Il comitato StopOpg lancia l’osservatorio sulle Rems di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 gennaio 2018 Saranno valutate le strutture e il rapporto con i dipartimenti di salute mentale locali. Conclusa la battaglia per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, il comitato stopOpg ha deciso di monitorare le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Questa nuova battaglia è partorita durante la riunione svolta il 24 gennaio scorso presso la sede di Antigone, per organizzare “l’Osservatorio sul superamento degli Opg e sulle Rems”. Alla riunione hanno partecipato Stefano Cecconi, Patrizio Gonnella, Giovanna Del Giudice, Alessio Scandurra, Valentina Calderone, Fabio Gui, Vito D’Anza e in video collegamento Daniele Pulino. L’ipotesi discussa è di trasformare “Il Viaggio di stopOpg nelle Rems” in qualcosa di più stabile e strutturato: appunto un Osservatorio. Si tratta di monitorare il complesso processo di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, che va ben oltre la situazione osservabile nelle Rems, non dimenticando le relazioni con gli osservatori sulla situazione in carcere, e con gli stessi Garanti delle persone private della libertà. Dopo una ricca discussione hanno deciso di presentare un’ipotesi di progetto da valutare tra le Associazioni promotrici e il Comitato StopOpg. Per questo, hanno deciso di individuare, e formare, dei referenti dell’Osservatorio in ciascuna regione, predisporre una griglia per raccogliere i dati più significativi sul superamento degli Opg e in generale sul rispetto del diritto alla salute mentale e alle cure, dei diritti civili e sociali, delle persone con misura di sicurezza o nell’esecuzione della pena. Ad esempio raccoglieranno dati quantitativi e qualitativi sulle persone prosciolte: senza misura di sicurezza, con misura di sicurezza non detentiva, con misura di sicurezza in Rems. Raccoglieranno anche i dati sulle persone prese in carico dai Dipartimenti di Salute Mentale in misura di sicurezza e nell’esecuzione della pena in carcere e fuori. L’osservazione punta a evidenziare come l’attuazione della legge 81/ 2014 di riforma degli Opg privilegi le misure non detentive, considerando le Rems una extrema ratio. Lo stesso può valere per il carcere. Si tratta di una naturale evoluzione di “StopOpg” dopo il successo della lunga campagna per la chiusura dei manicomi giudiziari, per seguire e sollecitare il processo di superamento degli Opg e quindi della logica manicomiale che li sostiene. Il monitoraggio consisterà nel valutare come si vive nelle Rems, di quanto queste strutture siano capaci di associare cura e custodia. Monitoreranno anche la tipologia di strutture visto che ancora non sono uniformate: ci sono alcune Rems, come quelle nel Lazio e in Lombardia, che presentano strutture di tipo detentivo rigido, con sbarre e regolamenti molto duri. Altro punto è il monitoraggio della presa a carico da parte dei dipartimenti di salute mentale locali, a partire dal diritto all’assistenza in carcere. In sintesi, lo scopo del comitato stopOpg è quello di controllare che la riforma si attui secondo i principi ispiratori che risalgono alla legge Basaglia. Così i partiti cavalcano il tema sicurezza di Francesca Schianchi La Stampa, 27 gennaio 2018 Da destra a sinistra, impostazioni divergenti. Il Pd insiste sulla strategia lanciata da Renzi. Nel centrodestra il problema è legato all’immigrazione. Grasso punta su diritti e Mediterraneo L’intera legislatura è ruotata attorno al tema della sicurezza, dal contrasto all’immigrazione clandestina, alla legittima difesa, all’emergenza del terrorismo internazionale. L’attenzione spasmodica alla Libia e alle rotte dei migranti ha segnato soprattutto l’ultimo anno. Non meraviglia dunque che i programmi dei partiti dedichino largo spazio a come intendono garantire la sicurezza dei cittadini nei prossimi anni. Il centrosinistra difende i suoi cinque anni di governo e Renzi rilancia il binomio Sicurezza & Cultura. Il M5S promette una valanga di assunzioni nelle forze di polizia e prefetture. Il centrodestra vuole estendere al massimo l’uso dei soldati a supporto della polizia e garantisce blocco degli sbarchi, rimpatrio di tutti i clandestini, respingimenti assistiti, trattati con i Paesi di origine dei migranti. Il centrodestra intende rimettere mano ad alcune leggi che in Parlamento ha frenato come ha potuto, dal reato di tortura alla legittima difesa. Centrosinistra. Riqualificazione delle periferie e controllo dell’immigrazione Quello che il Pd proporrà di fare su questi temi si iscrive nella scia di quanto fatto in questo ultimo anno dal ministro dell’Interno Marco Minniti, diventato uno dei volti di maggior consenso tra i dem, tanto da essere invitato dal segretario Renzi a mostrarsi più spesso in tv. Approvato la primavera scorsa il Daspo urbano contro i vandali che danneggiano le città, una stretta sugli spacciatori e poteri di ordinanza rafforzati ai sindaci, il tentativo dei dem sarà quello di trovare un equilibrio tra interventi repressivi e strumenti educativi, che puntino a “rammendare” - per usare un verbo usato da Renzo Piano spesso ricordato dal leader Pd - territori lacerati di periferia. “Un euro in sicurezza e uno in cultura”, è lo slogan che Renzi ripete per sintetizzare il suo punto di vista sulla questione. Così come punterà a portare avanti il percorso intrapreso da Minniti nella gestione delle migrazioni, dagli accordi con la Libia ai rapporti con l’Europa per cercare di ottenere una maggiore collaborazione. I dati del Viminale parlano a oggi di un -17,04 per cento di sbarchi rispetto al 2017: è con questi numeri che il Pd proverà a convincere di essere il più titolato a parlare di gestione dei flussi e sicurezza. Movimento 5 Stelle. Gli obiettivi: due nuove carceri e 10mila assunzioni in polizia Il tema della sicurezza nel programma del M5S, si mescola al tema dei migranti e a quello della giustizia, sulla certezza della pena. Non c’è molta differenza, dunque, rispetto ai programmi dei diretti avversari. È il tono a essere diverso, la declinazione imposta da Luigi Di Maio sin da quando, lo scorso agosto, si schierò con le forze dell’ordine che avevano sgomberato con durezza uno stabile abitato da profughi nel pieno centro di Roma. “Sicurezza e legalità” e “stop al business dell’immigrazione” sono due dei venti punti del programma di Di Maio e sono elencati, non a caso, uno di seguito all’altro. Nel dettaglio il candidato del M5S prevede 10 mila nuove assunzioni nelle forze dell’ordine (una ghiotta occasione per un elettorato giovane, soprattutto al Sud) e due nuove carceri “per dare ai cittadini più sicurezza e legalità”. Al punto successivo sono previste altre 10 mila assunzioni nelle commissioni territoriali per valutare in un mese se un migrante abbia diritto a stare in Italia o no. Non c’è scritto, ma lo ha poi specificato ieri in diretta tv, che i rinforzi dell’organico della polizia e degli