Quando la testimonianza delle persone detenute è una forma di riparazione Il Mattino di Padova, 29 gennaio 2018 Torniamo spesso a parlare del progetto di confronto con le scuole perché è un progetto “strano”, ed è importante e significativo che trovi grandi consensi da ormai quindici anni, e che la Casa di reclusione e il Comune di Padova abbiano deciso di accettare e sostenere questa sua “stranezza”, che consiste soprattutto nel fatto che a parlare sono prevalentemente le persone detenute, e non per una scelta di generosità nei loro confronti, ma per un motivo molto più complesso. In questo progetto vogliamo parlare del Male, e di come si può arrivare a commetterlo, di come si può scivolare in comportamenti sempre più a rischio, di come si può dalla piccola trasgressione finire per perdere il controllo della propria vita. E queste sono esperienze che solo chi il Male l’ha conosciuto può raccontare: e così nasce una vera prevenzione, fatta non di buoni consigli, che spesso da giovani nessuno vuole ascoltare, ma di pezzi di vita vera messi a disposizione dei ragazzi perché capiscano che non c’è niente di “eroico” in certi comportamenti, ma solo mancanza di responsabilità e incapacità di rispettare gli altri. Dopo gli incontri ci scrivono insegnanti, studenti, genitori, quelle che seguono sono le riflessioni di due detenuti, e le lettere di una studentessa e di un insegnante, che spiegano in profondità il senso di questo percorso. L’incontro in carcere è una delle esperienze più forti e costruttive che la scuola offre L’incontro di lunedì in carcere è stato uno dei più belli a cui ho partecipato e anche i ragazzi si sono dimostrati interessati, partecipi, coinvolti emotivamente, ma anche provocati ad una riflessione critica sulle dinamiche di formazione e maturazione della propria persona. Mi ha sorpreso anche la loro partecipazione attiva, nonostante sia una classe introversa e restia ad intervenire in pubblico. Tra i vari interventi dei detenuti, si è percepito un cammino di consapevolezza degli errori compiuti e un processo di maturazione umana, civile e valoriale, grazie anche alla partecipazione alle attività della vostra redazione di “Ristretti Orizzonti”, di cui l’incontro con le scuole rappresenta uno degli elementi più significativi. Come significativo è il percorso scolastico che molti di loro hanno intrapreso all’interno dell’istituzione carceraria. Al riguardo mi è tornata alla memoria la testimonianza, in un altro incontro, di Guido, entrato in carcere praticamente analfabeta, sul valore che per lui ha avuto l’incontro con la cultura, nello scoprire in sé nuovi e inaspettati orizzonti. Spesso quelli che commettono reati vengono da realtà di degrado sociale, culturale e scolastico, da quartieri dove l’impegno delle istituzioni è carente o del tutto assente. Questo dice di una grave responsabilità anche del mondo delle istituzioni e della scuola. Ciò non significa trovare una giustificazione o un’attenuante alle responsabilità individuali di chi ha commesso reati. Voglio solo dire che tutti noi come società civile dobbiamo sentirci coinvolti in queste problematiche. Castigare vuol dire letteralmente rendere casti, cioè permettere alla persona di potersi riscattare e reinserire nel tessuto sociale, come afferma l’articolo 27 della Costituzione. Questo incontrarsi con le scuole con il desiderio di far verità su se stessi, sul proprio mondo interiore, sul proprio passato, sapendo guardare con speranza anche al proprio futuro, è per noi un momento di scuola di altissima qualità che voi offrite ai nostri studenti, e di questo non posso che ringraziarvi. Io è da anni che insegno e da anni partecipo al vostro progetto e credo che sia una delle esperienze più forti e costruttive se non la più formativa, anche a detta dei miei studenti, che la scuola offre loro. Peccato che la politica sia spesso sorda e miope su queste tematiche, preoccupandosi più del consenso elettorale che del bene della “polis”, per non parlare dell’informazione, che proprio a detta di alcuni giornalisti, guarda più all’audience, e quindi al profitto, che non all’onestà e alla verità delle notizie. Andrea Alessi, Insegnante Il confronto con voi giovani mi ha salvato Una studentessa mi ha scritto chiedendomi di essere sincero nel rispondere alla domanda “Sei veramente cambiato?”. Oggi posso dire che dopo tanti sforzi e con l’aiuto di qualche persona che il destino ha voluto farmi incontrare, ho scoperto la bellezza di vivere nel rispetto delle regole della nostra società civile, questo perché sono riuscito a far emergere il lato pulito e positivo che c’è in me, tanto da annientare quel lato buio e negativo che per molti anni aveva dominato la mia vita. Non è stato facile perché come ogni essere umano sono pieno di debolezze e insicurezze, in più il luogo dove mi trovo non facilita il tutto, come non lo facilita la mia condanna all’ergastolo, che fa perdere ogni speranza e che facilmente fa offuscare la mente dalla rabbia. Ripeto, non è stato facile e non ci potevo riuscire da solo, una forte spinta mi è stata data dal progetto di confronto tra la scuola e il carcere, il confronto con voi giovani mi ha salvato perché ogni incontro e ogni domanda mi hanno aiutato a far venire fuori la parte migliore di me, così come è stato vitale partecipare ad una attività come Ristretti Orizzonti, dove ho potuto incontrare e sentire il pensiero di alcune vittime, e anche confrontarmi con persone delle istituzioni. Aggiungo l’altro elemento che mi ha aiutato tanto citando una frase della lettera della studentessa: “l’amore è ciò che mette in moto il mondo e conferisce senso alle cose”. Ebbene grazie all’amore delle mie figlie non solo ho avuto la forza di sopravvivere per 25 anni in un luogo pieno di disperazione, ma quell’amore mi ha anche sostenuto in questo mio cambiamento. Tommaso Romeo Il progetto con gli studenti è la medicina che guarisce tanti mali Sono un detenuto ergastolano dell’Alta Sicurezza, frequento la redazione di Ristretti Orizzonti e in questi ultimi tre anni sto partecipando al progetto che la redazione porta avanti da circa quindici anni. Questo progetto fa entrare in carcere ogni anno alcune migliaia di studenti delle scuole medie superiori. Durante l’incontro tre di noi detenuti raccontiamo la nostra storia, e poi tutti rispondiamo alle domande che i ragazzi ci fanno. Io posso dire che da quando ho iniziato questo percorso, la mia vita è cambiata in meglio. Innanzi tutto mi ha aiutato a recuperare la parola che avevo perso, mi ha dato coraggio a confrontarmi con gli studenti, coraggio che prima non avevo, mi ha portato ad assumermi le mie responsabilità, che prima non riconoscevo, mi ha portato ad ascoltare quando parlano le persone, cosa che prima non facevo. Questi incontri mi hanno aiutato ad uscire da quella subcultura ed ignoranza che per anni si erano annidate dentro di me, se prima ero sempre arrabbiato, questo confronto con i ragazzi mi ha portato ad essere più sereno. Questo percorso non ha fatto solo del bene a me, ma ha fatto stare anche più serena la mia famiglia. Se non fosse per questo progetto sicuramente ancora oggi sarei rimasto quello del giorno in cui venni arrestato. Pertanto vorrei ringraziare chi mi ha permesso di fare questo percorso per tutto l’aiuto che mi ha dato, incoraggiandomi a confrontarmi con la società esterna al carcere. Se oggi riesco a mettermi in discussione con le scuole è anche merito della redazione che mi ha aiutato a crescere e insegnato a vedere le cose in modo diverso dal passato. Quindi ringrazio chi in carcere mi ha dato l’opportunità di partecipare a questo progetto, e tutti gli operatori penitenziari che hanno contribuito a far sì che questo progetto andasse avanti senza interruzioni, perché per noi detenuti questi incontri sono una medicina che guarisce tanti mali. Antonio Papalia Grazie a voi vivo oggi la mia vita con più consapevolezza I ragazzi della mia età sono convinti che il carcere sia un luogo lontano in cui non metteranno mai piede, un luogo che non ti tocca neanche mentalmente, a cui non rivolgono mai un pensiero, io invece, anche grazie a voi che ho incontrato in carcere, sono consapevole del fatto che basti veramente poco per avvicinarsi a quel mondo. Grazie a voi detenuti vivo oggi la mia vita con più consapevolezza e con più attenzione, dovete essere orgogliosi di voi stessi per aver trasmesso ai ragazzi incontrati nel tempo qualcosa che rimarrà loro per tutta la vita. Non pensate che solo perché vivete in carcere la vostra vita non abbia un senso, voi potete fare ancora tanto per la società e per noi, sentitevi importanti sempre. Oggi vi ringrazio, voi vi siete messi a nostra disposizione raccontando a degli adolescenti le vostre storie, i vostri sentimenti, permettendoci di conoscere, di capire, di crescere. Oggi termino la mia giornata con qualcosa in più, so di aver “toccato” una realtà nuova a me estranea, che non viene raccontata mai ma a cui ho avuto la fortuna di avvicinarmi. Ringrazio voi che avete messo generosità e coraggio in questo progetto, spero con tutto il mio cuore che questi incontri vi aiutino a vivere più serenamente elaborando ciò che provate, che pensate e che avete vissuto. Vi auguro una vita serena, che riusciate a raccogliere l’amore dei vostri cari e a tenervelo stretto e non dimenticatevi di donare loro ciò che potete con la stessa gioia e la stessa dolcezza che essi vi dedicano. Vi auguro di avere sempre la forza per andare avanti, non dovete mollare mai, aggrappatevi a ciò che avete di più caro, e ricordate a voi stessi che per chi vi ama siete importanti. Dovete essere forti, ciò che è successo in passato rimarrà, ma non colpevolizzatevi la vita. Bisogna trovare il coraggio di andare avanti, di perdonarsi, perdonatevi e siate orgogliosi di essere cambiati, di avere ora una consapevolezza diversa. Carlotta Dalla cucina alla falegnameria: il lavoro come risorsa per i detenuti di Anna Zinola Corriere della Sera, 29 gennaio 2018 C’è chi lavora nella cucina di un ristorante e chi in un vivaio, chi ricama in sartoria e chi soffia il vetro in un laboratorio artigiano. Nel complesso - secondo quanto rilevato dal Dap (Dipartimento di amministrazione penitenziaria) - sono poco meno di 5.000 i lavoratori detenuti stranieri in Italia. La gran parte opera direttamente per l’amministrazione penitenziaria ma vi è anche un 10% che collabora con strutture esterne, come cooperative e aziende. Il settore più gettonato è la falegnameria, seguito dall’agricoltura, dal giardinaggio, dalla sartoria e dalla cucina. Più limitate sono, invece, le presenze negli autolavaggi, nelle carrozzerie e nei call center. Le regioni del paese in cui vi è maggiore concentrazione occupazionale sono quelle del Centro-Nord, con in testa Lombardia, Piemonte e Toscana. Tuttavia anche nel Mezzogiorno stanno aumentano le esperienze di questo tipo. Un esempio interessante si trova a Taranto, dove ha sede il ristorante sociale Art. 21, nato su iniziativa di don Francesco Mitidieri, cappellano del penitenziario cittadino, e dell’associazione “Noi e Voi”. Il nome del locale non è casuale, in quanto l’articolo 21 del codice penitenziario legittima il lavoro fuori dal carcere come occasione di reinserimento. Ma non è tutto: nel testo unico sull’immigrazione l’articolo 21 è quello che permette a un richiedente asilo di avere i propri documenti e restare nella città in cui transita grazie a un contratto di lavoro. Di fatto l’attività lavorativa rappresenta uno dei principali fattori di abbattimento del tasso di recidiva dei detenuti. Tra coloro che hanno intrapreso un percorso professionale durante la permanenza in carcere, la percentuale dei recidivanti cala, infatti, in modo vertiginoso: dal 78% al 10%. Va detto, però, che al momento l’esperienza lavorativa riguarda una quota ancora marginale di persone. Basti pensare che, in Italia, i detenuti stranieri sono circa 15.000. Insomma, c’è ancora molta strada da fare. “La politica dica no ai voti della mafia” di Francesco Grignetti La Stampa, 29 gennaio 2018 Da Reggio Calabria l’appello del procuratore Cafiero ai candidati alle prossime elezioni. Tra carenze di organico e i tempi lunghi dei processi si inaugura il nuovo Anno giudiziario. Ecco gli eterni mali della giustizia, secondo i magistrati che aprono l’Anno giudiziario: la prescrizione che si abbatte su troppi processi, le carenze negli organici, i tempi lunghi dei processi, la devianza minorile, l’allarme terrorismo, la corruzione dilagante, le mafie vecchie e nuove, e poi il rischio di infiltrazioni della criminalità organizzata nelle aree colpite dai recenti terremoti. Da Reggio Calabria il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho ha lanciato un appello a chi è pronto a candidarsi: “Nei confronti della criminalità organizzata la politica deve assumere il medesimo atteggiamento scelto dalla Chiesa, con la scomunica dei mafiosi. Dire cioè a chiare lettere a chi si avvicina per offrire voti e protezione: “Voi siete esclusi dalle nostre scelte”“. Le cerimonie di ieri sono anche un momento di riflessione della magistratura su sé stessa. “La ricerca del consenso sociale - ha detto con parole soppesate il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone - non è il nostro compito né il nostro fine. Il pm deve fare indagini a 360 gradi senza alcun pregiudizio e senza fermarsi alle apparenze, ma sottoponendo tutto a un esame critico”. Mafie, crescono sempre più quelle cinesi e nigeriane - Non c’è solo Mafia Capitale a Roma, su cui peraltro la procura generale ha fatto ricorso in appello. Ironizza il procuratore generale di Roma, Giovani Salvi: “Dunque a Roma la mafia non esiste! La Capitale deve essere risarcita per il suo buon nome infangato!”