Sette italiani su dieci favorevole all’impiego non retribuito dei carcerati di Cristiana Lodi Libero, 28 gennaio 2018 Negli italiani è decisamente più forte il desiderio di “punire” (secondo la legge del taglione) chi si è macchiato di un crimine contro la società, rispetto alla (più tiepida) volontà di “proteggere” la stessa società dai criminali. Una elevatissima percentuale condannerebbe ai lavori forzati chiunque abbia commesso un reato. E fa pollice verso a qualsiasi proposta di amnistia come strumento per svuotare le sovraffollate prigioni. È la radiografia di un paese che non concede sconti per chi delinque, quella che rimbalza dall’analisi sondaggistica del “Centro analisi e politica” diretto da Arnaldo Ferrari Nasi. Eloquenti i numeri raccolti interpellando soggetti fra i 18 e i 75 anni, con titolo di studio che va dalla media inferiore alla laurea. E di qualsiasi partito. Il 43 per cento (un italiano su tre) dice che bisogna punire chi ha commesso un reato contro la società: “quasi la metà”, spiega Arnaldo Ferrari Nasi, “ragiona così: tu mi hai fatto male e allora io mi vendico allo stesso modo. Un dato elevato e che tocca addirittura il 47 per cento nei soggetti fra i 35 e i 55 anni. E arriva al 50 in chi vota Lega, al 49 in chi sta con i grillini e al 42 con chi è col Pd. Punire più che proteggere. Tant’è che soltanto un italiano su cinque chiede di tutelare la società. Una cifra che non cambia col variare del titolo di studio”. Il 77 per cento è per i lavori forzati o almeno il lavoro obbligatorio e non retribuito per ripagare la società dai danni arrecati da chi ha commesso un reato. “Avevo fatto la stesa domanda nel 2008” osserva Ferrari Nasi “e a distanza di dieci anni constato che il dato è rimasto praticamente invariato. All’epoca il 70 per cento diceva la stessa cosa”. Nessuna amnistia. Per evitare il sovraffollamento nelle carceri, bisogna costruire nuove strutture. Lo dice il 76 per cento della popolazione “e la percentuale cresce col crescere del titolo di studio” sottolinea il direttore del Centro analisi “l’83 per cento dei laureati non vuole infatti nessuna amnistia, soprattutto al Sud”. Questi i risultati dei sondaggi. Mentre in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il pg di Bologna Ignazio De Francisci, fa notare che i criminali preferiscono le carceri italiane. “Un dato che deve fare riflettere” denuncia l’alto magistrato, sottolineando (per esempio) che “inquieta l’entusiasmo con il quale, una volta catturato in Spagna, Norbert Feher noto come Igor il russo, ha fatto sapere di accettare l’estradizione in Italia, visti gli sconti di pena che il nostro sistema gli potrebbe riconoscere”. E aggiunge il procuratore generale: “come ben sappiamo, Igor il russo, il sistema penitenziario italiano l’ha già provato”. Il trasferimento dei detenuti stranieri all’estero, perché scontino la pena nei Paesi d’origine, scrive ancora nella relazione il pg “è purtroppo ostacolato dalla tendenza di certa giurisprudenza ad assecondare la preferenza degli stranieri per le carceri italiane anche quando non ve ne sarebbero i presupposti”. Così capita di leggere provvedimenti in cui “la misura di sicurezza della espulsione prevista per gli stranieri, in caso di condanna a più di due anni, è rifiutata sul rilievo che era già prevista l’applicazione, dopo la pena, della misura della libertà vigilata e l’allontanamento pregiudicherebbe la radicata e stabile presenza in Italia del condannato”. Nel caso di specie, chiude il magistrato, “il radicamento consisteva nel fatto che l’individuo, da più di un anno in carcere senza moglie né figli, con madre e fratelli all’estero, senza lavoro e con alcune pene da scontare (una di oltre quindici anni), aveva dichiarato di voler aderire alla religione dei “Testimoni di Geova”, conosciuti durante la detenzione e ai quali si sarebbe avvicinato”. E se a dirlo è una toga. Se il giudice si scopre più fragile di Liana Milella La Repubblica, 28 gennaio 2018 Non sono più il fiore all’occhiello della politica, soprattutto del Pd, che rinuncia alle toghe in lista. Volano in basso nei sondaggi sul gradimento della gente comune. Non hanno più il peso di prima nel valutare, e spesso far cambiare, le leggi (vedi le riforme delle intercettazioni e della prescrizione). Su di loro incombe la responsabilità, e nel sentire comune la colpa, per i processi troppo lenti. Non sono più liberi di parlare per la minaccia concreta di un’azione disciplinare (vedi il caso Woodcock). E loro stessi, i vertici della Cassazione e dei singoli uffici giudiziari impegnati nelle inaugurazioni dell’anno giudiziario, invitano i colleghi al massimo riserbo, abbandonando in fretta l’uso dei social. Non sono più neppure liberi di candidarsi e poi di tornare al proprio lavoro, cosa pur garantita dalla Costituzione a tutti i cittadini, perché ormai, nel comune sentire, per i magistrati le “porte girevoli” non sono più garanzia d’imparzialità. Mafie, corruzione, criminalità comune imperversano come sempre, ma loro, i magistrati, i guardiani della legalità, debbono fare i conti con il peso e la credibilità della loro immagine. Il guardasigilli Andrea Orlando è convinto che “nel corso di questa legislatura si sia chiuso il conflitto tra magistratura e politica”. Ancora ieri lo ha ripetuto a Catanzaro. Ma in realtà, negli ultimi cinque anni e dopo gli scontri con Berlusconi, ha prevalso la linea Renzi: ognuno al suo posto, la politica fa le leggi, i giudici non interferiscono e le applicano, se sbagliano pagano. Nessun feeling con l’Anm, e ora nessuna toga in lista, neppure la presidente Pd della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti, che ha gestito leggi come responsabilità civile, intercettazioni, prescrizione, mediando con il dissenso, in verità espresso con toni modesti, dei suoi ex colleghi. Più che un conflitto tra giudici e politica chiuso consensualmente sembra una sconfitta dei primi ormai arresi alla seconda. Subendo la legge sulla responsabilità civile (“Chi sbaglia paga”, sentenziò Renzi) e quella sulle intercettazioni che raccoglie tardivi dissensi. Come quello del pg di Torino Francesco Saluzzo per via della selezione delle telefonate non rilevanti “appaltata” alla polizia giudiziaria e non al pm che ne dovrebbe essere il dominus. Ma, conviene ricordarlo, sei procuratori di peso - Greco, Pignatone, Melillo, Spataro, Lo