Sempre meno dietro le sbarre. Priorità alle misure alternative di Marzia Paolucci Italia Oggi, 2 gennaio 2018 Il consiglio dei ministri ha dato il primo ok alla riforma dell’ordinamento penitenziario. Ridurre il ricorso al carcere in favore di soluzioni che, senza indebolire la sicurezza della collettività, riportano al centro del sistema la finalità rieducativa della pena indicata dall’art. 27 della Costituzione. Razionalizzare le attività degli uffici preposti alla gestione del settore penitenziario, restituendo efficienza al sistema, riducendo i tempi procedimentali e risparmiando sui costi; diminuire il sovraffollamento, sia assegnando formalmente la priorità del sistema penitenziario italiano alle misure alternative al carcere, sia potenziando il trattamento del detenuto e il suo reinserimento sociale in modo da arginare il fenomeno della recidiva; valorizzare il ruolo della Polizia penitenziaria, ampliando lo spettro delle sue competenze. Sono questi i principi fondanti dello schema di decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario elaborato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando e approvato il 22 dicembre scorso, in esame preliminare, dal Consiglio dei Ministri. Il dlgs, recante “Riforma dell’ordinamento penitenziario in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83, 85, lettere a), b), c), d), e), f), h), i), l), m), o), r), s), t) e u), della legge 23 giugno 2017, n. 103”, attua la delega per la riforma della disciplina in materia contenuta nella legge 103/2017, “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario”. Il provvedimento, redatto avvalendosi dei lavori della commissione istituita dal ministro Orlando nel luglio 2017 e presieduta da Glauco Giostra, è volto principalmente a rendere più attuale l’ordinamento penitenziario previsto dalla riforma del 1975, per adeguarlo ai successivi orientamenti della giurisprudenza di Corte Costituzionale, Corte di Cassazione e Corti europee. Lo schema di decreto legislativo è suddiviso in sei parti, corrispondenti ad altrettanti capi, dedicate alla riforma dell’assistenza sanitaria, alla semplificazione dei procedimenti, alla eliminazione di automatismi e preclusioni nel trattamento penitenziario, alle misure alternative, al volontariato e alla vita penitenziaria. Carceri minorili modello. Recidiva bassa grazie alla messa alla prova di Marzia Paolucci Italia Oggi, 2 gennaio 2018 Il carcere per i minori è una realtà residuale, “un sistema con i tassi più bassi d’Europa in termini di recidiva”, ha dichiarato il ministro della Giustizia Andrea Orlando eleggendolo a modello dell’esecuzione della pena degli adulti. Molto si deve a una diffusione quintuplicata dell’istituto della messa alla prova che in vent’anni ha raggiunto oltre 3.700 giovani e giovanissimi detenuti. Eppure, a fronte di un biennio, il 2015-2016, senza suicidi in carcere, del calo dal 2016 ad oggi degli atti di autolesionismo, delle aggressioni e delle infrazioni disciplinari, c’è una percentuale fuori posto: quel 48% di ragazzi in custodia cautelare. Una percentuale che, poi, scomposta, filtra una situazione ancora peggiore visto che nell’82% dei casi, quelli senza condanna definitiva, sono minori. Molti di più dei giovani adulti fermi al 24%. È quanto emerge da “Guardiamo Oltre”, il 4° Rapporto di Antigone sugli Istituti di pena per minorenni (Ipm) presentato il 18 dicembre scorso a Roma. Acireale, Airola, in provincia di Benevento, Bari, Bologna, Caltanissetta, Catania, Catanzaro, Milano, Nisida, Palermo, Pontremoli per il femminile, Potenza, Quartucciu, nel cagliaritano, Roma, Treviso e Torino: sono le sedi dei sedici istituti penali minorili che i rappresentanti dell’Osservatorio Minori di Antigone hanno visitato traendo le loro conclusioni. In particolare, le 452 presenze registrate nei 16 Ipm italiani alla data del 15 novembre 2017, raccontano molto, al di là dei numeri, della realtà che si vive: il 42% è minorenne e il 58% maggiorenne, i cosiddetti “giovani adulti” che compiuti 18 anni restano nel sistema della giustizia minorile fi no ai 25 anni. Le ragazze sono 34, pari all’8%, mentre gli stranieri sono in totale 200 e rappresentano il 44% della popolazione detenuta. Gli italiani rappresentano il 65%, il 50% sono stranieri, tra i reati prevalenti, quelli contro il patrimonio rappresentano il 59% del totale e addirittura il 67% tra gli stranieri Quelli contro la persona raggiungono il 17% tra gli italiani e il 15% tra gli stranieri. Ben oltre la metà degli italiani è di provenienza campana e siciliana, i lombardi rappresentano il 10% e pochi meno i laziali. Un altro aspetto è quello della genitorialità: nell’anno, tra i 1.207 ragazzi passati per i 16 istituti di pena, ben 49, il 4%, è genitore di almeno un figlio e sempre nel corso dell’anno, ben dieci ragazze sono state detenute con il proprio bambino. Più tranquilla la situazione rispetto al sistema di esecuzione della pena degli adulti: non ci sono stati più casi di suicidi negli ultimi sette anni e i 45 tentativi del 2016 si sono ridotti a 19 nel 2017. Da un anno all’altro, le aggressioni disciplinari si sono ridotte di oltre un centinaio, le 183 aggressioni del 2016, sono diventate 88 nel 2017 e i 98 atti di autolesionismo del 2016, sono diventati 80 nel 2017. Ma i risultati più importanti del settore in termini di rieducazione son quelli raggiunti dal 1992 al 2016 dall’istituto della messa alla prova passato dai 788 provvedimenti di sospensione del processo per messa alla prova ai 3.757 casi del 2016. “Guardiamo oltre, anche relativamente ai contenuti della riforma voluta dal Governo per le carceri italiane che a giorni dovrebbe essere presentata”, sottolinea Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “La speranza”, ha aggiunto Alessio Scandurra, curatore del rapporto con Susanna Marietti, responsabile dell’Osservatorio Minori di Antigone, “è quella che finalmente si scriva un ordinamento penitenziario organico specifico per i minori detenuti, nuove regole che mettano al centro in maniera radicale un progetto educativo e non repressivo e l’apertura al territorio. I ragazzi in carcere non possono essere gestiti con le stesse regole degli adulti”. Durante la presentazione del rapporto, è stato illustrato anche il progetto Ragazzi Dentro, un sito realizzato da Antigone dedicato esclusivamente alla giustizia minorile dove, oltre a essere confluiti tutti i precedenti rapporti, si possono trovare le schede relative ai 16 istituti di pena per minorenni presenti in Italia accompagnati da gallerie fotografi che, video inediti girati all’interno delle strutture e approfondimenti sul tema. Il decreto sulle intercettazioni colpisce i pm e l’informazione di Antonio Esposito Il Fatto Quotidiano, 2 gennaio 2018 Alcuni giorni orsono, il Governo ha dato il via libera al testo definitivo sulla riforma delle intercettazioni. Secondo il ministro di Giustizia, la finalità della legge è escludere ogni riferimento a persone solo occasionalmente coinvolte dall’attività di ascolto e di espungere il materiale non rilevante ai fini di giustizia. La norma, in realtà, impedirà all’opinione pubblica di conoscere fatti e comportamenti, politicamente ed eticamente scorretti, degli uomini pubblici. Viene, così compresso quello che la Corte Costituzionale, nella sentenza n° 420/1994, definì “diritto del cittadino all’in formazione”, quel diritto sociale che, seppur non espressamente menzionato dalla Costituzione, è strettamente legato alla libertà di manifestazione del pensiero prevista dall’art. 21. In sostanza, il diritto all’informazione si configura come una conseguenza del principio democratico, poiché un regime democratico necessita sempre di una pubblica opinione vigile e informata: i cittadini devono sapere per poter decidere (come ebbe a dichiarare Luigi Einaudi). Ora, la nuova legge, che vieta la pubblicazione di conversazioni ritenute penalmente irrilevanti, riduce lo spazio del controllo di legalità e mette in serio pericolo la libertà di stampa e soprattutto il diritto dei cittadini di essere informati su tutto quello che riguarda l’uomo pubblico. Del resto, il governo ed i partiti dovrebbero avere tutto l’interesse a conoscere tali conversazioni che potrebbero aver rilevanza ai fini dell’accertamento di una responsabilità politica, onde comminare all’uomo pubblico, che ha tenuto comportamenti scorretti, sanzioni politiche consistenti nella stigmatizzazione e, nei casi più gravi, nell’allontanamento delle funzioni esercitate. La democrazia si nutre, invero, di controlli che devono essere effettivi. C’è un controllo sociale che si esercita attraverso una informazione incisiva rispetto al potere, purché libera e pluralista, ed è grave prevedere un divieto di pubblicazione di notizie ed atti di interesse pubblico; in sostanza, se la notizia riguarda un cittadino cui sono state affidate funzioni pubbliche da adempiere “con onore”, essa deve essere pubblicata. Naturalmente è necessario, per non ledere altri diritti come quello al l’onore e alla reputazione delle persone, rispettare i limiti consueti: veridicità, interesse pubblico, continenza, cioè, modalità espositive corrette e non subdole, ma il diritto di cercare, diffondere e ricevere informazioni è fondamentale in una democrazia. Una seconda considerazione riguarda la circostanza che sarà la polizia giudiziaria ad effettuare la scrematura tra intercettazioni attinenti alle indagini e non rilevanti. Ora - a parte che è irragionevole affidare agli appartenenti alla p.g. un compito che presuppone la perfetta conoscenza degli atti di indagine che l’addetto all’ascolto non ha -si osserva che la nuova disciplina si pone contro la impostazione del codice di procedura penale secondo cui “il pubblico ministero compie personalmente ogni attività di indagine” (art. 370), ed è a lui, non ad altri, che spetta il potere, nell’ambito della discrezionalità delle scelte investigative, di selezionare le conversazioni che ritiene rilevanti per il prosieguo delle indagini, per contestare i reati e richiedere misure cautelari. La nuova legge sembra, inoltre, ignorare che il codice (art. 267) attribuisce in primo luogo al pm il potere-dovere di “procedere alle operazioni personalmente”, e, in via gradata, di “avvalersi di un ufficiale di polizia giudiziaria”. Né va dimenticato che “le operazioni possono essere compiute esclusivamente per mezzo degli impianti installati nella Procura della Repubblica” e, solo “quando tali impianti risultino insufficienti o inidonei ed esistono eccezionali ragioni di urgenza, possono essere compiute mediante impianti in dotazione alla polizia giudiziaria” (art. 268). Pertanto, solo in casi di “eccezionale urgenza”, ed