli affetti che sono stati stralciati dai decreti. In particolare sugli affetti il nostro Paese è veramente rimasto indietro, e le famiglie si aspettano che finalmente qualcosa cambi: sei ore di colloquio al mese e una telefonata di dieci minuti a settimana sono infatti una miseria inaccettabile. È importante che si arrivi finalmente a prevedere i colloqui intimi e a liberalizzare le telefonate, come indicato dal Tavolo 2 degli Stati Generali e dal Tavolo 6. In Francia in questi giorni si sta lavorando per installare in ogni cella un telefono fisso, noi siamo ancora alla telefonata unica settimanale di dieci minuti, e per lo più si tratta di chiamate a numeri fissi, un sistema arcaico che va contro il diritto di ogni persona detenuta a preservare i propri affetti, e soprattutto il diritto dei suoi famigliari ad essere trattati con umanità. E ancora, è importante che vengano approvati anche i decreti che riguardano gli strumenti normativi di giustizia riparativa nella fase dell’esecuzione penale, l’ordinamento penale minorile, le modifiche alla disciplina delle misure di sicurezza e la revisione del sistema delle pene accessorie. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Ordinamento penitenziario: corsa contro il tempo per la riforma di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 gennaio 2018 La Commissione Giustizia della Camera dovrebbe finire l’esame mercoledì 7 febbraio. Oggi si riunisce la Commissione giustizia del Senato per esaminare i testi dei decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario. Si avvia così anche l’esame da parte dei senatori, membri della commissione, su quella parte della riforma passata al vaglio del Consiglio dei ministri lo scorso 22 dicembre. Rimangono ancora esclusi i capitoli relativi al lavoro e all’affettività, ovvero due aspetti fondamentali della detenzione che riguardano il corretto mantenimento familiare come i permessi e colloqui, la sessualità, la rieducazione e il reinserimento dei detenuti una volta liberi. Esclusi anche i testi che riguardano la giustizia riparativa e quella minorile. Per quanto riguarda la commissione giustizia della Camera, si è riunita per la prima volta il 17 gennaio per poi ritornarci giovedì scorso con una indagine conoscitiva in merito all’esame dello schema di decreto legislativo sulla riforma dell’ordinamento, alla quale hanno preso parte Federico Cafiero de Raho, procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo, i rappresentanti dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), del Coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza, dell’Unione delle Camere penali italiane (Ucpi), Gemma Tuccillo, capo dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, Mauro Palma, Presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, il professor Glauco Giostra, e il professor Franco Della Casa, in qualità di componente della Commissione per la riforma dell’ordinamento penitenziario presso il ministero della Giustizia. Durante l’audizione, durata quasi quattro ore, c’è stato un confronto serrato e in alcuni casi molto critico. Il procuratore nazionale antimafia de Raho, ad esempio, ha espresso perplessità sulla modifica del 4 bis, l’articolo dell’ordinamento che vieta la concessione dei benefici ai condannati per alcuni delitti. Secondo de Raho, anche se tale modifica non riguarda i condannati per mafia, il fatto di concedere benefici a coloro che si sono macchiati del reato di traffico di stupefacenti, si rischia comunque di indebolire il contrasto alle organizzazioni mafiose. Stesso discorso, sempre per il procuratore nazionale antimafia, vale per la concessione della detenzione domiciliari a donne incinte o madri di minori di anni 10, anche se condannate per delitto di mafia o terrorismo. “La modifica dell’articolo dell’ordinamento penitenziario - ha spiegato de Raho - che permette la detenzione domiciliare a queste donne riteniamo che sia un ulteriore vulnus a un sistema che deve invece essere severo e rigido. Questo è ciò che dobbiamo garantire ai territori. Soprattutto dobbiamo rompere il collegamento di soggetti mafiosi con il territorio aiutando così il contrasto alle mafie”. Di diverso parere, invece, è Mariolina Panasiti, la rappresentante del Comitato Direttivo Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati: “Mi sembra di poter dire che la riforma sicuramente premia lo sforzo di elaborazione e approfondimento che almeno negli ultimi dieci anni la magistratura di sorveglianza ha fatto. In questa ottica io credo di poter dire che la riforma va vista con favore. Chi ha fatto il magistrato di sorveglianza sa che molto spesso, al di là della tipologia di reato del condannato, gli interventi rieducativi all’interno del circuito penitenziario fanno davvero miracoli. Privare ai detenuti di tali interventi, solo perché macchiati di reati ostativi, sarebbe sbagliato. Quindi ben venga questa riforma”. Durante i vari interventi è emersa una critica comune: ovvero il fatto che tale riforma non prevede risorse finanziarie, soldi indispensabili per concretizzare i vari interventi educativi. In realtà non è del tutto vero. La legge di Bilancio approvata dal Parlamento riporta anche delle voci per quanto riguarda le risorse finanziarie al sistema penitenziario. Soldi non del tutto sufficienti, ma ci sono. Nell’articolo 44 della legge c’è un capitolo specifico dove si prevede l’assunzione di 296 assistenti sociali per potenziare l’esecuzione penale esterna e, relativamente all’attuazione dell’ordinamento penitenziario e al processo penale, una dotazione di 10 milioni di euro per l’anno 2018, 20 milioni di euro per l’anno 2019 e 30 milioni di euro a decorrere dall’ 2020. Durante la seduta, sono stati messi a disposizione dei componenti della Commissione il parere del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, le osservazioni scritte acquisite dell’associazione “Ristretti Orizzonti”, nonché quelle trasmesse dalle associazioni “Antigone” e “Vittime del dovere”. Donatella Ferranti, presidente e relatrice, intervenendo sui lavori della Commissione, ha poi comunicato che, all’esito della riunione dell’ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, tenuto conto della particolare complessità del provvedimento in esame, tale da richiedere un articolato lavoro istruttorio, si è convenuto sull’opportunità di convocare la Commissione stessa nella giornata di mercoledì 7 febbraio prossimo per l’approvazione del parere di competenza sullo schema di decreto legislativo, del quale si riserva, in qualità di relatrice, di inviare una bozza ai gruppi parlamentari lunedì 5 febbraio. Ha anche sottolineato che la Commissione potrà concludere l’esame del provvedimento dopo che sia stato acquisito il parere della Conferenza unificata stato regioni che si riunirà alle ore 15 sempre di mercoledì. Quindi, verosimilmente, almeno per quanto riguarda la Commissione giustizia della Camera, tutto si concluderà il 7 febbraio. Una corsa contro il tempo che rischia di infrangersi sullo scoglio delle elezioni politiche del 4 marzo. Per questo motivo, dalla mezzanotte del 22 gennaio, l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini è in sciopero della fame. Parliamo della ripresa del Satyagraha assieme alla comunità penitenziaria per “scongiurare l’ennesimo buco nell’acqua, che - spiega l’esponente radicale Rita Bernardini - significherebbe accettare la deleteria illegale situazione attuale delle carceri e dell’esecuzione penale in generale”. L’esponente radicale chiede l’approvazione dei decreti delegati per l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario in maniera veloce e completa, inserendo anche quelli sull’affettività e lavoro. La richiesta è quella, appunto, di concludere l’iter per l’approvazione prima del 4 marzo, il giorno delle elezioni parlamentari. L’iniziativa nonviolenta è sostenuta anche dai militanti del Partito Radicale di Milano tramite la loro associazione “Opera Radicale”, che si articola in un digiuno a catena di un giorno per ogni partecipante. Dura oramai da più di 40 giorni e, come recita, il loro comunicato, punta soprattutto al diritto alla salute dei detenuti che “in carcere non sono adeguatamente curati persino quando sono affetti da malattie gravissime”. Riforma dell’ordinamento penitenziario: verso una soluzione al sovraffollamento? di Agostina Stano salvisjuribus.it, 30 gennaio 2018 Lo schema di decreto legislativo attua la delega contenuta nella legge n. 103/2017 recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario”, nella parte relativa all’ordinamento penitenziario. Lo schema, in esame in questi giorni alla Commissione Giustizia, concretizza le disposizioni di cui alla legge di delega, con particolare riguardo alla semplificazione delle procedure per le decisioni di competenza del Magistrato di Sorveglianza e del Tribunale di Sorveglianza, fatta eccezione per quelle relative alla revoca delle misure alternative alla detenzione; alla revisione delle modalità e dei presupposti per l’accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti oggettivi, sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse, fatti salvi i casi di eccezionale e grave pericolosità. Gli obiettivi che la riforma persegue attengono alla previsione di soluzioni normative che possano meglio adeguare il sistema alla finalità rieducativa della pena ed in particolare alla individuazione del trattamento secondo i dettami dell’articolo 27 della Costituzione. Tale norma, è ben noto, precisa che le pene non devono e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e pertanto è diritto di ogni detenuto poter scontare la carcerazione intramuraria senza dover lottare ogni giorno con il problema delle celle troppo piccole in cui vengono stipati il doppio dei detenuti che le stesse potrebbero ospitare. Lo schema di decreto si premura di eliminare gli sbarramenti al trattamento rieducativo, che non dipendano dalla condotta dell’interessato bensì da aprioristiche presunzioni assolute ed ha elaborato soluzioni che rendono più rigorosi i presupposti e più impegnativi gli accertamenti istruttori per l’accesso alle misure alternative. Tutto questo nel dichiarato scopo di migliorare il trattamento penitenziario e lo sviluppo dei percorsi rieducativi individuali. È pacifica, in Italia, la situazione di sovraffollamento negli istituti di pena ed è proprio nelle misure alternative alla detenzione che si individua uno strumento essenziale, perseguibile in alternativa alla detenzione intramuraria, tutte le volte in cui i trascorsi delinquenziali e personali del condannato lo consentano. Non si può più mettere a tacere il problema, finora arginato da misure di carattere emergenziale, sorto in seguito alla pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (nota come “Sentenza Torreggiani”) sulla compatibilità delle strutture carcerarie italiane con la normativa sovranazionale e che hanno già determinato numerose condanne per il nostro paese. La Corte Edu ha individuato, infatti, nel sovraffollamento carcerario italiano un “fattore di crisi strutturale” del nostro sistema penitenziario ed una delle più significative e ricorrenti ipotesi di violazione da parte del nostro sistema della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. In questa prospettiva di riforma si coglie, dunque, la revisione dei presupposti di accesso alle misure alternative avendo presente che, la possibilità di ammettervi i soggetti meritevoli, rimuovendo ogni eventuale sbarramento preclusivo, non solo favorisce un “deflusso” della popolazione penitenziaria ma incide sul numero dei futuri ingressi, oltre che sulla complessiva sicurezza sociale, se è vero che il condannato che espia la pena in carcere