. Dappertutto si moltiplicano organizzazioni mafiose, anche straniere e fuori dagli schemi tradizionali. È quanto segnala da Firenze il procuratore distrettuale antimafia Giuseppe Creazzo: “La Toscana è terra di conquista per le organizzazioni mafiose, sia quelle classiche sia per le cosiddette nuove mafie”. E poi ci sono i cinesi. “Forte di una consolidata presenza sul territorio, sono in grado di esercitare un incisivo controllo sulla propria comunità”, sottolinea il procuratore generale di Firenze, Marcello Viola. Il tema torna a Torino. Denuncia il procuratore generale Francesco Enrico Saluzzo: “La costituzione dei cosiddetti “locali” della ‘ndrangheta non ha risparmiato quasi nessuna delle province del Piemonte”. A Brescia i clan stranieri crescono di pari passo con l’immigrazione clandestina. E a Palermo hanno scoperto metodi mafiosi in clan nigeriani persino nel quartiere ad alta mafiosità di Ballarò. Preoccupante aumento di rapine a mano armata tra i minori - È un tragico boom, quello della criminalità minorile. In Campania, ad esempio. “Violenze sconvolgenti che vedono minorenni come protagonisti e come vittime - denuncia Luigi Riello, procuratore generale non costituiscono un’amara sorpresa inflittaci dal destino cinico ma solo l’ultimo di una catena di fatti che concretizzano gravissime ferite al livello di civiltà e di vivibilità”. le statistiche parlano di un calo dei reati commessi da minori. Però. “Un anno fa c’erano le stese, sparatorie tra le strade della città. Adesso registriamo rapine con armi perpetrate ai danni di banche, supermercati, uffici postali da parte di minorenni spregiudicati che agiscono spesso a volto scoperto perché incuranti di essere identificati”. A Milano, “pur non ravvisando la drammatica criticità del fenomeno tristemente noto delle “baby gang” dilagante in altre città, vi sono tuttavia situazioni a rischio”, dice la presidente della Corte d’Appello di Milano, Ariana Tavassi, che invoca “misure rieducative nei confronti di adolescenti e giovani a rischio di disadattamento perché privi di un adeguato indirizzo nell’ambito familiare”. Tra loro, “una parte rilevante è rappresentata da minori stranieri non accompagnati”. Bene i gruppi di lavoro sulle violenze in famiglia - Le donne sotto attacco. I numeri di stalking, stupri, femminicidi, sono spaventosi. Così a Firenze, dove si registrano 17 vittime di sesso femminile: “Un fenomeno - dice il procuratore generale Marcello Viola - di intollerabile drammaticità. Una tendenza assolutamente allarmante, che si assomma a quella più generale che ha visto il reiterarsi di numerose forme di violenza, da quella psicologica e fisica a quella sessuale, dagli atti persecutori dello stalking allo stupro”. Così a Bologna, come da relazione di Ignazio De Francisci: “La nostra regione è stata investita nei mesi scorsi da una ondata di violenza veramente impressionante; omicidi, stupri, violenze familiari. Il distretto di Bologna è ai primissimi posti in Italia per questo tipo di reati, francamente un record del quale avremo tutti fatto a meno”. Così nella civile Trento: “Sono un aumento i reati di stupro, stalking e traffico di stupefacenti”, dice Gloria Servetti, presidente della Corte di Appello. Sembrano funzionare a Roma i gruppi di lavoro. Ricorda il pg Giovanni Salvi i 4 casi di femminicidio rispetto ai 5 dello scorso anno e “ben sette tentativi, spesso non portati a termine grazie all’intervento tempestivo delle forze dell’ordine”. Corruzione, la società e assuefatta - La corruzione non indietreggia, anzi. E la società mostra segni di assuefazione. A Palermo, il procuratore Francesco Lo Voi lamenta: “La corruzione si diffonde a tutti i livelli, senza che venga avvertita come una delle forme di inquinamento più grave della nostra società. Manca insomma la ripulsa sociale”. C’è stato un notevole aumento di procedimenti per corruzione, concussione e malversazione. “Reati - gli fa eco il pg Roberto Scarpinato - che chiamano in causa non solo i soggetti tipici della delinquenza professionale, ma coloro che sono i colletti bianchi, appartenenti ai piani alti della piramide sociale. È il quadro di un collasso etico e di una deriva criminale di segmenti significativi della classe dirigente”. Ma anche a Firenze sono aumentate le iscrizioni per delitti contro la pubblica amministrazione. “Il dato appare tuttavia fin troppo modesto di fonte alla gravità e alla diffusione del fenomeno, come comunemente percepito”, sostiene il procuratore generale Marcello Viola. E dice il pg di Roma, Giovanni Salvi, a margine della vicenda Consip: “Si evidenzia un sistema di partecipazione alle gare pubbliche che ne prevede la sistematica turbativa, attraverso accordi tra grandi imprese”. Notifica al difensore nulla se l’imputato ha eletto domicilio di Anna Larussa altalex.com, 29 gennaio 2018 Cassazione penale, SS.UU., sentenza 29/12/2017 n° 58120. In caso di dichiarazione o di elezione di domicilio dell’imputato, la notificazione della citazione a giudizio mediante consegna al difensore di fiducia anziché presso il domicilio dichiarato o eletto, produce una nullità a regime intermedio, che non è sanata dalla mancata allegazione da parte del difensore di circostanze impeditive della conoscenza dell’atto da parte dell’imputato. È questo il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione in merito alla esistenza o meno di un onere dimostrativo gravante sul difensore che intende eccepire la nullità della notifica eseguita a sue mani anziché nel domicilio dichiarato o eletto, e all’ampiezza dello stesso onere. Il contrasto interpretativo e la questione di diritto - La questione era stata rimessa all’Autorevole Consesso dalla Quarta Sezione penale della Corte di Cassazione investita del ricorso proposto da una persona, condannata in entrambi i gradi di merito per reati inerenti violazioni del codice della strada: il ricorrente lamentava che la trattazione dell’appello fosse avvenuta in assenza del medesimo, essendo stata respinta l’eccezione di nullità sollevata dal suo difensore, in ordine alla notifica del decreto di citazione per il giudizio di appello, non presso il domicilio dichiarato, bensì presso il medesimo difensore, che tuttavia nell’atto di nomina aveva dichiarato di non accettare notifiche ex art. 157 comma 8bis c.p.p.. La Corte territoriale aveva assunto sul punto che, essendo l’imputato assistito da un difensore di fiducia, quest’ultimo non avrebbe dovuto limitarsi a proporre l’eccezione, per vero proposta tempestivamente in limine, ma avrebbe dovuto rappresentare al giudice circostanze specifiche da cui desumere che, nonostante il rapporto fiduciario, la parte non avesse avuto conoscenza dell’atto. Nell’ordinanza di rimessione la Quarta Sezione registrava l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sul problema interpretativo connesso al seguente quesito: “Se, in caso di dichiarazione o elezione di domicilio dell’imputato, la nullità della citazione a giudizio, che sia stata eseguita mediante consegna al difensore di fiducia anziché presso il domicilio dichiarato o eletto, possa essere sanata qualora il difensore, nel dedurre la nullità, non abbia allegato circostanze impeditive della conoscenza dell’atto da parte dell’imputato”. Ed invero, secondo una parte della giurisprudenza di legittimità, ai fini della declaratoria della nullità è sufficiente la mera tempestiva proposizione dell’eccezione, indipendentemente dall’allegazione di circostanze impeditive della conoscenza dell’atto (v. Cass. Pen. Sez. V, n. 8478/2017, Rv. 269453; Cass. Pen., Sez. V, n. 4828/ 2016, Rv. 265803; Cass. Pen., Sez. II, n. 41735/2015, Rv. 264594; Cass. Pen., Sez. V, n. 8108/2007, Rv. 236522). Secondo un diverso orientamento, il difensore non può limitarsi a denunciare l’inosservanza della norma processuale, ma deve anche rappresentare al giudice di non avere l’omessa notifica al domicilio dichiarato o eletto consentito all’imputato la conoscenza dell’atto e deve eventualmente avvalorare l’affermazione con elementi che la rendano credibile eventualmente avvalorando tale affermazione con elementi che la rendano credibile (Cass. Pen Sez. IV, n. 2416/2017, Rv. 268883; Cass. Pen. Sez. III, n.47953/2016, Rv.268654; Cass. Pen., Sez. IV, n. 8592/2016, Gervasoni, Rv. 266369; Cass. Pen., Sez. IV, n. 44132/2015, Longoni, Rv 264830). La sentenza - Le Sezioni Unite hanno premesso alla soluzione del problema interpretativo sottoposto al loro esame un chiarimento sul diverso ambito applicativo del comma 8 bis dell’art. 157 c.p.p. (8-bis. Le notificazioni successive sono eseguite, in caso di nomina di difensore di fiducia ai sensi dell’articolo 96, mediante consegna al difensore. Il difensore può dichiarare immediatamente all’autorità che procede di non accettare la notificazione. Per le modalità della notificazione si applicano anche le disposizioni previste dall’articolo 148, comma 2-bis.) e del comma 4 dell’art. 161 c.p.p. (4. Se la notificazione nel domicilio determinato a norma del comma 2 diviene impossibile, le notificazioni sono eseguite mediante consegna al difensore. Nello stesso modo si procede quando, nei casi previsti dai commi 1 e 3, la dichiarazione o l’elezione di domicilio mancano o sono insufficienti o inidonee. Tuttavia, quando risulta che, per caso fortuito o forza maggiore, l’imputato non è stato nella condizione di comunicare il mutamento del luogo dichiarato o eletto, si applicano le disposizioni degli articoli 157 e 159). La prima disposizione - hanno osservato - trova applicazione dopo che sia stata eseguita, secondo le modalità dei primi otto commi dell’art. 157, la prima notifica all’imputato non detenuto; essa, infatti, regola le modalità della notificazione all’imputato di cui non risulti ignoto il luogo di residenza o di domicilio. L’ art. 161, comma 4, è invece una modalità di notificazione per il caso in cui non sia stato possibile eseguire tale adempimento nel domicilio dichiarato, eletto o determinato a norma del comma 2 (testualmente in sentenza “Quando si deve effettuare la prima notificazione all’imputato non detenuto, che non abbia eletto o dichiarato domicilio, si deve pertanto procedere in uno dei modi consecutivi previsti dall’art. 157 c.p.p., primi otto commi; una volta effettuata regolarmente la prima notificazione, se l’imputato provvede a nominare il difensore di fiducia, tutte le successive notificazioni si effettuano mediante consegna al difensore. Se, invece, vi è stata dichiarazione o elezione di domicilio - e, dunque, vi è stato un primo contatto tra l’imputato e i soggetti indicati nell’art. 161 c.p.p. - devono essere seguite direttamente le forme dettate da quest’ultima disposizione del codice di rito”). Ad avviso delle Sezioni Unite, il diverso ambito di operatività delle due norme non consente di affermare la prevalenza del “domicilio legale” (cioè della notifica al difensore ai sensi dell’art. 157, comma 8 bis) - che si determina soltanto nel caso in cui sia stato necessario espletare, per la prima notificazione, le procedure di cui ai precedenti commi dell’art. 157 - sul domicilio dichiarato o eletto: in caso infatti di dichiarazione o elezione di domicilio, la notifica deve essere effettuata presso il domicilio dichiarato o eletto, e, solo in caso di inidoneità della dichiarazione o elezione, o di assenza, non meramente temporanea, dell’imputato, può essere eseguita presso il difensore, anche se nominato d’ufficio, ma ai sensi dell’art. 161, comma 4. Quest’ultima disposizione, ispirata a una logica di contemperamento tra il diritto di difesa e le ragioni della celerità del processo, trova applicazione in evenienze patologiche quali il rifiuto di dichiarare o eleggere domicilio ovvero la mancata comunicazione di mutamenti successivi alla dichiarazione o elezione (art. 161 c.p.p., comma 1), l’impossibilità di eseguire le notifiche nel c.d. “domicilio determinato”, l’insufficienza o inidoneità della dichiarazione o elezione (art. 161 c.p.p., comma 4) ed è assimilabile sotto questo profilo ad altre ipotesi in cui è permessa la consegna al difensore perché sussistono altre situazioni patologiche come la latitanza o l’evasione (art. 165 c.p.p.) ovvero l’irreperibilità (art. 160 c.p.p.). Fuori da questi casi, quando l’imputato ha chiesto la notifica presso un dato domicilio, non si può ritenere la nullità della notifica all’imputato sanata dalla notifica al difensore se non vengono provate circostanze impeditive della conoscenza. Ciò in quanto, in mancanza di una sanatoria codificata, il rapporto fiduciario non può ex sé portare alla generalizzata conclusione che la notifica di un atto presso il difensore di fiducia, seppur irrituale, sia comunque sanata in assenza di deduzione da parte del difensore o dell’imputato circa la conoscenza dell’atto medesimo. Le Sezioni Unite hanno quindi escluso che il difensore che intenda eccepire l’invalidità della notifica (per omessa citazione al domicilio dichiarato o eletto) debba dimostrare o comunque allegare anche l’interruzione di comunicazioni con il proprio assistito. Facendo