altri corpi serviranno a pattugliare i quartieri anche “per evitare che una persona debba difendersi da sola”. Una dichiarazione che è una presa di distanza dalla legge sulla legittima difesa propagandata dall’eventuale alleato di governo leghista. Centrodestra. Via la protezione umanitaria e la difesa è sempre legittima La sicurezza è il punto forte del centrodestra convinto di essere la coalizione più credibile su questo terreno. A spingere di più per il giro di vite sono Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Non a caso il leader leghista vorrebbe guidare il ministro dell’Interno, se non dovesse diventare premier. Prima della chiusura della legislatura entrambi hanno fatto votare una norma che prevede l’abolizione degli sconti di pena per reati di particolare violenza ed efferatezza. Contro invece Forza Italia per la sua cultura garantista. Poi però i tre partiti hanno sottoscritto un programma di massima in cui il capitolo sicurezza raccoglie le istanze di tutti. L’idea di fondo è che questo problema sia strettamente legato alla presenza dei migranti. Ecco allora la chiusura dei confini e i respingimenti di massa, ma non viene citato il blocco navale davanti alla Libia. La Lega ha ottenuto di inserire nel programma l’abolizione della concessione della “protezione umanitaria”, mantenendo soltanto gli status di rifugiato. Per il centrodestra la difesa è sempre legittima. Quindi qualunque reazione violenta contro chi entra nella nostra abitazione o proprietà è giustificata, indipendentemente dall’effettivo pericolo. Berlusconi vuole il rafforzamento della presenza dei carabinieri di quartiere come deterrente. Meloni ha chiesto l’estensione di “strade sicure” con impiego delle forze armate per la sicurezza delle città. Liberi e Uguali. Superare il Daspo urbano e stop all’intesa con la Libia Il capitolo “sicurezza”, in quanto tale, non compare tra i 15 titoli del programma di Liberi e uguali. I temi della sicurezza si ritrovano in vari altri capitoli: di immigrazione, ad esempio, si parla alla voce “diritti”. Per Leu occorre “rigettare gli accordi con Paesi in cui non siano garantiti i diritti umani”, via dunque l’accordo con la Libia firmato da Marco Minniti. Via anche la legge Bossi-Fini e sì all’introduzione di un “permesso di ricerca lavoro”, oltre a “meccanismi di ingresso regolari”, sistema di asilo europeo, canali umanitari e missioni di salvataggio. Per Leu serve un “sistema di accoglienza rigoroso, diffuso e integrato, sulla base del modello Sprar, adeguatamente dimensionato, superando la gestione straordinaria”. Secondo Leu vanno superate le politiche di sicurezza urbana volute dai governi Renzi e Gentiloni, a partire dal Daspo urbano di Minniti. “Ci sono state applicazioni aberranti delle ordinanze dei sindaci contro i senza fissa dimora”, spiega la senatrice Cecilia Guerra. Sul fronte anti-corruzione Leu propone l’introduzione di agenti sotto copertura come nelle indagini di mafia e una soglia più bassa per il contante. Stop alla prescrizione dopo la condanna in primo grado, “no a mitigazioni del regime del carcere duro per i mafiosi”. “Cari Pm, meno spettacolo più deontologia e rigore” di Giulia Merlo Il Dubbio, 27 gennaio 2018 Anno giudiziario il monito del nuovo procuratore della cassazione. L’adunanza per l’inaugurazione dell’anno giudiziario alla Corte di Cassazione si è aperta con il monito del primo presidente della Suprema Corte, Giovanni Mammone: al centro i mezzi di comunicazione e la deontologia professionale delle toghe. “Il vivere sociale impone ai magistrati precisi obblighi deontologici di misura e moderatezza, necessari per preservare la loro immagine di terzietà in ambito istituzionale, nella vita privata e nei rapporti con la stampa”, ha detto Mammone. Sulla stessa linea anche il Procuratore generale Riccardo Fuzio: “I pm che usano i social network possono mettere a rischio l’immagine della categoria”. E Mascherin ha sottolineato come “un certo sistema mediatico finisce con il banalizzarne e delegittimarne la funzione”. L’adunanza per l’inaugurazione dell’anno giudiziario si è aperta in Corte di Cassazione con molti volti nuovi e altrettanti ormai quasi uscenti. Davanti al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, hanno preso la parola i vertici di magistratura e avvocatura e il ministro della Giustizia. Primo a prendere la parola, il primo presidente della Suprema Corte, appena nominato successore di Giovanni Canzio: Giovanni Mammone. In stile asciutto e pacato, la sua relazione ha isolato due questioni: la deontologia professionale delle toghe e i rischi connessi ai nuovi mezzi di comunicazione. “L’abuso dei mezzi di comunicazione messi a disposizione della Rete costituisce un fenomeno crescente e preoccupante”, ha affermato, spiegando come “si violi il diritto della collettività ad essere informata in maniera corretta e sono messi in moto meccanismi di diffusione delle notizie che possono arrecare anche inconsapevolmente danni a terzi”. Quanto ai profili deontologici, Mammone ha evidenziato come “il vivere sociale impone ai magistrati precisi obblighi deontologici di misura e moderatezza, necessari per preservare la loro immagine di terzietà in ambito istituzionale, nella vita privata e nei rapporti con la stampa”. Nel merito dell’attività della Corte, Mammone ha sottolineato come l’obiettivo nomofilattico e dunque di “eguaglianza di ogni individuo davanti alla legge e prevedibilità delle decisioni” è incrinato dal “moltiplicarsi delle fonte normative e dal loro scarso coordinamento: un disvalore sia per i rapporti economici che per le relazioni giuridiche”. Un richiamo, quello alla correttezza professionale dei magistrati, condiviso anche dal neo Procuratore generale, Riccardo Fuzio, il quale ha ricordato come “vada recuperato il rapporto tra deontologia e comportamenti. Dal magistrato si esigono alcuni obblighi di condotta che sono precondizioni per l’esercizio dell’attività professionale, anche se sfuggono alle fattispecie di illecito tipizzate. Per questa ragione auspico un completamento dell’attuale codice disciplinare”. Con queste premesse, Fuzio ha chiamato in causa l’utilizzo dei social media: “Le esternazioni extra-funzionali di magistrati sono sempre più frequenti e i social media sono mezzi attraverso i quali possono realizzarsi diffamazioni e illeciti disciplinari. Mezzi attraverso i quali un magistrato, pur senza violare codici penali o disciplinari, può violare le regole deontologiche e, comunque, mettere a rischio l’immagine della propria indipendenza”. Quanto al merito dell’attività inquirente, Fuzio ha ricordato come “il pm ha sempre il dovere di determinarsi attraverso le indagini se dare seguito all’esercizio dell’azione penale oppure procedere con la richiesta di archiviazione, quando gli elementi acquisiti non siano idonei a sostenere l’accusa in giudizio”. A seguire, è intervenuto il vicepresidente del Csm (al termine del suo incarico), Giovanni