risulterà recidivo nel 68,4% dei casi mentre chi ha usufruito delle misure alternative alla detenzione ha un tasso di recidiva solo del 19% che si riduce all’1% tra coloro che sono stati inseriti nei circuiti rieducativi. In Italia casi di ingiusta detenzione in crescita: oltre 1.000 nel 2017 tg24.sky.it, 30 gennaio 2018 Si passa dai 989 del 2016 ai 1.013 dello scorso anno, con l’ammontare dei risarcimenti che sale a 34 milioni di euro. Lo riporta ErroriGiudiziari.com, che tiene un archivio dei casi di “malagiustizia”. La città con più casi è Catanzaro, seguita da Roma e Napoli. Aumentano in Italia i casi di ingiusta detenzione, dai 989 registrati nel 2016 ai 1.013 dello scorso anno: a dirlo è il sito ErroriGiudiziari.com, che da tempo tiene un archivio dei casi di “malagiustizia”. Di conseguenza è aumentato anche l’ammontare complessivo dei relativi risarcimenti, che supera i 34 milioni di euro. La città con il maggior numero di casi indennizzati è stata Catanzaro, con 158. Subito dopo ci sono Roma (137) e Napoli (113), che per il sesto anno consecutivo si conferma nei primi tre posti. Nella classifica per il numero di casi di ingiusta detenzione si registra una prevalenza delle città del sud, che occupano 8 delle prime 10 posizioni. Secondo la Onlus Antigone, che si occupa di tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale, i risarcimenti per ingiusta detenzione dal 1992 al 2016 ammontano a 648 milioni di euro, mentre ErroriGiudiziari.com riferisce che sono 26.412 le persone ad aver subito un’ingiusta detenzione dal 1992 a oggi. La classifica - Dopo Catanzaro, Roma e Napoli, la classifica stilata da Errorigiudiziari.com sull’ingiusta detenzione vede al quarto posto Bari, con 94 casi, poi Catania con 60, Palermo con 43, Milano con 40, Salerno con 38, Messina con 36 e Lecce con 28. E a parte Roma e Milano, il resto sono, appunto, città del sud. Quanto alle città dove lo Stato ha speso di più in risarcimenti, a guidare la classifica è sempre Catanzaro con 8.866.154 euro, seguita da Roma (3.924.672 euro), Bari (3.561.375 euro), Napoli (2.871.066 euro), Catania (1.977.926 euro), Palermo (1.539.597 euro), Salerno (1.510.925 euro), Messina (1.503.649 euro), Reggio Calabria (1.039.051 euro) e Milano (1.003.029 euro). Oltre 26mila casi negli ultimi 25 anni - Negli ultimi 25 anni, dal 1992 a oggi, secondo il sito 26.412 persone hanno subito una ingiusta detenzione, cioè una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari prima di essere riconosciute innocenti con sentenza definitiva. Per risarcire le vittime, lo Stato ha versato complessivamente poco meno di 656 milioni di euro. Una cifra in linea con le stime della Onlus Antigone, secondo cui i risarcimenti ammonterebbero a circa 648 milioni. Il numero di casi sale se si includono anche gli errori giudiziari in senso tecnico, ovvero quelli relativi a persone condannate con sentenza definitiva e poi assolte in seguito a un processo di revisione perché emergono elementi che li scagionano o si scopre il vero autore del reato. Contando anche questi casi, il numero sale a 26.550, per una somma totale di 768,3 milioni di euro in risarcimenti versati dal 1992 a oggi. La difesa dei diritti umani in Parlamento aveva un nome: Luigi Manconi di Alessandro Canella radiocittafujiko.it, 30 gennaio 2018 Le battaglie per i diritti umani del senatore Manconi, che non sarà ricandidato. Dalla battaglia per lo Ius Soli al voto contro il dl Minniti-Orlando, dalla legge per l’introduzione del reato di tortura (poi stravolta) al sostegno ai famigliari di Cucchi e Aldrovandi. E poi dignità nelle carceri, bio-testamento e altre battaglie. Il senatore Luigi Manconi non verrà ricandidato, ma noi vogliamo ricordarvi alcune delle sue battaglie. La notizia ormai è nota: il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti Umani del Senato, non sarà ricandidato dal Partito Democratico alle elezioni del prossimo 4 marzo. Manconi è uno degli esclusi che hanno fatto più clamore, accompagnato da Sergio Lo Giudice, impegnato sul tema dei diritti delle persone Lgbtq, e Paolo Gandolfi, impegnato sul tema della mobilità sostenibile. A sostegno della ricandidatura di Manconi fu lanciato anche un appello, che però non è andato a buon fine. Il senatore Manconi ha scelto di non commentare la sua esclusione e si è limitato ad un breve post in cui ringrazia tutti per l’affetto e l’apprezzamento ricevuto: “Ringrazio tutti coloro che - e sono stati tantissimi - si sono impegnati, nelle modalità più diverse, per sostenere la mia candidatura. Non è andata bene. Non sono candidato e, dunque, non sarò presente nel prossimo Parlamento. Non rimarrò con le mani in mano. Con affetto”. Manconi, però, è stato protagonista di molte battaglie per i diritti umani dentro e fuori il Parlamento. Sono numerose le dichiarazioni e le interviste che ha rilasciato ai nostri microfoni (e che potete riascoltare scrivendo il suo cognome nel motore di ricerca interno al sito). Dallo ius soli al reato di tortura, passando per bio-testamento e carceri, il tema che ha guidato il suo operato è sempre stato il rispetto per i diritti umani. Noi vogliamo ricordarvi alcune di quelle battaglie, in particolare su due grandi temi: tortura e migranti. Reato di tortura - Il 15 marzo del 2013, primo giorno di Legislatura, il senatore Luigi Manconi presentò un proprio testo per l’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento italiano. Un reato che, nonostante la ratifica della convenzione internazionale sia avvenuta quasi trent’anni fa, non è mai stato introdotto nel codice penale. Manconi lottò a lungo affinché l’Italia potesse dotarsi di una legge adeguata, ma i compromessi politici in seno alle forze di governo snaturarono il testo, rendendo di fatto inapplicabile il reato verso le forze dell’ordine. Al punto che il senatore Manconi non votò la legge. Sempre sullo stesso versante, Manconi sposò e sostenne le cause dei tanti cittadini uccisi dalle forze dell’ordine: da Stefano Cucchi a Federico Aldrovandi, passando per Giuseppe Uva. Il suo appoggio alle famiglie e il suo impegno per il rispetto dei diritti delle persone sottoposte a fermo non è mai mancato. Allo stesso modo non è mancato il lavoro di denuncia delle condizioni inumane nei centri di detenzione (carceri, Cie e hot spot). Immigrazione - Oltre allo strappo sul reato di tortura, fece clamore un altro strappo del senatore Manconi nei confronti della maggioranza e delle direttive del Partito Democratico: il no al Dl Minniti-Orlando. Il presidente della Commissione Diritti Umani del Senato, insieme ad altri colleghi, non votò il provvedimento che ha tolto garanzie giuridiche ai richiedenti asilo, eliminando un grado di giudizio per il ricorso ai dinieghi delle domande di protezione internazionale. In positivo, invece, Manconi fu uno dei grandi sostenitori dello Ius Soli, per la cui approvazione arrivò ad attuare (purtroppo inutilmente) lo sciopero della fame, e di una legge di iniziativa popolare denominata “Ero straniero”, che si proponeva di cambiare l’ordinamento italiano. Osservatori camere penali. Rischio censura di Graziella Di Mambro articolo21.org, 30 gennaio 2018 Come spesso accade con le iniziative insidiose, la partenza è lenta e accomodante. Così, nasce un piccolo osservatorio sull’informazione giudiziaria nel circondario giudiziario di Modena, provincia che è impossibile catalogare come “calda” o a rischio, ma che da qualche tempo ha cominciato a contare (o a scontare) importanti processi per reati gravi e quei processi sono stati seguiti con grande attenzione dai giornalisti come impone loro la deontologia professionale oltre che la passione. L’Osservatorio della Camera Penale di Modena sull’informazione giudiziaria è stato presentato solo come uno “strumento utile, anzi necessario, a monitorare i meccanismi della comunicazione su base locale per misurarli alla luce dei principi costituzionali”. È stato specificato altresì che nessuno ha voglia di intimidire chicchessia. Parole encomiabili, così convincenti che nel giro di qualche giorno anche la Camera Penale di Reggio Emilia ha deciso di istituire un osservatorio analogo. Già Reggio Emilia, la sede giudiziaria del processo Aemilia, il più delicato e importante sulla penetrazione della ‘ndrangheta in quel territorio. Perché è diventato improcrastinabile e inevitabile “osservare” il lavoro dei giornalisti e solo dei giornalisti di giudiziaria, specialmente se seguono processi di mafia e corruzione o dei due reati messi insieme, che - va ricordato - sono la vera piaga di questo Paese? Succede che per anni, ogni giorno, i cronisti, facendo semplicemente il loro lavoro, scrivano di reati comuni: rapine, omicidi, usura, estorsione, violenze. Poi capita che la cronaca cambi e che ci si trovi a scrivere di mafia dove nessuno ha interesse ad ammettere che ci sia, o che la mafia ha rapporti con pezzi della politica e dell’economia. Il racconto di cronaca non cambia per i giornalisti. Ma cambia radicalmente per gli indagati. E, brucia dirlo, cambia per i loro avvocati. È successo in questi giorni in Emilia. Ma era già accaduto a Roma, quando per la prima volta la Procura aveva messo in piedi un’inchiesta per mafia nella capitale e i cronisti avevano avuto l’ardire di raccontare quell’inchiesta come se fosse una delle tante, ossia con la dovizia di particolari che merita un’indagine del genere, quindi incluse le intercettazioni telefoniche, le foto, i filmati, le perizie; tutto ciò che era nella disponibilità degli inquirenti e degli indagati è divenuto patrimonio dei lettori. Ed è così che un gruppo di iscritti alla Camera penale di Roma ha messo in piedi una denuncia collettiva contro 96 giornalisti (78 cronisti e 16 direttori), praticamente tutti coloro che si erano permessi di raccontare l’inchiesta giudiziaria denominata “Mafia Capitale”. La contestazione tecnica contenuta nella denuncia riguardava “la pubblicazione pedissequa in articoli di stampa di atti, o stralci degli stessi, di un procedimento penale in fase di indagine” in relazione al caso di Mafia Capitale. La pubblicazione pedissequa non è consentita dall’attuale legislazione. Vero è che per prassi quotidiana gli atti d’inchiesta vengono pubblicati in modo integrale senza che ciò abbia mai portato ad azioni così clamorose. Non si può soprassedere, inoltre, su una ulteriore e amara considerazione: il nodo della riservatezza degli atti d’indagine e, complessivamente, delle attività istruttorie emerge e viene denunciato ogni volta che gli indagati hanno nomi e redditi eccellenti. Ogni giorno o quasi vengono violati dalla cronaca atti di indagini più o meno importanti. Scrivere che il medico x dell’ospedale della città y è indagato per truffa in danno del servizio sanitario è una violazione dell’indagine a suo carico. Riportare le intercettazioni telefoniche degli indagati per una tratta di immigrati posta in essere da loro connazionali senza scrupoli è una violazione del segreto istruttorio. Scrivere dell’arresto di un barista che deteneva cocaina nello sgabuzzino, parte per se stesso e parte per i clienti, è un’altra grave violazione dell’indagine e della privacy. Ma non risulta che gli avvocati (né i diretti interessati) abbiano sollevato il caso della “pedissequa pubblicazione”. Invece per gli atti giudiziari riferiti a Massimo Carminati e similari è successo, anzi succede sempre più spesso. Adesso si è passati alla fase di studio del lavoro dei giornalisti, propedeutica alla censura è evidente, per quanto non sia dichiarato anzi formalmente escluso da chi fonda questi nuovi osservatori. Se le singole camere penali aprono osservatori non è un incidente, non si tratta di un’eccezione, bensì, più probabilmente, dell’evoluzione di un’altra