Voi, Creazzo - hanno suggerito modifiche alle commissioni di Camera e Senato che, proprio sul protagonista della scelta degli ascolti, sono state buttate nel cestino. Non è andata diversamente con la prescrizione. Che il neo pg della Cassazione Riccardo Fuzio bolla come una riforma “solo parziale, non di sistema”. Tre anni in più, e non lo stop definitivo quando parte l’azione penale come dovrebbe stare a cuore a uno Stato che vuole effettivamente assicurare i colpevoli alla giustizia. Soprattutto se parliamo della corruzione, un reato che si scopre tardi e si prescrive in fretta. I cui numeri alti (+97% per il reato di corruzione, +77% per la concussione, +27/0 per la malversazione) fanno dire al pg di Palermo Roberto Scarpinato che “siamo di fronte a un collasso etico e alla deriva criminale di segmenti significativi della classe dirigente”. Tra poco più di un mese sapremo, a urne chiuse, se nel futuro dell’Italia ci sarà un nuovo governo con Berlusconi. Il cui programma sulla giustizia già si preannuncia minaccioso, a partire dalla separazione delle carriere. Ma toghe che si sono lasciate alle spalle il “resistere, resistere, resistere” del pg Borrelli rischiano di presentarsi “nude” e prive di alleati a questo eventuale appuntamento. Appalti e intercettazioni. Toghe contro il governo di Silvia Cocuzza Il Giornale, 28 gennaio 2018 Per il via all’anno giudiziario dai magistrati critiche alla politica. E citano il caso Consip. Nel giorno delle cerimonie per l’inaugurazione dell’Anno Giudiziario emerge il ritratto di un’Italia che prova a riscoprirsi unita (almeno) di fronte alle sfide della Giustizia. Al centro il tema delle intercettazioni. Piovono critiche sulla riforma controversa che entrerà in vigore fra cinque mesi. Per il procuratore generale di Milano Roberto d’Alfonso le nuove norme rischiano di “limitare il quadro investigativo sia nel procedimento nel quale sono state disposte sia in altri procedimenti ove esse potrebbero essere utilizzate, anche a distanza di tempo”. Concorde il procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi: “La recente riforma delle intercettazioni rischia di non risolvere il problema da cui si dice sia nata ma al contempo creerà enormi difficoltà interpretative e applicative”. “Le intercettazioni servono, servono eccome”, afferma il Pg di Torino, Francesco Saluzzo, nella sua relazione inaugurale. Dalle 26 Corti d’Appello del Paese riecheggia, soprattutto, un coro unanime su terrorismo, mafia, immigrazione, corruzione. Parole che incrociano l’agenda politica con la vita giudiziaria del Paese. Dalla Corte d’appello di Perugia, il pg Fausto Cardella parla della ricostruzione post-terremoto: “sicuramente un obiettivo appetibile per le organizzazioni criminali di qualunque tipo”. Nel suo discorso d’inaugurazione il pg della Corte d’Appello di Roma, Giovanni Salvi, ha definito una minaccia “mortale” per la tenuta della legalità il diffondersi di diverse forme di criminalità organizzata. E ha ringraziato per il lavoro la Pg, in particolare i Carabinieri del comando provinciale di Roma per l’“apporto dato in indagini delicate in materia di pubblica amministrazione”. E sul punto Salvi cita la vicenda Consip che ha messo in evidenza “la pervasività di un sistema di partecipazione alle gare pubbliche che ne prevede la sistematica turbativa, attraverso accordi tra grandi imprese”. Dalla Mafia (della) Capitale, alla “ferocia oltre ogni limite” delle cosche del Gargano. Dure le parole del Pg di Bari, Anna Maria Tosto, con riferimento ai delitti di San Severo, Apricena, Foggia e il quadruplice omicidio dell’agosto scorso a San Marco in Lamis. Dal Pg di Milano, Alfonso, arriva l’invito a non abbassare la guardia sulla minaccia dell’Isis che resta “assai elevata nel nostro Paese” e ricorda il caso di Anis Amri, l’attentatore di Berlino radicalizzato nelle carceri italiane. A Brescia, il Procuratore Pier Luigi Maria Dell’Osso, inaugurando l’Anno giudiziario alla Corte d’Appello, si sofferma su un altro tema caldo: “L’impatto sul territorio bresciano di immigrati clandestini in numero cospicuo e crescente contribuisce a creare condizioni di crescita di fenomeni di devianza criminale in termini ancor più marcati che nell’area milanese”. È il presidente reggente della Corte d’Appello del Piemonte, Edoardo Barelli Innocenti, a toccare invece il tema dei tempi della giustizia, cita due gravi casi di processi per abusi sessuali caduti in prescrizione a Torino, affermando che nel capoluogo piemontese “qualcuno non ha fatto fino in fondo il proprio dovere”. La coincidenza con la campagna elettorale ai nastri di partenza, ha inevitabilmente trasformato l’inaugurazione dell’Anno giudiziario in un’occasione per parlare alla pancia del Paese, a cui le cariche politiche non si sono sottratte. A Catanzaro il Guardasigilli Andrea Orlando ha ricordato come “nell’ultima legislatura si è chiuso il conflitto tra magistratura e politica. Un’eredità positiva per il futuro del Paese”. E replica al suo segretario Renzi: “Non mi pare che nella maggioranza del partito ci siano proposte di grande rinnovamento”. Il leader di Leu e presidente del Senato Pietro Grasso, da Palermo, risponde all’allarme del pg Roberto Scarpinato sull’aumento dei reati, con una ricetta che è già un manifesto programmatico: lavoro, industrie, diritto allo studio, economia verde. Il presidente della Camera Laura Boldrini ha invece presenziato alla cerimonia del Palagiustizia di Milano: lì dovrebbe correre per il 4 marzo. I magistrati criticano chiunque tranne se stessi di Pietro Senaldi Libero, 28 gennaio 2018 I procuratori generali hanno inaugurato l’anno giudiziario con discorsi pieni di banalità e senza fare nessun mea culpa. “Abbiamo una giustizia che neppure in Burkina Faso”. “La Banca Mondiale mette l’Italia alla casella numero 108 nella classifica sull’efficienza dei tribunali in rapporto ai bisogni dell’economia”. “Se per far fallire un’azienda che non paga ci vogliono sette anni, è naturale che gli stranieri siano restii a investire nel nostro Paese”. “Ultimamente abbiamo ridotto i tempi ma non si può dire che tre anni di media per arrivare a una sentenza in un processo civile sia un periodo congruo”. “È imbarazzante che restino impuniti per il loro male operato e non subiscano rallentamenti di carriera magistrati che hanno messo sotto processo innocenti, costringendoli a