applicazione di tali principi nel caso sottoposto al loro esame hanno pertanto ritenuto tempestivamente formulata l’eccezione di nullità del decreto di citazione nel giudizio d’appello da parte dell’avvocato del ricorrente, assumendo che lo stesso, in presenza di dichiarazione di domicilio da parte dell’imputato e di successiva nomina, nel contesto della quale lo stesso avvocato aveva dichiarato di non accettare le notifiche ai sensi dell’art. 157 c.p.p., comma 8 bis, non era gravato da alcun onere in relazione alla perdurante esistenza del rapporto fiduciario. Di qui l’annullamento della sentenza con rinvio ad altra sezione della Corte territoriale per un nuovo giudizio. Corruzione propria, non basta la circostanza dell’avvenuta dazione di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 29 gennaio 2018 Dai finanziamenti societari verso partiti politici all’abuso di ufficio, dalla responsabilità amministrativa degli enti alla corruzione propria. Sono i temi affrontati dalla Cassazione, sezione VI penale, con la sentenza n. 41768 del 2017. Andiamo con ordine e vediamo in dettaglio le varie questioni. Contributo ai partiti politici - Per quanto riguarda la liceità del contributo ai partiti da parte di società i supremi giudici ricordano che (in base all’articolo 7, comma 2, della legge 2 maggio 1974 n. 195, è necessario che l’operazione sia stata deliberata dall’organo sociale competente e regolarmente iscritto in bilancio: entrambi i requisiti devono sussistere e conseguentemente a realizzare l’illegittimità dell’erogazione è sufficiente l’assenza di uno solo (da ciò deriva, quindi, che rientrano nell’ambito di operatività della fattispecie incriminatrice i finanziamenti indiretti, e per tali devono intendersi non solo quelli mascherati sotto un diverso nomen iuris, ma anche quelli erogati per interposta persona). Pur trattandosi di reato a concorso necessario, quello di finanziamento illecito a partito politico di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974 n. 195, ammette la non punibilità di uno dei due concorrenti necessari per difetto di dolo. In questa prospettiva, ritenuta l’autonomia possibile della responsabilità del “finanziatore” e del “finanziato”, con la conseguente configurabilità del reato nonostante l’assenza del dolo in capo al “finanziato”, perché il reato sia a quest’ultimo ascrivibile, sotto il profilo del dolo, occorre dimostrare che chi riceve il finanziamento conosca l’appartenenza del denaro (o del servizio) alla società nonché l’insussistenza delle due condizioni (difetto di deliberazione dell’operazione da parte dell’organo sociale competente o difetto di regolare iscrizione dell’operazione in bilancio), le quali rendono illecita la contribuzione. Abuso d’ufficio - La Cassazione poi, sul fronte “abuso di ufficio” chiarisce che scatta anche in caso di violazione di norme procedimentali, quando è commessa intenzionalmente e procura un danno o un vantaggio patrimoniale che, in assenza di tale illegittimità, non sarebbero realizzabili o diverrebbero oggetto di una prospettiva di realizzazione differita nel tempo e altamente improbabile, o comunque caratterizzata da contenuti decisori significativamente diversi. Infatti, le violazioni di norme procedimentali inidonee a integrare il requisito della violazione di legge o di regolamento devono intendersi limitate solo a quelle destinate a svolgere la loro funzione solo all’interno del procedimento senza però incidere in modo diretto e immediato sulla fase decisoria. Responsabilità amministrativa delle persone giuridiche - Per quanto riguarda la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità, la competenza a conoscere degli illeciti amministrativi dell’ente “appartiene al giudice penale competente per i reati dai quali gli stessi dipendono”, di guisa che la competenza del giudice penale in riferimento alla responsabilità degli enti è una competenza “derivata”, senza alcun adattamento, da quella per il reato presupposto, il quale è imputabile esclusivamente alle persone fisiche. Per l’effetto, poiché nell’ambito della disciplina della competenza rientra anche quella relativa alla connessione, la competenza, nel processo a carico dell’ente, può essere determinata anche per connessione rispetto a un reato addebitato esclusivamente a persone fisiche, quando queste sono imputate anche per ulteriori reati, i quali costituiscono il presupposto per la responsabilità amministrativa dell’ente. Corruzione propria - Per ultimo, il delitto di corruzione propria. La sesta sezione di Piazza Cavour sottolinea che a fini dell’accertamento, nell’ipotesi in cui risulti provata la dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale, è necessario dimostrare che il compimento dell’atto contrario ai doveri d’ufficio sia stato la causa della prestazione dell’utilità e della sua accettazione da parte del pubblico ufficiale, non essendo sufficiente a tal fine la mera circostanza dell’avvenuta dazione. Nella motivazione, la Corte ha chiarito, da un lato, che l’elemento costituito dalla prova dell’avvenuta dazione è ancor meno significativo quando l’erogazione risulta contabilizzata, giustificata e perfettamente documentata; e, dall’altro, comunque, che la prova della dazione ben può costituire un indizio, sul piano logico, ma non anche, da solo, la prova della finalizzazione della stessa al comportamento antidoveroso del pubblico ufficiale, cosicché è necessario valutare tale elemento unitamente alle altre circostanze di fatto acquisite al processo secondo cui l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti. Sempre in sede di motivazione, è stato chiarito, da un lato, che l’elemento costituito dalla prova dell’avvenuta dazione è ancor meno significativo quando l’erogazione risulta contabilizzata, giustificata e perfettamente documentata; e, dall’altro, comunque, che la prova della dazione ben può costituire un indizio, sul piano logico, ma non anche, da solo, la prova della finalizzazione della stessa al comportamento anti-doveroso del pubblico ufficiale, cosicché è necessario valutare tale elemento unitamente alle altre circostanze di fatto acquisite al processo secondo cui “l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti. Si tratta di conclusione convincente giacché il paradigma normativo dell’articolo 319 del Cp è esplicito nel significare che la dazione indebita, dal corruttore al corrotto, deve essere finalizzata all’impegno di porre in essere, ovvero alla già effettuata realizzazione, di un atto/comportamento contrario ai doveri d’ufficio da parte del soggetto munito di qualifica pubblicistica. Ne discende che la prova della dazione indebita di un’utilità in favore del pubblico ufficiale ben può costituire, logicamente, un indizio in tal senso, di per sé solo, tuttavia, insufficiente a dare contezza che essa sia preordinata al comportamento anti-doveroso del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio: donde la necessità di un più robusto costrutto probatorio che, in assenza di una prova diretta, si conformi al dettato dell’articolo 192, comma 2, del Cpp, in ambito indiziario (cfr. in tal senso, di recente, Sezione VI, 18 luglio 2017, Alfano e altro)”. Orientamenti precedenti - Nello stesso senso, sempre di recente, sezione VI, 6 maggio 2016, Biagi, laddove, in particolare, si è precisato che la prova della dazione indebita assume una valenza indiziaria meno concludente nel caso in cui l’utilità sia corrisposta a un terzo. Se il figlio inventa i bulli, i genitori ne pagano i danni di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 29 gennaio 2018 Tribunale di Savona, sentenza 79 del 22 gennaio 2018. Inventarsi di essere vittima dei bulli può costare caro ai genitori del minore che ha mentito. Rischiano infatti di dover risarcire i danni a chi è stato ingiustamente accusato di bullismo. È successo in Liguria: il Tribunale di Savona - con la sentenza 79 del 22 gennaio - ha condannato il padre e la madre di un ragazzo a pagare 7.800 euro a titolo di danno morale al minore che aveva accusato ingiustamente e la stessa cifra a sua madre, oltre a circa mille euro di danni patrimoniali. Il fatto - La sentenza trae origine da una denuncia presentata da un ragazzino di 11 anni, tramite la madre, che aveva dichiarato di essere vittima di atti di bullismo - in particolare lesioni, richieste di denaro, minacce anche con armi - che sarebbero stati compiuti da tre minorenni nei bagni della scuola. Le indagini portarono all’individuazione dei tre autori, uno dei quali aveva compiuto 14 anni e poteva quindi essere imputabile. Il presunto autore in quell’occasione aveva dovuto nominare un avvocato ed era stato interrogato, essendo indagato per rapina, estorsione, lesioni e porto d’armi. Un capo di imputazione allarmante, se non fosse che dopo qualche giorno la presunta vittima ha ritrattato, dichiarando di essersi inventato ogni cosa. Da qui il contrattacco dei genitori del ragazzo accusato che hanno deciso di citare in giudizio i genitori della falsa vittima, sostenendo che la loro vita era stata rovinata dalle accuse infondate. La sentenza - Per il giudice non ci sono dubbi: la gravità della menzogna è tale da dimostrare, senza possibilità di prova contraria, la mancanza di educazione del figlio, colpevole di essersi inventato fatti così preoccupanti. A nulla rileva l’età del minore né il fatto che i genitori avessero chiesto di poter sentire, a propria difesa, dei testimoni. Il minore che mente inventandosi dei reati commette infatti calunnia e questo non lascia dubbi sulla culpa in educando dei genitori. La responsabilità non consiste tanto nel non aver impedito il verificarsi del fatto, ma nella condotta precedente, ovvero nella violazione del dovere di educare e istruire i figli che grava su ogni genitore in base all’articolo 147 del Codice civile. Questo obbligo - spiega il giudice - consiste nella “costante opera educativa, finalizzata a correggere comportamenti non corretti e a realizzare una personalità equilibrata”, consapevole anche della responsabilità derivante dalle proprie bugie. La quantificazione del danno - Per stabilire l’entità del danno il giudice ha nominato un consulente tecnico d’ufficio che ha quantificato in 100 giorni l’invalidità temporanea subita dalla madre e dal figlio, corrispondente ai giorni di ansia e paura trascorsi prima dell’archiviazione del caso. Si legge nella sentenza che la madre “ha vissuto in quanto genitrice di un piccolo delinquente il fallimento del proprio ruolo genitoriale” e per questo ha diritto in proprio a un risarcimento del danno non patrimoniale, liquidato in una somma superiore a quella stabilita dalle tabelle del tribunale di Milano, cioè in 120 euro al giorno. A nulla vale poi l’eccezione dei genitori dell’accusatore che avevano puntato il dito contro le pagine Facebook della madre del presunto autore che non facevano trasparire alcuno stato d’ansia. Per il giudice, Facebook “non può certo essere considerato un diario sempre attendibile della vita quotidiana, laddove conta apparire piuttosto che essere, tanto che il consulente tecnico d’ufficio ha accertato l’invalidità temporanea in capo alla madre”. La giurisprudenza - Non è la prima volta che i tribunali accendono un faro sulla responsabilità genitoriale in caso di episodi di bullismo, ma la pronuncia mette in guardia sull’importanza di dire la verità, soprattutto quando una bugia può far avviare un processo penale a carico di altri. Vero è che non sempre negli episodi di bullismo la vittima ha una reale capacità di autodeterminazione e la paura può giocare un ruolo importante. Per i giudici però vale l’ultima parola del ragazzo che dichiara di aver mentito e così non lascia scampo ai genitori. È infatti un loro dovere educare i figli alla lealtà e accertarsi che stiano dicendo la verità, soprattutto in casi come quelli di bullismo in cui spesso le responsabilità sono sovrapposte e non facili da accertare nella loro reale portata. La norma di riferimento è l’articolo 2048 del Codice civileche pone in capo ai genitori la responsabilità civile per i fatti commessi dai figli minorenni, a meno che non provino di non aver impedito il fatto. Sono già molti i casi in cui i giudici non hanno concesso ai genitori la prova contraria perché il fatto era ritenuto talmente grave da rendere inutile ogni tentativo di discolparsi. Era già successo ad Alessandria dove il Tribunale (sentenza 439 del 16 maggio 2016) aveva ritenuto responsabili i genitori del minore che non si era dissociato da un’azione di cyberbullismo, in cui più ragazzi stavano filmando per poi diffondere in rete video violenti e offensivi ai danni di un altro minore. Lo aveva già stabilito anche la Cassazione, che aveva richiamato l’attenzione sul fatto che tutti coloro che prendono parte a un episodio di bullismo, sia che abbiano avuto un ruolo di primo piano o solo un ruolo secondario, sono solidalmente responsabili. Se si tratta di minorenni, del danno causato rispondono i genitori (sentenza 20192 del 25 settembre 2014). Maggiori e più articolate sono quindi le responsabilità genitoriali che oggi includono anche la corretta informazione sull’uso dei dispositivi digitali. Dopo le recenti riforme in tema di cyberbullismo, l’educazione digitale diventa un’emergenza. Se da una parte si sono ampliati i poteri di azione dei minori che abbiano compiuto 14 anni, dall’altra i genitori si devono