iniziativa dell’Unione delle Camere penali italiane che nel 2016 hanno pubblicato un libro dal titolo assai esplicito. Questo: “L’informazione giudiziaria in Italia - Libro bianco sui rapporti tra mezzi di informazione e processo penale” a cura (appunto) dell’Osservatorio giudiziario delle Camere Penali Italiane. Il contenuto è frutto di uno studio effettuato in collaborazione con l’Università di Bologna da giugno a dicembre 2015 e che prende in considerazione una serie di articoli di giudiziaria. Per chi ha letto questo volume, molto dettagliato, la conclusione è chiarissima: esiste un appiattimento della cronaca giudiziaria sulle posizioni della pubblica accusa e c’è un rapporto considerato troppo stretto tra giornalisti e pm. Molte le critiche e anche qualche suggerimento circa la necessità di tutelare il segreto d’indagine e la privacy. Sono considerazioni sempre apprezzabili se l’obiettivo è davvero quello di migliorare il racconto delle inchieste e dei processi. Purtroppo il dubbio che si insinua nei giornalisti porta ad un’altra conclusione: c’è il tentativo di mettere un freno, diciamo pure un altro bavaglio, al racconto delle storie più scomode di questo Paese. Anche il richiamo alla tutela dei diritti costituzionali delle parti del processo non convince fino in fondo, perché non tiene in nessun conto, anzi neppure viene citato, l’altro articolo della Costituzione che garantisce i giornalisti (e i fruitori dell’informazione ossia tutti i cittadini), l’articolo 21. Ciò nonostante, una critica generalizzata ai penalisti italiani non sarebbe giusta perché la stragrande maggioranza di loro partecipa alla corretta divulgazione delle notizie di giudiziaria e, per altro verso, aiuta i giornalisti ad affermare il loro diritto-dovere di fare cronaca. Ma proprio perché gli avvocati sono i primi difensori dei diritti nel nostro ordinamento, non si può sottacere la gravità di iniziative come la nascita di Osservatori, una sorta di MinCulPop di nuova generazione. Chi crede davvero nella Costituzione non può e non deve declinarla in questo modo, usando escamotage eleganti per non chiamare le cose con il loro nome e dire “osservatorio” invece che “censura”. Non facciamone una questione formale, di vocaboli. Pochissime toghe candidate: un segnale positivo per la politica di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 30 gennaio 2018 Sembra che alle prossime elezioni non saranno candidati, nelle varie liste, magistrati. O meglio, vi dovrebbe essere solo Angelo Raffaele Mascolo, Gip di Treviso, nella lista Con Noi con l’Italia, la gamba centrista della coalizione di centro destra. Liana Milella, cronista sempre molto attenta alle vicende giudiziarie, ha analizzato su Repubblica la situazione nei vari partiti ed ha rilevato che le prossime elezioni segnano un addio al fenomeno delle toghe in politica. Esse erano ben 18 a fine 2012 e, tra mancati rinnovi e mancate candidature, si ridurranno, nel prossimo parlamento, ad una o due. Anche il Movimento Cinque Stelle, per il quale si dava per scontato che avrebbe inserito nella compagine governativa alcune toghe di rilievo, ha escluso formalmente che Di Matteo, Davigo o Cantone faranno parte del loro eventuale governo. La presenza dei magistrati nelle liste elettorali aveva, evidentemente, un valore simbolico ed una funzione attrattiva del consenso. Soggetti che non avevano svolto mai una attività politica in senso stretto erano candidati in ragione del consenso popolare che avrebbero potuto far confluire sulla lista, al pari di quel consenso che si spera di ottenere candidando personaggi dello spettacolo o protagonisti di vicende importanti della società civile. La candidatura dei magistrati, in particolare, intendeva segnalare agli elettori una coerenza del partito con il principio di legalità e la condivisione del valore della giustizia come valore supremo. Si tratta di una deriva che aveva avuto alcune prime timide manifestazioni nel Pci dagli anni 70 in poi e che poi era esplosa all’indomani di Tangentopoli. La presenza dei magistrati era volta, perciò, a garantire l’integrità morale della lista ed a segnare un distacco profondo dal mondo corrotto che la attività di questi ultimi era riuscita a debellare. Evidentemente, questo tipo di messaggio non paga più. Le motivazioni sono probabilmente due. La prima sta certamente nel fatto che anche la giustizia ha perso credibilità. Gli scandali grandi e piccoli che hanno colpito alcune vicende giudiziarie, la costante ed impunita violazione del segreto istruttorio, la presenza strumentale e massiccia sui media, la evidente discutibilità di alcune decisioni, sono tutti fattori che hanno desacralizzato completamente il ruolo del giudice e messo in evidenza l’inadeguatezza degli interpreti di quel ruolo rispetto al modello ideale che legittimava la considerazione dei loro nomi come aggregatori di consenso. Il mondo giustizia non è più ritenuto come il luogo nel quale far rinascere il paese e superare la sua crisi anche morale, ma come partecipe esso stesso di quella crisi e niente affatto dotato di una maggiore nobiltà. Anzi, la presa di coscienza di quegli eccessi del mondo giudiziario, che vanno sotto il nome di giustizialismo, ha anche determinato una crescita lenta, ma progressiva ed irreversibile di rifiuto di quella prospettiva. La seconda sta, probabilmente, nella osservazione che la pretesa rivoluzione morale che avrebbe legittimato la rivoluzione giudiziaria degli anni 90, che va sotto il nome di Mani Pulite, ha prodotto, secondo molti, più danni che vantaggi. Una intera classe politica, certamente con i suoi difetti, ma capace di avere una visione strategica, è stata distrutta e sostituita da una classe politica debole, con ideali modesti e priva di visione strategica. Uno degli effetti è che, se prima degli anni 90 era l’economia ad essere subordinata alla politica, oggi è la politica ad essere subordinata all’economia. Illuminanti sono le rivelazioni fatte dall’ingegner De Benedetti circa la sua influenza sulle scelte del Governo. Ed, allora, la mancanza di toghe nelle liste elettorali va salutata come un segnale positivo. Il tentativo, finalmente, della politica di ritrovare nelle proprie idee e nella propria visione strategica il motore per l’aggregazione del consenso. È, perciò, il segnale di una salutare volontà di rinascita della politica. Una pioggia di denunce contro i magistrati. Ma sono sempre assolti di Lodovica Bulian Il Giornale, 30 gennaio 2018 Più di mille esposti l’anno dai cittadini. E le toghe si auto-graziano: archiviati 9 casi su 10. Tra i motivi ci sono la lunghezza dei processi, i ritardi nel deposito dei provvedimenti, ma anche “errori” nelle sentenze. In generale, però, è il rapporto di fiducia tra i cittadini e chi è chiamato a decidere delle loro vite a essersi “deteriorato”. Uno strappo che è all’origine, secondo il procuratore generale della Corte di Cassazione, Riccardo Fuzio, “dell’aumento degli esposti” contro i magistrati soprattutto da parte dei privati. Il fenomeno è la spia di “una reattività che rischia di minare alla base la legittimazione della giurisdizione”, spiega il Pg nella sua relazione sul 2017 che apre il nuovo anno giudiziario con un grido d’allarme: “Una giustizia che non ha credibilità non è in grado di assicurare la democrazia”. Nell’ultimo anno sono pervenute alla Procura generale, che è titolare dell’azione disciplinare, 1.340 esposti contenenti possibili irregolarità nell’attività delle toghe, tra pm e giudicanti. Numeri in linea con l’anno precedente (1.363) e con l’ultimo quinquennio (la media è di 1.335 all’anno). A fronte della mole di segnalazioni, però, per la categoria che si autogoverna, che si auto esamina, che auto punisce e che, molto più spesso, si auto assolve, scatta quasi sempre l’archiviazione per il magistrato accusato: nel 2017 è successo per l’89,7% dei procedimenti definiti dalla Procura generale, era il 92% nel 2016. Di fatto solo il 7,3% si è concluso con la promozione di azioni disciplinari poi portate avanti dal Consiglio superiore della magistratura. Solo in due casi su mille e duecento archiviati, il ministero della Giustizia ha richiesto di esaminare gli atti per ulteriori verifiche. Insomma, nessun colpevole. Anzi, la colpa semmai, secondo Fuzio, è della politica, delle campagne denigratorie, dell’eccessivo carico di lavoro cui sono esposti i magistrati: “Questo incremento notevole di esposti di privati cittadini evidenzia una sfiducia che in parte, può essere la conseguenza dei difficili rapporti tra politica e giustizia, in parte, può essere l’effetto delle soventi delegittimazioni provenienti da parti o imputati eccellenti. Ma - ammette - può essere anche il sintomo che a fronte di una quantità abnorme di processi non sempre vi è una risposta qualitativamente adeguata”. Il risultato è che nel 2017 sono state esercitate in totale 149 azioni disciplinari (erano 156 nel 2016), di cui 58 per iniziativa del ministro della Giustizia (in diminuzione del 22,7%) e 91 del Procuratore generale (in aumento quindi del 13,8%). Tra i procedimenti disciplinari definiti, il 65% si è concluso con la richiesta di giudizio che, una volta finita sul tavolo del Csm, si è trasformata in assoluzione nel 28% dei casi e nel 68% è sfociata nella censura, una delle sanzioni più lievi. Questo non significa, mette in guardia il procuratore, che tutte le condotte che non vengono punite allora siano opportune o consone per un magistrato, dall’utilizzo allegro di Facebook alla violazione del riserbo. E forse il Csm, sottolinea Fuzio, dovrebbe essere messo a conoscenza anche dei procedimenti archiviati, e tenerne conto quando si occupa delle “valutazioni di professionalità” dei togati. Che, guarda caso, nel 2017 sono state positive nel 99,5% dei casi. Detenzione inumana: il ministero se perde non paga le spese di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sezioni unite - Sentenza 26 gennaio 2018 n. 3775. Il ministero della Giustizia non può essere considerato una parte privata e se il suo ricorso contro il provvedimento del Tribunale di sorveglianza che lo condanna al risarcimento per la detenzione in condizioni inumane, viene respinto o considerato inammissibile, non può essere condannato alle spese processuali o al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende. Le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 3775 rispondono al quesito posto dalla sezione remittente sulla possibilità di condannare o meno alle spese Via Arenula, ma non si limitano a questo e chiariscono altri due punti che riguardano le richieste di risarcimento del danno in base all’articolo 35-ter dell’Ordinamento penitenziario per i pregiudizi che sono derivati da una condizione carceraria degradante. I giudici affrontano anche il nodo relativo alla possibilità o meno per l’amministrazione penitenziaria di proporre reclamo-impugnazione senza il patrocinio e l’assistenza dell’Avvocatura dello Stato, dando una risposta affermativa, mentre il terzo chiarimento riguarda l’indicazione della data dalla quale deve partire il count-down per la prescrizione del diritto a rivendicare il risarcimento. I dubbi riguardavano la decorrenza del termine di prescrizione per le situazioni in contrasto con l’articolo 3 della Cedu che si sono verificate prima dell’entrata in vigore del Dl 92/2014 con il quale sono stati dettati i rimedi risarcitori, sulla scia delle sentenza “pilota” Torreggiani con la quale i giudici di Strasburgo hanno condannato l’Italia per la situazione delle carceri. Le Sezioni unite affrontano il tema dell’esistenza o meno di un canale per azionare il diritto al risarcimento prima dell’introduzione del Dl 92 entrato in vigore dal 28 giugno 2014. I