Legnini, il quale ha salutato l’Aula con commozione ringraziando per i quattro anni di lavoro comune con le alte corti e i rappresentanti dell’avvocatura e lodato l’attività riformatrice dell’attuale Guardasigilli, Andrea Orlando. “Io auspico si eviti che il percorso delle riforme, da tempo avviato, e che sta dando positivi frutti, possa subire interruzioni, deviazioni o soluzioni di continuità”, ha commentato, “perché troppo spesso abbiamo assistito allo smarrimento determinato dai cambi di legislatura, dando luogo all’effetto della tela di Penelope”. Ha poi ricordato gli interventi di questi anni, a partire dagli investimenti in tecnologia, personale e semplificazione, “che hanno necessità di produrre effetti nei prossimi anni e richiedono quindi un certo grado di stabilità degli indirizzi di politica giudiziaria”. Un intervento largamente condiviso dal Ministro Andrea Orlando, che ha sottolineato come al termine della legislatura sia il momento di trarre qualche conclusione. “Le riforme messe in campo hanno seguito le direttrici di imponenza, coerenza e metodo. Abbiamo ridotto l’arretrato civile, le nostre riforme sono state fatte mettendo a disposizione risorse, con assunzioni e innovazioni, come il processo civile telematico”. Del resto, “Quest’anno per la prima volta non si è lanciato alcun grido d’allarme. Si riconoscono i risultati dell’attività riformatrice di questi anni”. Da ultimi, hanno preso la parola i vertici dell’avvocatura. “La nostra attività è aumentata, a livello nazionale, di circa 2 punti percentuali, arrivando a circa 170.000 affari nuovi, che si aggiungono a quelli pendenti”, ha detto l’Avvocato generale dello Stato, Massimo Massella Ducci Teri, sottolineando come “all’Avvocatura dello Stato sono state assegnate nuove competenze, tra le quali l’assunzione del patrocinio dell’Agenzia delle Entrate- Riscossione”. Sul fronte degli organici, ha ringraziato il ministero per l’incremento di dotazioni organiche per gli avvocati dello Stato. A riconoscere lo sforzo del Guardasigilli, anche il presidente del Cnf, Andrea Mascherin: “Devo dare atto al ministro di avere intrapreso un percorso di riconoscimento del ruolo dell’avvocato e della dignità della di lui prestazione, attraverso misure come l’equo compenso, il legittimo impedimento della avvocata in gravidanza, i nuovo parametri, l’attuazione della legge professionale”. Mascherin ha ricordato poi “la contrarietà dell’avvocatura alla sommarizzazione del processo civile, il rischio di sacrificare il principio di prossimità, ma anche di efficienza, attraverso alcune delle soluzioni suggerite dalla riforma fallimentare, e alcuni interventi in materia penale, come il processo a distanza”. Infine, Mascherin ha sottolineato come “magistrati e avvocati devono rivendicare e difendere insieme la condizione, non rinunciabile, della piena indipendenza dell’attività giurisdizionale, indipendenza dagli altri poteri dello Stato, ma anche da altre forme di possibile condizionamento”. Il riferimento, “all’invasività di un certo sistema mediatico che, trasformando il processo in occasione di profitto, finisce con il banalizzarne e delegittimarne la funzione”. “Social pericolosi”. Per le toghe il problema della giustizia sono le fake news Libero, 27 gennaio 2018 Nella classifica per la durata dei processi ordinari, ha certificato la Banca mondiale, l’Italia occupa il 157esimo posto su 183 Paesi. Perché passano quasi mille giorni, più o meno tre anni, dall’inizio di un procedimento alla sentenza. Eppure Giovanni Mammone, primo presidente della corte di Cassazione, nella relazione sull’amministrazione della giustizia che ieri ha aperto l’anno giudiziario 2018, ha puntato l’indice sull’”abuso dei mezzi di comunicazione” e degli “strumenti di partecipazione sociali messi a disposizione della Rete” (i “social”), definiti un “fenomeno crescente e preoccupante”. Sono questi, insieme a femminicidio, baby gang, crescita dei processi per violenza sessuale e stalking, i nodi centrali della giustizia per il 2018. In carica da meno di un mese, Mammone, alla presenza del Guardasigilli Andrea Orlando, ha lanciato l’allarme sui rischi derivanti dall’abuso dei social network. È la prima volta che questo succede nella cerimonia che inaugura l’anno giudiziario (oggi tocca ai singoli distretti di corte di appello). “Da un lato è violato il diritto della collettività a essere informata in maniera corretta; dall’altro sono messi in moto meccanismi di diffusione sociale delle notizie che possono arrecare, anche inconsapevolmente, danni a soggetti terzi”. Insomma, la giustizia è in pericolo per le fake news. “Deve incrementarsi un appropriato monitoraggio”, intima l’ermellino davanti - e pure questa è una novità - a una delegazione di studenti. Pericolo “social”, ma non solo. Per Mammone è diventata una questione di “particolare rilievo sociale” il cambiamento, imposto dalla Corte di Cassazione, in tema di assegno di divorzio. Vale a dire il superamento del principio in base al quale andava garantito all’ex coniuge un tenore di vita analogo a quello vissuto durante il matrimonio. Nel corso del 2017, 113 donne hanno perso la vita. Un dato inferiore a quello del 2016, quando le vittime di femminicidio erano state 115. Per il primo presidente del Palazzaccio di piazza Cavour, però, si tratta di un fenomeno “di notevole allarme sociale, indice della persistente situazione di vulnerabilità della donna”. Poi ci sono le “baby gang”, tornate d’attualità dopo quanto accaduto in Campania. Il fenomeno delle “aggressioni violente e immotivate messe in atto da giovanissimi ai danni di coetanei è allarmante”. Ma la sola risposta “repressiva”, a detta di Mammone, è “inefficace”. Un assist al Viminale, che sulla scorta degli ultimi episodi ha deciso di affiancare al pugno duro - 100 uomini dei reparti speciali in più nelle aree più a rischio - la lotta alla dispersione scolastica. Torna anche l’allarme rosso nelle carceri: a fronte di una capienza regolamentare di 50.499 posti, al 31 dicembre nei penitenziari italiani erano reclusi 57.608 detenuti. Ma il ministro La corruzione e il pericolo della giustizia di classe di Henry John Woodcock Corriere del Mezzogiorno, 27 gennaio 2018 Opportunamente, nella lingua italiana l’espressione “corruzione” non indica solo il reato omonimo, ma anche “decomposizione, disfacimento, putrefazione” e ancora “Il guastarsi, il degenerare” (Enciclopedia Treccani). Indica quindi, prima e più di tanti saggi e analisi, pure il complesso di conseguenze che un sistematico ricorso a quel reato comporta per la vita politica, ma anche sociale e civile. La “Prima Repubblica” è stata travolta dalle inchieste sul reato, ma l’ampiezza del fenomeno criminale era, già esso, spia della decomposizione, della degenerazione che minava oramai dal di dentro il sistema politico. Qualcosa di analogo è successo ai regimi arabi sconvolti dalle “primavere”, e la corruzione è il punto debole su cui spesso inciampano