concentrare sull’importanza di educare i figli alla consapevolezza dei propri diritti e doveri, sapendo che una loro menzogna può portarli dritti in tribunale. Peculato e truffa: la differenza è nella modalità del possesso del denaro di Giuseppe Amato Il Sole Ore, 29 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 22 dicembre 2017 n. 57521. La differenza tra il peculato e la truffa va individuata nel fatto che nel primo caso il possesso e la disponibilità del denaro per fini istituzionali costituiscono un antecedente della condotta criminosa, mentre nella truffa l’impossessamento della res è l’effetto della condotta illecita: donde il corollario per cui è al rapporto tra possesso, da una parte, e artifizi e raggiri, dall’altra, che deve aversi riguardo, nel senso che, qualora questi ultimi siano finalizzati a mascherare l’illecita appropriazione da parte dell’agente del denaro o della res di cui già aveva legittimamente la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, ricorrerà lo schema del peculato; qualora, invece, la condotta fraudolenta sia posta in essere proprio per conseguire il possesso del denaro o della cosa mobile altrui, sarà integrato il paradigma della truffa aggravata. Lo ha ribadito la Cassazione con la sentenza n. 57521 del 22 dicembre 2017. Costituisce affermazione consolidata quella secondo cui l’elemento distintivo tra il peculato e la truffa aggravata ai sensi dell’articolo 61, numero 9, del Cp va individuato con riferimento alle modalità del possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione. È ravvisabile, quindi, il peculato quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio si appropri del denaro o della cosa mobile altrui di cui abbia già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio; è ravvisabile, invece, la truffa aggravata qualora l’agente, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri, in funzione della condotta appropriativa del bene. Alla condotta di peculato può affiancarsi anche una condotta fraudolenta, finalizzata, però, non a conseguire il possesso del denaro o della cosa mobile, ma a occultare la commissione dell’illecito ovvero ad assicurarsi l’impunità: in tale ipotesi, deve ravvisarsi il peculato, nel quale - di norma - rimane assorbita la truffa aggravata, salva la possibilità, in relazione a specifici casi concreti, del concorso di reati, stante la diversa obiettività giuridica, la diversità dei soggetti passivi, il diverso profitto, il diverso momento consumativo (cfr., tra le altre, sezione VI, 6 maggio 2008, Savorgnano). In altri termini, ricorre il reato di peculato quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio si appropri del denaro o della cosa mobile altrui di cui abbia già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio; versandosi sempre in tema di peculato quando l’agente ponga in essere anche una condotta fraudolenta che non incida, però, sul possesso del bene, nel senso di conseguirne la disponibilità, ma abbia la sola funzione di mascherare, almeno all’apparenza, la commissione del delitto. Ricorre, invece, la truffa aggravata ex articolo 61, numero 9, del Cp quando l’agente, non avendo il possesso del bene, se lo procuri fraudolentemente in funzione della contestuale o successiva condotta appropriativa (cfr. sezione VI, 13 dicembre 2011, Zedda; nonché, sezione VI, 28 febbraio 2017, Proc. Gen. App. Catania ed altro in proc. Trombatore). Padova: il direttore del carcere “dare un significato alla pena, la città condivida lo sforzo” di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 29 gennaio 2018 Claudio Mazzeo chiede più coinvolgimento del Comune. “La comunità capisca che restituiamo persone migliori”. Non è l’esperienza a mancargli, ché lui di carceri ne ha girati parecchi lasciando su ognuno la propria impronta, e non nel casellario giudiziario. Per l’esattezza è stato nelle Case circondariali di Trapani, Catania, Caltagirone e gli ultimi otto anni li ha passati a Cuneo. Come direttore, giusto per chiarire. Si chiama Claudio Mazzeo classe 60, sposato, padre di due figli, catanese. Da 20 giorni è a Padova, nuovo direttore della casa di reclusione Due Palazzi, dopo Ottaviano Casarano che nel 2015 era arrivato al posto di Salvatore Pirruccio, direttore per 13 anni, fautore del carcere riabilitativo, promosso-rimosso nel periodo della prima inchiesta sul carcere per traffici di droga e telefonini. Mazzeo non è tipo che si trincera dietro la scrivania: in 20 giorni ha già incontrato i detenuti di quasi tutte le sezioni, a gruppi, e ne sta incontrandone le rappresentanze; ha incontrato i rappresentanti del coordinamento volontariato interno al Due Palazzi (una quarantina tra associazioni e cooperative, le più diverse: dalla chiesa Avventista alla grande cooperativa Giotto, pasticceria, call center e altro); ha incontrato i magistrati di sorveglianza (“siamo sulla stessa linea di tolleranza zero, e io lo ho già detto ai detenuti: chi sgarra si gioca le opportunità trattamentali”); vuole programmare con la Asl un presidio in carcere per ridurre il rischio suicidio tra i detenuti. È da solo Mazzeo, nel senso che la carenza di organico si traduce nell’assenza di un vice, ma lavora di concerto con i suoi più stretti collaboratori: da una parte il comandante della polizia penitenziaria Carlo Torres e il commissario Salvatore Parisi, ovvero la sicurezza; dall’altro Lorena Orazi (con tutto il personale amministrativo) responsabile dell’area educativa e cioè le possibilità di “trattamento”. Due anime che convivono e si intrecciano, al Due Palazzi, dove l’opportunità di studiare, lavorare e partecipare ad attività che viene offerta ai detenuti vuol dire un sovrappiù di lavoro per gli agenti di polizia penitenziaria (in sottorganico) i quali devono far fronte a un carcere in continuo movimento. Qualche numero: 537 i reclusi (lavorano in 280, 150 nelle cooperative e 130 con l’amministrazione carceraria, leggi pulizie, cucina, manutenzioni); 260 gli agenti più 50 del nucleo traduzioni (stando alla pianta organica dovrebbero essere 430) e 470 esterni che entrano in carcere chi tutti i giorni chi ogni tot: dagli insegnanti dell’Einaudi che da 30 anni sono presenti al Due Palazzi a quelli dei corsi Cpia (Centro istruzione adulti che fa capo all’istituto comprensivo Parini di Camposampiero), dalle cooperative ai volontari. Senza contare i gruppi di studenti e prof che partecipano agli incontri organizzati da Ristretti Orizzonti; quelli di preghiera con “pullmanate” di parrocchiani che la domenica entrano per la messa di don Marco Pozza, cappellano del carcere, o le squadre esterne che incontrano i giocatori detenuti di Palla al piede, gloriosa formazione di calcio del Due Palazzi. Direttore Mazzeo, lei arriva a dirigere la casa di reclusione Due Palazzi che è stata al centro di un’importante inchiesta sul traffico di droga e cellulari. “Sì, ma le criticità sono venute fuori, il che significa che il sistema dei controlli funziona. Noi abbiamo fiducia nella magistratura e la polizia penitenziaria ha collaborato al massimo nell’inchiesta interna, è stata determinante. E mi dispiace che vengano enfatizzate solo le criticità e non venga messo in risalto l’enorme lavoro che viene fatto in questo istituto così complesso. Da parte della polizia penitenziaria, per prima”. Ma il carcere di Padova è un’eccezione o questi problemi sono in realtà comuni a tutti gli istituti di pena? “Il problema dei cellulari è ovunque. Nel 2017 nelle carceri di tutta Italia ne sono stati sequestrati 540. In Francia è passata una legge che istituisce una postazione telefonica fissa nelle celle: il detenuto può chiamare solo persone autorizzate, anche ogni giorno. E, ripeto, al Due Palazzi i problemi sono emersi e sono stati trovati i responsabili. Non è detto che questo accada sempre”. Cosa pensa del telefono fisso in cella? “Ridurrebbe il fenomeno del traffico dei cellulari anche perché abbiamo verificato che poi i cellulari “clandestini” che entrano in carcere i detenuti li usano per chiamare i familiari”. Con che mezzi e modi affronterà il problema sicurezza? “Bisogna investire nei controlli ovviamente ma soprattutto bisogna far passare qui dentro la cultura della legalità. E questo sarà il mio sforzo. Anche se io mettessi dieci agenti ad ogni angolo, non risolverei il problema. Deve passare il messaggio che se entrano ancora droga e cellulari è una sconfitta per tutti, e i detenuti si giocano ogni opportunità trattamentale. Punto. Nessuna tolleranza. Sono convinto che riusciremo a veicolare questo messaggio proprio a partire dai detenuti”. I progetti che le stanno più a cuore? “Le attività formative professionali per i detenuti, che sono carenti. Vorrei implementare l’attività della Scuola edile per esempio. È fondamentale che i detenuti possano ottenere un titolo abilitante al lavoro, riconosciuto fuori”. Un’esperienza che esporterebbe dal carcere di Cuneo, che ha diretto per otto anni? “Avevamo avviato la scuola alberghiera. È stata un’esperienza molto positiva. Un progetto che potrebbe funzionare bene”. Direttore Mazzeo, ha qualcosa da chiedere e a chi? “Per prima cosa chiedo più coinvolgimento da parte del Comune, per esempio per i percorsi di risocializzazione. La comunità tutta, ogni singolo cittadino, deve percepire che il carcere ha una fondamentale funzione pubblica: restituire alla società una persona migliore, dare un significato alla pena. E questo è uno sforzo che deve essere condiviso. In sostanza, il Due Palazzi è a Padova, è un paese dentro la città, non può rimanere invisibile, abbandonato, rimosso. Le risorse veicolate sul carcere non sono “sprechi”, sono strumenti per risanare invece che condannare all’emarginazione e dunque alla reiterazione dei reati. Un detenuto che si ritrova fuori, magari a fine pena, senza dove andare, senza la speranza di un’occupazione, senza un appoggio, senza un tetto, solo o con la famiglia disastrata o lontana, anche se ha fatto tutti i percorsi “trattamentali” possibili, è facile che, extrema ratio, si rivolga agli unici riferimenti esterni che conosceva prima del carcere e che spesso sono quelli che in carcere lo hanno portato”. Il mondo esterno che entra in carcere: rischio o risorsa? “Io sono appena arrivato, questa è una realtà complessa e per me è una grossa sfida. L’attività del volontariato in carcere è un prezioso contributo, e lo stesso quella delle cooperative: i detenuti chiedono lavoro, è fondamentale nel percorso trattamentale della persona. Ho appena incontrato un detenuto, prima era la famiglia che si faceva carico di lui, adesso ha un lavoro in cooperativa: con che orgoglio, con che gioia mi ha raccontato che ora è lui che aiuta la sua famiglia, fuori”. Padova: la Polizia penitenziaria “siamo stati noi a stanare le mele marce” di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 29 gennaio 2018 Il determinante ruolo della Polizia penitenziaria: “Siamo in 260 e dovremmo essere 430”. “Siamo stati noi i primi a scovare ed eliminare le mele marce” e cioè gli agenti di polizia penitenziaria corrotti che facevano entrare cellulari e droga in carcere. A parlare sono Carlo Torres, commissario coordinatore ovvero comandante del reparto di polizia penitenziaria della casa di reclusione Due Palazzi, e Salvatore Parisi, commissario capo. Come avete condotto l’indagine interna sul traffico di cellulari che coinvolgeva vostri colleghi “infedeli”? “L’esito dell’inchiesta del 2014 è stato il frutto del coordinamento tra noi e la squadra mobile. Stanare la mela marcia è stata la cosa più difficile, perché sono persone che sanno come eludere sospetti. Siamo stati noi a fare i filmati per provare la corruzione di un agente. E il buon funzionamento dell’istituto sta in questo, nella capacità di rispondere “alla mela marcia”“. Adesso che aria tira al Due Palazzi? “La situazione è decisamente migliorata. Agenti infedeli non ce ne sono più. Quanto ai cellulari, noi facciamo il possibile ma è un problema endemico nelle carceri. Non ci sono criticità particolari, non aggressioni al personale e non abbiamo avuto suicidi”. La presenza del mondo esterno sotto forma di volontari aumenta il vostro lavoro sulla sicurezza. Come vi fate fronte? “Il Due Palazzi è un carcere a vocazione trattamentale, qui il poliziotto penitenziario ha due anime: quella primaria della sicurezza e quella di garantire la partecipazione e lo svolgimento delle attività. Una sorta di doppio lavoro che la maggior parte degli agenti svolge facendosi in quattro e mettendoci quel di più che fa la differenza. Fosse anche un sorriso. Il lavoro relativo al “trattamento” dei detenuti vuol dire sapere chi sono quelli che partecipano a un’attività e andarli prendere in sezione, accompagnarli nell’aula e poi riportarli su, cancelli su cancelli da aprire e chiudere, controlli, perquisizioni come da regolamento. Vuol dire accompagnare i gruppi che entrano, scrivere i nomi, controllare le persone, farle entrare, richiudere, farle uscire, ricontrollare i nomi e via. L’iter è infinito e puntiglioso”. Un bilancio? “Siamo in 260 e dovremmo essere in 430. Sosteniamo una grande mole di attività con sacrificio”. Trieste: sciopero della fame a staffetta per i diritti dei detenuti triesteprima.it, 29 gennaio 2018 A Trieste l’invito è stato immediatamente accolto dal Garante Comunale dei diritti dei detenuti, avvocato Elisabetta Burla, nonché dalle persone ristrette presso