rinunciare a incarichi importanti e danneggiando le aziende pubbliche che questi dirigevano, con grave nocumento per l’economia nazionale”. “Non se ne può più di assistere allo spettacolo di pubblici ministeri che aprono inchieste a carico di politici sul nulla, rovinandone la carriera, e poi magari si candidano sfruttando la notorietà che l’indagine ha procurato loro”. “La giustizia viene ancora strumentalizzata a fini politici”. “In Italia esistono due pesi e due misure a seconda di chi è indagato o processato”. “L’economia italiana è frenata da un numero spropositato di ricorsi accolti senza ragione”. “Le vittime delle truffe bancarie non hanno avuto giustizia e i responsabili dei crack non sono stati adeguatamente perseguiti”. “A questo giro elettorale qualcosa non torna, se Berlusconi non è candidabile in virtù di una legge entrata in vigore dopo il reato per cui è stato condannato”. Ieri in Italia si è aperto l’anno giudiziario e in ogni tribunale del Paese, con gli ermellini sulle spalle e i berrettini neri sulla testa, i procuratori generali hanno recitato il loro discorso inaugurale, fotografando senza sconti lo stato della giustizia italiana. Quelle riportate sopra, tra virgolette, sono le frasi di j’accuse che avremmo voluto sentire. Purtroppo non è stato possibile. L’autoanalisi non appartiene alla categoria dei magistrati, i quali, anche quando devono parlare del loro lavoro, non si siedono mai sul banco degli imputati ma trovano sempre il modo di puntare l’indice altrove. Restano eterni giudicanti, senza neppure essere colti dal sospetto che, almeno in sede di bilanci, bisognerebbe prestare attenzione alla trave che si ha nel proprio occhio piuttosto che alla pagliuzza in quello altrui. Così ieri abbiamo assistito a un elenco di banalità, conosciute anche da chi non ha mai messo piede in un’aula giudiziaria. Il procuratore di Prato sostiene che “in città c’è la mafia cinese ed è difficile da contrastare”. Bella scoperta, quello toscano è il comune con il maggior numero di persone e attività cinesi in rapporto alla popolazione. Quello di Napoli ci ha fatto sapere - ma davvero? - che “in città spadroneggia la camorra, aiutata da un muro di omertà”. Illuminante. A Milano, dove le cose vanno un po’ meglio, abbiamo appreso che “la minaccia terroristica in Italia resta alta perché l’Isis ha messo ripetutamente il nostro Paese nel mirino”. Abbiamo appreso che sono state anche fatte delle indagini per dimostrare che il terrorismo islamico non scherza. A Torino, da sempre meta dell’immigrazione meridionale, c’è un poco di ‘ndrangheta mentre a Bologna destano preoccupazione i delitti contro le donne e le baby gang. E gli arretrati dei rispettivi tribunali? I tempi dei processi? La percentuale di sentenze riscritte in appello e quella di innocenti incarcerati? Il numero di criminali liberati per decorrenza termini o per un errore formale? Informazioni irrilevanti, di cui la magistratura non ha ritenuto di dover rendere conto alla cittadinanza. Non c’è da stupirsi. Già venerdì, quando ha preso la parola a Roma il procuratore generale della Cassazione, si era capito dove si sarebbe andati a parare. Con tutti i casini del nostro sistema giudiziario, l’ermellino se l’è presa con i social, che gli italiani usano a sproposito, scrivendo la prima cosa che passa loro per la mente, incapaci di controllarsi. Per non parlare poi delle fake news, le balle della rete, che disinformano peggio dei giornali e fanno più danni di una sentenza sbagliata. Insomma, non più solo i politici, categoria ora finita in disgrazia. Pare che i giudici oggi vogliano fare qualsiasi cosa, dai giornalisti, ai ricercatori Istat, agli assistenti sociali, ai poliziotti, agli psicologi, tranne che il loro mestiere. Criticano tutti eccetto che loro stessi, hanno un’idea precisa di tutta la società e una soluzione per ogni problema ma non per quelli della giustizia. “Dobbiamo fare ciò che vogliono, altrimenti ci arrestano tutti” disse una volta Flaminio Piccoli, storico segretario della Democrazia Cristiana negli anni Settanta. Eravamo prima di Tangentopoli e da allora la situazione è solo peggiorata. Le toghe erano uno dei tre poteri dello Stato, ora sono rimasti l’unico, causa suicidio degli altri due, quello legislativo e quello esecutivo, per bulimia e incompetenza. E questa situazione di privilegio se la godono tutta, giudicando, pretendendo e non riconoscendo mai i propri errori. Fanno paura e fanno bene ad approfittarne, non a caso sono gli unici dipendenti pubblici i cui scatti di stipendio non si sono mai fermati negli otto anni di crisi, malgrado il loro appannaggio fosse già di gran lunga il più alto di tutti. Stupidi gli altri. Sicurezza, nasce la banca-dati contro i fenomeni di devianza minorile di Ivan Cimmarusti Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2018 Accesso agevolato ai dati sui minori, quando questi siano essenziali per la loro tutela. È la bozza sulle “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città” ad ampliare la sfera di azione delle forze di polizia, anche per arginare fenomeni di delinquenza minorile, come quello delle baby gang a Napoli. Il ministero dell’Interno ha depositato una nuova bozza dell’accordo per “promuovere la sicurezza integrata sul territorio”, già discussa alla scorsa Conferenza Unificata del 24 gennaio. Ciò che emerge è il rafforzamento della banca dati Ced Interforze, che potrebbe essere integrata da una serie di dati inviati dagli enti locali. Nasce, così, un vero e proprio “super Ced” che ha lo scopo di favorire lo scambio informativo. Accesso agevolato ai dati sui minori - La banca dati in uso alle forze dell’ordine potrà avere un carattere bidirezionale in quanto i Comuni e le polizie locali potranno mettere a disposizioni patrimoni informativi utili anche all’autorità di pubblica sicurezza e alle forze di polizia. La novità sta “nell’accesso agevolato” ai dati dei minori. Il particolare non è di poco conto, perché indica la sensibilità dell’Interno rispetto a fenomeni di devianza minorile, che rischiano di sfociare in forme di criminalità. È il caso delle baby gang di Napoli, che rappresentano “una sorta di evoluzione criminale del bullismo che non può essere sottovalutato ma deve essere oggetto di grande attenzione da parte di tutte le istituzioni”, ha detto il presidente della Corte di Appello partenopea Giuseppe De Carolis