in presenza di insormontabili ostacoli tecnici che impediscono un utile impiego degli impianti installati presso la Procura, è possibile l’utilizzo di impianti diversi. Evidente, quindi, il disfavore del legislatore verso impianti sui quali non vi è diretto e personale controllo dell’autorità giudiziaria. Ciò nonostante, da anni, la politica governativa è stata rivolta a potenziare sempre più le sale di ascolto esistenti presso le forze dell’ordine, così determinando, grazie anche ad una discussa giurisprudenza della Cassazione, l’utilizzo generalizzato di impianti di intercettazione diversi da quelli delle Procure. In conclusione, alla indiscriminata delega all’ascolto conferita alla polizia giudiziaria e alla sistematicità delle intercettazioni con gli impianti di quest’ultima, si è oggi aggiunto anche l’affidamento alla stessa di selezionare il contenuto delle intercettazioni, sicché è stato ad essa consegnato il controllo pressoché totale. Non può non convenirsi con l’Anm quando parla di “strapotere della polizia giudiziaria e di controllo impossibile del pm”. Intercettazioni: le vite degli altri nel tritacarne di Gaetano Insolera Il Mattino, 2 gennaio 2018 Nella convulsa fase di fine legislatura vede la luce il decreto legislativo “in materia di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni”, in attuazione della parte dedicata a questo tema dalla legge delega, il cosiddetto pacchetto Orlando. Si può ironizzare sul fatto che la legge delega in questione, dedicata a “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario”, nel suo complesso, ben poco corrisponda all’intitolazione dell’originario testo approvato dalla Camera dei deputati il 23 settembre 2015: infatti le modifiche avrebbero dovuto operare per il “rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi, nonché all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena”. Ma ormai ci siamo abituati a un uso della legislazione penale poco attenta ai diritti civili fondamentali e alle loro garanzie, proiettata piuttosto a dare soddisfazione a contingenti istanze rigoristiche puntualmente interpretate e condotte dalla magistratura. In questa vicenda poi ha forse giocato l’idea del ministro della Giustizia, rafforzatasi in coincidenza della sua salita sulla giostra dei possibili leader del suo tormentato partito: l’idea ambiziosa di presentarsi come il gran riformatore efficientista della scassata macchina della giustizia penale. Ecco il ricorso alla fiducia, ma anche, e soprattutto, l’intento di non scontentare anzitutto due puntelli fondamentali: lo spazio assegnato al cosiddetto diritto vivente (cioè la supremazia dell’interpretazione dei giudici sul testo della legge) e il preponderante potere della magistratura requirente. Ci troviamo in presenza di un paradigma (il fattore M: sinergia tra magistratura e media) tanto ben descritto da Mauro Calise a proposito della “democrazia del leader”. La riforma delle intercettazioni esprime appieno questo intento. A proposito delle garanzie difensive, quali erano le questioni sul tappeto poste dai quattro gatti affezionati ai fondamenti di un diritto penale liberale? L’uso abnorme dello strumento tradizionale - telefoni e captazioni ambientali le “intercettazioni a strascico” per dar corpo a sospetti, anziché in base a gravi indizi di reato e in ragione della loro indispensabilità per la prosecuzione di indagini già attivate da una notizia di reato, come parrebbe volere ancora il codice di procedura penale. A questo si sono poi aggiunte quelle con captatori informatici il troyan con enormi potenzialità invasive della riservatezza e, già prima della legge, autorizzate dalle Sezioni unite della Corte di cassazione. Le “vite degli altri” messe a disposizione degli uffici di Procura: la legittimazione del troyan riuscì a mettere in allarme i professori di procedura penale e questa legge avrebbe dovuto quanto meno porre dei limiti precisi. Non mi sembra proprio che ciò sia avvenuto. Si dirà che l’uso è sempre consentito solo per i reati più gravi (elencati dall’articolo 51, comma 3bis e 3quater del codice). Vero: ma una norma successiva, se da un lato ne vieta l’utilizzazione probatoria per reati diversi da quelli per cui è stata autorizzata la captazione, dall’altro deroga rispetto a una serie di ipotesi di reato ben più vasta - quelli per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza - quando le intercettazioni risultino indispensabili per l’accertamento dei delitti. Da notare ancora la “semplificazione” per le intercettazioni, compreso l’utilizzo dei captatori, nei luoghi di privata dimora per i principali reati contro la Pubblica amministrazione. È un ricorso a norme che si definiscono “rinneganti”, che la legge non si risparmia. La legge interviene su altro punto dolente: quello della diffusione di contenuti irrilevanti e coinvolgenti altri soggetti estranei alle inchieste o aspetti della vita privata dell’indagato inconferenti. Anche a questo proposito mi sembra che il complesso articolato non corrisponda proprio all’esasperazione di prassi divulgative che, prima e a prescindere da qualsiasi accertamento giudiziario, portano alla distruzione dell’immagine sociale dei malcapitati. In sintesi la questione è rimessa nelle mani dei pubblici ministeri procedenti e, del resto, si notò subito come la riforma, già nella delega, si fosse ispirata proprio ad iniziative di autoregolamentazione adottate dalle Procure: ritorniamo ad un legislatore al traino del potere giudiziario. Ancora il “fattore M”? Un’ultima osservazione riguarda la cosiddetta udienza stralcio, davanti a un giudice e in contraddittorio con i difensori, volta anzitutto e proprio ad espungere dal fascicolo dell’accusa l’irrilevante e a consentire all’indagato di farvi entrare quanto egli, a differenza del pm, non reputa tale. Udienza che dovrebbe avvenire a conclusione delle operazioni di captazione. Era prevista anche nel testo previgente del codice di rito, ma implicando un discovery anticipata rispetto alla conclusione delle indagini, con l’autorizzazione del giudice poteva essere differita. Norma questa che viene ribadita, anche se la disciplina è stata completamente rivista, per altro con termini temporali per l’interlocuzione della difesa a dir poco ridicoli. La prognosi quindi non è proprio favorevole per un superamento di una desuetudine che, nella prassi, continuerà a rendere solo virtuale la possibilità per l’indagato di intervenire prima della fine delle indagini. Alla faccia delle garanzie difensive. Le intercettazioni nello Stato diventato “Repubblica penale” di Massimo Krogh Il Mattino, 2 gennaio 2018 Ho letto con grande interesse l’editoriale dal titolo “Nel tritacarne le vite degli altri”, dove un insigne giurista come Gaetano Insolera offre un quadro molto preciso ma molto scoraggiante dello stato della giustizia penale in Italia. Un vero disastro, che procura grande sofferenza a molte persone e grande vergogna all’intero Paese. L’autore si sofferma sulle intercettazioni telefoniche e ambientali, sulla divulgazione dei risultati non sempre adeguatamente controllata, sulla durata del processo e su tutti gli aspetti che purtroppo abbiamo sotto gli occhi quanto alla nostra giustizia. Spero che quest’articolo sia stato letto da molti, soprattutto dagli operatori del sistema. Sul doloroso problema mi sento di aggiungere che il nostro è diventato uno Stato prepotentemente giustizialista, al punto di poter dire che siamo divenuti una “Repubblica penale”. Nei posti di organizzazione centrale per la vita giudiziaria del Paese vengono di consueto assegnati magistrati che provengono dall’ufficio del pubblico ministero; mai viene consultato un avvocato, ed anche i magistrati giudicanti si vedono e si sentono poco. Per migliorare la giustizia si ricorre al ramo secco, quello che troppo spesso, come fonte di processi inutili, ostacola la nascita dei buoni frutti. Francamente scoraggia che una forza politica quale il partito Democratico sembri affiancarsi spesso al giustizialismo imperante. hi questo scenario, si inserisce l’uso delle intercettazioni, su cui parla chiaramente l’anomalia dei nostri numeri rispetto agli altri paesi. Non penso che l’Italia sia nel pianeta all’apice del crimine, eppure possiamo vantare il più elevato numero di intercettazioni rispetto agli altri Paesi Non mancano le intercettazioni a strascico, che non sembrano cancellate dalla riforma in corso, le quali sotto la spinta di uno zelo investigativo invadente partono spesso da un sospetto di reato scambiato per un indizio. Le “vite degli altri” dovrebbero essere garantite dall’art. 15 della Costituzione, secondo cui la libertà e la segretezza di ogni forma di comunicazione sono inviolabili, e dall’art. 21 che regola la libertà di stampa e di opinione. Peraltro, due regole fondamentali per una società civile, sembra che siano rimaste norme giuridiche piuttosto che divenire valori della pelle. Queste cose le ho dette altre volte, ciò significa che il “male” esiste da tempo e, contro ogni logica e ragionevolezza, persiste nel tempo; dunque, giova ribadirle. Può tristemente concludersi che la giustizia, impropriamente invocata dalla gente per ogni “quisquilia”, si è “consumata”, al punto di non essere più visibile; o meglio, la si può vedere usando un binocolo, difatti nelle classifiche mondiali dei siti competenti è molto lontana, agli ultimi posti. È giusto chiedersi di chi è la colpa, degli avvocati, dei magistrati, dei politici? Penso di no, direi degli italiani. Breve storia del “concorso esterno”: il reato che non esiste di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 2 gennaio 2018 L’anomalia nasce dalla fusione dell’articolo 110 col 416bis. Gli inizi degli anni ottanta furono caratterizzati da omicidi politici e attentati di mafia. “Cosa nostra”, la principale organizzazione mafiosa, aveva subito una profonda trasformazione estendendo la sua influenza nel Paese. Nel sistema penale italiano mancava una norma adatta a contrastare questo fenomeno criminale anche sotto l’aspetto economico. Un cambio di passo nella legislazione antimafia avvenne nel 1982 quando fu approvata la legge Rognoni-La Torre. Venne introdotta una diversa fattispecie di associazione a delinquere rispetto a quella già considerata dal codice penale, ponendo l’accento sulla specifica capacità di intimidazione tale da “indurre l’assoggettamento di terzi” e analoga specifica abilità nell’intrattenere “rapporti con poteri pubblici”. Secondo l’art 416 bis cp si ha associazione mafiosa “quando coloro che ne fanno parte si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento ed omertà che ne deriva per commettere delitti