giudici precisano che il Dl 92 e la relativa legge di conversione 117/2014 non hanno riconosciuto un diritto soggettivo prima inesistente, tuttavia hanno fornito strumenti più rapidi ed efficaci per attivarlo. Per le Sezioni unite merita di essere condiviso l’orientamento secondo il quale nel caso di un “richiedente che si trovi detenuto al momento di presentazione dell’istanza e lamenti un pregiudizio pregresso derivante dalla propria condizione carceraria anteriore all’entrata in vigore del decreto legge 92/2014, la prescrizione del relativo diritto inizia a decorrere solo dall’introduzione dell’articolo 35-ter dell’ordinamento penitenziario”. Ad avviso del Supremo consesso solo da quella data si è posto rimedio ad un vuoto di tutela dovuto all’assenza di uno strumento accessibile ed effettivo. Una diversa interpretazione restringerebbe - sottolineano i giudici - in maniera irragionevole l’ambito di operatività del rimedio introdotto dall’articolo 35-ter dell’Ordinamento penitenziario Per le omesse ritenute non punibilità bloccata di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 3662/2018. La parziale depenalizzazione delle omesse ritenute non ha effetti sulla causa di on punibilità. L’entrata in vigore del decreto n. 8 del 2016, cioè, con il quale si sono esclusi dall’area della rilevanza penale gli omessi versamenti al di sotto dei 10.000 euro annui, non ha come conseguenza di fare ripartire i 3 mesi di tempo di solito previsti per il pagamento del dovuto con l’effetto conseguente di non punibilità. Lo sottolinea la Corte di cassazione con la sentenza n. 3662della Terza sezione penale con la quale è stato respinto il ricorso presentato dalla difesa di un imprenditore condannato in appello. Tra i motivi di impugnazione, la difesa aveva puntato anche sulla tesi per cui il varo dell’operazione di depenalizzazione ha tra gli effetti anche la rimessione in termini, per un ulteriore decorso, del periodo di 3 mesi fissato per poter usufruire della causa di non punibilità in caso di pagamento di quanto previsto. Per la Cassazione tuttavia il motivo non è sostenibile in assenza di una disposizione che lo preveda espressamente. La modifica introdotta all’inizio del 2016 con l’esclusione dall’area penale delle omissioni al di sotto dei 10.000 euro (che restano punibili sul piano amministrativo) ha conservato la stessa sanzione penale per le infrazioni sopra la soglia e ha mantenuto inalterata la causa di non punibilità nel caso di versamento delle ritenute entro il limite di 3 mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’accertamento della violazione, sia per il reato sia per il nuovo illecito amministrativo. La Cassazione ha già precisato poi che si è trattato di abolitio criminis solo parziale dal momento che esiste piena continuità normativa con l’incriminazione precedente quando è superata la soglia di non punibilità. È vero che il legislatore avrebbe potuto procedere diversamente, ma una misura specifica non è stata inserita nel decreto n. 8/16 e non si può, in nessun modo, arrivare a questa conclusione sulla base di principi generali del diritto. Si dovrà invece applicare, per la disciplina della successione delle norme penali nel tempo, la misura più favorevole, “senza che possa tuttavia introdursi in via interpretativa un meccanismo transitorio che avrebbe l’effetto di ampliare l’area della non punibilità e che il legislatore non ha evidentemente inteso prevedere”. Reato di peculato: l’appropriazione è qualificata dalla ragione dell’ufficio o del servizio Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2018 Reato - Delitti contro la pubblica amministrazione - Pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio - Peculato - Elementi integrativi del reato - Appropriazione - Nesso con l’esercizio di poteri o doveri funzionali. Nello schema normativo delineato dall’art. 314 c.p. la riconosciuta dipendenza da “ragione del suo ufficio o servizio” della disponibilità di denaro o di cosa mobile altrui in capo all’agente (pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio) vale a connotare giuridicamente il potere che è proprio del soggetto attivo del reato: il che significa che affinché sia integrato il reato di peculato è necessario che l’appropriazione compiuta dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio riguardi una res di cui quest’ultimo dispone per una ragione legata all’esercizio di poteri o doveri funzionali, in un contesto che consenta al soggetto di tenere nei confronti della cosa quei comportamenti uti dominus in cui consiste l’appropriazione. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 29 novembre 2017 n. 53825. Reati contro la pubblica amministrazione - Delitti dei pubblici ufficiali - Peculato - Medico dipendente di ospedale pubblico svolgente attività intramuraria - Riscossione delle somme dai pazienti - Mancato versamento all’azienda sanitaria della parte di spettanza - Peculato - Configurabilità - Limiti - Fattispecie. Integra il delitto di peculato la condotta del medico dipendente di un ospedale pubblico il quale, svolgendo in regime di convenzione attività intramuraria, dopo aver riscosso l’onorario dovuto per le prestazioni, omette poi di versare all’azienda sanitaria quanto di spettanza della medesima, in tal modo appropriandosene, a condizione che la disponibilità del denaro sia legata all’esercizio dei poteri e dei doveri funzionali del medesimo, e non in ragione di un possesso proveniente da un affidamento devoluto solo “intuitu personae”, ovvero scaturito da una situazione “contra legem”, priva di relazione legittima con l’oggetto materiale della condotta. (In applicazione del principio, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza impugnata ritenendo che, pur essendo stata accertata l’illecita percezione di denaro e lo svolgimento dell’attività al di fuori delle regole prescritte per l’attività professionale “intra moenia”, non fosse stato chiarito se l’imputato avesse un titolo di legittimazione in base al quale, operando all’interno di un ospedale pubblico, aveva riscosso le somme di denaro dai pazienti). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 4 settembre 2015 n. 35988. Reati contro la pubblica amministrazione - Reato di peculato - Possesso qualificato - Ragione dell’ufficio o del servizio - Configurabilità. In tema di peculato, il possesso qualificato dalla ragione dell’ufficio o del servizio non è solo quello che rientra nella competenza funzionale specifica del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma anche quello che si basa su un rapporto che consenta al soggetto di inserirsi di fatto nel maneggio o nella disponibilità della cosa o del denaro altrui, rinvenendo nella pubblica funzione o nel servizio anche la sola occasione per un tale comportamento. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 13 febbraio 2015 n. 6383. Reati contro la pubblica amministrazione - Delitti - Dei pubblici ufficiali - Peculato - In genere - Elementi differenziali rispetto al reato di appropriazione indebita aggravata ex art. 61, n. 9, c.p. Le distinte figure criminose del peculato e della appropriazione indebita aggravata si differenziano nella loro stessa materialità, con riferimento alle caratteristiche del possesso del denaro o della cosa mobile. Mentre il peculato richiede nel soggetto agente il possesso del denaro o della cosa mobile per ragioni di ufficio o di servizio, l’appropriazione indebita aggravata ex articolo 61 c.p., n. 9postula che il possesso sia stato devoluto all’agente intuitu personae e l’abuso dei poteri o l’inosservanza dei doveri servono al medesimo non già a procurarsi quel possesso ma ad agevolare la realizzazione della condotta tipica. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 14 settembre 2007 n. 34884. Campania: varati progetti di reinserimento per detenuti napolivillage.com, 30 gennaio 2018 Con Decreto Dirigenziale n. 7/2018 è stato pubblicato l’avviso pubblico per la realizzazione del Catalogo di percorsi formativi per l’inclusione socio-lavorativa dei detenuti e delle detenute, adulti e minori della Regione Campania. In particolare, saranno finanziati percorsi sperimentali di formazione e di inclusione socio-lavorativa volti al conseguimento di qualifiche professionali, anche tramite esperienze lavorative e soprattutto la certificazione delle competenze pregresse, anche non formali ed informali. I percorsi nascono dalla collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria-Provveditorato Regionale della Campania e il Dipartimento della Giustizia Minorile per la Campania con il supporto del Garante dei detenuti della Regione Campania. L’obiettivo generale del progetto, chiarisce l’Assessore alla formazione Chiara Marciani, è quello di potenziare le competenze professionali dei detenuti volte a favorire la futura occupabilità dei detenuti e delle detenute, anche tramite percorsi personalizzati. A tal fine, ad attuare i corsi di formazione saranno gli enti di formazione professionale con almeno un organismo del Terzo Settore con esperienza a favore di soggetti svantaggiati; risultano inoltre elemento premiale eventuali sottoscrizioni di intese con imprese ed associazioni di categoria, volte a favorire l’inserimento lavorativo. Le risorse finanziarie complessivamente messe a disposizione sono pari a 4 milioni di euro. Campania: “Contro la legge Fornero”, domani conferenza stampa Garante dei detenuti agvilvelino.it, 30 gennaio 2018 Si terrà mercoledì 31 gennaio 2018 alle 11.00 presso la sala riunioni al primo piano della sede del Consiglio Regionale della Campania, al Centro direzionale di Napoli, isola F13, la conferenza stampa del Garante dei detenuti Samuele Ciambriello “contro la Legge Fornero che sottrae a circa quindicimila detenuti la pensione sociale”. “La tutela dei diritti delle persone detenute - spiega Samuele Ciambriello - è tra i compiti che il Consiglio regionale si è dato nel momento in cui ha istituito il Garante”. La scelta di un’istituzione come il Consiglio regionale di dotarsi di un garante dei detenuti si fonda su di un’esigenza sociale: “Il mondo della detenzione - continua Ciambriello - è un mondo in cui è presente una grande rimozione collettiva. Il carcere non è la vendetta dello stato nei confronti di chi delinque, ma è lo strumento attraverso cui la Repubblica, nell’espiare la pena, mira alla rieducazione del condannato”. In merito al ricorso promosso dalle Acli sulla Legge Fornero il presidente delle Acli Napoli sottolinea come il provvedimento “ha interessato 15.000 detenuti. 