l’Istituto di via Coroneo. Il Garante Comunale ha aderito all’iniziativa e ha partecipato in prima persona allo sciopero della fame in data 23 gennaio. È stata Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale, a lanciare in questi giorni tramite Radio Carcere l’iniziativa dello sciopero della fame a “staffetta” a partire dal 23 gennaio, per rifocalizzare l’attenzione sulla riforma dell’ordinamento penitenziario. Dopo l’approvazione di alcuni dei decreti attuativi, attualmente all’esame della Commissione Giustizia della Camera, l’iter non si è concluso e i tempi per la definitiva approvazione non sembrano brevi. Per riportare l’attenzione della politica su questo importantissimo tema Rita Bernardini ha invitato ad aderire all’iniziativa non violenta anche le persone private della libertà attraverso varie forme di protesta non-violente, come lo sciopero della fame o lo sciopero del carrello. A Trieste l’invito è stato immediatamente accolto dal Garante Comunale dei diritti dei detenuti, avvocato Elisabetta Burla, nonché dalle persone ristrette presso l’Istituto di via Coroneo. Il Garante Comunale ha aderito all’iniziativa e ha partecipato in prima persona allo sciopero della fame in data 23 gennaio e si riserva di indicare altre ulteriori date in cui parteciperà allo sciopero della fame, evidenziando l’importanza dell’approvazione dei decreti ora all’esame della Commissione Giustizia della Camera, che prevedono un’esecuzione della pena conforme al dettato costituzionale e maggiormente rispettoso dei diritti fondamentali della persona attraverso un trattamento effettivamente rieducativo tale per cui le persone condannate possano intraprendere un reale e costruttivo percorso di risocializzazione. Spiega l’avv. Elisabetta Burla: “Anche a Trieste si confida che, approvata la legge di bilancio, possano essere recuperate attraverso decreti integrativi anche le tematiche sull’affettività, sul lavoro, sulla liberazione anticipata e sull’adeguamento delle norme dell’ordinamento penitenziario alle esigenze educative dei minori detenuti. L’esecuzione della pena deve essere effettivamente rieducativa e risocializzante e il lavoro è uno degli strumenti necessari; costituisce poi lo strumento essenziale per raggiungere un’autonomia economica che può dare sostentamento alla persona privata della libertà anche nel momento del reinserimento sociale, per sé e per la propria famiglia. Parimenti la tematica dell’affettività necessita di un immediato intervento: i detenuti hanno diritto a mantenere e coltivare i rapporti con i propri cari e in primis con i figli, altrimenti la pena diventa tale anche per i familiari incolpevoli”. Le persone private della libertà a Trieste hanno evidenziato nel tempo molteplici difficoltà anche proprio nella possibilità di mantenere adeguati rapporti con i propri cari e stanno seguendo, con molta attenzione, l’iter burocratico che si confida possa portare all’approvazione, in tempi brevi, dei decreti. Attualmente 115 persone - comprensive sia della sezione maschile sia di quella femminile - hanno accolto l’invito di Rita Bernardini ponendo in atto la protesta non violenta sia attraverso la c.d. “battitura” in due fasce orarie sia attraverso lo sciopero del carrello, chiedendo all’amministrazione penitenzia che il cibo non somministrato ai detenuti -tramite appunto carrello - venga donato ad associazioni operanti nel volontariato a favore delle persone in difficoltà. Va da sé che se non si investe sulla rieducazione e il reinserimento sociale dei detenuti, il problema carcere non potrà trovare fine. L’invito a partecipare all’iniziativa non violenta per scandire i tempi della riforma è rivolto a tutti, comunicando l’adesione a radiocarcere@radioradicale.it Torino: “troppi processi inutili, bisogna depenalizzare i reati non gravi” di Federica Cravero La Repubblica, 29 gennaio 2018 L’allarme dei magistrati. Nel 2006 erano 10mila i procedimenti pendenti in Corte d’Appello oggi sono diventanti 23 mila. La sintesi del problema sta nelle parole prese in prestito dal procuratore generale Francesco Enrico Saluzzo al filosofo Herbert Spencer: “Il tempo è ciò che l’uomo è sempre intento a cercare di ammazzare, ma che alla fine ammazza lui”. Ed è stato affrontando la “ morte della giustizia” in due gravissimi casi giudiziari - due abusi sessuali di ragazze minorenni dichiarati prescritti a 16 e 20 anni di distanza dai fatti - che sono iniziati i discorsi per l’inaugurazione dell’anno giudiziario a Torino, dopo un minuto di silenzio osservato per il Giorno della memoria. “Qualcuno non ha fatto fino in fondo il proprio dovere”, ha ammesso il presidente reggente della Corte d’appello di Torino Edoardo Barelli Innocenti subentrato da pochi giorni ad Arturo Soprano. Oltre alle responsabilità di chi ha trattato nei diversi gradi di giudizio quei reati, il suo discorso si orienta verso proposte concrete che possano evitare il ripetersi di simili incresciosi casi. A partire da “una decisa depenalizzazione, perché la sanzione penale sia riservata ai casi più gravi di violazione della legge”, argomenta Barelli Innocenti. Invece in Italia è accaduto negli ultimi anni esattamente l’opposto, facendo approdare in tribunale questioni, come la rivendicazione di diritti che prima non venivano affrontati dalla giustizia. Con il risultato che i processi penali pendenti alla corte d’appello di Torino erano diecimila nel 2006 e dieci anni sono diventati 23 mila, allungando ancora di più i tempi per arrivare a una sentenza. Un problema enorme per tutti: vittime, imputati e anche per gli enti, le associazioni o le aziende che sono penalizzati nelle loro attività da una giustizia lenta e incerta. “I cittadini hanno fiducia o no nella giustizia del nostro Paese? - si chiede quindi il procuratore generale Saluzzo - Se dovessi rispondere a caldo, direi di no, che non ne hanno o che comunque non ne hanno a sufficienza. E quando parlo di fiducia non intendo consenso, ma credibilità. La fiducia è merce rara che si conquista e si perde in un giorno. Vi sono già sufficienti “ potentati” che tendono a gettare il discredito e l’ombra del sospetto su molte decisioni giudiziarie”. Anche da Michela Malerba, presidente dell’Ordine degli avvocati lancia l’allarme: “La giustizia tardiva è sempre percepita come una cattiva giustizia, ma la fretta genera mostri e ogni controversia richiede di essere trattata nel tempo necessario per una corretta delibazione”. “Piuttosto che aumentare le pene - continua Barelli Innocenti - è indispensabile arrivare ad una decisione rapida, con assoluzioni o condanne definitive in breve tempo, con pene giuste ed effettive, nell’interesse delle vittime, della collettività ( che paga i costi di processi inutili quando finiscono prescritti) e anche dello stesso imputato che, se condannato, deve scontare la pena non dopo dieci o venti anni dai fatti perché, dopo un così lungo periodo di tempo, potrebbe essere una persona diversa. E occorre una riforma della prescrizione che, così com’è, favorisce l’aumento indiscriminato degli appelli nella speranza di vedere tutto prescritto”. Sullo sfondo, l’irrisolta carenza di organico, sia del personale amministrativo, che vede 290 posti scoperti nel distretto su un totale di 1285, ovvero quasi il 25 percento, sia dei magistrati: “Il ministro ha avviato un piano di “ ripopolamento” ma io penso ai giovani - dice Saluzzo - e questo concorso è un affare per ricchi, che arriva dopo i cinque anni di università e gli anni della scuola di specializzazione o della pratica o del dottorato”. In una simile condizione di scarsità di personale - che ha il suo punto più basso a Ivrea, la “ cenerentola” d’Italia - non si può che notare l’elevata produttività degli uffici giudiziari, soprattutto nel settore civile che a differenza dei problemi del penale, mostra dati incoraggianti sullo smaltimento degli arretrati e sul rispetto dei tempi previsti dalla legge Pinto, 3 anni in primo grado e 2 anni per l’appello. “Ad oggi tutto si regge sul maggior lavoro di magistrati e personale amministrativo ai quali sono stati richiesti sforzi straordinari. Quanto potrà durare?”, è la sferzata del pg Saluzzo. Anche perché il lavoro per la magistratura non cala. Se sono in lieve calo alcuni reati predatori come furti e rapine, in aumento sono invece le violenze in famiglia e soprattutto “pervasiva rimane, nonostante i processi, la presenza in tutta la regione della ‘ ndrangheta - denuncia Saluzzo - Costoro, anche dal carcere riescono spesso a far trapelare ordini, direttive e a tenere saldamente in mano il potere”. Palermo: furti di pannolini e di bistecche, aumentano i ladri per disperazione di Claudia Brunetto e Francesco Patanè La Repubblica, 29 gennaio 2018 In crescita a Palermo i “fuorilegge per necessità”. Ecco le loro storie: dall’anziano che sottrae la cena alla madre scoperta a rubare per la figlia di 9 mesi. Rubano per poter mangiare una fetta di carne, per cambiare il pannolino ai figli, per riscaldarsi con un giubbotto. Sono i ladri “ per disperazione”, strozzati dalla crisi economica nella regione con il tasso di povertà più alto d’Italia. Persone che fino a quando ci sono riuscite, sono rimaste nella legalità. Lavoratori lasciati senza un impiego nell’arco di una notte, precari senza più nemmeno i contratti a termine e molti anziani con pensioni da poche centinaia di euro al mese. “L’indigenza e la crisi economica che hanno colpito soprattutto la Sicilia hanno fatto registrare un aumento di furti di energia elettrica, di gas e acqua - ha sottolineato il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato all’inaugurazione dell’anno giudiziario - Crescono anche i furti in abitazione, le estorsioni e le rapine. I numeri dicono che questi reati sono aumentati del dieci per cento”. La storia di Giusy parla più di ogni dato. È una mamma separata dello Zen e l’anno scorso è stata bloccata alla cassa di un Carrefour. Aveva un carrello pieno di pannolini, latte, biscotti e omogeneizzati, ma non i soldi per pagare. Ai poliziotti ha raccontato mesi di disperazione, senza lavoro e senza possibilità di assicurare alla sua bambina di 9 mesi latte e biscotti. “Abbiamo deciso di pagare per lei - raccontò in quell’occasione uno degli agenti - Abbiamo fatto una colletta di 20 euro ciascuno. Sappiamo che non abbiamo risolto i problemi di questa donna, ma almeno le abbiamo regalato un sorriso”. Come Giusy ci sono tante altre mamme costrette a rubare per procurarsi ogni giorno quello che serve ai loro figli. “Vivo alla Caritas - dice Luisa - Ma non nascondo che per necessità ho rubato quando non avevo nulla da dare da mangiare ai miei figli”. Giuseppe, settantenne con la pensione minima, è stato sorpreso con una confezione di bistecche sotto il giubbotto in un supermercato di un centro commerciale. Lo hanno bloccato i vigilantes che hanno chiamato la polizia. Agli agenti delle volanti l’anziano ha ripetuto: “Con la mia pensione non ce la faccio ad arrivare nemmeno a metà mese - ha detto tra le lacrime l’anziano - e queste bistecche sono la mia cena, non mangio carne da tre mesi”. A Brancaccio chi ha una famiglia da mantenere si arrangia come può. Alcuni ragazzi continuano a raccogliere e a rivendere il ferro trovato in strada e nei cassonetti, anche se sono appena usciti dalla galera proprio per lo stesso reato. “Non ci sono più sbocchi di lavoro - dice Maurizio Artale, presidente del centro Padre nostro di Brancaccio - Anche fare l’ambulante adesso è difficile. Così la microcriminalità aumenta e anche chi sconta una pena poi non sa come ricominciare. E in assenza di alternative, torna a delinquere, non c’è lavoro e viene assoldato dalla mafia con lo spaccio e con il pizzo”. La settimana scorsa, sono spariti anche i tombini di ghisa della rotonda Norman Zarcone. “Non abbiamo alternative - dice Pietro che ha 30 anni e quattro figli da mantenere - Sono finito in carcere perché mi hanno beccato con la motoape senza assicurazione piena di ferro. Ma ancora adesso faccio la stessa cosa per guadagnare venti euro al giorno quando va bene”. Casi come quelli della giovane mamma, dell’anziano che non mangiava carne da tre mesi, del padre di famiglia che arrestato per furto di ferro torna a rubare per mantenere i propri cari sono alcuni esempi delle centinaia di storie a Palermo di “ fuorilegge per necessità”. Un esercito che cresce di anno in anno e che non trova alternative per sopravvivere. “Sussiste un legame profondo tra questione criminalità e questione sociale - ha puntualizzato Scarpinato - Delegare solo al versante penale la repressione del fenomeno è un’azione che non può dare risultati. Se non ci sono politiche di inclusione sociale, se non aumenta il lavoro, non ci può essere una riduzione dei reati”. Ecco perché il centro Padre nostro, in questi anni, ha dato lavoro a 10 detenuti in esecuzione penale. Svolgono piccole, ma preziose mansioni per le attività del centro. Alcuni coltivano la terra e rivendono gli ortaggi che coltivano. “È una goccia nell’oceano - dice Artale - senza l’aiuto delle istituzioni, le associazioni da sole non possono farcela”. Benevento: quando la fattoria si trasforma in riscatto sociale di Alessandro Paolo Lombardo Il Mattino, 29 gennaio 2018 Alla fattoria sociale “Villa Mancini” di Ponte si raccolgono tutte le mattine uova fresche di galline felici, allevate a terra. Si realizzano bomboniere di tutti i tipi, pezzi di arredo