di Prossedi. “Lo scambio informativo - si legge nella bozza dell’Interno - potrà risultare prezioso non solo in un’ottica di prevenzione securitaria, ma anche per quelle attività che le forze di polizia svolgono quotidianamente per tutelare le fasce deboli e fragili della cittadinanza”. In quest’ottica, “potranno essere previste forme di accesso agevolato da parte delle forze di polizia ai dati gestiti dagli Uffici di polizia locale su richiesta dell’Autorità giudiziaria, delle prefetture e di altri enti relativamente alla tutela dei minori, all’osservanza degli obblighi scolastici e alle richieste di contributi o altre forme di sostegno”. Anagrafe e certificati di commercio - Più in generale, il documento fa riferimento anche ad altri dati che andranno a integrare il Ced. “Le iniziative - si legge - potranno riguardare innanzitutto la possibilità per le forze di polizia di accedere ai dati anagrafici della popolazione residente in Italia e dei cittadini italiani residenti all’estero”. Inoltre, favorendo il coinvolgimento degli enti locali, “potrà essere contemplata anche la possibilità di prevedere l’attivazione di collegamenti capaci di consentire la consultazione informatica dei sistemi relativi alle carte di identità” oltre “all’accesso alle banche dati comunali relative al rilascio delle autorizzazioni ovvero delle segnalazioni certificate di inizio attività afferenti al settore del commercio”. Sostegno economico ai Comuni per nuove centrali operative - Il documento prevede anche il finanziamento a progetti comunali. In particolare si precisa che “attraverso i poteri di indirizzo e coordinamento esercitati dal ministero dell’Interno, di concerto con il ministero per lo Sviluppo economico” si “potrà promuovere l’adozione di misure di sostegno nei confronti anche dei Comuni per l’implementazione di interventi di adeguamento tecnologico delle centrali operative esistenti ovvero per la creazione di nuove”. Numero di emergenza: accordi entro il 12 settembre 2018 - Capitolo di rilievo della bozza, riguarda la “interconnessione delle sale operative della polizia locale con quelle delle forze di polizia”. Non solo, perché si chiarisce la necessità di adottare un Numero unico di emergenza europea 112. Al riguardo è precisato che il “ministero dell’Interno provvederà, entro il 12 settembre 2018, a stipulare con le Regioni accordi finalizzati a garantire l’uniforme passaggio alla numerazione unica di emergenza. Il lessico lercio degli eco-mafiosi di Nello Trocchia La Repubblica, 28 gennaio 2018 “Di fare il consulente del ministero dell’Ambiente me l’hanno chiesto in molti, politici e funzionari, in diversi periodi, nel 1994, nel 1995, nel 2000. L’ultima donazione ai carabinieri è stata intorno ai 20 mila euro, qualche volta ho regalato frigoriferi e televisori”. Non c’è niente di violento, di estremo, di bisunto in questa frase. Eppure meglio di ogni altra delinea i tratti della criminalità ambientale, modi e linguaggio. Poche parole che indicano chiaramente un ceto, alto; una personalità, distinta; un mestiere, di rango; un’appartenenza, che conta. Sono state pronunciate, nel 2015, in un’aula vuota del Tribunale di Napoli da Cipriano Chianese, avvocato, imprenditore, considerato dalla Procura di Napoli l’inventore dell’ecomafia in Campania. In quella frase la conferma che in molti, più volte, gli avevano offerto di diventare consulente del Ministero dell’Ambiente e che più volte Chianese aveva elargito offerte e prebende all’Arma dei Carabinieri. Chianese è stato condannato in primo piano, è in corso l’appello, a 20 di carcere per disastro ambientale e connivenza con il clan dei Casalesi. Avrebbero fatto più effetto altre frasi, alcune contenute nei faldoni delle indagini svolte in questi anni. Tutte pronunciate dai soggetti protagonisti del sacco ambientale. A partire dalla frase, raccontata da Carmine Schiavone, collaboratore di giustizia e cugino di Francesco Schiavone, detto Sandokan, ingordo e demente criminale che ebbe a dire: “Si inquina tutto? Ma tanto noi beviamo acqua minerale” oppure quella pronunciata dall’imprenditore pentito Gaetano Vassallo: “Io ho visto tutta la schifezza che abbiamo sputato nella terra. Una volta scaricammo fanghi, liquidi che erano scarti di lavorazione di un’industria farmaceutica. Poco dopo i ratti si sono estinti, sono spariti”. Boss e titolari di discariche a disposizione dei clan, ma poi ci sono gli imprenditori come il titolare di una cava che disse: “Stanno scoppiando i mattoni e mi hanno individuato come responsabile perché ho mischiato la pozzolana con il materiale riciclato”. Materiale di costruzione impastato con ‘monnezzà triturata. E ancora la frase del titolare di una ditta di trasporti alla notizia di un camion che ha perduto l’intero carico, pieno zeppo di rifiuti: “Il prodotto era quello che era, se lo possono mangiare, se lo mettono sul pane e mortadella” ridendo per il disastro causato. Parole untuose e lerce attinte dal lessico di boss, imprenditori, intermediari, faccendieri, azzeccagarbugli che si sono prodigati in questi decenni nel disseminare veleni ovunque cambiando identità al rifiuto solo sulla carta e distruggendo alcune aree del nostro paese e non solo della Campania. Questa è una storia di imprenditoria, politica e professioni e, sempre meno di ecomafia, dove le consorterie criminali svolgono un ruolo sempre più marginale. Una storia dove il linguaggio vira tra il gergale e lo specialistico. In mezzo a bilici, carichi, formulari, codici identificativi ogni tanto c’è chi dice: “Mandami un carico non troppo chanel” più puzzolente del solito oppure, sono gli anni del commissariamento della gestione rifiuti in Campania: “La discarica è piena di liquidi, se sale facciamo il Vajont”. Un linguaggio da specialisti, tecnici, imprenditori, da zona grigia e non da paccottiglia criminale. Diceva bene il primo boss pentito ai magistrati nel lontano 1992: “La monnezza è oro”. Quando ho avuto modo di intervistarlo quel collaboratore, Nunzio Perrella, ha aggiunto: “Io dissi anche un’altra cosa: la monnezza è oro e la politica è una monnezza”. Quella politica che si era venduta le autorizzazioni ricevendo in cambio dazioni di denaro. Questa è una storia di costi di smaltimento da abbattere nei bilanci delle aziende, di ambiente ridotto a sacrificio possibile, di una legislazione inadeguata per decenni dolosamente