15.000 persone si sono viste revocare i trattamenti sociali che, a prescindere dai reati commessi, sono sostegno per le famiglie. Dove non arriva lo Stato, arrivano le mafie e abbiamo il dovere di guardare con attenzione ai fenomeni sociali connessi con la detenzione. Nello scorso mese di novembre, il giudice del lavoro di Teramo ha disposto il reintegro della pensione sociale ad un detenuto, ritenendo la procedura attuata dall’Inps illegittima; sul tema è stata presentata anche una interrogazione parlamentare firmata Giachetti”. Venezia: detenuto senza vita in cella, la Procura dispone l’autopsia La Nuova Venezia, 30 gennaio 2018 La pubblico ministero Elisabetta Spigarelli ha disposto l’autopsia sul corpo di Giovanni Vinciguerra il detenuto di 35 anni che è stato trovato senza vita venerdì mattina nel carcere di Santa Maria Maggiore, all’interno della cella che condivideva con altre due persone. L’esame sulla salma servirà per fare chiarezza sull’origine della morte: è stato un malore oppure il 35enne (in carcere da quest’estate per reati legati allo spaccio di stupefacenti) ha assunto farmaci e per questo è sopraggiunto il decesso? Nei prossimi giorni il medico legale incaricato dalla sostituto procuratore effettuerà l’esame fondamentale per capire se l’inchiesta dovrà andare avanti o se verrà chiusa, essendosi trattato di un decesso per cause naturali. Nelle ore immediatamente successive al dramma, la polizia ha sentito anche i due compagni di cella per cercare di acquisire elementi utili a capire cosa possa essere successo. La popolazione del carcere di Santa Maria Maggiore è composta (dati giugno 2017) da 262 detenuti, quando la capienza regolamentare è di 163 e la capienza definita “tollerabile” di 244. Nell’ultimo anno ci sono stati 4 tentativi di suicidio e nessun suicidio. Salerno: detenuto muore in cella, il Gup chiede nuove indagini Il Mattino, 30 gennaio 2018 Ivan Gentile era malato, chiesti approfondimenti sugli accertamenti peritali. Il giudice per l’udienza preliminare ha chiesto nuove indagini sulla morte in cella del detenuto Ivan Gentile, originario di Agerola. Il Gup Piero Indinnimeo, ritenendo non valida la perizia proposta dal pm Elena Cosentino ha dunque inviato nuovamente gli atti al pubblico ministero che avrà due mesi di tempo per chiedere un nuovo approfondimento. Per il 43enne della provincia di Napoli, la procura aveva chiesto l’archiviazione della posizione del medico dell’Asl, la cardiologa M.C., unica iscritta sul registro degli indagati dopo la denuncia della famiglia. Ivan Gentile era un soggetto cardiopatico, particolare, questo, contenuto nella cartella clinica in possesso del penitenziario. Nei giorni precedenti aveva avuto dei malori che, secondo quanto indicato nella perizia del medico legale, dovevano essere approfonditi con esami specifici per scongiurare l’infarto. La perizia eseguita dal medico legale Giovanni Zotti sembrava infatti evidenziare delle negligenze da parte degli operatori in servizio presso il penitenziario cittadino che avrebbero omesso di effettuare accurati controlli medici in presenza di una sintomatologia, anche pregressa, che faceva pensare a problemi cardiaci. Solo esami specifici di laboratorio per la ricerca di enzimi cardiaci, ed un successivo ricovero presso il reparto di cardiologia dove il paziente sarebbe potuto essere monitorato, avrebbero potuto consentire la formulazione di una corretta diagnosi ed evitare, quindi, il decesso. Diverse, invece, le conclusioni della perizia eseguita dai consulenti di parte nominati dall’indagata che farebbero propendere per un decesso improvviso per il quale non ci sarebbero responsabilità. Ora il Gup intende vederci chiaro prima di decidere sull’archiviazione. Foggia: detenuti realizzeranno le confezioni dei medicinali Gazzetta del Mezzogiorno, 30 gennaio 2018 Le confezioni di alcuni prodotti farmaceutici “fabbricate” nel carcere di Foggia e con tanto di bollino per indicarne la provenienza e soprattutto l’iniziativa sociale: è questo l’obiettivo del progetto “In me non c’è che futuro”, che già dallo slogan rende chiare le finalità: aiutare i detenuti a reinserirsi nel mondo del lavoro una volta espiata la condanna e riacquistata la libertà. In che modo? I detenuti che saranno cooptati nell’iniziativa si occuperanno di realizzare le confezioni di alcuni farmaci. Il progetto, organizzato alla “Farmalabor farmacisti associati” in collaborazione con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e la casa circondariale del capoluogo dauno, verrà presentato questa mattina all’interno del carcere al rione Casermette, nel corso di un incontro aperto anche alla stampa e che sarà contrassegnato dagli interventi degli addetti ai lavori e del responsabile della “Farmalabor” per spiegare le finalità dell’iniziativa. Il carcere di Foggia che nel 2018 festeggia 40 anni di vita (fu inaugurato nel 1978 quando sostituì la vecchia struttura di piazza Sant’Eligio) è il più grande dei tre penitenziari della Capitanata, l’unico con una sezione femminile, il secondo più grande delle 11 carceri pugliese per popolazione carceraria, dopo Lecce, che si attesta mediamente oltre le 500 unità, con punte sino a 780 nei primi anni del nuovo secolo, anche se sul finire del 2017 dopo numerosi anni per la prima volta i reclusi erano meno di 500. Pur a fronte di problemi gravosi - dal sovraffollamento alle carenze negli organici della polizia penitenziaria e degli educatori - la casa circondariale di Foggia negli ultimi tempi ha organizzato una serie di iniziative per aiutare i detenuti (tra cui quella di portare cavalli e cani nella struttura per formare addestratori in vista della scarcerazione), di cui il progetto “In me non c’è che futuro” è soltanto l’ultima della serie. L’obiettivo “è quello del riscatto sociale e di dare possibilità d lavoro ai detenuti” spiegano i promotori dell’iniziativa che aggiungono: “il progetto è nato dalla collaborazione tra l’azienda farmaceutica “Farmalabor srl”, il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per le regioni Puglia e Basilicata, la cooperativa sociale “Pietra di scarto” e l’istituto penitenziario foggiano. Il progetto nasce con un obiettivo preciso: dare un’opportunità di riscatto sociale e personale ai detenuti, al fine di rendere educativa l’esperienza della reclusione”. Più nel dettaglio, anticipano gli organizzatori alla vigilia della conferenza di questa mattina, “ai detenuti verrà data la possibilità di sviluppare in loco competenze legate alla produzione farmaceutica che, oltre a restituire dignità personale e professionale, possono rappresentare uno strumento fondamentale per il reinserimento nel mercato del lavoro. Dopo una fase iniziale di formazione tecnica, le risorse si dedicheranno all’allestimento di “packaging” farmaceutico in un locale attrezzato all’interno del carcere. I prodotti finiti saranno contrassegnati con un apposito bollino, in modo da informare la clientela sull’iniziativa sociale e sensibilizzare l’opinione pubblica sul reinserimento dei detenuti nel mercato del lavoro”. Questo il programma della giornata. Alle 11.15, dopo i saluti istituzionali e il taglio del nastro, sarà Carmelo Cantone, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria di Puglia e Basilicata, a parlare di “prevenzione speciale: un’opportunità per i detenuti e per il territorio”. Seguiranno gli interventi di Rosa Musicco, direttore della casa circondariale di Foggia che si soffermerà su “finalità e step di realizzazione del progetto “In me non c’è che futuro”; di Pietro Fragrasso, presidente cooperativa sociale “Pietra di scarto” che parlerà della “lotta alla criminalità che parte dal basso: le esperienze della cooperativa”. Infine a mezzogiorno sarà Sergio Fontana, amministratore unico della “Farmalabor”, a parlare di “responsabilità sociale d’impresa: il caso pugliese”. Napoli: nuove celle al carcere di Poggioreale, zona giorno e notte e bagno privato vesuviolive.it, 30 gennaio 2018 Il carcere di Poggioreale di Napoli, da sempre descritto come uno dei peggiori d’Italia, è pronto ad inaugurare una nuova ala “a misura d’uomo”, in cui i detenuti potranno scontare la propria pena in condizioni migliori. Domani, 30 gennaio 2018, alle ore 16:00, nella Casa circondariale napoletana arriverà il ministro Orlando per il taglio del nastro del secondo lotto del Padiglione Genova. La struttura ha una capienza regolamentare complessiva di 70/102 posti detentivi. È costituita da piano interrato, piano terra e tre piani. Al piano interrato ci sono i locali tecnici e sotto centrali. Al piano terra 8 stanze detentive e una stanza per socialità e un locale infermeria. Ogni stanza avrà zona giorno e zona notte, con finestra e annessa stanza da bagno completa di doccia, bidet ed acqua calda sanitaria. La capienza regolamentare del piano è pari a 16/24 posti detentivi. Ai piani primo, secondo, terzo è presente, su ogni piano, una stanza per persona diversamente abile, otto stanze detentive e una stanza per la socialità. Un buon passo avanti per le condizioni dei detenuti, spesso oggetto di discussioni etiche e morali sulla dignità della vita. Napoli: il riscatto culturale degli adolescenti parte dai laboratori di cittadinanza attiva Il Roma, 30 gennaio 2018 Nell’ambito dei progetti innovativi per la valorizzazione e partecipazione degli adolescenti del Comune di Napoli, si è svolta al Vomero la giornata di confronto “La Città dei ragazzi in Azione” con l’assessore al Welfare Roberta Gaeta e il Presidente di Municipalità Paolo De Luca, organizzata con la Coop Soc La Locomotiva. “Ho ascoltato con attenzione i ragazzi, che hanno fatto un lavoro di lettura del territorio attento e preciso. In un periodo in cui si addebita all’assenza di valori e di riferimenti da parte dei più giovani la responsabilità di episodi di violenza - spiega l’assessore Gaeta - sono proprio i ragazzi di Napoli a dimostrare che è in atto una vera e propria rivoluzione culturale: hanno scelto di approfondire e confrontarsi su temi quali il sovraffollamento delle carceri, il funzionamento del trasporto pubblico locale e l’accesso alla sanità, come esercizio di cittadinanza attiva. Questo è solo un esempio che dimostra come Napoli stia vivendo un riscatto culturale che parte proprio dai più giovani: la scorsa settimana abbiamo inaugurato a Secondigliano un murales con i ragazzi dell’educativa territoriale “Oltre la Tenda”, come modello di cura e bellezza del territorio; sabato 3 febbraio saremo a San Giovanni, al Centro Diurno Fondazione Famiglia di Maria, per un presidio di legalità. Come Amministrazione, quindi, stiamo costruendo percorsi in cui tutte le componenti entrano in gioco, e la risposta attiva dei ragazzi è la dimostrazione che c’è del bello e del buono nei giovani napoletani. Gli atti di violenza possono essere marginalizzati superando l’indifferenza e aprendosi alla condivisione e al cambiamento sociale, perché l’egemonia culturale di questa Città non è nelle mani dei delinquenti”. Genova: se la città è insicura i delitti vanno prevenuti di Stefano Padovano* La Repubblica, 30 gennaio 2018 Si dice che le parole hanno un peso. Perché creano senso, evocano immaginari, producono significati. E i fatti di questi giorni lo ribadiscono con forza: da un lato, un paio di morti per droga, arresti di polizia, controlli più capillari in zone diverse della città; dall’altro lato, un utilizzo parziale della criminologica e di che ne esercita le funzioni. Si assiste spesso ad operazioni culturali che la presentano come una disciplina sbilanciata sull’approfondimento delle conoscenze psichiatrico-forensi e criminalistiche, con l’effetto di sacrificare una parte importante: quella che muove dall’ inquadramento sociologico e si dipana verso lo studio e l’analisi dei fenomeni criminali a largo raggio. Quelli di comune sentire, che investono il cittadino e l’amministratore locale, i residenti del quartiere che ritrovano una ragione d’essere nella pluralità di un “comitato” e dei “tecnici” - criminologi appunto - che insieme a questi raccolgono percezioni collettive, filtrano e smussano le angolature che formano la domanda sociale di sicurezza: abbozzando idee, traducendole in progetti. Bene ha fatto, giorni fa, Alfredo Verde, dalle pagine del Secolo XIX, a rimarcare che “chi appare in televisione è quasi sempre un esperto di analisi della scena del crimine. Ma la criminologia è soprattutto lo studio dei criminali condannati, di quelli individuati e dei quali si cerca di scoprire il più possibile”. A fronte di questa, c’è poi quella della prevenzione primaria, del trattamento individuale, del reinserimento sociale, della riconciliazione (ancora poco diffusa in Italia) tra autori e vittime di reato, delle politiche di sicurezza urbana con il ruolo strategico svolto dagli operatori di Polizia Locale; senza dimenticare, le funzioni svolte nella presa in carico dei detenuti