per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”. Sul punto erano state mutuate le esperienze della legislazione degli Stati uniti che avevano già affrontato il fenomeno. Il 416 bis cp, essendo un reato di tipo associativo, presuppone l’esistenza di un’organizzazione gerarchica strutturata in ruoli. Il tema si pose nei confronti in particolare di politici o imprenditori i quali, pur non essendo organicamente inseriti nell’organizzazione, tessevano rapporti con la stessa in tal modo favorendola e nel contempo ottenendone un vantaggio. Questi soggetti, a differenza dell’affiliato, non danno un apporto stabile e continuativo all’associazione mafiosa ma un contributo occasionale, difettando in loro la consapevolezza di essere all’interno di un accordo criminoso di tipo indeterminato e che mira a perpetrare una seria indefinita di fatti delittuosi. Queste condotte non rientrano nella fattispecie del reato di associazione mafiosa così come descritta nell’art. 416 bis cp. La magistratura ha tuttavia ritenuto che queste condotte non potessero sfuggire all’area del penalmente rilevante. La giurisprudenza ha così elaborato la particolare fattispecie del concorso esterno in associazione mafiosa. Questa fattispecie si costruisce attraverso la lettura combinata dell’art. 110 cp che disciplina il concorso di persone nel reato e l’art 416 bis cp. La Cassazione ha delimitato i contorni di questa nuova fattispecie di reato: il concorrente esterno nel reato di associazione mafiosa è quel soggetto il quale non fa parte dell’associazione però pone in essere comportamenti che determinano “il mantenimento, il rafforzamento e l’espansione dell’associazione medesima”. Ed ha ulteriormente ristretto l’ambito di applicazione del concorso esterno in associazione mafiosa richiedendo anche “positive attività che abbiano fornito uno o più contributi suscettibili (…) di produrre un oggettivo apporto di rafforzamento o consolidamento sull’associazione”. L’anomala genesi della fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa così descritta è, tuttavia, fonte di non pochi problemi applicativi. Si va dal tipo di dolo richiesto alla necessità o meno, per integrare il reato, che l’operato del concorrente esterno dia un concreto contributo agli scopi dell’associazione mafiosa. Ancora più problematico conciliare il concorso esterno in associazione mafiosa con i principi fondamentali per il diritto penale che richiedono tassatività e di determinatezza delle fattispecie giuridiche. Ed è proprio su questo ultimo aspetto che si è focalizzata l’attenzione della Cedu nel 2015 sul caso Contrada. In assenza di una norma esplicita non gli era stato possibile sapere con chiarezza prima di porre in essere le condotta incriminate che queste erano un reato e a quale pena rischiasse di essere condannato. La sentenza Contrada avrà ora riflessi anche sul caso Dell’Utri, condannato anch’esso per concorso esterno in associazione mafiosa. Di diverso avviso l’ex procuratore di Torino Gian Carlo Caselli secondo il quale la sentenza Cedu su Contrada si base su un assurdo logico e giuridico. In lungo articolo sul Fatto Quotidiano del 29 dicembre Caselli richiede su Dell’Utri di prestare grande attenzione essendo la posta in gioco non solo tecnica ma che coinvolge “la qualità stessa della nostra democrazia che può appannarsi”. Una analisi non condivisibile in quanto democrazia vuole anche dire che qualunque persona, non solo Dell’Utri deve essere posta in condizione di sapere anticipatamente se una sua condotta è reato o meno. E come viene punita. No alla confisca allargata su beni comprati vent’anni prima del reato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 29 dicembre 2017 n. 58090. È possibile il via libera alla confisca allargata sui beni acquistati in un periodo che non coincide con il reato giudicato, ma l’acquisizione deve essere ragionevole dal punto di vista dei tempi. La Corte di cassazione, precisa, infatti, che il momento in cui viene applicata la misura preventiva non può essere talmente lontano dall’epoca nella quale è stato realizzato il reato “spia”, da far considerare “a vista” come irragionevole la presunzione che il bene derivi da un’attività illecita, anche se diversa e complementare rispetto a quella giudicata. Della precisazione, fornita dalla Suprema corte, beneficiano i ricorrenti considerati responsabili di aver detenuto e prodotto nei loro terreni 65 piantine di marijuana altre tre metri per 180 chili di peso, più altre sostanze stupefacenti. A confermare la responsabilità i controlli della polizia giudiziaria che aveva sorpreso uno degli imputati durante la raccolta. I giudici però bloccano la confisca dei beni perché acquistati vent’anni prima del “giardinaggio” proibito. La Suprema corte conferma, la responsabilità della famiglia di “coltivatori” per il delitto di detenzione, produzione e coltivazione di droghe, ma annulla la confisca disposta in base all’articolo 12 sexies della legge 356 del 1992. I giudici di merito avevano adottato la misura constatando una sproporzione tra i redditi dichiarati e l’attività svolta, ritenendo non giustificata la provenienza dei beni sulla scorta delle consulenze disposte dal Pm e degli accertamenti patrimoniali relativi all’epoca dei singoli acquisti. La Cassazione conferma la corretta della misura rispetto ad alcuni beni ma nega che questa potesse essere adottata per acquisti fatti vent’anni prima dell’epoca in cui erano stati commessi i reati oggetto di condanna. I giudici ribadiscono che non è necessario, come affermato dalle Sezioni unite (sentenza 920/2003) un nesso di derivazione dei beni dal crimine, ma chiariscono che tale impostazione va temperata con il principio di ragionevolezza temporale “dovendosi dare conto che i beni non siano ictu oculi” estranei al reato perché comprati in un periodo di tempo eccessivamente antecedente alla sua commissione”. Sequestro probatorio “legittimo” sulle opere d’arte del dissimulato imprenditore di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2018 È legittimo il sequestro probatorio di opere d’arte - e della documentazione relativa - a carico di un contribuente indagato per evasione fiscale. Lo ha stabilito la Terza penale della Cassazione (sentenza 57941/17, depositata il 29 dicembre), confermando le decisioni del Riesame di Vicenza sul vincolo probatorio scattato sul patrimonio di un “dissimulato” imprenditore d’arte veneto. Secondo l’Agenzia l’esigua dichiarazione dei redditi, da poche migliaia di euro, era del tutto incompatibile con i proventi da vendite di quadri e opere d’arte - peraltro tracciati con transazioni bancarie. Da qui la decisione della Procura di congelare quella parte del patrimonio per esigenze probatorie, aspramente contestata dalla difesa. A giudizio della Cassazione, però, vari indici di evasione - dai continui cambi di residenza all’utilizzo di autovetture immatricolate in Germania - giustificano gli indizi (e perciò le iniziative istruttorie) circa l’effettiva attività imprenditoriale, totalmente dissimulata, del contribuente. La dichiarazione contestata negli atti del processo penale riguarda l’anno di imposta 2013, nel corso del quale il contribuente aveva effettuato alienazioni di opere d’arte per diversi milioni di euro. La circostanza era emersa durante una verifica della Guardia di Finanza, che aveva rilevato l’incoerenza di tali movimentazioni bancarie rispetto all’esiguità dell’imponibile da dichiarazione (poche migliaia di euro). Tra l’altro, gli importi incassati a margine delle vendite artistiche avevano di fatto determinato il netto superamento della soglia penale della dichiarazione infedele (150mila euro di imposta annua, ovvero tre milioni dell’attivo sottratto a tassazione) inducendo il Pm a congelare la situazione in quanto le attività contestate sarebbero provenute da un esercizio “svolto a livello professionale”. A sostegno di tale ipotesi la Gdf aveva portato l’esistenza di un magazzino di opere a Verona - intestato a società e a prestanome riconducibili all’indagato - le ripetute variazioni anagrafiche del contribuente, l’utilizzo di auto a targhe tedesche e infine la vendita (simulata?) a terzi di immobili di proprietà. Quanto basta, anche secondo il Riesame - pienamente avallato dalla Cassazione - per ritenere la movimentazione di opere d’arte con ricavi elevati “non occasionale ma strutturata per la ripetizione delle condotte e la loro protrazione (…) con la conseguenza che il provvedimento di perquisizione, mirato ad acquisire maggiori prove del fatto, in particolare la specificazione delle compravendite effettuate, giustificasse la necessità di acquisire la documentazione relativa”. Il sequestro probatorio è tanto più utile, chiosano i magistrati, “onde verificare concretamente la provenienza (anche in senso temporale), l’importanza economica (per dare il peso dell’attività svolta) e il vero utilizzo (se di collezionismo edonistico oppure con finalità speculative)”. L’innocenza dell’imputato deve essere manifesta per l’applicazione della “non punibilità” Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2018 Processo penale - Prescrizione del reato - Applicazione dell’art. 129 c.p.p. - Presupposti - Prevalenza sulla declaratoria di estinzione del reato. Il presupposto per l’applicazione dell’art. 129, comma 2, c.p.p. è costituito dall’evidenza emergente dagli atti di causa che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o ancora che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato. Solo in siffatte ipotesi la formula del proscioglimento nel merito prevale sull’eventuale causa di estinzione del reato ed è fatto obbligo al giudice di emettere la relativa sentenza. I presupposti per l’immediato proscioglimento devono comunque risultare dagli atti in modo incontrovertibile, tanto da non richiedere alcuna ulteriore dimostrazione della chiarezza della vicenda processuale. La prova dell’innocenza dell’imputato, dunque, deve emergere positivamente dagli atti stessi senza ulteriori accertamenti, dovendo il giudice procedere non ad un “apprezzamento” bensì a una mera “constatazione”. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 17 ottobre 2017 n. 47810. Giudice di pace - Giudizio - Definizioni alternative - Estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie rapporti con art. 129 cod. proc. pen. - Individuazione. Il giudice di pace, richiesto di dichiarare estinto il reato allorché l’imputato dimostri di aver proceduto, prima della udienza di comparizione, alla riparazione del danno cagionato dal reato mediante le restituzioni o il risarcimento e di aver eliminato le conseguenze dannose e pericolose del reato, è tenuto a pronunciare sentenza di assoluzione, ex art.129 cod. proc. pen., quando risulti “evidente” la ricorrenza di una delle condizioni che impongono il proscioglimento nel merito, ovvero che l’azione penale non poteva essere promossa o non può essere proseguita; gli è di conseguenza preclusa, all’interno del meccanismo applicativo dell’istituto previsto dall’art. 35 del D.Lgs. n. 274 del 2000, un’attività istruttoria volta ad accertare l’esistenza o meno del reato in tutte le sue componenti, giacché la disposizione ultima citata richiede solo che il giudice “senta” le parti ed eventualmente la persona offesa, all’unico fine di valutare la congruità dell’offerta sotto il duplice profilo risarcitorio e social-preventivo. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 27 luglio 2016 n. 32791. Procedimenti speciali - Procedimento per decreto - In genere - Richiesta di decreto penale di condanna - Particolare tenuità del fatto ritenuta dal giudice - Sentenza di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen.- Legittimità - Esclusione - Ragioni. Il giudice per le indagini preliminari, destinatario di una richiesta di emissione di decreto penale di condanna non può emettere sentenza di proscioglimento immediato ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. qualora ritenga sussistente la particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131 bis cod. pen., in quanto l’applicazione di tale speciale causa di non punibilità può venire in rilievo esclusivamente dopo l’instaurazione del contraddittorio tra le parti, quale opzione processuale spettante all’imputato in sede di formulazione dell’opposizione al decreto penale già emesso. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 28 marzo 2017 n. 15272. Giudizio - Atti preliminari al dibattimento - Proscioglimento prima del dibattimento (sentenza predibattimentale) - Particolare tenuità del fatto - Sentenza di non doversi procedere ex art. 469, comma 1 bis, cod. proc. pen. - Presupposti - Mancata opposizione delle parti - Necessità - Fattispecie. La non punibilità dell’imputato per particolare tenuità del fatto può essere pronunciata con sentenza di proscioglimento predibattimentale ai sensi dell’art. 469, comma primo bis, cod. proc. pen., purché l’imputato medesimo e il pubblico ministero siano messi in condizione di esprimere le loro osservazioni e non si oppongano. (Nella specie, la Corte ha dichiarato la nullità della sentenza che, ritenendo erroneamente applicabile l’art. 129 cod. proc. pen., aveva pronunciato il proscioglimento in presenza dell’opposizione del pubblico ministero). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 8 luglio 2016 n. 28660. Processo penale e immediata declaratoria di cause di non punibilità - Processo penale - Imputato - Immediata declaratoria di cause di non punibilità - Presupposti - Insussistenza. In tema di processo penale, con riguardo all’obbligo codicisticamente previsto per il Giudice di provvedere alla immediata declaratoria di cause di non punibilità - e ciò in ogni grado e stato del processo - non può applicarsi la norma di cui all’art. 129, comma 2° c.p.p., quando non sussista (come nel caso di specie) la prova evidente dell’innocenza dell’imputato. Difatti, ai fini della prevalenza della formula di proscioglimento sulla causa estintiva del reato, il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione, ai sensi del secondo comma della suddetta norma, soltanto nei casi in cui le circostanze idonee a escludere l’esistenza del fatto, la sua rilevanza penale e la non commissione del medesimo da parte dell’imputato emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile tale da escludere qualsiasi necessità di accertamento o approfondimento cosicché la valutazione che resta da compiersi appartiene più al concetto di constatazione quale percezione ictu oculi che a quello di apprezzamento. tale da escludere qualsiasi necessità di accertamento o approfondimento. • Corte d’Appello de L’Aquila, penale, sentenza 16 febbraio 2016 n. 3158. Roma: è in cella a 80 anni, in barba alla Costituzione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 gennaio 2018 Gino Baccani sconta a Rebibbia due condanne a 15 anni per traffico di sostanze stupefacenti. La sua avvocata Simona Filippi ha presentato un ricorso in Cassazione per fargli ottenere i domiciliari, secondo l’articolo 47 dell’ordinamento penitenziario. A febbraio compirà 80 anni, non è socialmente pericoloso, ma è recluso nel carcere romano di Rebibbia fin dal 2014 per reati commessi tanti anni fa e non gli viene concessa la detenzione domiciliare. Parliamo di Gino Baccani, classe 1938. Una persona anziana che in teoria ha tutti i requisiti per scontare la pena fuori dalla detenzione carceraria. Durante tutto questo periodo di pena ha dimostrato di rispettare le regole di disciplina della vita carceraria e ha rivalutato, in modo critico, le sue passate condotte criminose. Tutti gli operatori penitenziari, dagli educatori ai volontari che l’assistono, dicono che si è ravveduto. Ha dimostrarlo è anche l’ottima relazione dell’equipe di osservazione. Il signor Baccani si ritrova dentro per un cumulo di pene per due reati commessi a distanza di anni, traffico di sostanze stupefacenti: nel 1987 con sentenza definitiva nel 1989 e nel 2001 con sentenza definitiva emessa nel 2010. Ha così determinato una pena complessiva di 15 anni e 4 mesi di reclusione. Tra l’altro, elemento importante, ha scontato già la pena riguardante il reato ostativo (che non gli permette l’accesso ai benefici) che aveva determinato la prima condanna a sette anni di reclusione. Eppure niente da fare. Venne rigettata dal tribunale di sorveglianza la richiesta dei domiciliari ben motivata dal suo avvocato difensore Simona Filippi dell’associazione Antigone. A pensare che Baccani, non avendo una dimora in Italia, aveva ricevuto persino la disponibilità a essere ospitato nella misura della detenzione domiciliare dalla Casa dell’Associazione “Prendi tuo Fratello sulle Spalle”, di Castelnuovo di Porto. Ha tutte le carte in regola per poter espiare la pena fuori dalle sbarre. A questo si aggiunge anche il fattore anagrafico. L’avvocata Simona Filippi lo evidenza nell’istanza che presentò. Viene sottolineato che l’art. 47 ter, comma 1, dell’ordinamento penitenziario prevede che la pena detentiva inflitta ad una persona che abbia compiuto i settanta anni di età “può essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza”. Questa ipotesi di detenzione domiciliare ha una finalità umanitaria dettata dalla circostanza che il superamento di una certa soglia di età comporta delle difficoltà maggiori per chi si trova in carcere. Evidentemente tutti questi elementi non sono stati presi in considerazione e il tribunale di sorveglianza, dopo aver dato atto che i reati per cui il Baccani è in esecuzione non sono più inclusi nel novero di cui all’art. 4 bis (reati ostativi), arriva comunque a dichiarare inammissibile l’istanza in quanto ritiene il Baccani gravato di recidiva per condanne relative al cumulo in esecuzione: “[...] deve essere comunque rilevata l’inammissibilità di tale precisata domanda in quanto il Baccani annovera più condanne, alcune delle quali inserite nel cumulo in epigrafe, per le quali risulta applicata la recidiva”, “il Baccani [...] - pur ultrasettantenne, non si trova nella condizione soggettiva prevista dalla norma di cui al citato comma 01, in quanto è recidivo”. L’avvocata Simona Filippi ha presentato il ricorso in Cassazione evidenziando una inosservanza o erronea applicazione dell’art. 47 ter, comma 1. Sì, perché tale comma è stato inserito nell’articolo dell’ordinamento penitenziario dal legislatore proprio per rilevare che il superamento di una certa soglia di età è considerata intrinsecamente incompatibile con la detenzione carceraria, indipendentemente dalle reali condizioni di salute della persona. Che senso ha, d’altronde, tenere in carcere una persona di oramai 80 anni che ha comunque commesso un reato diversi anni fa, quando, tra l’altro, nel frattempo si era ravveduto e abbandonato completamente quell’attività criminosa? Il principio umanitario della pena, contemplata in primis dalla Costituzione, non viene preso in considerazione nonostante Baccani ha tutti requisiti per poterne beneficiare. La preclusione della recidiva, inoltre, non ha senso visto che si si tratta di sentenze risalenti nel tempo e non facenti parte dell’attuale titolo in esecuzione. Anche per questo motivo, sempre nel ricorso alla Cassazione, il legale solleva una questione di legittimità costituzionale visto che “la preclusione opererebbe in modo assoluto e irragionevole, senza tenere conto della situazione concreta, in contrasto con i principi costituzionali della umanizzazione della pena e personalizzazione del trattamento”. Intanto Gino Baccali il 2 febbraio compirà 80 anni e l’avvocata di Antigone, assieme ai volontari del carcere di Rebibbia e il garante regionale Stefano Anastasia, vuole organizzare la festa del suo compleanno. Sarà una iniziativa per evidenziare il suo problema e di tanti altri come lui. Quello degli anziani in carcere. Infatti, nonostante l’articolo 47 ter, le patrie galere ospitano diversi ultrasettantacinquenni. Ad esempio, sempre a Rebibbia, c’è un altro signore anziano. Addirittura ultraottantenne. Si chiama Saverio Cerbara, classe 1936. A marzo compirà 82 anni. L’associazione Antigone ha potuto prendere informazioni su di lui. Condannato a 16 anni per omicidio, è entrato in carcere il 17 maggio 2017. Prima della sentenza definitiva ha scontato 4 anni di detenzione domiciliare presso un centro sull’Ardeatina. Cerbara appare agli occhi dei volontari di Antigone molto confuso, e disorientato nel tempo e nello spazio. Sempre Antigone ha potuto verificare che non è autonomo e viene aiutato dai compagni di stanza, anche per le cose più semplici. Avrebbe bisogno di un piantone. Come se non bastasse, per diversi mesi è stato collocato in cella con turca, e questo gli causava gravi difficoltà ad andare in bagno. Secondo Antigone, ultimamente la sua situazione sembra essere peggiorata. Infatti all’associazione sono arrivate diverse segnalazioni sullo stato del detenuto da parte del compagno di cella e degli stessi agenti di reparto g8. L’ultraottantenne soffre anche di perdita di memoria e questo comporta gravi conseguenze nell’assunzione dei farmaci che, invece, dovrebbe avvenire in modo regolare e preciso. Tanti sono i detenuti ultrasettantacinquenni, anche nel regime duro del 41 bis come ha già denunciato Il Dubbio. Roma: delegazione del Partito Radicale in visita a Rebibbia e Regina Coeli di Valentina Stella Il Dubbio, 2 gennaio 2018 Il capodanno di Bernardini, D’Elia e Zamparutti con