e a vantaggio di una galassia imprenditoriale prona al profitto e incurante di salute pubblica, territori e futuro. Salute pubblica e vite delle persone, perfino dei bambini, ridotte a danni collaterali. Così diventa tanto oscena quanto chiarificatrice di un modello l’intercettazione emersa in una inchiesta della Procura di Firenze di un imprenditore che al telefono diceva: “Ci mancavano anche i bambini. Non mi importa niente dei bambini che si sentono male. Che muoiano”. Nunzio Perrella ricorda continuamente: “Hanno pagato solo l’1% di quelli che hanno fatto affari in quegli anni”. In quel mare sconfinato di impuniti ci sono i riciclati, quelli che hanno contribuito al saccheggio e che, oggi, investono nelle rinnovabili e nel riciclaggio dei rifiuti. Quando scrivi di loro invocano il diritto all’oblio e chiedono vagonate di soldi di risarcimento. L’auspicio, tramontata la possibilità di accertare penalmente la responsabilità, è che nella relazione della commissione di inchiesta sul ciclo dei rifiuti trovino spazio questi soggetti e la loro ascesa imprenditoriale. Aveva ragione, a proposito di parole, Roberto Mancini, poliziotto vittima del dovere, morto nell’aprile 2014, ucciso da un cancro, quando prima di morire insisteva su un punto: “Troppi trafficanti l’hanno fatta franca”. Troppi, impuniti e riciclati. La beffa oltre il danno che oggi è amara realtà. L’ultima relazione della direzione nazionale antimafia è fin troppo chiara sul punto: “In una situazione del genere non potrà né dovrà sembrare strano che al vertice di importanti realtà imprenditoriali - scrive il magistrato Roberto Pennisi - proclivi alla sistematica violazione delle norme ambientali, e che godono della simpatia di influenti potentati politici, compaiano personaggi allenatisi nella palestra campana degli anni 80-90, che vide il ruolo attivo delle più agguerrite organizzazioni camorristiche”. Nonostante le certezze oggi c’è chi urla ‘La terra dei fuochi non esistè. I dati ottimi sulla salubrità dei prodotti agricoli, gioia immensa per tutti, non cancellano aree inquinate e in attesa di bonifica, i tombamenti di materiale tossico, falde a rischio in alcuni territori e incendi continui di pattume. L’ultimo allarme arriva da Comiziano, provincia di Napoli, dove in una cava, al centro di movimentazioni di rifiuti per ripristino ambientale, nelle analisi dell’acqua di falda alcuni valori sono oltre soglia come quelli del cancerogeno cromo esavalente. Di certo c’è un fatto che oltre i roghi di rifiuti che fanno piovere diossina, problema perenne e ancora irrisolto, bisogna ormai capire che la terra dei fuochi non è un perimetro territoriale, ma un paradigma di sviluppo che, nonostante nuove norme e promesse, resta terribilmente in auge. Le parole della criminalità ambientale sono sempre più forbite: congiuntivi in ordine e saccheggio ambientale continuo. Toscana: progetto per la prevenzione dell’epatite B fra i detenuti cesda.net, 28 gennaio 2018 Si è concluso l’importante progetto d’intervento dell’Agenzia regionale di sanità (Ars) della Toscana per la riduzione della diffusione dell’epatite B (Hbv), attraverso la sensibilizzazione e l’accesso alla vaccinazione da parte della popolazione detenuta in Toscana. Il progetto si è svolto in tre fasi: 1) Corsi di formazione rivolti al personale sanitario e penitenziario per ogni struttura detentiva coinvolta. 2) Un opuscolo informativo (tradotto nelle principali lingue parlate in carcere) sull’infezione dei virus dell’epatite e sulle conseguenze di salute di salute, rivolto ai detenuti e da distribuire nel corso della normale pratica clinica. 3) Incontri di formazione/informazione rivolti ai detenuti (individuati dall’Amministrazione penitenziaria come possibili peer educator) in ogni struttura detentiva coinvolta. Di seguito, i risultati più significativi del programma: “Dei 17 istituti detentivi toscani, 15 hanno partecipato allo studio, con il coinvolgimento di 3.068 detenuti già presenti in struttura. Di questi, secondo le segnalazioni dei medici che operano negli istituti partecipanti, 1.254 (40,9%) detenuti (già presenti in struttura) sono risultati eleggibili per lo screening per Hbv perché non vaccinati o con marcatori sierologici per Hbv non eseguiti negli ultimi 3 mesi. Purtroppo, l’elevato turnover della popolazione detenuta ha permesso di chiamare attivamente soltanto 967 detenuti ancora presenti al momento della rilevazione. Inoltre, nel periodo indice (1 marzo-30 giugno 2017) sono stati arruolati 199 nuovi arrivati con o senza precedenti reclusioni e 238 detenuti provenienti da altri istituti. Il totale della coorte del nostro studio è di 1.404 detenuti. Grazie alla diffusione del materiale informativo e al programma di formazione svolto con la collaborazione dei mediatori culturali, 1.075 detenuti hanno accettato di sottoporsi allo screening per marcatori sierici per Hbv. Di questi, ben 730 (67,9%) sono risultati suscettibili di vaccinazione anti-Hbv, 20 (1,9%) sono risultati con infezione da Hbv, 27 (2,5%) presentavano positività “anti-HBc isolato”, 127 (11,8%) avevano avuto una precedente infezione da Hbv, mentre in 171 casi la trascrizione incompleta degli esami non ci ha permesso di analizzare il dato”. Venezia: detenuto muore in cella a 35 anni La Nuova Venezia, 28 gennaio 2018 Veneziano, era in carcere da luglio per spaccio. Malore o mix di farmaci: disposta l’autopsia. Tragedia, venerdì, nel carcere di Santa Maria Maggiore: un detenuto di 35 anni - il veneziano G.V., in carcere da quest’estate per reati legati allo spaccio - è morto davanti ai suoi compagni di cella. Si è accasciato a terra, il cuore fermo. Cosa sia accaduto, lo dovrà accertare l’autopsia disposta dalla sostituto procuratore Elisabetta Spigarelli: si è trattato di un malore fatale e improvviso, oppure il giovane ha assunto un mix di farmaci che si è rivelato letale? Risposte che aprono, ovviamente, la strada a scenari molto diversi tra loro. Se si è trattato di un infarto, infatti, l’inchiesta sarà velocemente chiusa; ma se si dovesse accertare che l’uomo ha assunto sostanze al di fuori della terapia alla quale era sottoposto per la sua tossicodipendenza, si tratterebbe di verificare come sia potuto accadere all’interno di un carcere e come se le sia procurate. “L’avevo visto proprio il giorno prima e stava bene”, racconta l’avvocata Francesca Lacchin, “la direzione