e artigianato in legno. Al borgo sociale di Roccabascerana si realizzano manufatti tessili, si raccolgono erbe mediche da trasformare in oli essenziali o da utilizzare in gustose tisane e infusi solidali non particolari ed esotici ma del tutto privi del retrogusto del neo colonialismo (si pensi alle piantagioni di tè in Bangladesh, ancora oggi interessate da condizioni di sfruttamento del lavoro, anche infantile). All’“Orto di Casa Betania” di Benevento si producono ortaggi che vengono raccolti direttamente davanti all’acquirente. In tutti questi luoghi e nei centri “Sprar” gestiti dalla Caritas di Benevento il consorzio “Sale della Terra Onlus” (composto da!4coo-perative, quasi tutte sociali) realizza produzioni agricole e artigianali grazie al lavoro di tre categorie di persone: quelle soggette a misure alternative alla detenzione, migranti accolti negli “Sprar”, uomini e donne in situazione di fragilità psichica e familiare che partecipano a “Progetti Terapeutici Riabilitativi Individualizzati” (Ptri). Sono circa 200 le persone coinvolte da progetto, tra cui 88 ex detenuti, circa 50 migranti e 25 persone in condizioni di fragilità psichica. “Per queste persone - racconta Gabriella Debora Giorgione, consulente della comunicazione del consorzio - una bomboniera non è un oggetto da cerimonia, è una rinascita personale. Ogni singolo oggetto prodotto è un pregiatissimo pezzo di una nuova esistenza. È chiaro che lo scopo del progetto non quindi quello di realizzare vino, olio oppure pezzi d’arredo, ma di usare la filiera produttiva per produrre coesione sociale”. Alle rinascite personali si accompagna spesso la rinascita di terra incolte e abbandonate rese di nuovo feconde, attraverso il ripristino di antichi vigneti e uliveti: 1.200, ad esempio, sono le piante di olive rimesse in produzione, la metà delle quali della pregiata varietà locale “Ortice”. Ma il consorzio fatica a trovare nuove terre da affittare e utilizzare per permettere alle centinaia di persone svantaggiate già coinvolte di lavorare, e per poterne aiutare altre. Reggio Calabria: Sportelli di ascolto Agape e Tribunale per i minorenni ildispaccio.it, 29 gennaio 2018 Il Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, già impegnato nel progetto “Liberi di scegliere” per il sostegno educativo dei ragazzi provenienti da contesti familiari di criminalità organizzata, ha avviato un’altra iniziativa di rilevante impatto sociale, estendendo le sue finalità di tutela dei minori e delle famiglie mediante un raccordo con la rete sociale del territorio. È stato infatti siglato un protocollo d’intesa tra il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, il Centro Comunitario Agape, Save The Children ed Unicef, con l’obiettivo di attuare una trasversalità operativa a supporto dei bambini in difficoltà e delle famiglie in crisi. Sarà fornito un servizio multidisciplinare di ascolto informale ed esplicativo che risponderà alle esigenze di conoscenza dei diritti azionabili, dei possibili strumenti di tutela e della fruizione concreta dei servizi esistenti sul territorio, agevolando in tal modo il percorso verso una reale inclusione sociale. Il Presidente del Tribunale per i minorenni, Dott. Di Bella, a fronte della drammatica percentuale sulla povertà minorile in Calabria, strettamente correlata alla marginalità sociale e familiare, ha evidenziato l’importanza di un raccordo con il privato sociale locale e nazionale, al di la dell’impegno istituzionale del territorio talvolta non sufficiente, che sia in grado di generare sistemi virtuosi di potenziamento della tutela dei minori e delle famiglie. Pensando ai quartieri degradati di Arghillà, a Reggio Calabria, e della Ciambra, a Gioia Tauro, si comprende come l’esperienza dei Punti Luce di Save The Children - realizzati a Gioiosa, Scalea e San Luca - debba essere implementata anche in questi contesti per creare luoghi di aggregazione e inclusione sociale rispondenti ai bisogni di crescita dei minori. In tal senso, Raffaella Milano, referente nazionale di Save The Children, ha precisato come la sigla del protocollo costituisca un’esperienza pilota in Italia che dovrebbe estendersi anche in altri distretti. La stessa si è subito resa disponibile ad agire con nuove alleanze educative in altri territori a rischio, partendo proprio da Arghillà e recandosi per la visita del quartiere. Anche il Presidente dell’Agape Mario Nasone, puntando sull’apertura del Tribunale alla comunità, ha tratteggiato l’importanza di un “Tribunale amico”, attento ai bisogni dei più piccoli, che guardi al contesto chiedendo la collaborazione di tutta la rete associativa già attiva sul territorio, con lo scopo di arginare le condizioni di disagio ambientale, familiare e sociale, da cui derivano, quali epifenomeni disfunzionali, la dispersione scolastica, la devianza e la delinquenza minorile. Un ruolo significativo verrà svolto dagli avvocati della Camera Distrettuale Minorile di Reggio Calabria, rappresentata da Alessandra Callea, Giuseppe Marino e Pasquale Cananzi, i quali hanno espresso grande soddisfazione per la prosecuzione di una esperienza di collaborazione istituzionale già avviata con l’Autorità Giudiziaria minorile, che adesso si arricchirà di percorsi formativi rivolti alle scuole ed agli operatori, con l’obiettivo di calarsi nel mondo dei ragazzi, dei bambini e delle loro famiglie, ascoltando le loro istanze e supportando i soggetti che istituzionalmente sono preposti alla prevenzione dei disagi manifestati. L’avv. Lucia Lipari, in rappresentanza del gruppo di avvocati della “Marianella Garcia” dell’Agape, ha sottolineato l’importanza del coinvolgimento dei professionisti che credono nel valore sociale dell’attività professionale gratuita, a salvaguardia dei più deboli, ancor più significativa nell’ottica del protocollo sottoscritto poiché connotata da una stretta collaborazione tra istituzioni e privato sociale. I Presidenti del Comitato Unicef Regionale della Calabria e Provinciale di Reggio Calabria, rispettivamente Dott. Francesco Samengo e Pietro Marino, rinnovando la coesione operativa già attuata con il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, consolidata con il protocollo regionale del 6.10.2017, hanno ribadito la necessità di una presenza efficace di agenzie sociali sul territorio, stante le molteplici criticità del sistema istituzionale di intervento sociale in Calabria. In sintesi con il protocollo sottoscritto, si vuole intervenire a monte, a prescindere dal ruolo strettamente giudiziario del Tribunale per i minorenni. Si ritiene fondamentale un impegno culturale, etico, che incida sul disagio sociale attraverso il superamento delle condizioni che lo hanno determinato. Da qui la richiesta di collaborazione con il privato sociale con il quale costruire modelli sociali ed educativi forti, in grado cioè di orientare i bambini ed i giovani verso scelte di vita coerenti con i principi della civile convivenza. Sartre ricorda che il ‘segreto del successo sta nell’avere un progetto di vita e poi nel seguirne le istruzioni’. Oggi, l’obiettivo del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, unitamente a tutti i magistrati che vi operano, è quello di concedere ai minori l’opportunità di progettare il loro futuro, offrendo però le ‘istruzioni d’uso’, ovvero il potenziamento dei valori educativi e le condizioni o possibilità concrete per la realizzazione delle aspettative future. Ne va della credibilità della società civile e dello Stato nel suo insieme, avendo la piena consapevolezza che ogni comportamento delinquenziale minorile costituisca l’ultima testimonianza del fallimento di un’intera collettività nell’adempimento dei suoi compiti educativi. Gli sportelli di ascolto informale ed esplicativo si attiveranno dal mese di febbraio 2018 e saranno due: c/o il Tribunale per i Minorenni Via Marsala 13 tutti i Mercoledì dalle ore alle ore telefonando per appuntamento a 3284577970-3357864907-3493430518; c/o il Centro Comunitario Agape Via P. Pellicano 21/h, tutti i Lunedi dalle ore 15,30 alle 17,30 telefonando per appuntamento a 0965 330927- 3939363898. Sarà, altresì, disponibile una mappatura dei servizi attualmente esistenti sul territorio reggino, per i minori e le famiglie. Civitavecchia (Rm): visita in carcere per delegazione di sanitari penitenziari cileni terzobinario.it, 29 gennaio 2018 Alle prese con riforma sanitaria dei penitenziari. Nell’ambito di una linea di attività sul processo di riforma dei servizi sanitari penitenziari promossa dal Ministero del Cile, l’Organizzazione italiana Iila, con la collaborazione del Dsmpd della Asl Frosinone ha promosso nel Lazio la visita di una delegazione cilena ad alcune realtà sanitarie penitenziarie di particolare interesse per le problematiche poste dalla delegazione stessa. La scelta è ricaduta, oltre che sulla Casa di Reclusione di Paliano, sulla Rems di Pontecorvo e sulla Casa circondariale femminile Rebibbia, sulla Casa Circondariale di Civitavecchia in virtù dell’organizzazione dell’assistenza sanitaria realizzata, nel corso degli ultimi anni, all’interno dell’Istituto grazie alla produttiva cooperazione tra la Direzione Penitenziaria e la Asl Roma 4. Inoltre la scelta trova una motivazione nel rapporto di costante collaborazione e confronto tra Asl Roma 4 e Asl di Frosinone che ha condotto, nel 2015, alla stesura di un protocollo di scambio professionale tra le due istituzioni sanitarie.. Inoltre, la Asl Roma 4 nel 2014 è stata individuata come asl capofila per la Salute Mentale nella Regione Lazio. Il 29 gennaio si è tenuto presso l’Istituto Italian Latino Americano un seminario di presentazione cui hanno partecipato, tra gli altri, il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, il Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria, il Garante dei diritti dei detenuti, il console cileno in Italia ed il Direttore Generale della ASL Roma 4, dott Giuseppe Quintavalle. Presenti anche i direttori degli altri istituti penitenziari e servizi sanitari coinvolti. La Asl Frosinone collabora attraverso il Dipartimento di Salute Mentale e Patologie da dipendenza al Programma dell’Unione Europea per la coesione sociale in America Latina Euro Social+. Questo programma di cooperazione internazionale sostiene processi di riforma e politiche pubbliche con impatto sulla coesione sociale dei 18 paesi latinoamericani. Gli interventi si basano su azioni di assistenza tecnica e scambi mirati tra amministrazioni pubbliche degli Stati delle due regioni (Europa e America Latina), nonché tra quelle dei diversi paesi latinoamericani. Il programma è gestito da un consorzio formato dall’Iila - Organizzazione Internazionale Italo - Latino Americana, dalla Fiiapp - Fundación Internacional e Iberoamericana para la Administración Pública (Spagna) da Expertise France (Francia) e dalla Sisca - Secretaría de Integración Social Centroamericana. Si comprende facilmente il livello del confronto teorico-operativo in corso e gli stimoli che da esso possono derivare per tutti coloro i quali si occupano di Sanità Penitenziaria. Il 31 gennaio il Dott Quintavalle e la Dott.ssa Patrizia Bravetti, Direttrice degli Istituti di Pena di Civitavecchia, accoglieranno la delegazione cilena e presidieranno l’incontro previsto presso la Casa Circondariale, nel corso del quale saranno illustrati tutti i programmi e tutte le iniziative attuate dalla Asl Roma 4 all’interno dell’istituto dopo il Dpcm 2008, dai programmi di prevenzione e di screening sanitario per le patologie infettive ed oncologiche ai progetti per le patologie da dipendenze e per la tutela della salute mentale, ambiti ai quali la Asl Roma 4 ha sempre prestato una particolare e qualificata attenzione. Trani (Bat): l’arcivescovo Leonardo D’Ascenzo fa visita ai detenuti Giornale di Trani, 29 gennaio 2018 “Onorato di iniziare il mio ministero con voi. E voglio tornare a farvi visita, da amico”. “La celebrazione della messa è il momento dell’incontro con Gesù, che viene a stare in mezzo a noi, nella nostra vita e nel nostro cuore. Nelle sue mani riponiamo le nostre fragilità ed i nostri peccati, così che ci renda degni di celebrare questa santa messa”. Così Mons. Leonardo D’Ascenzo, vescovo di Trani, aprendo la messa officiata nella cappella del carcere di Trani, davanti a settanta detenuti che lo hanno accolto con un caloroso applauso all’ingresso in chiesa. Don Leonardo ha stretto le mani a ciascuno di loro, ed ascoltato la storia di uno, in particolare, Saverio, del quale proprio ieri ricorreva l’anniversario della morte della mamma: il detenuto, mostrandogli la foto, ha chiesto al vescovo di esprimere un’intenzione per lei durante la preghiera eucaristica. “Prima di venire qui da voi - ha detto don Leonardo aprendo l’omelia -, ho visitato il monastero delle Clarisse, qui vicino. I due edifici sono stati costruiti insieme, ma questo è il luogo delle pene, quello il posto dell’amore. Loro, con la preghiera, si prendono cura anche di voi”. Quanto ai detenuti, “comprendo che chi si trova in un luogo di pena abbia un cuore appesantito, duro, si senta una persona isolata e non amata. Ma il vangelo di Marco, che abbiamo letto, oggi, ci dice l’esatto contrario: infatti, nella sinagoga in cui Gesù insegnava, c’era una persona con gli stessi problemi vostri, che pensava che Dio non s’interessasse alla sua vita. Gesù gli risponde “taci” non rivolgendosi alla persona, ma