tragicamente anche governi che, nel complesso, meriterebbero un giudizio sostanzialmente positivo, come è il caso del Brasile di Inacio Lula da Silva. La corruzione è quindi un nemico, forse oggi il più insidioso, del vivere civile e delle democrazie, perché corrompe (appunto) dal di dentro il sistema di relazioni, il rapporto della politica coi cittadini e con le imprese, falsa il mercato e indebolisce la legittimità di leggi e istituzioni. E apre le porte ad avventure di vario tipo che, in nome della lotta alla corruzione, talvolta riescono a far peggio. Se ne parlerà oggi, in occasione della presentazione del recente saggio di Raffaele Cantone, il presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, “La corruzione spuzza”. E subito ci tengo a dire che qualche volta la corruzione non “spuzza” affatto, ha anzi il buon odore dell’amicizia, delle relazioni importanti e dei salotti. E questo è un problema. E spiega in parte perché i processi contro i colletti bianchi durino così a lungo, tanto a lungo da stemperare l’allarme, e anche lo sdegno, che i fatti avevano suscitato al loro primo apparire, aprendo così la strada ad un giudizio più indulgente, più comprensivo di quanto quei fatti meriterebbero. Le ragioni di tutto questo sono molteplici: nel nostro sistema opera un doppio binario che rende celerissimi i processi contro la criminalità di strada e molto meno celeri, a volte tartarugheschi, quelli contro i colletti bianchi, appunto. Questi ultimi, poi, possono contare su abili avvocati e su molte complicatezze procedurali. Ma c’è anche un dato “umano” che ha il suo peso. Quando davanti al giudice compare un personaggio i cui tratti sociali e culturali denotano una distanza siderale dal suo ambiente di nascita e di vita, viene più facile mantenere il distacco che è necessario per giudicare. Non c’è pericolo di identificarsi, non ci si può immedesimare nelle circostanze di vita che l’hanno portato al delitto. Diverso è quando compare una persona che assomiglia tremendamente al compagno di scuola o al vicino di casa del giudice che deve giudicare. E racconta storie che gli risuonano familiari, tanto simili a quelle che gli capita di ascoltare la sera a cena con gli amici. Qui diventa più complicato mantenere il distacco e la distanza, e forte è il rischio dell’indulgenza. D’altronde, ci fu, in anni passati, chi è arrivato ad affermare che con i colletti bianchi bisognava andarci piano, perché, al contrario dei delinquenti, per loro il carcere è un trauma. Giustizia di classe? Certo, è possibile. Per evitarlo, decisivo è tenere sempre a mente il significato dell’espressione “corruzione” nel suo complesso, ricordare che si tratta di una malattia insidiosa che opera sotto traccia e a volte, quindi, non è immediatamente visibile. Ma sempre produce danni devastanti per l’organismo sociale. Trattativa Stato-mafia, l’atto d’accusa dei pm di Palermo di Salvo Palazzolo La Repubblica, 27 gennaio 2018 “Condannate Mancino, Mori e Dell’Utri”. La procura chiede 6 anni per l’ex ministro dell’Interno accusato di falso, 15 per il generale del Ros, 12 per l’ex senatore FI. Cinque anni per Ciancimino, accusato di calunnia. In totale, 90 anni di carcere. Di Matteo lascia Palermo. “Sono colpevoli e vanno condannati”, dice il pubblico ministero Vittorio Teresi. Gli uomini dello Stato e gli uomini della mafia accusati di aver dialogato - peggio, trattato - mentre esplodevano le bombe fra la Sicilia e il Continente. “15 anni per il generale Mario Mori, 12 per il generale Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno - le richieste della procura alla corte d’assise sono pesanti - 12 per Marcello Dell’Utri”. Fra gli imputati c’è pure l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di aver detto il falso: per lui la procura chiede una condanna a 6 anni. Una condanna viene chiesta anche per i mafiosi che vollero minacciare lo Stato a suon di bombe: “16 anni per Leoluca Bagarella, 12 per Antonino Cinà”, dice Teresi, accanto a lui ci sono i colleghi Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene. Tutti in piedi davanti ai giudici. Una richiesta dello stesso tenore sarebbe arrivata anche per l’imputato principale di questo processo, l’artefice della strategia stragista, il capo di Cosa nostra Salvatore Riina, che è morto a dicembre. Per Massimo Ciancimino, accusato di calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni Di Gennaro, la procura chiede 5 anni. Per l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, viene invece sollecitato il “non doversi procedere per intervenuta prescrizione”. Stessa richiesta per il pentito Giovanni Brusca. “Riteniamo di aver raggiunto la prova piena della responsabilità degli imputati - dice l’accusa - alcune tessere di questa storia sono sporche di sangue. Il sangue delle vittime delle stragi”. Dopo 4 anni e 8 mesi di dibattimento, 210 udienze, il processo Trattativa Stato-mafia è all’ultimo capitolo, davanti alla corte d’assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto (giudice a latere Stefania Brambille). “Questo processo riguarda i rapporti indebiti fra Cosa nostra e alcuni esponenti delle istituzioni”, hanno detto i pubblici ministeri nel corso delle otto udienze della requisitoria. Per la prima volta, mafiosi e uomini delle istituzioni sono insieme sul banco degli imputati. Sono accusati di minaccia e violenza a un Corpo politico dello Stato. “Nel 1992, con il delitto dell’eurodeputato Lima e poi con le stragi Falcone e Borsellino, i mafiosi volevano vendicarsi, ma anche inviare un messaggio di ricatto al governo e alle istituzioni, Cosa nostra cercava la mediazione”. Questo il cuore dell’atto d’accusa della procura. I pm hanno citato anche le parole di Totò Riina intercettate in carcere qualche anno fa: “Io al governo gli devo vendere i morti”. Secondo l’accusa, nel 1992, “gli uomini del Ros avviarono una prima trattativa con l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, che avrebbe consegnato un “papello” con le richieste di Totò Riina per fermare le stragi”. Circostanza negata dai carabinieri imputati, ma del “papello” non ha parlato solo il figlio di Vito Ciancimino, oggi in carcere per calunnia, ma anche un autorevole dichiarante, il boss Pino Lipari, l’ex ministro dei lavori pubblici di Provenzano, che ha accettato di deporre in aula. Mori ha poi sempre negato di avere incontrato l’ex sindaco mafioso prima della strage Borsellino, i primi contatti sarebbero stati tenuti da Donno. La procura ritiene diversamente. Durante l’inchiesta “Trattativa” è emerso che un mese dopo la morte di Falcone, l’allora capitano De Donno chiese una “copertura politica” per l’operazione Ciancimino (il dialogo segreto con l’ex sindaco) al direttore degli Affari penali del ministro della Giustizia Liliana Ferraro, che però rimandò l’ufficiale ai magistrati di Palermo. Il 28 giugno, la Ferraro parlò del Ros e di Ciancimino a Borsellino, che le disse: “Ci penso io”. E da quel