ha comunicato alla famiglia che si è trattato di un infarto”. Quando la madre ha saputo della morte del figlio, si è sentita male ed è stata ricoverata all’ospedale civile. Le circostanze del decesso di un uomo così giovane sono ancora da chiarire e solo l’autopsia potrà dare risposte: in passato si sono verificati casi di detenuti che hanno assunto farmaci inalandoli, potenziandone l’effetto con il gas delle bombolette che alimentano i fornelli nelle celle. Dinamiche tutte ancora da chiarire, in un carcere come quello di Santa Maria Maggiore dove da tempo i sindacati degli agenti penitenziari denunciano una grave carenza di personale per poter far fronte al controllo dell’alto numero di detenuti, che da parte loro nei giorni scorsi hanno protestato per più sere - sbattendo le stoviglie contro le inferiate - per chiedere l’indulto. Secondo i dati nella relazione della presidente della Corte d’Appello Ines Maria Marini, per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, Santa Maria Maggiore ha una capienza regolamentare per 163 detenuti, “tollerabile” fino a 244: al 30 giugno erano, però, 262. Nel corso dell’ultimo anno, si sono registrati quattro tentativi di suicidio da parte e 56 atti di autolesionismo. Bologna: miraggio misure alternative, la Dozza torna a scoppiare di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 28 gennaio 2018 In questi anni il Tribunale di Sorveglianza non ha offerto una adeguata risposta di giustizia, sia con riguardo alla tempestività che alla quantità. Le carceri dell’Emilia-Romagna tornano a scoppiare e cresce la tensione tra i detenuti. Il tasso di sovraffollamento è del 127%, con punte più elevate negli istituti penitenziari di Bologna, Ferrara e Ravenna. Una situazione che si riflette inevitabilmente sulla tensione che si respira tra le celle: “Quest’anno - spiega Colonna - ci sono stati 102 episodi di proteste collettive, contro i 25 del periodo precedente, 296 aggressioni al personale, minacce e risse”. Non incide positivamente sul sovraffollamento carcerario, la mole di lavoro cui è sottoposto il Tribunale di Sorveglianza. “Si tratta di un carico estremamente gravoso” spiega il presidente della Corte d’Appello. Anche la presidente dell’ufficio Antonietta Fiorillo ha lanciato l’allarme: “In questi anni il Tribunale di Sorveglianza di Bologna non ha offerto un’adeguata risposta di giustizia, sia con riguardo alla tempestività che alla quantità. Le ragioni sono molteplici: la non adeguatezza della pianta organica dei magistrati e del personale amministrativo, nonostante un distretto giudiziario caratterizzato da un numero elevato di detenuti, di cui molti al 41bis o di rilevante pericolosità sociale”. “In questo distretto - ha aggiunto De Francisci - qualche migliaio di detenuti con condanne definitive che chiedono misure alternative al carcere è ancora in attesa di sapere se espierà la pena in carcere o no”. Reggio Calabria: carceri al limite e pioggia di ricorsi per ingiusta detenzione lacnews24.it, 28 gennaio 2018 “Attualmente pendono presso gli uffici giudicanti circa 340 maxi-processi, quasi tutti per criminalità organizzata, ciascuno con almeno 10 imputati detenuti”. Lo ha detto il presidente della Corte d’Appello di Reggio Calabria, Luciano Gerardis, durante il discorso inaugurale dell’anno giudiziario, la cui cerimonia si tiene alla scuola allievi Carabinieri alla presenza del ministro dell’Interno, il reggino Marco Minniti, e del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, che fino a pochi mesi fa è stato procuratore capo a Reggio Calabria. “Il distretto reggino - ha detto ancora Gerardis - si connota fortemente anche per l’ampiezza del contrasto di prevenzione specialmente attraverso misure patrimoniali che incidono, spesso in maniera decisiva, sull’attività lucrativa delle cosche. Reggio Calabria - ha ricordato Gerardis - è terza in Italia per valore di beni gestiti dall’amministrazione giudiziaria. Un fenomeno che determina uno straordinario aumento delle nuove iscrizioni in Corte di Appello, dove negli ultimi mesi si sono riversate decine di procedure, che in breve hanno portato a 196 le pendenze, di cui 93 procedimenti a carattere patrimoniale. Carceri ormai al limite - Carceri al limite della capienza tollerabile. Nella relazione del presidente Luciano Gerardis emergono i dati dei cinque istituti carcerari ubicati nella provincia di Reggio Calabria. Nell’istituto penitenziario di Reggio Calabria-San Pietro la capienza regolamentare è di 184 posti, quella tollerabile è di 260 posti. Al 30 giugno 2017 erano presenti 268 detenuti. Nell’istituto penitenziario di Reggio Calabria-Arghillà la capienza regolamentare è pari a 305 posti, quella tollerabile è di 382 posti. Al 30 giugno 2017 erano presenti 335 detenuti. Nella casa circondariale di Palmi “F. Salsone” la capienza regolamentare è di 152 posti, quella tollerabile è di 213 posti. Al 30 giugno 2017 erano presenti 167 detenuti. Nella casa circondariale di Locri la capienza ottimale è di 89 detenuti, quella tollerabile è di 129 detenuti. Al 30 giugno 2017 erano presenti 94 detenuti. Nella casa di reclusione di Laureana di Borrello al 30 giugno 2017 erano presenti 28 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 34 unità e tollerabile di 68. “Rischio prescrizione reati” - “Foriera di appesantimento e prolungamento dei tempi di definizione dei processi con serissimi rischi di prescrizione dei reati”, cosi’ il presidente della Corte d’Appello ha commentato la piu’ recente riforma introdotta dalla legge 103/2017 in tema di impugnazione di pronunzie penali da parte del pm, nella parte in cui prevede che vada obbligatoriamente riaperta l’istruzione dibattimentale. “È facile prevedere - ha detto Gerardis - che la nuova disposizione inciderà in modo dirompente su tempi di trattazione e durata dei procedimenti in grado di appello. La nostra Corte d’Appello infatti - ha chiarito Gerardis - ha già gravi problemi con l’attuale organico, peraltro attualmente scoperto parzialmente, a trattare tempestivamente i giudizi che, con flusso crescente, provengono dal primo grado al punto che l’attuale pendenza è di oltre 6.000 procedimenti penali, di cui circa 130 di criminalità organizzata con 59 maxi”. 