al problema che aveva dentro”. Secondo mons. D’Ascenzo, dunque, “Dio ama tutti e ciascuno di noi, e di voi, non deve sentirsi escluso perché Gesù ha un posto per ognuno”. Il vescovo ha confessato ai detenuti che “è vero che ieri sera ho fatto l’ingresso in diocesi, ma questa, con voi, è la prima vera messa che celebro qui. E ci voglio tornare e diventare vostro amico, perché noi tutti siamo amici di Gesù e fratelli fra noi. Io voglio diventare vostro amico e coltivarla al meglio questa amicizia. Non voglio venire qua a celebrare messe, ma ad incontrarvi e stare con voi, perché mi sento davvero vostro amico. Contate sempre su di me”. Don Leonardo ha chiesto ai reclusi “di ricordare, quando pregate, il servizio che io porterò avanti in questa diocesi, ed io pregherò per voi, perché siete miei fratelli e meritate una nuova possibilità, perché Dio accoglie tutti e non lascia indietro nessuno”. Parole che rafforzano il senso dei primi passi compiuti dal vescovo nella sua diocesi: visitare i luoghi in cui si presta attenzione agli “ultimi”, per ridare loro una speranza, una possibilità, e testimoniare loro la vicinanza del Signore, vera forza per la loro redenzione. Ed intanto, alla fine della messa, è stato proprio Saverio a leggere una preghiera per la mamma, eletta come simbolo dei lutti e sofferenze di ciascun detenuto. È il lato umano di un luogo di pena, una piccola storia che apre una nuova, grande speranza di un domani diverso. E migliore. Saluzzo (Cn): teatro-carcere, “La Favola Bella” dei detenuti targatocn.it, 29 gennaio 2018 Ieri sera è andata in scena al teatro Magda Olivero “La Favola Bella”, prodotto nel carcere “Morandi” di Saluzzo dall’Associazione Voci Erranti. Sul palcoscenico nove attori detenuti ed ex detenuti, diretti da Grazia Isoardi. Quella del gruppo teatrale del penitenziario saluzzese è l’unica realtà in Italia ad uscire, mensilmente, dalle mura e senza scorta per andare a recitare in teatri del territorio o in altre regioni. Lo scorso anno sullo stesso palcoscenico l’applaudissimo “Amunì”, quest’anno dopo le trasferte a Gorizia, Verbania e Roma, approda al civico di via Palazzo di Città 15, con La Favola Bella, rivisitazione della fiaba di Cappuccetto Rosso, vista con gli occhi del lupo. Un punto d’osservazione che consente ai detenuti attori la possibilità di riconoscersi all’interno di quella che è probabilmente la fiaba più nota e rappresentata dai tempi della versione seicentesca di Perrault a quella dei fratelli Grimm. La morale rimane comunque intatta. L’obbiettivo è la comprensione che, nonostante la natura umana, è sempre possibile trovare la giusta strada per uscire dal bosco, l’unica via percorribile per divenire persone adulte. Anche “La Favola Bella” è frutto del laboratorio teatrale attivo all’interno dell’istituto di pena di SAluzzo da 16 anni. Un progetto innovativo condiviso dal Magistrato di Sorveglianza del Tribunale di Cuneo e dal Direttore Giorgio Leggieri per il valore riabilitativo e risocializzante del percorso di formazione, che vede nel teatro un ponte tra la comunità reclusa e quella libera. Ogni anno gli spettacoli teatrali attirano la presenza di quasi tremila spettatori dentro al carcere ed altrettanto fuori. Il progetto è sostenuto grazie al contributo della Compagnia di S. Paolo di Torino. La pièce, regia di Grazia Isoardi, coreografie di Marco Mucaria è stata inserita, come lo scorso anno “Amunì”, nel cartellone della stagione “Saluzzo a teatro” per volontà dell’assessore alla Cultura Roberto Pignatta. Info: vocierranti.org. Roma: “Benvenuto Papa Francesco”, in un documentario i drammi dei detenuti del Maco La Stampa, 29 gennaio 2018 Oggi 29 gennaio, presso l’Istituto San Luigi di Roma, la presentazione dell’opera del regista Janusz Mrozowski ambientata nella prigione di Ouagadougou, in Burkina Faso. “Benvenuto in carcere, Papa Francesco” è il titolo del documentario del regista franco-polacco Janusz Mrozowski che sarà presentato domani, lunedì 29 gennaio, alle 19, presso l’Istituto francese Centre Saint Louis di Roma. Un viaggio nella disperazione che si nasconde dietro le mura del Maco, il carcere di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, che racconta - senza alcun filtro - i drammi quotidiani che vive chi è costretto ad abitare questa prigione ma anche la speranza data proprio dalle parole di incoraggiamento del Pontefice a tutti i detenuti. L’opera, della durata di 77 minuti, in lingua francese con i sottotitoli in italiano, è già stata presentata in numerosi Festival ed è stata proiettata anche nel carcere romano di Rebibbia il 6 novembre 2016, in occasione del “Giubileo dei carcerati”, e infine nella Filmoteca vaticana il 26 ottobre 2017, davanti a numerose personalità. Alla serata di domani saranno presenti, insieme all’autore, Philippe Zeller, ambasciatore della Francia presso la Santa Sede, Robert Compaore, ambasciatore del Burkina Faso presso la Santa Sede, e monsignor Dario Edoardo Viganò, prefetto della Segreteria per la Comunicazione vaticana. Milano: una cena di solidarietà per i detenuti minorenni del Camerun di Renato Borocci sanfrancescopatronoditalia.it, 29 gennaio 2018 Una cena di solidarietà per raccogliere offerte per le necessità dei detenuti minorenni del Camerun. È l’iniziativa dei missionari cappuccini di Milano che sarà realizzata al centro sportivo “U.S. Aldini”, venerdì 9 febbraio, nel quartiere Quarto Oggiaro. L’evento si svolge in occasione della “Festa del volontariato in missione” e vuole riunire anche altre realtà impegnate nel sostegno degli ultimi. L’obiettivo è quello di sostenere la missione guidata da fra Gioacchino Catanzaro nel Paese africano, dove “moltissimi giovani, dai 12 ai 18 anni, si trovano in carcere senza aver commesso alcun reato rimanendo in attesa di giudizio per mesi o addirittura anni, in condizioni di vita disagiate: alimentazione ridotta a un piatto di riso al giorno, nessuna formazione professionale”, raccontano i frati in una nota. L’appuntamento è per le 20,30. Prima della cena interverranno fra Emilio Cattaneo, responsabile del volontariato in missione della Provincia di Lombardia, fra Stefano, missionario che ha lavorato per un anno nelle carceri camerunensi, e fra Hugo Mejía Morales, consigliere generale dell’Ordine dei frati minori cappuccini e responsabile delle missioni cappuccine di volontariato nel mondo. Si continuarà con la “Cena con il missionario”, gioco di ruolo ispirato dalla “Cena con delitto”. La nostra ipocrisia sui diritti umani di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 29 gennaio 2018 C’è qualcosa che è stato definitivamente sepolto in questi anni dalle agende internazionali: l’idea dell’universalità dei diritti umani, la fiducia nel valore universale della democrazia. Trapelano voci atroci sul trattamento che il regime degli ayatollah iraniani starebbe riservando ai prigionieri incarcerati dopo la rivolta soffocata a Teheran meno di un mese fa. Più che repressione, vendetta, rappresaglia sui corpi. Si parla di alcuni morti, ma le notizie ufficiali sono lacunose e contraddittorie, senza che nessuno nel mondo chieda conto agli aguzzini del loro operato, men che mai il ministro degli Esteri dell’Europa, Federica Mogherini la cui nomina venne inspiegabilmente salutata come una prova della forza dell’Italia, e che durante e dopo la rivolta si è concentrata esclusivamente sulla conservazione dei buoni rapporti con Teheran. Ma il silenzio non è solo dell’Europa. Non si hanno notizie della ragazza che, immortalata da mille fotografie, aveva avuto il coraggio di togliersi il velo obbligatorio durante le manifestazioni, e nessuno le chiede tranne i militanti di Amnesty International e Human Rights Watch, sempre meno ascoltati nel mondo. Perché c’è qualcosa che è stato definitivamente sepolto in questi anni dalle agende internazionali: l’idea dell’universalità dei diritti umani, la fiducia nel valore universale della democrazia, la difesa della dignità delle persone ovunque nel mondo. Idea sparita, dissolta: un reperto del passato oramai. Non è il trionfo del realismo politico, che anche prima organizzava le relazioni internazionali. Per un Papa che in Birmania ha avuto il coraggio di denunciare i carnefici che stanno massacrando il popolo Rohingya, il resto del mondo chiede di tollerare i dittatori e i tiranni purché mantengano l’ordine e la “nostra” tranquillità. L’Onu non esiste, nelle commissioni per la difesa dei diritti umani spadroneggiano i Paesi che sono i più feroci nemici dei diritti umani. L’Unesco, un tempo prestigiosa istituzione, è caduta ostaggio dei più efferati antisemiti (e nel Giorno della Memoria nessuno che l’abbia ricordato). Il siriano Assad, massacratore del suo popolo, è inamovibile in nome del “realismo politico”. Delle atrocità del nostro alleato Egitto ci accorgiamo dopo l’assassinio di Stato di Giulio Regeni, ma facciamo finta di non accorgerci della prigione da incubo al Cairo in cui la sezione adibita alla tortura è stata ribattezzata “la tomba”. L’universalità e l’integrità dei diritti umani è diventato un argomento fastidioso. Una tomba: la tomba della nostra ipocrisia. Sbarchi e stragi di migranti, il caos libico riapre le rotte di Alessandra Ziniti La Repubblica, 29 gennaio 2018 Nel weekend soccorsi in 850, tra cui molti bambini, 3 donne morte e almeno 30 dispersi Flussi agli stessi livelli dello scorso anno: e al Viminale scatta l’allerta. Il bambino è seminudo, gelido, non respira, ma il polso batte flebile. Avrà sì e no quattro anni. La catena umana a bordo della Aquarius tira fuori dall’acqua, uno dietro l’altro, una decina di bambini. I medici del team di Msf sono tutti impegnati e quel bimbo finisce tra le braccia di Lauren King. Lei è la coordinatrice della comunicazione a bordo, non è medico, ma non c’è tempo, tocca a lei. Trentacinque infiniti minuti di respirazione bocca a bocca per salvare quella vita. Al telefono, dalla nave, parla con la voce ancora spezzata dall’emozione: “È stata una cosa terribile, non lo avevo mai fatto prima, la vita di quel bambino affidata a me, era incosciente, non respirava. Gli ho buttato dentro tutto il fiato che avevo, spingevo sul suo petto… e poi ha aperto gli occhi, ha ripreso a respirare”. Era pieno di bambini, alcuni dei quali neonati, quel gommone sul quale i trafficanti libici avevano ficcato 120 persone. E così, quando ha cominciato a sgonfiarsi e ad affondare, le mani di tante giovani mamme si sono tese verso il cielo provando a tenere su i loro piccoli. Quando la Aquarius di Sos Mediterranée è arrivata, in acqua c’erano decine di persone, molti ormai in stato di incoscienza, i polmoni pieni di acqua. Ma almeno una trentina, stando al racconto degli 83 superstiti, sono i dispersi. Due donne, entrambe giovanissime mamme, sono morte a bordo. Viaggiavano da sole con i loro bambini adesso rimasti orfani. Il più piccolo, sei mesi, è diventata la mascotte della Aquarius, altri sei bambini sono stati portati d’urgenza da un elicottero della marina italiana nell’ospedale più vicino, a Sfax, dove ieri mattina è spirata un’altra giovane donna. Una morte che porta a tre le vittime accertate di questo naufragio. Almeno 230 morti in mare, 3.579 migranti sbarcati nel 2018, compresi gli 850 salvati nella tragica giornata di sabato in cinque diverse operazioni. E gennaio non è ancora finito. Numeri, alla data di ieri, persino di poco superiori a quelli degli anni peggiori per l’emergenza immigrazione, il 2016 e il 2017, numeri che allertano il Viminale sia per la ripresa dei flussi dalla Libia (che avevano segnato un nettissimo arresto nella seconda metà dello scorso anno) sia per le tante vittime delle traversate causate, oltre che dalle pessime condizioni delle imbarcazioni utilizzate, anche dall’assottigliarsi dello schieramento dei soccorsi nel Mediterraneo che non riesce a coprire le 300 miglia di zona Sar e ad arrivare sempre tempestivamente. I sanguinosi scontri in Libia, nelle zone di Zuwarah e di Gars Garabulli ( proprio quelle da cui partono più gommoni), e l’assalto armato all’aeroporto di Tripoli dei giorni scorsi, preoccupano il ministero dell’Interno perché accentuano l’instabilità del governo garante degli accordi con l’Italia e potrebbero creare le condizioni per una ripresa dei flussi in un Paese dove, tra centri di detenzione ufficiali e carceri in mano ai trafficanti, si stimano tra 700.000 e un milione di persone pronte a partire. “Il tragico salvataggio di sabato - dice Valeria Calandra, presidente di Sos Mediterranée Italia - dimostra che l’emergenza continua e c’è urgente bisogno di più mezzi di soccorso nel Mediterraneo. Noi proseguiamo nella nostra missione ma rinnoviamo il nostro appello all’Europa a mettere in atto azioni concrete per porre fine a queste tragedie”. Sabato, nella zona interessata dalle traversate, mentre la sala operativa della Guardia costiera di Roma, riceveva una segnalazione dietro l’altra e cercava mezzi di soccorso, c’erano le tre sole navi delle Ong che continuano nei soccorsi, una nave militare spagnola e una motovedetta della Guardia costiera libica, protagonista dell’ennesimo “incidente” con una nave umanitaria, proprio la Aquarius. “Avevamo appena avvistato un gommone con un centinaio di persone a bordo, potevamo vedere i volti spaventati delle persone e sentirle gridare e chiedere aiuto - denuncia Klaus Merkle, coordinatore dei soccorsi di Sos Mediterranée - ma la