detenuti e agenti. Marco Pannella dedicava sempre le festività Ferragosto, Natale, Capodanno - ai detenuti, un modo per tenere alta l’attenzione sulle condizioni delle nostre carceri, una tradizione a cui il Partito Radicale non ha rinunciato: una delegazione di radicali ha infatti trascorso il 31 dicembre e il primo gennaio nelle carceri romane. Sono state sei le ore trascorse l’ultimo giorno del 2017 a Rebibbia da Rita Bernardini, coordinatrice della presidenza del Partito Radicale, insieme ai dirigenti di Nessuno Tocchi Caino Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti. “Abbiamo scelto di trascorrere questa notte con l’intera comunità penitenziaria - ha dichiarato la Bernardini ai microfoni di Radio Radicale lasciando il carcere; ci sono stati momenti emozionanti ad ascoltare le storie dei reclusi e degli agenti penitenziari; l’augurio più grande che possiamo fare a questo Paese è che rientri nella legalità della nostra Costituzione per quanto concerne l’amministrazione della giustizia che oggi è irragionevolmente lunga e per quel che riguarda le condizioni inumane e degradanti dei nostri istituti di pena”. A concorrere a tale situazione c’è sicuramente il sovraffollamento che è in aumento: “1100 erano qui i detenuti un anno fa, ora siamo a quasi 1500 detenuti - ha sottolineato Zamparutti; Mattarella nel suo discorso di fine anno ha detto che per risolvere i problemi del nostro Paese occorre usare la cassetta degli attrezzi, ossia la Costituzione. È vero, anche quindi ricordando bene l’articolo 27 che prevede che la pena abbia una funzione rieducativa: su questo c’è molto da fare”. Ma è davvero possibile festeggiare in carcere l’anno che verrà? “In carcere non ci sono mai giorni di festa - racconta D’Elia - ma qui a Rebibbia ci hanno accolto come hanno sempre fatto con Marco Pannella per festeggiare tutti insieme il raggiungimento dei 3000 iscritti al Partito Radicale a cui i detenuti hanno dato un contributo notevole. Per loro se vive il Partito è un giorno di festa”. Ieri tappa a Regina Coeli all’insegna della polemica, come scrive la Bernardini anche sul suo profilo Facebook, riportando una email inviata al ministro della Giustizia Andrea Orlando: “Ritengo che la questione “trasparenza” degli istituti penitenziari, per la quale ci siamo tanto battuti, non può essere affrontata come accade oggi. In più c’è la questione recentissima per cui il Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, ndr) ha vietato agli istituti penitenziari che visitiamo di rispondere alle domande del nostro questionario. Le due questioni sono collegate perché il Dap ha giustificato il diniego con il fatto che esistono già le “schede trasparenza”. Ora, basta collegarsi con il sito giustizia.it per verificare che non solo le schede non sono aggiornate, ma che mancano molte importanti informazioni oggetto delle domande del nostro questionario”. A ciò, fa notare la delegazione in visita, si deve aggiungere che nel vecchio carcere della capitale “alcune sezioni sono molto sovraffollate, nelle celle singole ci sono tre letti a castello e l’aspetto più grave è che i detenuti vi restano chiusi per 23 ore e 40 minuti. Altro problema serio è il rapporto con magistrato di sorveglianza che spesso non risponde alle istante di scarcerazione dei detenuti”. Dal lavoro, alla giustizia sociale, fino all’economia: la nostra Carta tradita dalla politica di Marco Palombi e Silvia Truzzi Il Fatto Quotidiano, 2 gennaio 2018 La Costituzione italiana compie settant’anni e non è un caso che, come si fa con le vecchie signore, la si lasci ormai parlare senza darle retta. E dire che governare, legiferare, produrre e vivere contro la Carta è - o forse, ormai, sarebbe - la più grave forma di illegalità possibile per la Repubblica: è per evitare di ammettere questo che il pulviscolo di individui e interessi che un tempo era una comunità nazionale deve considerare la Costituzione solo come una vecchia signora un po’ svanita, persa dietro le sue fantasie di gioventù, inadatta al mondo presente, un mondo che si vuole, nei fatti, post-costituzionale. Basta leggerla per sapere che è così: diritto al lavoro, giustizia sociale, solidarietà, responsabilità sociale dell’impresa. Questa non è, dunque, una celebrazione, ma il breve riassunto di un tradimento. Un vecchio discorso e un programma per oggi - Bisogna chiedersi: a cosa serve questo “pezzo di carta, che se lo lascio cadere, non si muove”? Parole di Piero Calamandrei, uno dei padri di quel “pezzo di carta”, che così lo spiegò agli studenti milanesi in un giorno del 1955, partendo dal secondo comma dell’articolo 3 (“il più importante di tutti”): È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Dice Calamandrei: “Quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare una scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’articolo 1 - L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro - corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica (…). E allora voi capite da questo che la nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere”. E ancora: “È stato detto giustamente che le costituzioni sono anche delle polemiche. Questa polemica, di solito è una polemica contro il passato, contro il passato recente, contro il regime caduto da cui è venuto fuori il nuovo regime. Se voi leggete la parte della Costituzione che si riferisce ai rapporti civili politici, ai diritti di libertà, voi sentirete continuamente la polemica contro quella che era la situazione prima della Repubblica (…). Ma c’è una parte della nostra Costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società presente. (…) Dà un giudizio, la Costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la Costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani”. È un programma, questa Carta che compie settant’anni, il nostro programma di italiani. E una protesta. E anche una battaglia, quella per la sua piena attuazione. È dovere della politica e, in primo luogo, di governo e Parlamento, essere l’anima di quel programma, di quella protesta, di quella battaglia. La nostra Costituzione, d’altra parte, non è né un insieme di articoli (139 in tutto per i curiosi), né una generica esposizione di principi: è un tutto organico che, mentre disegna il senso del nostro stare insieme, indica e presuppone le politiche - soprattutto economiche - che lo rendano possibile. Il sistema delineato è definibile, all’ingrosso, keynesiano, cioè ispirato al pensiero dell’economista John Maynard Keynes. Gustavo Zagrebelsky lo ha descritto così nel suo Fondata sul lavoro (Einaudi): “La Costituzione pone il lavoro a fondamento, come principio di ciò che segue e ne dipende: dal lavoro, le politiche economiche; dalle politiche economiche, l’economia. Oggi, assistiamo a un mondo che, rispetto a questa sequenza, è rovesciato: dall’economia dipendono le politiche economiche; da queste i diritti e i doveri del lavoro”. Eppure quel “dal lavoro alle politiche” è ciò che è accaduto in Italia (e non solo) nei cosiddetti “gloriosi trenta”, vale a dire i trent’anni seguiti alla Seconda guerra mondiale. Riassumendo grossolanamente: intervento dello Stato nell’economia e nell’intermediazione del risparmio (pensioni e assicurazione sanitaria e anti-infortunistica); limitazioni alla libertà di movimento dei capitali e controllo del credito; Banca centrale dipendente dal governo e, dunque, finanziamento pubblico del deficit. Furono anni di crescita dei salari, aumento dell’occupazione, basso deficit pubblico: quando il ministro Dc Beniamino Andreatta, all’inizio del 1981, decise il “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia condannando il Paese a “vendersi” sul mercato, il debito pubblico era sotto al 58% del Pil e la spesa dello Stato rispetto al Prodotto attorno al 41%, inferiore alla gran parte dei Paesi europei. Anche questo, insieme alla Costituzione, conviene dimenticare sul comodo altare del mondo che è cambiato e non offre più certezze. Il programma dei governi italiani dell’ultimo trentennio dunque non è più la Carta, ma la perenne “emergenza economica” che ha affossato i fondamentali dell’economia “costituzionale”, ma garantito la vendetta della rendita sul lavoro. Il programma degli ultimi cinque esecutivi, invece, è stato addirittura messo nero su bianco dalla Banca centrale europea nella sua lettera dell’estate 2011: privatizzazioni, liberalizzazioni, libertà di licenziamento (flessibilità), tagli a welfare e pensioni pubbliche da sostituire con assicurazioni private. In sostanza, la riduzione del ruolo dello Stato alle dimensioni di un amministratore di condominio e relativo appiattimento della società sulle esigenze dei famigerati “mercati”: non è un caso che i Trattati europei - ispirati a questa concezione minima del ruolo dello Stato - non facciano menzione di “diritto al lavoro” (il nostro articolo 4), ma basino la loro idea di società su due pilastri, la “stabilità dei prezzi” (inflazione bassa) e un’”economia sociale di mercato fortemente competitiva” (dove “sociale” è una spolverata di simpatia sulla ferocia del “fortemente competitiva”). La carta anti-liberista - È merito recente di Luciano Barra Caracciolo, giurista e presidente di sezione del Consiglio di Stato, aver sottolineato nel suo La Costituzione nella Palude (Imprimatur) non solo come questa impostazione sia estranea all’orizzonte della Costituzione, ma come lo sia per esplicita scelta dei costituenti dei grandi partiti popolari (democristiani, socialisti, comunisti e non pochi a vario titolo “liberali”). Le posizioni che oggi diciamo mainstream e, nelle parole dei loro aedi, servono a rispondere alla nuova complessità del mondo (cioè alla globalizzazione intesa come fenomeno naturale, non politico), in realtà erano presenti nel dibattito anche alla fine dell’ultima Guerra mondiale e, anzi, all’epoca erano considerate già vecchie. Il loro campione, nell’Assemblea che scrisse la Costituzione, era Luigi Einaudi, economista e poi presidente della Repubblica: le sue proposte in materia economica furono rifiutate, la Carta nasce anti-liberista. Così si rivolgeva con sottile quanto puntuta ironia “all’amico Einaudi” il presidente della “Commissione dei 75”, Meuccio Ruini, già senatore del Regno d’Italia e sottosegretario di Vittorio Emanuele Orlando, nella seduta del 12 marzo 1947: “Gli economisti - i migliori - riconoscono che il loro edificio teorico, la scienza creata dall’Ottocento, non regge più sul presupposto di un’economia di mercato e di libera concorrenza, che è venuto meno non soltanto per gli interventi dello Stato, ma in maggior scala per lo sviluppo di monopoli delle imprese private. Quando vedo i neo liberisti, come l’amico