200 ricorsi annui ingiusta detenzione le richieste di indennizzo avanzate alla Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria nella materia della riparazione per ingiusta detenzione appaiono in costante crescita e si attestano ormai in prossimità dei duecento ricorsi annui. È quanto dalla relazione dei presidenti delle due sezioni della Corte di assise di appello di Reggio Calabria, Roberto Lucisano e Bruno Muscolo, per l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Napoli: lezioni in carcere, al via i laboratori per i detenuti a Secondigliano di Melina Chiapparino Il Mattino, 28 gennaio 2018 Laboratori di scrittura e disegno per riabilitare i detenuti nel Carcere di Secondigliano ma non solo. L’ iniziativa, promossa dall’ associazione “I figli di Barabba”, non si ferma alle lezioni nelle aule scolastiche del penitenziario ma punta a creare momenti e occasioni al di fuori delle celle attraverso performance teatrali ed il coinvolgimento di docenti e attori. Il corso organizzato da Antonio, Francesca e Chiara Parisi, fondatori dell’ associazione, si intitola “La mala vita non conviene” ed è strutturato in lezioni settimanali, dove i detenuti hanno modo di riflettere sulla tematica affrontandone i vari aspetti. Le riflessioni vengono espresse attraverso elaborati scritti o disegni, a seconda della propensione soggettiva dei partecipanti. Alla fine del corso si terrà uno spettacolo teatrale dove verranno messi in scena gli elaborati svolti durante le lezioni che proseguiranno fino a giugno con la cadenza settimanale del venerdì. “Il corso si rivolge a detenuti di età variabile che hanno in comune la volontà di partecipare attivamente - spiegano Chiara e Francesca Parisi - sono circa 20 i detenuti in aula con una lista di attesa di altri 30 che speriamo di integrare ampliando la nostra attività”. L’associazione è al suo secondo anno di collaborazione con la direziobe del Carcere di Secondigliano che accoglie le attività dei volontari, quest’anno arricchite dalla presenza dei docenti Vincenzo Zarrillo, Alessandro Tartaglione, Fiorenza Coscino e il parroco Don Antonio Piccirillo. Massa Carrara: i detenuti puliscono i sentieri del Cai La Nazione, 28 gennaio 2018 La direzione del carcere ha promosso un progetto di grande valenza. Si è concluso il progetto proposto dal Club alpino italiano - sezione Carrara “Lavorare insieme: ragazzi del carcere e volontari del Cai per la pulizia dei sentieri delle Apuane”. La strada da percorrere è stata lunga per la complessità e delicatezza della gestione che ha richiesto la stipula di una convenzione tra Comune, casa di reclusione di Massa, l’ufficio esecuzione penale esterna e il Cai per l’inserimento in lavori di pubblica utilità di detenuti e affidati in prova al servizio sociale. L’amministrazione comunale ha deciso di portare avanti per il secondo anno questo progetto a seguito della positiva esperienza maturata nel 2016, giudicandolo meritevole e conforme alle politiche di inclusione sociale perseguite, nel caso specifico, rivolte all’integrazione sociale dei detenuti del carcere di Massa che sono stati impiegati in lavori di pulizia e riordino dei sentieri della montagna. Il dipartimento per l’amministrazione penitenziaria nella figura della direttrice Maria Martone ha individuato, tra la popolazione attualmente reclusa un numero di persone disponibili e nelle condizioni per l’ammissione al lavoro all’esterno, alla semilibertà, all’affidamento in prova al servizio sociale, ai permessi o alle licenze. L’Uepe, con la responsabile Elisa Bertagnini ha individuato, invece, i soggetti sottoposti alla misura alternativa alla detenzione dell’affidamento in prova ai servizi sociali da destinare allo svolgimento delle attività di pubblica utilità. Il Cai ha organizzato la logistica (trasporto, tutoraggio, squadre miste di lavoro) e la rilevazione dei sentieri che necessitavano di pulizia e manutenzione straordinaria, nel rispetto del programma concordato con gli educatori della casa di reclusione e dell’Uepe. “È stata la seconda esperienza per la sezione Cai - spiega il Presidente Luigi Vignale -, che ha reso operativo, un progetto con un forte impatto sociale, di recupero ambientale e di valorizzazione del turismo sostenibile della montagna. Disponibilità e convinzione nel continuare questa esperienza è stata concretamente manifestata dalla direttrice Maria Martone, che ha seguito e “monitorato” con attenzione le varie fasi del progetto, agevolandone la logistica e motivando e responsabilizzando i detenuti e da Elisa Bertagnini che ha selezionato persone idonee ed ha avuto fiducia nei tutor del Cai”. Il gruppo di lavoro, guidato dal presidente e coordinato dal responsabile della commissione sentieristica Andrea Albertosi e dal referente del progetto Claudio Grigolini, era composto da oltre 15 persone. Questi i sentieri interessati dall’intervento di pulizia: sentiero 40 dalla località Torano alla località Monte della Formica; sentiero 46 dalla località Ponte Storto alla Gabellaccia. Sentiero 193 dal Monte d’Arma-La Rocchetta-Capanne Ferrari. Sentiero 38 dalla località Colonnata-Foce di Luccica-Foce di Vinca. Sentiero Castello di Moneta- Foce di Ortonovo. Ecco perché è importante ricordare i complici del male di Agnese Moro La Stampa, 28 gennaio 2018 Sono contenta che ci siano Giornate della memoria che mi obbligano e ci obbligano a ricordare. Anche se farlo è doloroso. Quella che più di tutte mi fa riflettere è proprio quella che abbiamo appena celebrato dedicata alla Shoah. Per molte ragioni. La prima, e certamente la più importante, è lo spaventoso numero di morti che coinvolge. Un’irreparabile perdita per l’umanità. Milioni di vittime alle quali un lavoro paziente e instancabile cerca di restituire almeno un nome perché non se ne perda il ricordo (avete mai visitato a Praga la sinagoga Pinkas con i suoi 80mila nomi dipinti con grande amore?); e se possibile delle immagini e una storia. E tutto questo è avvenuto nel cuore dell’Europa, che si proclamava, allora e anche oggi, culla della civiltà. Un avvenimento tanto spaventoso, durato anni, organizzato nei minimi dettagli (consiglio una visita allo splendido museo Yad Vashem di Gerusalemme), ci offre anche la possibilità di capire come funziona (sempre?) la macchina del male. Quali elementi devono mettersi in moto - in piccolo o in grande - perché sia possibile organizzare e realizzare la morte degli innocenti: la predicazione martellante circa la legittimità e la bontà dell’odio; la disponibilità di tante persone