all’interno delle carceri. Disporre dei saperi di “quest’altra” criminologia (socio-giuridici, urbanistici, finanche assistenziali) significa immergersi nelle tensioni della città in cui, come in un imbuto, tutto viene assorbito, ma non sempre assimilato. Scaturendo insicurezze percepite o reali, anche quando non risultano accompagnate da elevati indici di criminalità. O al peggio, quando fanno il paio con delitti e violenze, incendi e rappresaglie, forme di crimine organizzato di matrice mafiosa o “semplicemente” associative. La criminologia e il criminologo rispondono insomma a sfide importanti, obbligate a misurarsi con le scoperte della ricerca scientifica sia rispetto al fatto-criminale, sia alla reazione sociale che scaturisce. Pertanto, porre in luce anche questi aspetti, è più che mai fondamentale. Le politiche di sicurezza urbana intese come deterrenza e disincentivo al compimento di crimini diffusi e devianze a rischio si saldano sempre di più con la funzione di evitare delitti, nuove recidive, e per ridurre comportamenti che generano insicurezza sociale. Si pensi al lavoro costante svolto dei servizi per le dipendenze patologiche, a quelli per la presa in carico dei senza fissa dimora. A fronte di ciò, occorre rivedere le tradizionali modalità di approccio riferite a questi fenomeni. Per farlo, però, serve un cambio di passo. *Criminologo, Università degli Studi di Genova Milano: l’associazione “Con i Bambini” e il teatro dei detenuti, per parlare di periferie Huffington Post, 30 gennaio 2018 Lo spettacolo “Aspettando il tempo che passa” è stato scritto insieme ai detenuti del carcere minorile di Airola. “Con i Bambini” è un’organizzazione no profit, nata a Roma il 15 giugno 2016. La loro mission consiste nell’attuare i programmi del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile: “Siamo un’impresa sociale interamente partecipata dalla Fondazione Con Il Sud, ente no profit privato nato dieci anni fa dall’alleanza tra le Fondazioni di origine bancaria e il mondo del Terzo settore e del volontariato, che si occupa di favorire lo sviluppo del Mezzogiorno attraverso percorsi di coesione sociale e di sostenere interventi per l’educazione dei ragazzi alla legalità e per il contrasto alla dispersione scolastica”. Attraverso il teatro, l’associazione ha voluto portare in scena tematiche la cui importanza è spesso sottovalutata: le periferie e la povertà educativa minorile. Il 29 gennaio, all’Auditorium Fondazione Cariplo di Milano, è andato in scena “Aspettando il tempo che passa”, rappresentazione teatrale scritta con i ragazzi del carcere minorile di Airola. Carlo Borgomeo, presidente di “Con i Bambini”, ha voluto spiegare ragioni e obiettivi del progetto: “Vogliamo raccogliere in modo simbolico le esperienze, e le proposte relative alla povertà educativa minorile, e denunciare all’opinione pubblica la gravità di questo fenomeno. Rimuovere la povertà educativa è una battaglia di giustizia sociale e la condizione necessaria per lo sviluppo del Paese. Anche se la scuola ha un ruolo importante, l’educazione giovanile riguarda la comunità”. Attraverso dei Bandi, l’associazione promuove le “comunità educanti”, chiedendo alle organizzazioni che operano nel Terzo settore di agire attivamente. La campagna, infatti, si occupa anche di promuovere il Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Presente all’evento anche il Presidente della Fondazione Cariplo, Giuseppe Guzzetti, il quale ha spiegato: “Operiamo con altre fondazioni di origine bancaria in Italia, con Fondazione Con il Sud e Con i Bambini al programma nazionale “Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile” nato proprio da una sollecitazione di Acri, l’associazione che riunisce le fondazioni, il Forum Nazionale del Terzo Settore e il Governo e che, con circa 400 milioni di euro, sostiene progetti finalizzati a rimuovere gli ostacoli di natura economica, sociale e culturale che impediscono ai bambini e ai ragazzi di partecipare a processi di formazione ed educazione. In questa prima fase sono stati già attivati in Lombardia 14 progetti per contrastare il disagio educativo dei più piccoli”. Lo spettacolo fa parte del progetto “Il palcoscenico della legalità”, che prevede collaborazioni tra teatri, istituti penali per minori, scuole, università e società civile, grazie a percorsi formativi ed attività di spettacolo dal vivo. Come ha spiegato la regista Emanuela Giordano: “È nato perché i ragazzi ce l’hanno chiesto. Avere come obbiettivo uno spettacolo dava loro un senso che altrimenti non avrebbero trovato, così abbiamo iniziato scrivendo delle parole. Dopo siamo passati al confronto, diventato una trama puntellata di incomprensioni, arrabbiature, e di qualche risata”. “Il teatro- ha aggiunto Giulia Minoli, della Crisis Opportunity Onlus (CO2) e ideatrice del progetto- diventa strumento di percorsi formativi nelle scuole e nelle carceri minorili. Vogliamo che i giovani detenuti si rendano conto che fare il costumista, il sarto, lo scenografo, il decoratore, l’elettricista di scena, vuol dire partecipare ad un progetto collettivo di cui essere fieri. Il nostro obiettivo futuro è realizzare una collaborazione tra Teatro Nest, Laboratori di scenotecnica di Vigliena (Teatro di San Carlo) a San Giovanni a Teduccio”. Roma: la birra che salva i detenuti (e il pane secco) di Ester Palma Corriere della Sera, 30 gennaio 2018 Fare la birra col pane secco che invece andrebbe buttato. E farla produrre (anche) ai detenuti in semilibertà, perché imparino un mestiere. È l’idea di “Recuperale”, presentata da Eataly e nata da 2 Onlus romane, EquoEvento e Vale la Pena, per evitare lo spreco alimentare e contribuire al recupero di chi è finito in carcere. La birra, chiara e gustosa, è prodotta al tecnico agrario Sereni, sede di Vale la Pena. “Vogliamo coinvolgere istituzioni e privati nella lotta agli sprechi e per il recupero dei detenuti, cui diamo una seconda, reale possibilità”, spiega la presidente di EquoEvento Onlus Giulia Proietti. E il presidente di Vale la Pena Paolo Strano: “Ho lavorato a Regina Coeli, lì ho deciso di provare a contrastare il dramma delle recidive dei detenuti, Ora puntiamo su una produzione più ampia, che coinvolga più persone, affittando un impianto: speriamo di farcela. Per continuare a recuperare risorse umane e anche alimentari”. Taranto: il cibo rifiutato dai detenuti recuperato contro gli sprechi alimentari pugliapositiva.it, 30 gennaio 2018 È stato donato al Movimento Ambientalista che lo ha donato ai rifugi di randagi. Una lodevole iniziativa del Movimento Ambientalista di Taranto ha fornito un ulteriore importante esempio su come mettere in pratica la legge contro gli sprechi alimentari. In virtù di un progetto già avviato alcuni mesi fa e finalizzato alla pianificazione e allo sviluppo di una fattiva collaborazione con la Casa circondariale del capoluogo ionico per la tutela, l’aiuto e la salvaguardia dei diritti degli animali, il Movimento ha potuto ricevere tutto il cibo già cotto che la popolazione detenuta non ha consumato. I volontari hanno raccolto, in particolare, il cibo non consumato in seguito alla protesta del 24 gennaio scorso, in cui i detenuti si sono astenuti dal vitto. Il cibo, invece di esser distrutto (essendo materiale organico, una volta cucinato non può più essere né riutilizzato, né commercializzato nella filiera umana) è stato riutilizzato per sfamare i tanti cani senza padrone che si trovano momentaneamente custoditi ed ospitati nei rifugi privati di alcune volontarie. Come tiene a precisare la responsabile provinciale del Movimento Animalista Taranto, avvocato Monica Abrescia, l’iniziativa è stata resa possibile grazie all’interessamento della direttrice della Casa circondariale, dottoressa Stefania Baldassari, che vista l’eccezionalità dell’astensione ha subito invitato il Movimento a prelevare i quantitativi di alimenti che altrimenti sarebbero stati smaltiti come rifiuti. L’avvocato Abrescia tiene a precisare che per il cibo in questione non è stata corrisposta alcuna somma di danaro, così come non è stata pretesa dai rifugi ai quali gli alimenti sono stati donati e questo perché ogni attività svolta dal Movimento in difesa degli animali, dell’ambiente e delle fasce deboli è assolutamente gratuita e volontaristica. Sulla scorta di quanto registratosi, la responsabile provinciale del Movimento auspica che la raccolta di cibo inutilizzato possa avvenire anche in futuro in base a quanto detta la legge contro gli sprechi alimentari (la n. 166 le cui disposizioni sono entrate in vigore nel settembre 2016), che consente l’utilizzo di quelle eccedenze alimentari non più idonee al consumo per il sostegno vitale di animali. E a proposito della donazione registratasi in occasione dell’astensione dal vitto dei detenuti, l’avvocato Abrescia spera che: “Il ritiro del cibo non consumato non rivesta, come in questo caso, carattere di occasionalità, ma possa ripetersi consolidando il rapporto di collaborazione già intrapreso (magari corrispondendo all’Amministrazione carceraria un forfettario secondo protocolli ben precisi) prelevando quotidianamente quei rifiuti organici che possano aiutarci a far felici i nostri amici animali. A questo proposito, il Movimento ha già allo studio un progetto la cui finalità è quella di chiedere a ristoranti, mense e supermercati di poter ritirare le rimanenze di alimenti che non possono essere destinate al consumo umano”. Tutto lo staff del Movimento Animalista Taranto, insieme ad alcune instancabili e generose volontarie, tra cui Vincenza Vozza, Elvira Vitale e Cinzia La Gioia, ringrazia la Casa circondariale di Taranto, a cominciare dalla direttrice, dottoressa Baldassari, nonché tutto il personale e gli addetti al servizio cucina della struttura carceraria, per quanto hanno potuto realizzare. Aversa (Ce): il campione inforna 200 pizze per i detenuti Il Mattino, 30 gennaio 2018 La Comunità di Sant’Egidio ha creato un? Altra occasione di solidarietà a favore, questa volta, dei detenuti della Casa di Reclusione di Aversa. Una giornata di festa all’insegna della pizza napoletana, realizzata grazie alla collaborazione di Valentino Libro, campione mondiale di pizza nonché titolare di più pizzerie del nostro territorio, tra le quali Libro’s ad Aversa. E così Valentino Libro ed il suo staff di giovani e bravi pizzaioli hanno preparato nel Carcere di Aversa più di 200 pizze, ser- vite ai detenuti dai fantastici Volontari della Comunità di Sant’Egidio egregiamente guidati da Antonio Mattone. Iniziativa splendida, dal successo indiscusso e che ha visto 200 detenuti trascorrere una piacevole scampagnata nelle aree verdi dell’istituto. Il Direttore, Carlotta Giaquinto, il Comandante, Antonio Villano ed il Personale dell’istituto hanno partecipato con entusiasmo alla pregevole iniziativa. Droghe. Uso terapeutico, in Italia c’è la legge però manca la cannabis di Adriana Bazzi Corriere della Sera, 30 gennaio 2018 In America, la California ha liberalizzato anche l’uso ricreativo della marijuana, da noi è introvabile in farmacia. Poi c’è il solito discorso della disparità fra Regioni in tema di accesso alle cure. La legge che permette l’uso terapeutico della marijuana in Italia c’è, da più di dieci anni. Le prove scientifiche che preparati derivati dalla cannabis possano curare sintomi di alcune malattie del sistema nervoso, come il dolore e gli spasmi, ci sono. Le testimonianze di molti pazienti che, grazie a oli e infusi, hanno potuto riprendere un po’ di vita sociale non mancano. Il problema è che, da qualche mese, i derivati della cannabis sono introvabili nelle farmacie. E pazienti, compresi bambini con gravi forme di epilessia, hanno dovuto interrompere le cure, come