Einaudi, proporre una tale serie di interventi per assicurare la concorrenza che qualche volta possono equivalere agli interventi di pianificazione, debbo pur ammettere che molto è mutato. Non pochi vanno affannosamente alla ricerca della terza strada. La troveranno? Non lo so. Questo so: si avanza la forza storica del lavoro”. E il lavoro, insiste Ruini, va inteso “nel senso più ampio, cioè comprendente il lavoro intellettuale, il professionista, lo stesso imprenditore in quanto lavoratore qualificato che organizza la produzione e non vive, senza lavorare, di monopoli e privilegi”. Un occhio non distratto riconosce in queste parole che i costituenti rifiutarono non solo “la scienza dell’Ottocento” (il liberismo) ma anche quella nuova, la “terza via” che rinnovava quella visione occupando lo Stato e realizzando per via legislativa e ordinamentale il dominio della grande impresa privata (ricorda qualcosa?). Giova ripeterlo dopo decenni in cui nessuno ascolta più la vecchia signora: il programma che la Costituzione affida agli italiani è preciso e non può essere, come accade, disatteso facendo finta di nulla. Nell’ottobre 1946, alla Costituente, il deputato Mario Cevolotto - ministro nei governi Bonomi, Parri e De Gasperi - lo descrive così: “Allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini lo Stato interverrà per coordinare e dirigere l’attività produttiva dei singoli e di tutta la nazione secondo un piano che dia il massimo rendimento per la collettività. Quindi intervento dello Stato nella produzione, intervento cui si arriva attraverso la garanzia del diritto al lavoro”. E questo, dice, s’ha da fare senza “un ritorno al superato liberismo”, né cedimenti alla “regolamentazione totalitaria dell’attività produttiva”. Che gli stessi costituenti lo interpretino come un programma è un fatto. Dice il comunista Renzo Laconi il 5 marzo 1947: “Noi non siamo in grado oggi di stabilire delle garanzie e delle sanzioni per la realizzazione di questi diritti, ma qualcosa possiamo fare: noi possiamo fare i principi, possiamo stabilire le direttive entro le quali dovrà orientarsi il legislatore di domani”. Una direzione che vale anche in senso negativo. “Non si può negare in modo assoluto che un giorno le forze regressive possano avere la prevalenza. Noi abbiamo il dovere di immaginare anche il peggio”, spiegò il socialista Gustavo Ghidini: “Ora fate l’ipotesi che la nostra rappresentanza fosse completamente eliminata e sedessero in questa Camera solo rappresentanti della Nazione aventi un orientamento regressivo e volessero formare una legge che contrastasse questi diritti al lavoro, li limitasse, li annullasse. La Corte costituzionale dovrebbe dichiararne l’incostituzionalità”. Il diktat della Bce - La sovranità appartiene al popolo, è scritto all’articolo 1. E il verbo “appartiene” non è scelto a caso, ci ha spiegato Lorenza Carlassare, ma “in contrapposizione ad “emana” che può assumere ben diversa valenza: dire che la sovranità emana dal popolo può anche implicare che essa parta dal popolo (che ne è all’origine) e se ne allontani per trasferirsi agli eletti. Dire invece che la sovranità appartiene al popolo non lascia spazio a interpretazioni pericolose”. Sempre alla professoressa padovana dobbiamo questa citazione, risalente agli anni Cinquanta, del costituzionalista Carlo Esposito: “Il contenuto della democrazia non è che il popolo costituisca la fonte storica o ideale del potere, ma che abbia il potere. E che non abbia la nuda sovranità (che praticamente non è niente), ma l’esercizio della sovranità (che praticamente è tutto)… In un regime in cui fosse concesso ai cittadini il solo potere di votare, tali cittadini sarebbero schiavi per lunghi anni e (nella migliore delle ipotesi) liberi e sovrani nel solo giorno della libera scelta dei loro rappresentanti”. E qui veniamo all’introduzione quasi all’unanimità nel 2012 del nuovo articolo 81, quello sul cosiddetto “pareggio di bilancio”, che impedirebbe di fatto allo Stato qualunque politica economica: “Con una battuta tutt’altro che banale si è detto che la riforma dell’articolo 81 ha dichiarato l’incostituzionalità di Keynes”, scrisse allora Stefano Rodotà. E come avvenne questa “riforma” gentilmente richiesta dal Fiscal compact europeo? Lo ha raccontato il Guardasigilli Andrea Orlando alla festa del Fatto Quotidiano del settembre 2016: “Non fu il frutto di una discussione nel Paese, ma del fatto che a un certo punto la Bce - ora la brutalizzo - disse: “O mettete questa clausola nella Costituzione o chiudiamo i rubinetti e non ci sono gli stipendi alla fine del mese”. È una delle scelte di cui mi vergogno di più, penso che sia stato un errore e non tanto per il merito, che pure è contestabile, ma per il modo in cui ci si arrivò”. La sovranità è cosa impalpabile, ma decisiva, e in natura resta assai poco senza padrone: i costituenti lo sapevano e infatti hanno scritto l’articolo 11. Sì, è quello in cui l’Italia ripudia la guerra, ma anche quello in cui - ci ha ricordato Gustavo Zagrebelsky - “l’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni. La limitazione è prevista con l’obiettivo della pace e della giustizia tra le Nazioni, non per mettersi al servizio della finanza internazionale! L’obiettivo si è rovesciato: siamo in un momento in cui il potere economico ha sopravanzato il potere politico, ci si è alleato subordinandolo” chiosa Zagrebelsky. Ora ripensate alla minaccia della Bce sull’articolo 81 raccontata da Orlando e a una vecchia signora che compie settant’anni e che parla senza che nessuno le badi. Migranti. I numeri del 2017: meno sbarchi, ma i ricollocamenti sono al palo di Marina Della Croce Il Manifesto, 2 gennaio 2018 L’inversione di tendenza da luglio in seguito agli accordi tra l’Italia e il governo libico. Anche se a chi di professione soffia sul fuoco non diranno niente, i da relativi agli sbarchi di migranti nel 12017 sono espliciti ed indicano una netta diminuzione rispetto all’anno passato. Naturalmente questo non significa automaticamente una buona notizia, visto che i numeri ridotti sono dovuti agli accordi che l’Italia ha siglato con il governo libico del premier Fayez al Serraj - accordi subito fatti propri dall’Unione europea - in base ai quali è stato affidato alla Guardia costiera libica il compito di fermare i barconi riportando i migranti nei centri di detenzione dai quali erano fuggiti e nei quali vengono sottoposti a ripetute violenze. Ma veniamo a numeri, Stando ai dati diffusi domenica dal Viminale gli sbarchi sono diminuiti del 34,24% rispetto al 2016, passando da 181.436 dello scorso anno agli attuali 119.310. Il calo nel numero degli arrivi si è cominciato registrare solo a partire dal mese di luglio, vista che la tendenza registrare nei primi sei mesi dell’anno indicava un costante aumento. La svolta si è avuta proprio a partire da giugno in seguito agli accordi stipulati con Tripoli ma soprattutto da quando la Guardia costiera libica, forte delle sei motovedette fornite dall’Italia, ha cominciato il suo lavoro di contrasto alle partenze dei barconi. Gli effetti si sono fatti vedere subito, fin da luglio, ma sono andati aumentando gradualmente fino a far registrare, nello scorso mese di dicembre, una riduzione del 73% rispetto allo stesso mese del 2016 (erano stati 8.428, sono diventati 2.268). In crescita anche il numero dei migranti rimpatriati, passati dai 5.300 del 2016 ai 6.340 del 2017 (+19,6%). Nessuna invasione, quindi, ammesso che si possano definire così i circa 180 mila migranti arrivati nel 2016 in un Paese che conta 60 milioni di abitanti. La Lombardia è la regione che ne accoglie di più (14%), seguita da Lazio e Campania (9%). In fondo alla classifica la Valle d’Aosta con lo 0,2%. Per quanto riguarda la nazionalità, secondo quanto riportato dal sito del Viminale la maggioranza delle persone arrivate proviene dalla Nigeria (18.153), seguite da quanti sono originari della Guinea (9.693), Costa d’Avorio 9.504), Bangladesh (8.995), Mali (7.144), Eritrea (6.953). Sempre nel 2017 i minori stranieri non accompagnati sono stati 15.731. Tutt’altro discorso va fatto invece per i ricollocamenti in Europa. Solo un richiedente asilo su dieci ha infatti trovato posto in uno Stato membro, grazie soprattutto all’ostruzionismo mostrato dai Paesi dell’Est ma anche dall’Austria e da alcuni paesi del Nord Europa. In tutto sono stati appena 11.464 (dato aggiornato al 27 dicembre 2017). Il Paese che ne ha accolti di più è stato la Germania (4.800), seguito da Svezia (1.214), Svizzera (897), Paesi Bassi ((891). 698 sono invece i richiedenti asilo in corso di trasferimento, 843 coloro in attesa di una risposta dello Stato membro che deve accoglierli e 229 quanti hanno avviato l’istruttoria per la richiesta di asilo. Iran. Nuovi scontri, 13 morti e 400 arresti. Prese d’assalto basi polizia e militari di Alberto Custodero La Repubblica, 2 gennaio 2018 Un poliziotto ucciso e altri tre feriti con fucili da caccia a Najafabad. Ancora incidenti a Teheran dopo il tramonto. Non si placa la repressione del governo nonostante l’appello del presidente alla calma. Oscurati i social network. Trump: “Stanno fallendo, è tempo di cambiare”. Da giorni migliaia di persone protestano contro il governo e gli esponenti religiosi. Non si placano le violenze in Iran neppure dopo l’appello alla calma lanciato domenica dal presidente Hassan Rouhani. In totale sono almeno tredici le persone morte e centinaia quelle arrestate nei disordini a partire da giovedì, quando la protesta è scoppiata a Mashhad, la seconda città del Paese, per poi ampliarsi a livello nazionale, compresa la capitale Teheran dove sono ripresi gli scontri nel centro della città: i media hanno diffuso immagini di auto in fiamme e della massiccia presenza di polizia, mentre i social media parlano della presenza di piccoli gruppi di manifestanti che nel centro della capitale intonano canti e slogan anti-regime. La tv di Stato ha riferito che la notte scorsa, le forze di sicurezza hanno respinto “dimostranti armati” che cercavano di prendere d’assalto stazioni di polizia e basi militari. L’emittente ha inoltre mostrato immagini di banche private assaltate, vetrine sfondate, automobili rovesciate e incendiate, così come un camion dei vigili del fuoco. Tutto questo mentre la repressione del governo, che ha già portato all’arresto di quattrocento manifestanti e oscurato i social network, continua con il “pugno di ferro”. In serata è arrivata la notizia della morte di un agente ed il ferimento di altri 3 con un fucile da caccia a Najafabad, 400 km a sud di Teheran, nella provincia centrale di Isfahan. Nel 2009, quando la cosiddetta “onda verde” protestò contro la riconferma a presidente di Mahmoud Ahmadinejad, vennero uccise 36 persone dai miliziani Basiji (che giravano in borghese) e da elementi dei Pasdaran (i guardi della Rivoluzione che ancora oggi rispondono solo alla guida suprema l’ayatollah Ali Kahamenei. Secondo le opposizioni le vittime furono 72. L’Iran “sta fallendo a tutti i livelli nonostante il terribile accordo fatto con l’amministrazione Obama. Il grande popolo iraniano è represso da molti anni. Sono affamati di cibo e di libertà. Insieme ai diritti umani, la ricchezza dell’Iran viene saccheggiata. Tempo di cambiare!”