momento, il mistero è fitto. Cosa sapeva per davvero Borsellino? A due colleghi disse in lacrime (un’altra circostanza che abbiamo scoperto attraverso l’inchiesta di Palermo): “Un amico mi ha tradito”. Chi è “l’amico” che tradì? Alla moglie, il magistrato parlò del generale Subranni: “Mi hanno detto che è punciuto”. Cosa aveva scoperto Borsellino? Gli ufficiali si sono sempre difesi: “Parlando con Ciancimino, volevamo solo arrestare Riina”. Ma i pm hanno accusato: “Hanno agito fuori delle regole”. Sono state le parole dell’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli ad aver messo nei guai l’ex ministro dell’Interno Mancino. “Mi lamentai con lui del comportamento del Ros”, mise a verbale l’ex ministro della Giustizia davanti ai giudici di Palermo. “Mi sembrava singolare che i carabinieri volessero fare affidamento su Vito Ciancimino”. Martelli ha affermato senza mezzi termini di aver chiesto conto e ragione a Mancino dei colloqui riservati fra gli ufficiali del Ros e l’ex sindaco mafioso di Palermo. Mancino ha sempre negato: ha detto di non avere mai parlato del Ros e di Ciancimino con Claudio Martelli. “Dice il falso”, accusano i pm. Dopo l’arresto di Riina, nel 1993, i boss avrebbero avviato una seconda Trattativa, con altri referenti, Bernardo Provenzano e Marcello Dell’Utri. Mentre le bombe mafiose esplodevano fra Roma, Milano e Firenze, un altro ricatto di Cosa nostra per provare a ottenere benefici. “Dell’Utri ha fatto da motore, da cinghia di trasmissione del messaggio mafioso”, accusano i pubblici ministeri. “Il messaggio intimidatorio fu trasmesso da Dell’Utri e recapitato a Berlusconi”. E ancora: “Nel 1994, Dell’Utri riuscì poi a convincere Berlusconi ad assumere iniziative legislative che se approvate avrebbero potuto favorire l’organizzazione”. Ma quando è emerso per la prima volta un indizio della cosiddetta “trattativa”? Al periodo agosto-settembre 1993 risalgono una nota del Sco della polizia e una nota della Dia, che riferiscono di una “trattativa” in corso. In quei documenti compare per la prima volta il termine “trattativa”. Poi, tre anni dopo, fu il pentito Brusca a parlare ai magistrati della “trattativa” che Riina avrebbe portato avanti. Dagli archivi del Dipartimento delle carceri, è saltato fuori invece un documento firmato dall’allora ministro Giovanni Conso, contiene la lista di quattrocento mafiosi a cui non venne prorogato il 41 bis. In un archivio del Viminale, i pm hanno trovato un altro documento: nel corso di una riunione del comitato nazionale dell’ordine e la sicurezza, del 1993, l’allora capo della polizia Parisi sollecitava un allentamento del regime carcerario. Per i pm, la linea della fermezza durante i mesi delle stragi fu solo una “retorica affermazione”. Per la procura, invece, alcuni rappresentanti delle istituzioni trattarono. “Spinti da esigenze personali, politiche, da ambizioni di potere contrabbandante da ragion di Stato”. La settimana prossima, in aula toccherà alle parti civili costituite in giudizio: il Centro studi Pio La Torre, il Comune di Palermo, l’associazione Libera, l’associazione Familiari delle vittime della strage dei Georgofili, poi ancora la Presidenza del Consiglio dei ministri, la Presidenza della Regione Sicilia e l’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro, parte lesa dal reato di calunnia contestato a Ciancimino. Quindi, sarà il momento delle difese. La sentenza potrebbe arrivare ad aprile. Intanto, oggi è l’ultimo giorno di Nino Di Matteo al processo di Palermo. È lui stesso a dirlo durante la requisitoria: “Con questa udienza, termina l’applicazione per me e per il collega Del Bene, che siamo ormai in servizio alla Direzione nazionale antimafia”. Di Matteo ricorda i suoi 25 anni fra Palermo e Caltanissetta: “Già all’inizio di quest’ultima inchiesta, sapevo che avrei pagato un costo, e credo di non essermi sbagliato. Hanno più volte affermato che siamo stati mossi da finalità eversive, nessuno ci ha difeso, siamo rimasti isolati. Lo avevamo messo nel conto. Abbiamo agito - conclude Nino Di Matteo - solo per cercare la verità, nel rispetto delle leggi, rifuggendo ogni calcolo di opportunità”. Il diritto di oblio è planetario di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 27 gennaio 2018 Con un ricorso al garante italiano della privacy si può ottenere l’ordine a Google di deindicizzazione globale di tutti gli Url, anche dai risultati di ricerca nelle versioni extraeuropee. È quanto ha deciso il Garante, con il provvedimento 557 del 21 dicembre 2017, che si è occupato del caso di un professore universitario preso di mira in rete, con messaggi o brevi articoli anonimi pubblicati su forum o siti amatoriali, a proposito del suo presunto stato di salute e di ipotetici reati gravi, in realtà mai commessi e per i quali non è stato mai indagato. Il problema, sollevato dall’interessato, è che, non appena un Url veniva rimosso, subito ne venivano generati altri con contenuti di analogo tenore. Il Garante ha deciso a favore della deindicizzazione, ma limitatamente alle richieste di rimozione di Url indicate nell’atto di ricorso al Garante e non quelli relative a risultati emersi dopo. In ogni caso, con riferimento agli Url di cui è stata ordinata la deindicizzazone, il Garante ha ritenuto che la perdurante reperibilità sul web di contenuti non corretti e inesatti provochi un impatto sproporzionatamente negativo sulla sfera privata del ricorrente. Il garante ha applicato il principio di maggiore severità, previsto nel caso in cui si tratti di informazioni che sono parte di campagne personali contro un determinato soggetto, sotto forma di rant (esternazioni negative a ruota) o commenti personali spiacevoli: in tali ipotesi la deindicizzazione deve essere giudicata con maggiore favore in presenza di risultati che generano un’impressione inesatta, inadeguata o fuorviante rispetto alla persona interessata. Per effetto del provvedimento, dunque, Google è tenuta a deindicizzare gli Url riguardanti il professore italiano da tutti i risultati della ricerca, sia nelle versioni europee del motore, sia in quelle extraeuropee e anche agli Url già deindicizzati nella versione europea. Come si è detto si è trattato di una vittoria solo parziale, in quanto sono stati tenuti fuori dalla pronuncia le istanze di deindicizzazione avanzate per la prima volta solo nel corso del procedimento avanti al Garante. È evidente che l’accoglimento parziale rischia di essere un pugno di mosche, considerato la possibilità di riprodurre in rete tendenzialmente all’infinito un contenuto, con la possibilità altrettanto incommensurabile per il motore di ricerca di pescare questi contenuti nuovi. Naturalmente non è in questione il tenore della pronuncia del Garante, mentre è in discussione la portata della normativa sulla privacy, che dovrebbe dare tutele adeguate e non tutele fittizie. Nel caso specifico ci si chiede se il professore debba continuare a vita a fare ricorsi per tutti