qualche tempo fa segnalava l’ospedale pediatrico Gaslini di Genova. L’Istituto Militare di Firenze, cui è stata affidata la coltivazione della cannabis terapeutica, non riesce a far fronte a una domanda in crescita. E i pazienti ora aspettano una fornitura straordinaria di medicinali dall’estero, forse per il mese prossimo. Le cause di questa situazione sono diverse. C’è ancora una certa diffidenza nei confronti di sostanze che molti considerano droghe e ne temono le conseguenze, anche se, in America, Stati come la California hanno persino liberalizzato l’uso ricreativo della cannabis. Ma lo spinello è diverso dalla marijuana usata in medicina (del resto fin da tempi antichissimi): oggi i farmaci disponibili sono testati per quanto riguarda il contenuto di principi attivi. Poi c’è il solito discorso della disparità fra Regioni in tema di accesso alle cure: in Emilia Romagna, che ha anche informatizzato le prescrizioni di cannabis, il farmaco è mutuabile, in altre no. E infine c’è un colpevole disinteresse della politica che, in questa campagna elettorale, ha trovato un solo tema sanitario (da tempo oggetto di scontro politico) su cui discutere: quello dei vaccini. Stati Uniti: 53.000 condannati all’ergastolo senza condizionale nessunotocchicaino.it, 30 gennaio 2018 I detenuti condannati all’ergastolo senza condizionale negli Usa sono più di 53.000, 108.000 ergastolani “normali”, e 44.000 ergastolani “de facto”. Uno studio ed un articolo permettono di fare il punto sull’ergastolo senza condizionale negli Usa. Con i dati aggiornati alla fine del 2016, i detenuti condannati a Lwop (Life With Out Parole) erano 53.290. Li ha censiti un rapporto di The Sentencing Project: Still Life: America’s Increasing Use of Life and Long-Term Sentences, pubblicato il 3 maggio 2017. Gli “ergastolani” vengono divisi in tre categorie: quelli che non usciranno mai in libertà condizionale (LWOP, Life With Out Parole), quelli che potrebbero prenderla (LWP, Life With Parole. Di solito nei vari stati il termine minimo di pena da scontare prima di poter chiedere la libertà condizionale è 25 anni), e quelli “Virtual”, ossia “de facto” o “virtuali”, persone formalmente non condannate all’ergastolo, ma a pena talmente alte, e con la possibilità di libertà condizionale “non prima di 50 anni” da essere equivalenti all’ergastolo. Il rapporto di Sentencing Project conta, come abbiamo visto, a fine 2016, 53.290 ergastolani “LWOP”, 108,667 ergastolani “LWP”, a 44,311 ergastolani “Virtual”. In totale sono 206,268 I detenuti che stanno scontando questi 3 tipi di pena. Questo numero è quadruplicato dal 1984 ad oggi. Per i tre tipi di ergastoli intesi complessivamente, Il 48,3% dei detenuti sono afroamericani, il 32,4% bianchi, e il 15,7% ispanici. Tra la popolazione normale (poco più di 325 milioni), i bianchi sono circa il 50%, i neri sono il 13% e gli ispanici il 16%. Per i tre tipi di ergastoli intesi complessivamente, 12.000 hanno commesso i loro reati quando erano minorenni. Dei 12.000 condannati per reati commessi da minorenni, 2.300 stanno scontando l’ergastolo senza condizionale. Più di 17.000 persone stanno scontando uno dei 3 ergastoli per reati non violenti. 3.200 persone stanno scontando un ergastolo senza condizionale per reati non violenti. Di questi, l’80% per reati di droga. Di questi ergastolani LWOP per reati “minori” il 65% sono afro-americani, il 18% bianchi e il 16% ispanici. Secondo la Aclu (American Civil Liberties Union) la sproporzione di neri condannati agli ergastoli, e la ancora più alta sproporzione di neri condannati per reati non violenti è prova di “gravi disparità razziali”. Alcune persone stanno scontando l’ergastolo per reati come il furto di benzina da un furgone, o furto in negozio. Questo avviene nei casi di persone considerate “delinquenti abituali”. In California è in vigore una legge cosiddetta “dei tre colpi” (“three-strikes law”), che porta all’ergastolo una persona che viene condannata per tre reati. Molti casi riguardano persone che hanno commesso solo piccoli furti. Come è noto, la Corte Suprema degli Stati Uniti in diverse occasioni ha confermato la costituzionalità di pena molto lunghe (anche l’ergastolo senza condizionale, o l’ergastolo con la condizionale non prima di 50 anni, per reati minori, come i furti. I detenuti condannati a LWOP sono così suddivisi tra gli stati: Florida (8,919 LWOP), Pennsylvania (5,398), California (5,090), Louisiana (4,875), Sistema Federale (3,861), Michigan (3,804), Illinois (1,609), Alabama (1,559), Mississippi (1,470), North Carolina (1,387), Virginia (1,338), Georgia (1,243), Missouri (1,144), South Carolina (1,117), Massachusetts (1,018), Oklahoma (887), Texas (798), Iowa (670), Colorado (667), Arkansas (637), Washington (622), Nevada (569), Ohio (560), Arizona (504), Delaware (435), Maryland (338), Tennessee (336), West Virginia (286), New York (275), Nebraska (265), Wisconsin (225), South Dakota (174), Minnesota (130), Idaho (126), Indiana (123), Oregon (118), Kentucky (111), New Hampshire (83), New Jersey (77), Connecticut (73), Maine (64), Utah (64), Hawaii (55), Montana (47), Wyoming (35), Rhode Island (31), North Dakota (30), Kansas (28), Vermont (14), New Mexico (1), Alaska (0, l’Alaska è l’unico stato Usa che non prevede l’ergastolo senza condizionale). Il sistema federale ha abolito la libertà condizionale per qualsiasi reato (federale) commesso dopo il 1° dicembre 1987, quindi tutti gli ergastoli sono “senza condizionale”. A livello nazionale, 6.781 donne stanno scontando uno dei 3 ergastoli. Questa cifra rappresenta il 3,5% di tutti gli ergastolani. Donne condannate a uno dei 3 ergastoli sono numerose soprattutto in California (il 19,8% del totale, e 182 a LWOP) e in Texas (9,9%). Gli ergastoli senza condizionale non impediscono la concessione di eventuali gesti di clemenza. Nei vari stati devono essere firmati dal Governatore, nel sistema federale dal presidente degli Stati Uniti. Un articolo comparso sulla rivista Time (Garrett, The Moral Problem of Life-Without-Parole Sentences, 26 ottobre 2017), integra alcuni dati. Garrett, professore alla University of Virginia, afferma che gli Stati stanno appena iniziando a ripensare alla necessità di condanne così lunghe. Il governatore della California Jerry Brown, ad esempio, ha concesso la libertà condizionale a migliaia di ergastolani, anche per reati violenti. Secondo un rapporto dell’Amministrazione Penitenziaria della California (CDCR’S Lifer Report Series, “Lifer Parolee Recidivism Report”, gennaio 2013) la recidiva tra coloro che hanno ottenuto la condizionale è molto bassa e marcatamente inferiore a quello dei detenuti liberati a fine pena. Per la maggior parte degli ergastolani, nessun avvocato esaminerà attentamente i fatti dei loro casi. Come ha affermato il defunto giudice della Corte Suprema Antonin Scalia in un parere del 2015, “La realtà è che per un imputato innocente è infinitamente meglio essere condannato a morte che all’ergastolo” perché un condannato a morte ha dei diritti, ad esempio l’assistenza legale, che lo accompagnano fino all’ultimo, diritti che invece cessano dopo i normali ricorsi in corte d’appello per i condannati a pene detentive. Forse un giorno la Corte Suprema degli Stati Uniti riconsidererà molte delle condanne LWOP emesse nel paese. Ad esempio, da tempo gli avvocati stanno attaccando l’ergastolo LWOP per i minorenni, e una prima limitazione è contenuta nella sentenza del 2016 “Montgomery v. Louisiana”, in cui la Corte ha ritenuto che i reati di un minorenne devono riflettere “l’incorruttibilità permanente” e che tali condanne dovrebbero essere riservate solo “i trasgressori più rari.” Iran. Meno pene capitali, più diritti civili? di Alessandro Graziadei osservatoriodiritti.it, 30 gennaio 2018 Dal 1998 a oggi l’Iran ha giustiziato quasi 10.000 persone per il reato di spaccio e possesso di droghe. Un numero impressionante, ma che non stupisce visto che fino allo scorso agosto bastavano 30 grammi di cocaina per finire nelle mani del boia. La scorsa estate però il Parlamento ha innalzato il quantitativo minimo di droga detenuta per poter essere condannati a morte portandolo a 2 kg per la cocaina e a 50 kg per oppio, derivati dell’oppio e marijuana. Secondo fonti ufficiali di Teheran la nuova legge avrà effetto retroattivo permettendo così, a partire da questi primi mesi del 2018, una revisione dei processi e delle condanne a morte che dovrebbero coinvolgere i 5.000 prigionieri detenuti nel braccio della morte con l’accusa di possesso e spaccio di droghe e ancora in attesa di essere giustiziati. Di questi, almeno il 90% hanno un’età compresa fra i 20 e i 30 anni. Il capo della magistratura iraniana, l’ayatollah Sadegh Larijani, ha confermato nelle scorse settimane che “la maggior parte delle condanne capitali saranno commutate in detenzioni carcerarie”. Una decisione a lungo attesa da attivisti e ong per i diritti umani, come ha sottolineato Mahmood Amiry-Moghaddam di Iran Human Rights (IHR). “Se applicato in modo adeguato questo cambiamento alla legge rappresenterà uno dei passi più significativi verso la riduzione dell’uso della pena di morte in Iran”. L’applicazione della norma non è per Amiry-Moghaddam un colpo di spugna verso i criminali, ma l’occasione per risparmiare la vita a persone non sempre incarcerate nella piena evidenza della loro colpevolezza. “Dato che la maggior parte dei condannati per reati legati alla droga provengono dalle fasce più giovani ed emarginate della popolazione spesso non hanno risorse per ricorrere in appello e ottenere una modifica della loro sentenza”. Già nel 2016 il ministro iraniano della Giustizia Mostafa Pourmohammadi aveva annunciato la ricerca di “punizioni efficaci alternative alla pena capitale non solo per quanto riguarda i reati di detenzione e spaccio di droghe”, auspicando una revisione delle leggi e la conseguente riduzione del numero di esecuzioni capitali limitate solo ai casi di “reati gravi”. Una posizione più “morbida” in contrasto con la violenta repressione, con decine di morti e centinaia di arresti, che ha subito la “rivolta” animata soprattutto dai giovani iraniani, i primi giorni di gennaio, contro l’aumento dei prezzi, la corruzione e le posizioni liberticide del Governo. Eppure proprio alla vigilia degli scontri, Teheran, forse nel tentativo di tamponare il malcontento, aveva annunciato per voce del generale della polizia della capitale, che le autorità non avrebbero più richiesto il carcere per chi viola il codice d’abbigliamento islamico nella capitale. Al posto della prigione, le persone scoperte ad indossare un abbigliamento “inadeguato” adesso saranno invitate a frequentare corsi rieducativi. Un’altra solo parziale “buona notizia” per la presidenza del moderato Hassan Rouhani, che in modo graduale sta liberalizzando i costumi iraniani, nonostante i non pochi fautori della linea più dura e conservatrice presenti tra le forze di sicurezza e nel sistema giudiziario del Paese. Anche per questo le regole restrittive per l’abbigliamento restano ancora in vigore al di fuori della capitale e, stando a quanto riporta l’agenzia iraniana Tasmin, i recidivi potrebbero ancora affrontare le conseguenze legali di un regolamento in vigore nella Repubblica islamica sin dalla rivoluzione del 1979. In base ad esso, “le donne devono coprire i capelli e indossare abiti larghi e lunghi”, un diktat che molte giovani donne iraniane hanno deciso apertamente di sfidare indossando veli che lasciano in modo parziale scoperta la testa, soprattutto a Teheran, dove agli uomini sono ancora vietati “il torso nudo e i pantaloni corti”. Un regolamento che stride con un’altra storica decisone: quelle che per la prima volta dalla