Guardia costiera libica ci ha ordinato brutalmente di lasciare la zona e ha categoricamente rifiutato qualsiasi offerta di assistenza”. Cannabis. Le prescrizioni terapeutiche crescono, ma la produzione è bloccata di Nadia Ferrigo La Stampa, 29 gennaio 2018 A più di dieci anni dalla legge che consente alle farmacie di vendere cannabis a uso terapeutico, migliaia di pazienti sono costretti nella migliore delle ipotesi a infiniti e costosi pellegrinaggi per trovare i farmaci, nella peggiore a interrompere le terapie. Sia le scorte di Fm2, cannabis made in Italy coltivata dallo Stato a Firenze, che dell’olandese Bedrocan, sono esaurite dallo scorso novembre, come denunciano pazienti e associazioni. A eccezione dei 688 pazienti dell’Emilia Romagna - l’unica Regione ad aver informatizzato le prescrizioni di cannabis perché inserite nella rete informatica Sanità On Line, non sono ancora disponibili i dati delle altre Regioni. A testimoniare il vertiginoso aumento della domanda sono le previsioni della Direzione dei dispositivi medici e del servizio farmaceutico del ministero della Salute: negli ultimi tre anni l’aumento del fabbisogno nazionale è stato di 100 chili l’anno, con 350 chili per il 2017 e 500 per il 2018. Per soddisfare la richiesta nazionale lo scorso dicembre il ministero della Difesa ha pubblicato un bando per acquistare all’estero 100 chili di cannabis, ma ancora non si quando l’azienda tedesca vincitrice dell’appalto invierà la fornitura. Secondo la Cild, Coalizione italiana libertà e diritti civili che raggruppa una trentina di organizzazioni, da Antigone all’associazione Luca Coscioni, da Forum droghe a Cittadinanza attiva, la situazione dovrebbe sbloccarsi a febbraio, quando l’Olanda inizierà a inviare i quantitativi previsti per il 2018. Nessuna novità sulla legge sulla coltivazione e somministrazione della cannabis, passata alla Camera ma non al Senato. Il testo avrebbe dovuto stabilire “criteri uniformi di somministrazione sul territorio nazionale, garantendo ai pazienti equità d’accesso”, sanando così i contrasti tra Regione e Regione sia sulla possibilità del rimborso del Sistema sanitario che sulla disponibilità delle farmacie a rifornirsi dei preparati. Al momento, su 18mila farmacie sono solo 600 quelle in cui i pazienti possono trovare la cannabis. In Piemonte dal 2015 c’è una legge regionale per avviare “azioni sperimentali e progetti pilota per la produzione di preparazione a base di canapa”, ma per ora è lettera morta. Una buona notizia arriva invece dalla Toscana, che la scorsa settimana ha siglato un nuovo accordo con lo Stabilimento farmaceutico militare su una sperimentazione clinica no profit, in particolare su malattie rare e orfane, e sulla formazione dei medici sui farmaci cannabinoidi. Turchia. Il silenzio sbagliato sui curdi di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 29 gennaio 2018 Difenderli non è solo una questione di giustizia, è nel nostro interesse. Per almeno due ragioni. Il mondo occidentale (Stati Uniti e Europa) non si è ancora accorto, a quanto pare, che difendere i curdi in Medio Oriente è nel proprio interesse. In politica internazionale, spesso, “ciò che è moralmente giusto” e “ciò che è politicamente conveniente” divergono. Quando ciò accade la convenienza batte sempre la giustizia: facciamo immancabilmente ciò che ci conviene anziché ciò che sarebbe giusto fare. Si può deprecare questa triste realtà ma non la si può cambiare. Esistono però anche situazioni in cui ciò che è giusto (dal nostro punto di vista, ovviamente) e ciò che è nella nostra convenienza, nel nostro interesse, convergono. Forse la difesa della causa dei curdi appartiene a questa seconda categoria. I fatti sono noti. I curdi sono stati fondamentali combattenti contro lo Stato islamico. Lo hanno combattuto perché non accettavano di finire sotto il suo giogo e per calcolo: volevano acquisire meriti davanti alla comunità internazionale allo scopo di guadagnarsi l’indipendenza politica. I duri colpi inferti allo Stato islamico negli ultimi mesi non lo hanno ancora distrutto ma lo hanno ferito a morte. Per conseguenza i curdi hanno perso valore e importanza per gli altri nemici dello Stato islamico. Per questo il vento è ora cambiato. È in corso da alcuni giorni l’operazione “Ramo d’ulivo” lanciata dalla Turchia contro i guerriglieri curdi, alleati degli americani, dello Ypg (“Unità di protezione popolare”) in Siria. I turchi considerano lo Ypg come la filiale siriana del Pkk, il partito dei lavoratori del Kurdistan, lo storico nemico che il presidente/dittatore turco Erdogan combatte con ferocia da molti mesi entro il proprio territorio nazionale. Obiettivo dell’operazione “Ramo d’ulivo” è liberare la città di Afrin, ora sotto controllo curdo, in territorio siriano. Ma difficilmente le ambizioni di Erdogan si placheranno. Una volta avuto ragione dei curdi siriani i turchi potrebbero, prima o poi, volere colpire anche quelli irakeni. Con lo scopo di eliminare per sempre la possibilità che al confine turco si formi uno Stato curdo indipendente capace di attrarre anche i curdi di Turchia. Non mancherebbero i complici, ossia gli Stati che ospitano minoranze curde: Iran, Irak, Siria. Nell’operazione ora in corso Erdogan gode dell’appoggio dei russi. Gli americani, fin qui, hanno solo balbettato. Sono alleati dei curdi ma sono anche alleati (o meglio: credono di essere ancora alleati) della Turchia che è tuttora un Paese membro della Nato. Donald Trump sembra disposto, sia pure con titubanza e fatta qualche protesta di rito, a lasciare mano libera a Erdogan. Il presidente francese Macron ha protestato ma, nel complesso, sembra che per gli europei la questione curda sia priva di interesse. È lecito domandarsi se gli americani (e gli europei al seguito) non stiano per commettere un errore permettendo ai turchi di fare i loro comodi contro i curdi. Un errore così grave da ritorcersi, in pochi anni, contro gli uni e gli altri. La difesa dei curdi non è solo una questione di giustizia. È nell’interesse degli occidentali. Per almeno due ragioni. I diplomatici sono spesso restii ad accettare le novità. Ma sul fronte turco la “novità” (purtroppo) c’è. Fin quando la Turchia era ancora sotto l’influenza dell’eredità di Ataturk, il fondatore della Turchia moderna, che egli volle europea, essa era alleata degli occidentali. Era un pilastro della Nato, amica di Israele, desiderosa di entrare nell’Unione europea. Tutto ora è cambiato. La ri-islamizzazione della Turchia era cominciata da tempo, il contro-colpo di stato di Erdogan del 2016 ne ha solo accelerato i tempi: l’eredità di Ataturk è ormai in soffitta (si può consultare, su queste vicende, Marco Guidi, Ataturk addio, Il Mulino, in corso di stampa). La ri-islamizzazione del Paese ne ha anche modificato l’orientamento internazionale. Benché a Erdogan faccia comodo tenere il piede in due staffe (restare, al momento, nella Nato) egli ha scelto, nelle cose che contano, di posizionarsi in senso antioccidentale. L’alleanza con la Russia è un tassello della sua nuova politica estera. Si ricordi che Erdogan ebbe un ruolo nel far nascere e nel sostenere lo Stato islamico. In questo momento, per giunta, l’operazione contro i curdi di Siria non è condotta solo da truppe turche e da mercenari siriani. Stanno dando una mano a Erdogan anche le milizie armate di Al Qaeda. Non si può restare a lungo con la testa sotto la sabbia. Bisogna prendere atto di ciò che è diventata la nuova Turchia. Occorre che essa si trovi finalmente a fare i conti con la fermezza (fin qui inesistente) degli occidentali. I dittatori, infatti, capiscono solo il linguaggio della fermezza. La seconda ottima ragione per difendere i curdi è che, in caso contrario, si manderebbe un messaggio demoralizzante a tutti coloro che in Medio Oriente sono impegnati, come i curdi, contro l’islamismo radicale tanto nella variante sunnita dello Stato islamico e di Al Qaeda quanto in quella sciita (Iran e i suoi alleati). La sfida islamista sia contro i non-islamisti del Medio Oriente sia contro gli occidentali non finirà con la sconfitta dello Stato islamico. È probabilmente destinata a durare per decenni. Appoggiare e difendere i gruppi nemici dell’islamismo radicale è nell’interesse degli occidentali. Prima lo capiremo e prima ci troveremo a disporre di una strategia di contenimento del fanatismo. Libia. I rischi di una pace costruita sulla sabbia di Gianluca Di Feo La Repubblica, 29 gennaio 2018 In Libia non esistono punti fermi e basta poco perché il vento del deserto seppellisca qualunque intesa. Il caos continua a crescere, tra scontri armati, attentati e razzie, senza che si intravveda una prospettiva di soluzione politica. Per la prima volta prendono il mare anche le famiglie locali, testimoniando quanto sia diventato drammatico sopravvivere nella lotta continua tra i signori della guerra. La comunità internazionale non sembra preoccuparsene, non ci sono iniziative forti per pacificare il paese, né a livello mondiale e tantomeno in Europa. Tutti hanno solo due interessi: mettere le mani sul petrolio libico e allontanare i migranti dalle proprie coste. L’Italia, grazie all’azione coordinata tra il premier Gentiloni e il ministro Minniti, nel corso del 2017 ha raccolto risultati importanti, contribuendo al dialogo tra le fazioni e creando i presupposti per una diversa gestione dell’immigrazione, tra interventi repressivi, rimpatri nei paesi d’origine e un progressivo inserimento sul campo delle Ong. Ma la svolta su questo fronte c’è stata solo nella scorsa estate, quando il governo ha reagito con insolita determinazione al tentativo francese di prendere la leadership nella questione libica: nel giro di poche settimane sono stati sbloccati problemi irrisolti da anni; la guardia costiera di Tripoli ha cominciato ad operare e le brigate fedeli all’esecutivo Serraj si sono mosse contro i trafficanti di uomini, di cui spesso prima erano complici. Sono tutti pilastri fragili, perché piantati nella sabbia di alleanze mutevoli e di clan che conoscono solo la legge dei predoni. E il momento politico italiano, con il conto alla rovescia per un voto dagli esiti imprevedibili, rischia di spingere i capi delle milizie a cercare il massimo del tornaconto o a regolare i propri conti, nella convinzione che non ci saranno reazioni forti. Le nuove partenze verso la Sicilia sono il segnale con cui gli sceriffi della Sirte manifestano il loro potere alle autorità di Tripoli e di Roma, alzando il prezzo per la loro fedeltà. Ma se è fondamentale che la campagna elettorale non apra crepe nelle nostra politica estera, sgretolando il lavoro svolto finora, è altrettanto importante che la risposta alle ultime turbolenze libiche venga da un’Europa realmente unita. Sin dai raid contro Gheddafi, le iniziative unilaterali di Parigi e Londra sommate all’inerzia di Berlino hanno creato in Libia danni irreparabili, di cui l’Italia continua a pagare il conto più salato. Afghanistan. I piccoli galeotti di Enrico Campofreda osservatorioafghanistan.org, 29 gennaio 2018 Nel Paese della vita assediata e dell’infanzia negata i minori “rei” di avere i genitori reclusi, in genere la mamma, subiscono la beffa di finire anche loro in galera. In realtà non c’è una sola nazione a mostrare questa violenza di ritorno, comunque l’Afghanistan, se non proprio tutte, riesce a sopravanzarne tantissime. Le meste storie s’inseguono da una città all’altra, Nangarhar, Jalalabad, Kandahar non fa differenza. Perché nella testa di bambine e bambini, le mura a limitare l’orizzonte degli sguardi, le porte blindate, il rumore di serrature e chiavistelli restano privazioni e incubi difficili da cancellare. L’opzione di avere accanto i figli, scelta da parecchie madri arrestate per alleviare le proprie sofferenze, rendono i bambini stessi detenuti. L’unica alternativa sono le non molte Ong locali che si occupano di orfani, minori abbandonati o privati di genitori. Però non bastano, così i piccoli in molti casi si ritrovano in cella. La questione da qualsiasi parte la si osservi è decisamente delicata e di non facile soluzione, perché per i minori reclusi involontari la privazione della libertà viene in second’ordine rispetto alla perdita, pur temporanea, della mamma. Il legame affettivo è di per sé primario nel rapporto madre-figli. Se quest’ultimi in età scolare, pur in prigione hanno la fortuna di vedersi assistiti da programmi di alfabetizzazione che, in casi rari, vengono accettati dall’amministrazione politica e carceraria in base a progetti di qualche associazione umanitaria, quella permanenza forzata si trasforma in un investimento. Talvolta la presenza dietro le sbarre della prole (esclusivamente femminile) prosegue anche nel periodo post puberale. E sempre ragionando per paradossi, questa condizione preserva le ragazze, anche se solo per la durata di quella situazione, da matrimoni forzati con uomini che per età potrebbero esserne padri e nonni. Comunque tutto è lasciato alle circostanze, poiché i tribunali locali non sentenziano allo stesso modo. Così le vite, già sospese per situazioni contingenti, subiscono l’ulteriore variabile della fatalità. Il miracolo accade se, e quando, chi segue questo cammino instabile e doloroso, riesce a ricavarne una forza da poter spendere all’esterno. In quel genere di esistenza che nella nazione dell’Hindu Kush non si rivela più sicura dell’inferno carcerario.