. Lo scrive su Twitter il presidente Usa Donald Trump. In un altro tweet, il presidente Usa aveva attaccato l’Iran per aver oscurato alcuni social network. “Lo Stato numero uno del terrore che sponsorizza numerose violazioni dei diritti umani, ha ora chiuso Internet in modo che i manifestanti pacifici non possano comunicare”. Al quinto giorno di violente proteste la tv ha parlato di scontri diffusi, con vittime a Tuyserkan, Shahinshahr. Altre fonti parlano di analoghe manifestazioni a Izeh, una città nella provincia di Khuzestan nel sudovest dell’Iran, oltre che nella capitale Teheran, dove peraltro una ragazza è diventata il simbolo della protesta: ha sfidato le autorità e l’obbligo di indossare il velo, l’hijab, che ha pubblicamente sventolato nel mezzo di una strada affollata. Il suo volto è rapidamente divenuto noto in tutto il Paese, grazie ad un video amatoriale che è stato ampiamente diffuso nonostante le autorità abbiano bloccato l’accesso ai social network, in particolare Telegram e Instagram. E per questo è stata poi arrestata. Il bilancio degli incidenti di domenica nelle varie manifestazioni era stato di due morti nella città di Dorud e di cento arresti e di 12 feriti tra gli agenti di polizia ad Arak, a sud di Teheran. Il presidente Rouhani è tornato a parlare sulle proteste anti-governative degli ultimi giorni in Iran nel corso di un incontro con i responsabili delle commissioni parlamentari. Se domenica aveva giustificato il diritto della gente alla protesta, questa volta se l’è presa con chi a suo dire fomenta i disordini. Il presidente iraniano ha detto che sono i nemici di Teheran, i Paesi che non hanno tollerato il successo dell’Iran nell’accordo nucleare e nella regione, a incoraggiare e spingere le persone a protestare. “Il nostro progresso per loro era intollerabile, il nostro successo nel mondo della politica rispetto agli Stati Uniti e al regime sionista (Israele), era per loro intollerabile”. “Le critiche e le proteste sono un’opportunità, non una minaccia” ha dichiarato Rouhani che poi ha minimizzato la portata delle manifestazioni, definendole “niente”. “La nazione stessa - ha aggiunto - risponderà a rivoltosi e delinquenti affrontando questa minoranza che urla slogan contro la legge e insulta la santità ed i valori della rivoluzione”. Rouhani ha difeso poi la situazione dell’economia iraniana pesantemente criticata dai manifestanti. “È migliore rispetto al livello medio mondiale e la crescita economica del Paese si è attestata al 6 per cento nella prima metà dell’anno iraniano, ma ciò non significa che tutti i problemi siano stati risolti. Per far ciò ci vuole tempo”. Il presidente iraniano ha poi ricordato che il governo ha creato 700.000 posti di lavoro, ma, ha aggiunto, “accettiamo le critiche contro l’attuale alto tasso di disoccupazione”. Su quanto sta avvenendo in Iran si è espressa anche la Casa Bianca che ha invitato il governo ad ascoltare le voci del popolo iraniano. Nel Paese, da quattro giorni, migliaia di persone scendono in piazza in molte città per protestare contro la corruzione, l’aumento del costo della vita, la disoccupazione, e la mancanza di trasparenza del governo. Presa di mira in particolare la casta religiosa accusata di arricchirsi mentre la popolazione vive di stenti. “Sosteniamo il diritto del popolo ad esprimersi pacificamente”, si legge in una nota della Casa Bianca, che già due giorni fa aveva esortato il governo di Teheran “a rispettare i diritti” dei manifestanti (“Il mondo vi guarda”, aveva twittato Donald Trump). “Incoraggiamo tutte le parti - dice ancora la nota di Washington - a proteggere questo diritto fondamentale all’espressione pacifica e ad evitare qualsiasi azione che contribuisca alla censura”. Il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ha lodato i “coraggiosi” manifestanti iraniani che “anelano alla libertà”, in un video in inglese in cui liquida come “ridicola” l’accusa del presidente iraniano Hassan Rohani sul fatto che Israele sia dietro le proteste. “Diversamente da Rohani non intendo insultare il popolo iraniano. Meritano di meglio - ha affermato Netanyahu - iraniani coraggiosi invadono le strade. Vogliono la libertà. Vogliono le libertà fondamentali che vengono loro negate da decenni”. Il primo ministro israeliano ha puntato poi il dito contro il “crudele regime iraniano” che ha speso “miliardi di dollari per spargere odio” invece di costruire scuole e ospedali per il suo popolo”. “Iraniani e israeliani torneranno ad essere grandi amici” quando la repubblica islamica crollerà, come “accadrà un giorno”, ha aggiunto Netanyahu, accusando i governo europei di rimanere in silenzio mentre “gli eroici giovani iraniani vengono picchiati nelle strade”. “Stiamo seguendo le manifestazioni dei cittadini iraniani degli ultimi giorni - ha affermato la portavoce dell’Alto rappresentato per la politica estera dell’Ue, Federica Mogherini - Siamo stati in contatto con le autorità iraniane e ci aspettiamo che il diritto a manifestare pacificamente e la libertà di espressione siano garantiti, come conseguenza delle dichiarazioni pubbliche del presidente Rohani. Continueremo a monitorare gli sviluppi”. Iran. Le ragazze che protestano: “odio questo sistema e voglio reagire” di Viviana Mazza Corriere della Sera, 2 gennaio 2018 In piazza una nuova generazione. L’attivista Maish: “La giovane senza velo sapeva di rischiare l’arresto ma l’ha fatto lo stesso”. Venticinque anni, laureata all’università Azad di Teheran, disoccupata. Najya (nome inventato per motivi di sicurezza) è una di centinaia di giovani iraniani che, l’ultimo giorno dell’anno sono scesi in piazza contro il regime: una protesta senza leader e programma politico, che gli stessi intellettuali di opposizione faticano a capire. “La gente è arrabbiata per tutto: la povertà, l’inquinamento, i terremoti degli ultimi mesi - spiega la ragazza al Corriere. Le autorità credono che siamo ignoranti, ma qui nessuno si prende la responsabilità di nulla. La nostra pazienza ha un limite!”. È la rabbia di una nuova generazione che non sa bene cosa vuole, ma è pronta a correre rischi. “Ho visto i poliziotti in moto colpire la gente sui marciapiedi in piazza Enghelab. Attaccavano in particolare noi donne - continua Najya - perché di solito ci muoviamo in gruppetti. Prendono di mira noi per spaventare tutti gli altri. Ero con le mie amiche, mi hanno picchiata con violenza”. Anche Delaram, 20 anni, allieva al Politecnico di Teheran, da sabato ha partecipato a tutte le manifestazioni, nonostante le manganellate. “A mezzogiorno ero all’università di Teheran. C’era tanta gente per strada. Le forze speciali hanno circondato l’ateneo. Alcuni studenti gridavano “Morte al dittatore”. Dai veicoli neri della polizia anti-sommossa è arrivato il getto dei cannoni ad acqua. Non ci permettevano di fermarci davanti ai cancelli. Quando con un’amica ci siamo soffermate in un vicolo, un poliziotto in borghese sui trent’anni si è avvicinato. Fumava, grasso, con la barba, rozzo. “Cosa fate qui? Se vi vedo di nuovo, vi arresto”. Ma poi uno dei comandanti ha cominciato a colpire i manifestanti e ha picchiato anche me, forte, con un manganello. C’erano diversi feriti”. Non è “un’onda verde”, lo dicono le stesse Najya e Delaram. Nell’estate del 2009, cinque milioni di persone marciarono nella capitale, pacificamente, protestando anche in silenzio, contro la controversa rielezione di Ahmadinejad. Oggi invece Teheran si ritrova più marginale rispetto a moti che scuotono anche piccoli centri in zone più remote e meno politicamente attive: in alcuni casi, nelle province di frontiera i manifestanti sono armati, in altre attaccano banche ed edifici governativi; le autorità hanno sparato sulla folla ma le informazioni faticano a filtrare. Città o provincia, però, questa nuova generazione di manifestanti iraniani ha motivazioni simili. Quando chiediamo a Delaram cosa sperano di ottenere esattamente, la sua risposta è netta: “Non lo so e non mi interessa. Nel 2009, la gente aveva delle richieste specifiche, avevano un leader. Adesso consideriamo tutto problematico. Odio questo sistema e lo voglio cambiare. Voglio essere attiva, non indifferente”. C’erano anche slogan di elogio al vecchio Scià Reza in piazza nei giorni passati, ma venivano gridati più per odio contro i mullah che per amore della monarchia. “Non voglio affatto che il re torni in Iran. Ma mi pento anche di aver votato per Rouhani. E Khatami, il riformista. perché ci dice sempre di votare ma ora resta in silenzio?”