gli Url che di volta in volta verranno fuori. Peraltro neanche il regolamento Ue sulla privacy (2016/679), operativo dal 25 maggio 2018, dà piene assicurazioni, perché subordina la cancellazione di tutti i link possibili a una verifica della fattibilità tecnica e della proporzione dei costi da sostenere. Trento: la rieducazione fuori dal carcere, mossa vincente di Margherita Montanari Corriere del Trentino, 27 gennaio 2018 Convegno all’università, la garante dei detenuti Menghini: “Via necessaria per il reinserimento” De Bertolini: “La rieducazione esterna argine al sovraffollamento”. Zeni: “Investiti 300.000 euro”. Le misure alternative per l’esecuzione della pena come opportunità di reinserimento sociale e di alleggerimento della popolazione carceraria. Questo il tema al centro del convegno tenutosi ieri all’università. “È vero che i soggetti avvicinati a misure alternative sono quelli ritenuti più affidabili. Ma è dimostrato che in questi, a seguito della scarcerazione, il tasso di recidiva scenda dal 70% al 19%”. Su questo dato Antonia Menghini, docente di diritto penitenziario e garante dei diritti dei detenuti della provincia, punta la propria convinzione: “È necessaria un’implementazione di alternative alla restrizione della libertà personale; alternative che sono il perno dell’esecuzione penale, specialmente in una logica preventiva per il reinserimento sociale del condannato”. Il tema è stato affrontato ieri nel corso del convegno “Misure alternative alla detenzione e reinserimento sociale”, organizzato dalla facoltà di giurisprudenza col supporto dell’Ateneo. Il coinvolgimento attivo del condannato, come ha messo in luce Giovanni Maria Pavarin, presidente del Tribunale di sorveglianza di Venezia, “amplia lo spettro dei diritti dei detenuti; e ugualmente aumentano le responsabilità che questi si devono sobbarcare. Avere la concessione di più ore di libertà significa anche avere la responsabilità di tenere una buona condotta”. Mantenere il detenuto nel tessuto sociale è ancor più importante quando la pena è di breve durata. “In certi casi, il carcere porta il detenuto a ripetere azioni criminose una volta uscito - ha spiegato Menghini. Le misure di libertà, invece, garantiscono effettività alla pena, aiutano in chiave deflattiva il governo della popolazione carceraria, e rieducano al fine di reinserimento sociale”. Lo stesso concetto è stato ribadito dal presidente dell’ordine degli avvocati di Trento, Andrea de Bertolini, che ha definito il percorso socializzante “la premessa per evitare il delinquere a seguito della scarcerazione”. Uno dei principali paletti è che in Italia “manca una comune cultura della giurisdizione, soprattutto penale”, ha aggiunto l’avvocato. Rendendo più flessibile la sanzione, cambia, quindi, la situazione del detenuto. E indirettamente quella delle carceri: “Implementando le possibilità di iniziare da subito un percorso rieducativo al di fuori del carcere, si dà una valida risposta al sovraffollamento carcerario”. La garante ha fatto presente che, più del problema dell’affollamento, in Trentino, è la ridotta pianta organica di agenti penitenziari ad impattare sulla messa in atto di misure alternative alla detenzione. Nel convegno è intervenuto anche Luca Zeni. L’assessore alle politiche sociali ha evidenziato che “ogni anno la provincia investe 320.000 euro nelle politiche orientate al miglioramento delle condizioni detentive, ad esempio ampliando lo sportello diritti, o avviando progetti a favore della genitorialità in carcere”. Trento: corsi di formazione a Spini, nel 2017 oltre trecento richieste di Valentina Leone Corriere del Trentino, 27 gennaio 2018 Nuovo accordo Provincia-carcere. Rossi: la competenza è statale. La lunga e faticosa strada per il reinserimento sociale dei detenuti ha come tassello fondamentale la formazione scolastica. Su questo, la Casa circondariale di Spini di Gardolo, in sinergia con la Provincia, porta avanti un impegno che ieri si è rinnovato con il licenziamento, in giunta, del nuovo protocollo d’intesa. Guardando alle cifre, sono tanti i detenuti che ogni anno aderiscono ai percorsi scolastici o a corsi di formazione professionale. Per il 2017 gli accessi ai corsi formativi sono stati 350, tra moduli di alfabetizzazione o professionali e percorsi annuali per acquisire il diploma di scuola superiore di primo e secondo grado o di una qualifica professionale specifica. Corsi che vedono i ragazzi impegnati per più ore al giorno per diversi giorni a settimana. Su una popolazione di 300 unità, nel solo mese di gennaio vi sono già state 200 richieste di accesso ai corsi. Ogni anno, del resto, si attivano mediamente otto o nove corsi di lingua italiana a vari livelli, sei corsi di lingua inglese, dai sei ai nove corsi di informatica e alcuni gruppi di apprendimento del tedesco. In campo, oltre ad amministrazione carceraria e Provincia, tre istituti che rendono possibili l’attivazione dei percorsi formativi: il Liceo Rosmini e gli istituti professionali Pertini e alberghiero. “I detenuti hanno generalmente pene non superiori a tre anni, quindi l’organizzazione dell’offerta formativa è particolarmente complessa”, ha spiegato Matilde Carollo, dirigente del Rosmini, che ieri insieme al presidente della Provincia Ugo Rossi ha presentato il nuovo protocollo. Proprio il governatore ha poi colto l’occasione per intervenire in merito alla visita effettuata l’altroieri nel penitenziario da Rita Bernardini (Radicali italiani) e dagli avvocati De Bertolini e Valcanover, i quali hanno mosso una serie di critiche riguardo l’assenza di attività all’interno dell’istituto. “Ogni volta che si fa visita a un’istituzione la cui responsabilità è dello Stato, il ritornello, se l’istituzione è in Trentino, è che la Provincia faccia qualcosa di più. Tutto ciò che la Provincia fa - ha proseguito Rossi - lo fa volentieri, ma ciò che accade nel carcere è responsabilità dello Stato. Un’istituzione che parla di un’altra dovrebbe almeno sapere di ciò che sta parlando”. Pescara: studenti e detenuti colorano la stanza dei colloqui in carcere pescaranews.net, 27 gennaio 2018 È ispirato al mondo delle fiabe il pannello a parete che sarà realizzato da 4 studentesse del liceo artistico Misticoni-Bellisario e 4 detenuti nella stanza destinata ad accogliere le famiglie e i bambini per i colloqui all’interno del carcere S. Donato. L’iniziativa rientra nel progetto “Sulle ali della libertà”, promosso dall’Assessorato alle Politiche sociali per favorire il recupero e la valorizzazione delle persone che stanno scontando una pena, attraverso l’emersione del potenziale espressivo e la riflessione interiore. I bozzetti delle studentesse del Mibe sono stati presentati ieri in un incontro al quale hanno partecipato l’assessore Antonella Allegrino, il direttore del carcere, Franco Pettinelli, l’educatrice Rina Pisano, la docente Barbara Nardella e le alunne della classe 5 H (sezione Arti figurative) Alice