normali a far “funzionare le cose” (guidare treni, costruire e mettere in funzione camere a gas e inceneritori, edificare baracche, creare la struttura organizzativa, solo per ricordare qualcosa); l’attitudine di quelle stesse e di altre persone normali a girare sistematicamente la testa dall’altra parte o a condividere l’idea che possa essere legittimo uccidere e per giunta per motivi futili come l’appartenenza, la disabilità, il credo politico o religioso. A farsi complici denunciando per paura, per antipatia o per convenienza conoscenti, vicini, amici. Il male di allora e quello di oggi hanno a sorreggerli gli stessi elementi, che magari mentre scorrono oggi sotto i nostri occhi non ci sembrano poi così gravi. Come le tante parole d’odio che leggiamo e ascoltiamo. Allora c’è stato anche chi ha detto di no; e oggi? Ricordare è doloroso anche perché ci mette di fronte alla realtà, a noi stessi, alle nostre debolezze e a quanto di meno bello gli esseri umani - tutti gli esseri umani, senza eccezione - possono produrre se cedono all’indifferenza. Ancora sangue in Afghanistan. Ma per l’Europa è un “paese sicuro” di Riccardo Noury Corriere della Sera, 28 gennaio 2018 Dopo l’ennesimo attentato di oggi nella capitale Kabul, si contano ancora i morti e i feriti: rispettivamente 95 e 160 nel momento in cui scrivo. Dall’inizio dell’anno in tutto l’Afghanistan i morti sono stati centinaia. Secondo la Missione Onu in Afghanistan dal 2016, contando anche i feriti, le vittime civili sono state più di 20.000. Ma per l’Europa, l’Afghanistan resta un “paese sicuro” dove rimpatriare i richiedenti asilo. Neanche 10 giorni fa il parlamento della Norvegia, il paese che conta il maggior numero di rimpatri eseguiti, ha bocciato la proposta di sospendere i rimpatri. Per Taibeh Abbasi, la prospettiva di un rinvio in Afghanistan (non un rimpatrio, dato che lei è nata già all’estero, da genitori rifugiati in Iran) si fa concreta. Una ministra del governo di Oslo ha recentemente dichiarato che non manderebbe mai sua figlia a Kabul. Non si capisce perché dovrebbe esserci mandata Taibeh. Amnesty International ha denunciato che tra le vittime degli attentati di questi ultimi due anni o costrette a nascondersi per paura di ritorsioni (a causa dell’appartenenza a minoranze etniche o religiose o dell’identità omosessuale) ci sono anche persone rimpatriate dall’Europa. Egitto. Nel carcere di Tora, Guantánamo di al-Sisi per religiosi e dissidenti, si muore di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2018 Nel carcere di massima sicurezza finiscono leader politici, religiosi e dissidenti: la sezione Scorpione è la più letale. Il muro di cinta del complesso carcerario di Tora, alla periferia sud del Cairo, è punteggiato di torrette da dove spuntano fucili di precisione. I nuclei detentivi sono protetti da almeno tre file di barriere. Fuori è un brulicare di poliziotti, soldati e guardie. Occupano tutti i tavolini dei due bar proprio davanti all’ingresso, sorseggiano tè o caffè turco. Gli unici civili sono i parenti in visita ai detenuti. Tra questi Mohamed Abu Zeid, fratello di Mahmoud, più noto come Shawkan, il fotoreporter arrestato il 13 agosto 2013 e da allora in cella in attesa di giudizio. È il giorno dell’ennesima udienza in cui si spera che il giudice decida finalmente per la scarcerazione. Ma l’attesa è vana: anche ieri il caso Shawkan non è stato discusso. Decisione rimandata al 30 gennaio. Il Cairo somiglia a Milano in autunno: foschia densa e l’aria gelata. Alle 8 in giro solo poche auto. Dalla metropolitana di piazza Tahrir, stazione Sadat, si sale a bordo della linea blu. Il treno si dirige verso sud costeggiando la Corniche del Nilo. Nove fermate, quasi tutte in superficie, e si arriva alla stazione di Tora el-Balad, area degradata della capitale. All’uscita subito una piazzetta occupata da venditori di cibo e bevande e dalla diffusione di una preghiera cantata. Assieme a Mohamed Abu Zeid percorriamo a piedi il chilometro e mezzo fino al cancello della prigione. Le guardie ci fermano, chiedono i documenti, ma è proprio Mohamed a sbrogliare la matassa: “È un amico, ci stiamo salutando, tranquilli se ne va”. Attivisti e giornalisti, specie se stranieri, non sono ben visti in Egitto. Due ore dopo Mohamed esce da Tora: “Mio fratello dentro quel carcere ci sta morendo. È denutrito, ha contratto l’epatite C. Non ce la fa più. A tenerlo su di morale è la vicinanza della gente dal mondo intero. Gli ho detto che ci siamo visti qui fuori e lo salutavi, si è commosso: non vede l’ora di incontrarti quando uscirà”. “Tora, il quartiere della sofferenza. Una città carceraria dove esiste sempre un girone peggiore di quello in cui sei finito”. Specie se il destino ti riserva la sezione Al-Aqrab, “Scorpione”. A dirlo è Hassan Mustafa Osama Nasr, l’ambiguo personaggio egiziano noto alle cronache italiane come Abu Omar, prelevato per strada a Milano nel 2003 attraverso una extraordinary rendition, trasferito proprio nell’enorme complesso di Tora. Le celle dei quattro padiglioni che formano la ‘tombà oggi ospitano personaggi di rilievo. A partire dall’ex presidente, Mohamed Morsi, leader della Fratellanza Musulmana, arrestato nel 2013 su ordine di Abdel Fattah al-Sisi e da allora chiuso nella sezione El- Maz raa per prigionieri politici. Stesso spazio in cui hanno trascorso del tempo un altro ex presidente egiziano, Hosni Mubarak, e i due figli Alaa e Gamal. A El-Mazraa, l’anno scorso, c’è finito anche Murtada (nome di fantasia, preferisce restare anonimo), un attivista del Cairo: “Ho vissuto due settimane in isolamento. Una cella di 3 metri quadrati, luce sempre accesa, solo un materasso e una coperta e un buco a terra come gabinetto. Nessun effetto personale concesso, il cibo me lo facevo comprare fuori dai miei familiari. È stato durissimo, ma c’è a chi va peggio”. Quelli della sezione Al-Aqrab. Il 10 settembre scorso, c’è finito Ibrahim Metwaly, consulente legale della famiglia Regeni al Cairo e fondatore di un’associazione per la ricerca degli scomparsi: “L’ha creata dopo che si sono perse le tracce del figlio - racconta il suo avvocato, Halem Henish - l’altro ieri il giudice ha prorogato il suo fermo di altri 15 giorni. Viene picchiato e torturato. Lo hanno arrestato ufficialmente per l’associazione, in realtà si stanno accanendo su di lui perché seguiva il caso della morte di Giulio”.