. Mentre il presidente moderato Hassan Rouhani cerca di placare questi giovani, assicurando che l’Iran ha bisogno di un’economia migliore e anche di una società più aperta, i Guardiani della Rivoluzione e i basiji, braccio armato della Guida Suprema Ali Khamenei, avvertono che non lasceranno che le proteste continuino. “Ora hanno bloccato Telegram e Internet - dice Najya. Ci sono moltissimi agenti in borghese che cooperano con Guardiani, ma sono indistinguibili dalla gente qualunque. In passato, era facile per via del loro aspetto (barba e anelli), ora vanno in giro in jeans”. Si dice che istighino i manifestanti ad attaccare i negozi, per poi farli arrestare. Ma le ragazze li affrontano. Aysan, 32 anni, studentessa di Letteratura, ha scelto per il suo account Twitter l’immagine di una giovane iraniana diventata un simbolo. Mercoledì scorso, prima dell’inizio delle proteste, aveva manifestato da sola togliendosi l’hijab e sventolandolo come una bandiera bianca in pieno centro a Teheran. Un gesto contro l’obbligo del velo. “Sapeva che l’avrebbero arrestata - ci dice l’attivista Masih Alinejad - ma non le importava”. Egitto. Carcere e multe agli attivisti per i diritti umani di Pino Dragoni Il Manifesto, 2 gennaio 2018 Il fronte democratico e di sinistra del paese si ritrova costretto ad una battaglia sulla difensiva, dentro i tribunali. All’avvocatessa El-Massry due anni di prigione, altri tre per Abdel Fattah. E domani si riapre il caso Khaled Ali. Decine di condanne, ancora anni di carcere e multe pesantissime a carico degli imputati. Così si sono conclusi i processi del 30 dicembre, molti dei quali ad attivisti democratici e di sinistra in tre diversi tribunali tra Il Cairo e Alessandria. Per Mahienour El-Massry, giovane avvocatessa per i diritti umani, è arrivata una condanna a due anni di carcere. Stessa sorte per Moatasem Medhat del partito Pane e Libertà e tre anni in contumacia ad altri tre attivisti. Le condanne riguardano la protesta del 14 giugno ad Alessandria, contro l’accordo che ha ceduto all’Arabia saudita le due isole Tiran e Sanafir. Il caso ha suscitato una tale indignazione da scatenare nuove manifestazioni nonostante una legge che proibisce di fatto la protesta. Durante l’udienza la polizia ha arrestato tre solidali che avevano improvvisato un sit-in fuori dal tribunale. Intanto al Cairo una corte penale ha condannato a multe di 30mila lire egiziane (1.700 dollari) oltre venti imputati accusati di aver “insultato la magistratura” e ordinato a ognuno di pagare un risarcimento da un milione di lire egiziane (56mila dollari) al capo del Club dei giudici, organizzazione indipendente a cui aderisce il 90% dei magistrati egiziani. Tra i condannati Alaa Abdel Fattah, ingegnere informatico e blogger icona della rivoluzione del 2011. Il suo caso risale al settembre 2012, quando i Fratelli Musulmani erano al potere. Ironia della sorte, nella stessa udienza la corte ha condannato anche decine di membri della Fratellanza, tra cui esponenti di spicco come il deposto presidente Morsi e l’ex Guida Suprema el-Badie. Alaa ha già scontato tre anni e mezzo di una condanna a cinque per una protesta del 2013, in un caso che secondo gli avvocati è stato pieno di violazioni. E per domani è attesa un’altra importante decisione di una corte cairota sul ricorso presentato da Khaled Ali, avvocato alla guida del partito di sinistra Pane e Libertà, che recentemente ha lanciato la sua candidatura alle presidenziali del 2018. Ali è stato condannato in prima istanza per aver commesso un “gesto osceno” in tribunale dopo la storica vittoria contro l’accordo sulle isole di Tiran e Sanafir. Oltre a rischiare il carcere, se il ricorso non venisse accolto Ali potrebbe perdere il diritto a candidarsi alle prossime elezioni. La sua decisione di candidarsi, sebbene abbia fatto storcere il naso a molti attivisti favorevoli al boicottaggio, ha anche riacceso le speranze di tanti, soprattutto giovani, profondamente scoraggiati dalla difficile fase di contro-rivoluzione che sta attraversando il paese. Un’eventuale esclusione eliminerebbe l’unico polo realmente di sinistra e in continuità con le parole d’ordine della rivoluzione del 2011. Il campo democratico e progressista in Egitto si ritrova a dover combattere una battaglia sulla difensiva, scandita da udienze e condanne, per poter assicurare la propria sopravvivenza politica oltre che umana. E mentre l’Italia punta alla normalizzazione con qualche contentino sul caso Regeni, non una condanna si è alzata dagli ambienti istituzionali del nostro paese per la stretta mortale che il regime di al-Sisi impone a qualsiasi voce di dissenso. Turchia. Ignorati dall’Europa, i diritti dei curdi trovano riconoscimento in Sudafrica di Gianni Sartori rivistaetnie.com, 2 gennaio 2018 Sicuramente c’è qualcosa di paradossale, quasi schizofrenico, nell’agire di Erdogan. Solidale con il popolo palestinese, repressivo in politica “interna” nei confronti dell’altrettanto oppresso popolo curdo. Ma anche l’Europa sembra voler dare il suo contributo, per lo meno non prendendo adeguata posizione contro le violazioni dei diritti umani operate dal regime di Ankara. A Strasburgo il presidio a tempo indeterminato che da anni si tiene davanti al Consiglio d’Europa aveva visto, verso la fine del 2017, crescere la partecipazione di centinaia di persone divenendo un vera manifestazione di massa. La richiesta, costante negli anni, rivolta sia al Consiglio d’Europa sia al Cpt (Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti), rimane quella di sollevare il leader curdo Abdullah Ocalan dal duro regime di isolamento a cui viene sottoposto. Dal settembre 2016 mancano notizie precise sul suo stato di salute e si teme per la sua sicurezza, come per quella degli altri detenuti. Oltre 700 (settecento!) richieste dei suoi avvocati per poterlo incontrare sono state respinte, in violazione a ogni norma e regolamento dell’ONU e del Consiglio d’Europa, compresi quelli firmati dalla stessa Turchia. In particolare: la Convenzione ONU del 10 dicembre 1984 contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli; la Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti; il Protocollo aggiuntivo dell’ONU del 4 febbraio 2003. Tutti regolamenti - ratificati dalla Turchia nel settembre 2005 - che impegnano gli Stati a garantire che le persone detenute non siano sottoposte a tortura o ad altre misure inumane. Consentendo anche che i prigionieri vengano visitati regolarmente nelle loro celle ai fini di misure preventive non giudiziarie. È lecito chiedersi perché le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa mantengano un atteggiamento di totale inerzia di fronte alla sistematica violazione dei diritti del prigioniero politico Ocalan? Il CPT avrebbe diritto a effettuare visite negli istituti di pena, ispezionando e indagando autonomamente, visto che tutti i Paesi firmatari si sono impegnati in tal senso. In teoria, il Comitato dispone di un accesso totale alle aree di sorveglianza e può muoversi senza alcuna limitazione, anche incontrando i prigionieri separatamente, senza la presenza di guardie o altri. Nel secondo paragrafo della Convenzione europea per la prevenzione della tortura viene stabilito che le visite possono svolgersi in qualsiasi momento; non solo in tempo di pace, ma anche in situazioni di guerra e di emergenza. Se un Paese non volesse collaborare o accettare le raccomandazioni del Comitato, al Paese stesso - qualora i due terzi dei componenti votino a favore - e successivamente all’opinione pubblica verrebbe rilasciato un documento sul caso preso in esame. Ma questo pwe Ocalan non sta avvenendo, vanificando così tutti i buoni propositi in difesa delle persone in stato detentivo. Allo sconcertante silenzio del “Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti” si contrappone la presa di posizione dell’ANC sudafricana per la liberazione di Ocalan. Di segno diametralmente opposto la presa di posizione dell’African National Congress (ANC), il partito sudafricano di Nelson Mandela. Durante il suo 54° congresso a Johannesburg, nello scorso dicembre, il partito ha formalmente richiesto l’immediata liberazione di Ocalan e di tutti i prigionieri politici. Il nuovo segretario dell’ANC, Ramaphosa - così come quello uscente, Zuma - aveva condiviso la dura lotta contro l’apartheid del compianto Nelson Mandela. Non a caso la definizione di “Mandela curdo” si adatta perfettamente a Ocalan e al ruolo che sta svolgendo per il suo popolo. Nel comunicato finale l’ANC dichiara apertamente di “sostenere la lotta del popolo curdo per i diritti politici e umani e per la pace e la giustizia in Medio Oriente”, invitando “tutte le parti coinvolte a svolgere il proprio compito per una soluzione politica”. Inoltre chiede “la liberazione di Abdullah Ocalan e di tutti prigionieri politici”. Un sostegno esplicito e autorevole, provenendo da una delle organizzazioni che maggiormente hanno lottato contro il razzismo istituzionalizzato, contro la discriminazione e l’oppressione. Un omaggio postumo all’impegno del compianto Essa Moosa, scomparso nel febbraio 2017. Moosa era stato l’avvocato sia di Mandela sia di Ocalan, oltre che presidente del Kurdish Human Rights Group (Khrag). Brasile. Maxi-rissa in carcere, morti 9 detenuti, decine di evasi Corriere della Sera, 2 gennaio 2018 Duri scontri fra gang locali in un istituto di pena nello Stato del Goias. 106 detenuti sono scappati, una trentina sono stati catturati, mentre gli altri sono ancora in fuga. Una rissa tra detenuti in un carcere nello Stato brasiliano del Goias, ha causato la morte di almeno 9 detenuti e il ferimento di altri 14. Secondo media brasiliani, che citano funzionari locali, la rissa è scoppiata all’interno della “Colonia Agroindustrial prison” nel complesso di Goiania, quando i prigionieri di un blocco del carcere hanno invaso altre tre zone dove sono detenuti membri di gang rivali. La fuga in massa - Secondo il sito di informazioni brasiliano G1, circa 106 detenuti sono evasi durante la rissa, di cui 29 sono stati poi catturati dagli agenti. Altri 127 sarebbero rientrati volontariamente in carcere, aggiunge la stessa fonte. Ex Jugoslavia. Tribunale dell’Aja: suicidio Praljak non si poteva prevenire Adnkronos, 2 gennaio 2018 Il tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (Icty) non può essere ritenuto responsabile per il suicidio del croato bosniaco Slobodan Praljak, che ha ingerito veleno in aula quando la sua pena a 20 anni di carcere è stata confermata in appello. È quanto ha stabilito una inchiesta interna, secondo la quale era impossibile prevenire il suicidio, avvenuto in diretta televisiva lo scorso 29 novembre. Secondo il giudice Hassan Jallow che ha condotto l’inchiesta interna, a meno di una specifica soffiata, nessuna misura avrebbe potuto garantire il ritrovamento del veleno prima del suicidio. Al momento non è chiaro come Praljak si sia procurato il cianuro di potassio, ha rimarcato Jallow, sottolineando che la piccola quantità di veleno “poteva facilmente non essere rilevata anche nel corso di perquisizioni intrusive di persone, celle e altre aree”. Tanto più, nota il giudice che il regolamento pone limiti alle perquisizioni intrusive. Il cianuro di potassio “può essere trasportato sotto forma di polvere o sciolto in acqua” e per una dose letale bastano “2-300 mg”, nota il giudice. L’inchiesta “non ha individuato nessuna falla nell’ambito del quadro giuridico dell’Icty rispetto al trattamento dei detenuti”, ha stabilito il giudice, che ha presentato alcune raccomandazioni sul sistema della perquisizioni, proponendo anche che le riprese televisive di quanto accade in aula siano diffuse con una differita di 30 minuti. Sarà ora l’inchiesta avviata dalla polizia olandese a chiarire come Praljak si sia procurato il veleno. Condannato per la pulizia etnica dei musulmano bosniaci durante la guerra del 1992-95, il 72enne Parljak ha platealmente bevuto il veleno per protesta dopo la conferma della sentenza. La drammatica scena è avvenuta durante l’ultimo pronunciamento del tribunale dopo 24 anni di lavoro. I casi ancora aperti, ivi compresi gli appelli nei processi per genocidio di Radovan Karadzic e Ratko Mladic, verranno gestiti dal Meccanismo Onu per i Tribunali Penali Internazionali (Mict).