Belli, Annachiara Ciampa, Vivian Sorige, Virginia Mazzocca, i rappresentanti dell’associazione culturale “Lo Spazio di Sophia” Anna Colaiacovo e Giuseppe Mistichelli e Marisa Camplese, Paola Di Fabrizio ed Elia Cellucci della Croce Rossa. “I detenuti sono apparsi molto motivati e impazienti di iniziare l’opera - spiega l’assessore Allegrino - Gli incontri con le studentesse del Mibe si terranno due volte alla settimana in modo da poter concludere il lavoro entro la primavera. Il pannello, che ispira un senso di libertà e armonia, resterà esposto nella stanza dei colloqui dove visitatori e familiari potranno seguire tutte le fasi di realizzazione”. Il progetto “Sulle ali della libertà” è stato articolato in due fasi. Nella prima, che si è svolta nei mesi scorsi, i detenuti hanno avuto la possibilità di vivere un’esperienza di ricerca interiore attraverso una serie di incontri di filosofia organizzati e condotti dagli operatori dell’associazione “Lo Spazio di Sophia”, che hanno cercato di stimolare in loro una riflessione che li aiutasse ad esteriorizzare le proprie idee e, più in generale, a favorire il processo comunicativo. Gli studenti del Mibe, a loro volta, hanno prodotto diversi disegni ispirati al contenuto di questi incontri e ai temi della libertà e degli spazi ampi. Tra questi, è stato scelto il bozzetto per il pannello “Si tratta di attività che rientrano nella funzione rieducativa della pena, così come viene stabilito nel comma 3 dell’articolo 27 della Costituzione - aggiunge Allegrino. L’incontro tra studenti e detenuti, inoltre, consentirà ai primi di aprirsi a problematiche di carattere sociale e ai reclusi di avere un contatto con il mondo esterno ed esprimere fantasia e creatività”. Il progetto rientra nell’alternanza scuola-lavoro. La Croce Rossa, che già da tempo opera con un gruppo all’interno della casa circondariale, ha contribuito all’iniziativa con l’acquisto di parte del materiale necessario alla realizzazione del pannello. “Sulle ali della libertà” ha avuto anche rilevanza nazionale con un lungo articolo apparso sul trimestrale di filosofia “Diogene”. Foggia: un giorno in famiglia per i detenuti di San Severo immediato.net, 27 gennaio 2018 Successo per “una partita con papà”. Non solo un evento sportivo, ma un’iniziativa solidale organizzata con l’obiettivo di favorire i rapporti tra i ristretti e i propri cari. Una mattinata in famiglia, nonostante le sbarre. Non solo un evento sportivo, ma un’iniziativa solidale organizzata con l’obiettivo di favorire i rapporti tra i detenuti e i lori cari e far rivivere la quotidianità con tutti i suoi riti. È stato questo e molto altro l’iniziativa “partita con papà” organizzata dal Cpia1 e dal docente Luigi Talienti nel carcere di San Severo. “L’obiettivo di iniziative di questo tipo - spiega il docente e volontario - è quello di “scardinare” un modello stereotipato di colloquio e rafforzare, invece, il ruolo di genitore e marito, con particolare attenzione ai bisogni e ai diritti dei più piccoli di incontrare il proprio padre in uno spazio più confortevole di una normale sala colloqui. Il ruolo dei volontari penitenziari si esplicita anche in questo modo, mediante il contributo al rafforzamento dei legami familiari”. È così è stato: dopo la partita di calcio, le famiglie hanno trascorso un paio d’ore con i propri cari ristretti in una sala accogliente, con banchetto e doni preparati dal Cpia1 per i bambini. “Essere genitori in carcere non è facile - ha sottolineato il Commissario Giovanni Serrano - per questo è importante pensare a percorsi di sostegno e a come implementare strategie utili a mantenere il rapporto con i figli. A tal fine, insieme con il direttore Patrizia Andrianello, sosteniamo fortemente progetti di questo tipo”. Parole di incoraggiamento sulla “necessità di preservare il legame con il genitore, fondamentale per la crescita del bambino e per la sua stabilità emotiva” sono state spese dal dirigente scolastico del Cpia1, Antonia Cavallone e dalla referente della Funzione Strumentale, Maria Soccorsa de Letteriis. “Il mantenimento del legame tra il genitore e il figlio, durante la detenzione, svolge un’importante funzione preventiva rispetto a fenomeni di devianza giovanile, abbandono scolastico, illegalità” ha sottolineato il primo cittadino, Francesco Miglio, intervenuto alla manifestazione. Presente anche il vescovo, Mons. Giovanni Checchinato, accompagnato dal direttore della Caritas di San Severo, Andrea Pupilla che ha trascorso la mattinata insieme ai detenuti e alle loro famiglie. All’iniziativa ha partecipato anche il Csv Foggia, con l’Area “Promozione del Volontariato Penitenziario”. Nuoro: la Coldiretti incontra i detenuti del carcere di Badu e Carros sardegnareporter.it, 27 gennaio 2018 Venerdì 2 febbraio la Coldiretti Sardegna entra nel carcere di Badu e Carros per incontrare i detenuti della casa circondariale. L’iniziativa fa parte di un progetto più ampio, nato lo scorso anno in occasione della visita alla struttura penitenziaria di Bancali, che vede come protagonisti, insieme alla Coldiretti, i componenti dell’associazione culturale Istentales e gli alunni della scuola media n.12 dell’istituto comprensivo Brigata Sassari. “Da sempre lo spirito della Coldiretti è quello di stare a stretto contatto con la terra e al fianco delle persone più bisognose - afferma il direttore della Coldiretti Sardegna, Luca Saba. Con questo piccolo gesto speriamo di portare tra le mura del carcere di Badu e Carros qualche attimo di serenità”. Momento centrale della visita è il concerto degli Istentales e Maria Luisa Congiu che presentano in anteprima la loro canzone e progetto Lumeras: “Non è la prima volta che la nostra musica varca le soglie di un carcere. Negli ultimi anni abbiamo suonato nelle strutture penitenziarie di Milano, Volterra, Padova, Spoleto e Sassari - afferma il cantante degli Istentales, Gigi Sanna. La settimana prossima ci esibiremo a Badu ‘e Carros dove proveremo a far sentire un po’ meno solo chi vive una realtà così difficile come quella della vita detentiva e siamo molto felici che questo luogo possa ospitare l’anteprima della nostra canzone e progetto Lumeras nato dalla collaborazione con Maria Luisa Congiu”. Un altro passaggio di grande intensità nel programma della manifestazione Quella terra che profuma di libertà è affidato ai testi scritti dagli alunni della scuola media n.12 dell’istituto comprensivo Brigata Sassari. Le loro riflessioni sul tema della reclusione saranno lette dalle professoresse ai detenuti del carcere. “Nella prima tappa di questo progetto ci siamo resi conto, ancora una volta, della forza delle parole - aggiunge la direttrice scolastica Claudia Capita. Le riflessioni dei nostri ragazzi su un tema così delicato come quello della vita detentiva sono state capaci di creare un forte legame con i detenuti del penitenziario di Bancali e speriamo che in questo secondo appuntamento possa succedere lo stesso”. Al termine