Rivoluzione islamica del 1979 ha visto, dall’11 al 15 dicembre, la capitale iraniana ospitare cinque concerti degli Schiller. La band musicale pop elettronica occidentale guidata dal leader e compositore Christopher von Deylen, una delle star mondiali del settore con oltre sette milioni di dischi venduti in tutto il mondo, ha fatto registrare il tutto esaurito anche tra i giovani iraniani sempre più stanchi dell’egemonia della leadership religiosa e in cerca di un riscatto almeno ricreativo. Nessuno fino allo scorso dicembre si era potuto esibire in pubblico in Iran dal bando imposto dagli ayatollah, che considerano la musica occidentale parte di un piano finalizzato alla “invasione culturale” del Paese. Nel 2008 il tentativo di organizzare un concerto del cantante irlandese Chris de Burgh era saltato all’ultimo minuto, proprio a causa di un veto imposto dalla leadership religiosa, nonostante il permesso già ottenuto dal ministero della Cultura. Adesso, tre le proteste di piazza, sembra che la guida del presidente Rouhani, confermato per un secondo mandato il 19 maggio scorso, dopo aver incassato l’accordo sul nucleare, una timida crescita economica e un rilancio del turismo punti ad una liberalizzazione dei diritti civili e culturali. Ma con molti diritti umani sistematicamente negati, la strada è ancora lunga. Ayatollah permettendo. Polonia. Parlare di complicità polacche nella Shoah proibito per legge di Giuseppe Sedia Il Manifesto, 30 gennaio 2018 Reazione dura da Israele alla norma in discussione che prevede il carcere fino a tre anni. Fino a tre anni a carcere per chi utilizza frasi come “campi della morte polacchi”. È uno dei punti dell’emendamento votato al Sejm, la Camera bassa del parlamento polacco, con 279 voti a favore, 5 contrari e 130 astenuti. Per diventare legge il provvedimento approvato venerdì scorso dovrà adesso passare al vaglio di una commissione del Senat, la Camera alta del parlamento, in attesa della firma del presidente polacco Andrzej Duda. L’iniziativa voluta dal “super-ministro” Zbigniew Ziobro, che riunisce nella sua persona le funzioni della procura generale con quelle del ministero della Giustizia, mira a prevenire l’attribuzione dei crimini compiuti dal terzo Reich alla nazione polacca. Il governo della destra populista di Diritto e giustizia (PiS) ha così annunciato tolleranza sulle provocazioni revisionistiche ma anche sulle gaffe diplomatiche e gli errori linguistici degli ultimi anni, aventi come protagonisti figure del calibro di Barack Obama e il quotidiano Die Welt, di proprietà del colosso editoriale tedesco Axel Springer. Se è vero numerosi campi di sterminio nazisti era localizzati in Polonia, i fatti storici dimostrano che il governo polacco non ha mai collaborato ufficialmente con la Germania di Hitler. La reazione più dura è arrivata da Israele. Al giorno d’oggi la Polonia è il paese al mondo che presenta il maggior numero di Giusti tra le nazioni (6.706 cittadini polacchi secondo i dati attuali ndr), un’onorificenza conferita dal Memoriale ufficiale di Israele alle persone che hanno scelto di mettere a repentaglio la propria vita per salvare anche un solo ebreo durante la seconda guerra mondiale. “Non siamo disposti ad accettare verità distorte, la riscrittura della storia e la negazione dell’Olocausto”, ha dichiarato il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Il canale della diplomazia tra Varsavia e Tel Aviv è ancora aperto in attesa della discussione al Senat ma il governo targato PiS non sembra disposto a voler fare marcia indietro. “Questo provvedimento ha scatenato una reazione isterica nei media israeliani. Israele da anni penalizza questo tipo di dichiarazioni. Non capisco perché la Polonia non possa fare altrettanto”, ha commentato il sottosegretario alla Giustizia polacco Patryk Jaki in un tweet. In verità l’emendamento della discordia si presenta con un raggio di applicazione più vasto e finirebbe per includere altri “crimini contro l’umanità, contro la pace nonché altri crimini durante la guerra”. Qualsiasi forma di dibattito pubblico sul pogrom di Jedwabne e ogni altro massacro bellico perpetrato o compiuto con la complicità, vera o presunta, dei polacchi, rischia di essere soffocato. La nuova misura prevede che, a essere risparmiati dal nuovo provvedimento, siano soltanto storici e artisti. Un modo se non altro per limitare l’impatto della legge in materia di libertà di ricerca, e, in parte, di quella di espressione. In modo paradossale i giornalisti invece non potranno più occuparsi di divulgazione storica senza rischiare la gogna. Questo mese un tribunale ancora prima dell’approvazione dell’emendamento ha ottenuto la rettifica di un articolo apparso un anno fa sul sito dell’edizione polacca del settimanale Newsweek e dedicato al libro “Mala zbrodnia. Polskie obozy koncentracyjne” (traducibile in italiano come “Un piccolo crimine. I campi di concentramento polacchi” ndr). In tale testo il giornalista Marek Luszczyna avanzato l’ipotesi dell’esistenza di strutture parallele di sterminio gestite da polacchi nella regione della Slesia. A suscitare numerosi dubbi è anche l’efficacia amministrativa del provvedimento in altre giurisdizioni lontane da Varsavia. Francia: ferirono e violentarono un ragazzo, tre poliziotti tornano in servizio di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 30 gennaio 2018 Théo Luhaka, 22 anni, fu gravemente ferito durante un controllo: gli agenti usarono un manganello per perforargli il colon, provocandogli lesioni con cui il giovane deve ancora fare i conti. “Vogliono che io crolli. Ma non crollerò”. Un anno dopo la vicenda di Théo Luhaka, gravemente ferito durante un controllo di polizia, è lontana dall’essere risolta. Il ragazzo 22enne si trovò per caso coinvolto in un’azione di quattro poliziotti a Aulnay-Sous-Bois, alla periferia di Parigi. Usciva dalla stazione della Rer (la metropolitana che congiunge la banlieue al centro della capitale) quando venne fermato dagli agenti che si stavano rivolgendo ad altri ragazzi sospettati di spacciare stupefacenti, e fu lui ad avere la peggio. Oggi tre dei quattro poliziotti sono stati reintegrati in servizio, benché non più a Aulnay-Sous-Bois. Un quarto ha preferito lasciare la polizia cambiando mestiere. L’inchiesta intanto continua: tre agenti sono indagati per violenze volontarie, uno per violenza sessuale. Il video - Il sito della radio Europa 1 ha messo online le riprese della videocamera di sorveglianza che riprese i fatti accaduti il 2 febbraio 2017. Si vedono i poliziotti procedere a un controllo dietro a un muro, al riparo dagli obiettivi. La situazione degenera in meno di un minuto, Théo rifiuta di venire ammanettato e viene cosparso di spray urticante. I poliziotti lo prendono a pugni, e uno di loro usa il manganello. Un colpo violento che lo ferisce gravemente all’ano. Théo cade a terra per il dolore. In commissariato i colleghi dei poliziotti intervenuti si accorgeranno che sanguina e chiameranno i soccorsi. La rivolta - Il caso di Théo Luhaka succedeva pochi mesi dopo la morte di Adama Traoré, controllato dalla polizia a Beaumont-sur-Oise. Ci furono manifestazioni contro la violenze della forze dell’ordine in molti centri della banlieue parigina, con feriti e auto della polizia date alle fiamme. L’allora presidente della Repubblica, François Hollande, visitò in ospedale Théo, che rivolse un appello ai concittadini per fermare le violenze. Tra i tanti gesti di solidarietà verso il ragazzo, la maglietta nerazzurra regalata dall’Inter e l’invito ad assistere a un allenamento o un match del club (Théo portava una maglietta dell’Inter quando ha ricevuto Hollande in ospedale). Le condizioni - Théo Lukaha porta ancora gravi conseguenze di quell’intervento. “Dire che sto bene sarebbe mentire - ha detto pochi giorni fa al Parisien. Non è facile, né per me né per la mia famiglia. Porto ancora una tasca e non mi sono abituato. I medici non sanno dirmi quando potrò levarla. Da un punto di vista psicologico cerco di restare forte. C’è chi spera in un mio crollo. Ma io non crollerò”. Il manganello ha perforato il colon e dopo l’operazione i medici sono stati costretti ad applicare al ragazzo una tasca collegata all’intestino. I suoi movimenti sono limitati e non può più fare sport. L’indagine - Il rapporto dell’Ispezione generale della polizia nazionale (la cosiddetta polizia delle polizie) afferma che “il gesto dell’agente C. con il manganello è all’origine della ferita all’ano del signor Luhaka, ma non è accertato l’elemento intenzionale che possa caratterizzare lo stupro”. L’indagine della procura di Bobigny continua, si attendono i risultati di due perizie, ma non potranno essere conclusivi finché la situazione fisica della vittima non si stabilizza. Iran. Scarcerata la ragazza simbolo della lotta contro l’hijab di Valentina Ruggiu La Repubblica, 30 gennaio 2018 Nelle stesse ore arrestata un’altra attivista. Ad annunciarlo alcuni attivisti e la legale di Vida Movahed. La scarcerazione grazie alla pressione popolare e alle campagne internazionali. Aveva sfidato il potere sventolando il velo che le avrebbe dovuto coprire i capelli. Una protesta che da Teheran aveva fatto il giro del mondo e che le era costata la libertà. Ma ora, dopo un mese di carcere, la donna divenuta simbolo della lotta contro l’hijab obbligatorio è stata liberata. A darne annuncio su Facebook è stata l’attivista e avvocatessa Nasrin Sotoudeh, che da subito si era interessata al suo caso. Le autorità di Teheran non hanno ancora commentato la notizia, ma sui social media attivisti e utenti a fatica contengono la gioia. Felici anche di poter dare finalmente un’identità a quella che avevano ribattezzato “La ragazza della strada della Rivoluzione”. Solo di recente infatti si è scoperto che la donna si chiama Vida Movahed, ha 31 anni ed è madre di un bimbo di 19 mesi. Le campagne per la liberazione. Per lei, di cui si erano perse le tracce dopo l’arresto del 28 dicembre, era stata organizzata una campagna social con l’hashtag #whereisshe: un tentativo di fare pressione sulle autorità iraniane affinché dessero informazioni sulle sorti della donna. Il 26 gennaio era intervenuta anche Amnesty International per chiederne il rilascio. Nello stesso comunicato l’organizzazione internazionale ha chiesto alle autorità iraniane di porre fine alla persecuzione delle donne che protestano pacificamente contro l’obbligo di indossare il velo, una pratica che Amnesty ha definito “umiliante e discriminatoria”. La preoccupazione. Secondo Masih Alinejad, fondatrice del movimento My Stealthy Freedom, che da anni rivendica il diritto delle donne di scegliere il proprio abbigliamento contro il dress-code imposto dal governo, Vida ora si trova a casa sua, in compagnia del figlio e non “è di buon umore”. Su Facebook Nasrin Sotoudeh ha scritto: “Spero che non fabbrichino un caso legale per danneggiarla solo perché esercitato i suoi diritti di base. Non ha fatto nulla di male”. La lotta continua. È giorno di festa per le donne iraniane, una vittoria che festeggiano tornando a sventolare i veli in strada. Un gesto ormai simbolo della voglia di libertà. Il secondo arresto Una seconda iraniana è stata arrestata a Teheran per aver protestato contro l’obbligo di indossare il velo, salendo su una centralina telefonica nella capitale, togliendosi l’hijab bianco e appendendolo al ramo di un albero lì accanto. Una forma di protesta ricalcata su quella della manifestante arrestata il mese scorso per un’azione analoga, nello stesso luogo. La notizia del secondo arresto, riportata dal Guardian, è stata data dal corrispondente del New York Times nella Repubblica islamica, Thomas Erdbrink, senza però rivelare la sua identità.