della mattina ci sarà spazio per il buffet composto dai salumi della società cooperativa Genuina di Ploaghe condotta da Antonello Salis, dai formaggi della cooperativa Pastori di Dorgali, dalla frutta e dalla verdura offerte dai produttori dei mercati Campagna Amica. “Dopo la bellissima esperienza dello scorso anno, siamo veramente felici di poter dare vita alla seconda tappa di questo progetto - dichiara il presidente della Coldiretti Sardegna, Battista Cualbu. Grazie alle parole degli studenti delle scuole medie, alla musica degli Istentales e ai sapori della nostra Isola, speriamo di poter regalare loro una mattinata diversa ed emozionante”. Lecco: gli studenti di una classe del liceo “Bertacchi” conoscono il carcere leccoonline.com, 27 gennaio 2018 Impressioni e emozioni dietro le sbarre. “Se fossimo rimasti più a lungo sarebbe stato poi più difficile venire via. Avremmo avvertito maggiormente il senso di colpa nell’andare e lasciare loro lì dentro”. Ha indubbiamente “segnato” e non poco gli alunni della classe 4A Sue (Liceo economico-sociale) l’esperienza vissuta mercoledì mattina all’interno del carcere di Bollate. Le sbarre presenti ovunque, gli ambienti chiusi (“una ragazza si è sentita male perché sembrava davvero mancare l’aria”), il venire a sapere che anche la detenzione ha un costo (“si paga una quota mensile di circa 100 euro, nessuno lo immaginava”), il realizzare che alla fine i condannati hanno una loro sensibilità nonché una loro capacità di stringere rapporti di amicizia e di rispetto che “dentro” hanno un peso diverso rispetto a “fuori”, il leggere la “sofferenza nei loro occhi”, il sentirli parlare delle loro famiglie lontane da tempo, da anni: questi e tanti altri i “dettagli” che hanno impressionato i giovani studenti, coinvolti nel progetto “Crescere a arte nella legalità”, diramazione dell’iniziativa “Oltre le sbarre, arteterapia in carcere” finanziata dal Centro Studi Parlamento della Legalità di Milano e portata avanti da quattro anni presso la struttura carceraria meneghina dalla malgratese Luisa Colombo che, negli ultimi mesi, ha seguito percorsi analoghi a quelli proposti ai ragazzi dell’Istituto superiore lecchese anche con altre 7 classi di scuole secondarie di primo e secondo grado di Cologno Monzese e Monza. “Il Bertacchi è la prima realtà del nostro territorio che segue il progetto completo, totalmente gratuito perché ho scelto di autofinanziare il tutto per i giovani del Liceo sociale. A incontri in Aula per circa 20 ore ha fatto seguito l’uscita a Bollate, considerato un carcere a 5 stelle ma pur sempre un carcere, dove ti viene tolto tutto a cominciare dal contatto con l’esterno e si deve sottostare a regole precise, chiedendo il permesso per fare qualsiasi cosa. Credo che per questi ragazzi sia stata un’esperienza importante, a livello umano” ha spiegato l’arteterapeuta, ricordando come il percorso abbia una duplice finalità. La prima rieducativa e di reinserimento per i detenuti, tutti già arrivati alla boa di metà pena e pronti a mettere il loro vissuto a disposizione degli alunni. La seconda, proprio per gli studenti, di carattere preventivo, mostrando loro quelle che potrebbero essere le conseguenze delle loro azioni attraverso l’esempio di chi ha già commesso errori. Il tutto per il tramite dell’espressione artistica che diventa dunque mezzo per raggiungere obiettivi come il rispetto delle regole, di sé stessi e degli altri oltre alla convivenza civile. Nel corso della prima “lezione” sono così state colorate delle mattonelle, caricate di significato. La seconda è stata invece una full immersion nella piaga della droga, con il tema affrontato direttamente da chi sta scontando condanne di spessore per reati legati proprio allo smercio di stupefacente. Ne corso del terzo appuntamento, si è lavorato sulla conoscenza di sé fino ad arrivare poi a varcare la soglia del carcere di Bollate, con la visita etichettata come “il fiore all’occhiello del percorso” da Luisa Colombo. “Lì ho capito che anche le cose che si danno per scontato non lo sono” ha spiegato una studentessa. “Non mi aspettavo tanta affinità con loro. Si pensa siano diversi da noi” ha detto una compagna in riferimento ai carcerati incontrati, persone “che vogliono essere viste come tali, come essere umani, e non come il reato che hanno commesso”. Frasi dense di significato come i libretti prodotti nella mattinata trascorsa, per scelta, dietro le sbarre. Il capitale umano che ci lascia e va in Europa di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 27 gennaio 2018 Più di mezzo milione di italiani in 5 anni sono migrati verso Paesi europei. Sono molti. E sono raddoppiati gli arrivi di italiani in Europa dal 2011 al 2015, passando da 64 mila a 136 mila. Lo dicono i dati rilevati nei Paesi di destinazione. Che cosa sta succedendo? Siamo diventati un Paese di emigrazione? O invece siamo un Paese di immigrazione-emigrazione? Analizziamo i dati. Uno sguardo al passato: in due periodi il nostro Paese ha vissuto grandi emigrazioni, tra il 1870 e il 1920 e tra il secondo dopoguerra e il 1973. Emigrazioni di massa, di milioni di persone, soprattutto dal Sud ma non solo. Emigrazioni diverse anche come destinazioni, la seconda più verso l’Europa della prima. Poi ad un certo punto, sempre negli Anni 70, anche grazie alle politiche restrittive di altri Paesi europei che hanno indotto i migranti a cambiare rotta, cambiamo pelle anche noi e ci trasformiamo in Paese di immigrazione. E comincia la crescita degli arrivi, prima alcune nazionalità poi altre da vari Paesi del mondo. E comincia anche il radicamento delle varie comunità. Guardiamo ad oggi. Ebbene l’immigrazione nel nostro Paese diminuisce, mentre l’emigrazione cresce e si evidenzia come un fenomeno emergente. Consideriamo questo dato del 2015, prodotto da Eurostat, ultimo disponibile. 250 mila arrivi in Italia di cui 185 mila di cittadini extra Ue+Efta. Se consideriamo i flussi di italiani verso i Paesi Ue27 +Efta e extraUe27 arriviamo a 172 mila, dato che potrebbe essere un po’ più alto perché sottostimato per quanto riguarda la Francia. Le due cifre sono molto vicine. Anche perché i ritorni degli italiani non sono elevati e comunque sembrano essere sostanzialmente stabili. La Germania è il principale Paese di destinazione dei nostri concittadini. In cinque anni sono stati registrati 180 mila italiani. E la cosa interessante è che gli italiani si insediano non solo dove tradizionalmente si recavano in passato i nostri connazionali, ma anche in nuove aree e in particolare in zone dell’ex Germania dell’Est. Metà dei cittadini che si spostano in Germania sono giovani da 19 a 32 anni. E tra l’altro si nota anche un aumento di immigrazione di bambini e ragazzi minori di 18 anni, indizi di emigrazioni di famiglie intere come segnala l’Istituto Statistico tedesco, con l’aumento di cittadini coniugati maggiore di quelli non coniugati. A questi si aggiungono anche quarantenni in crescita. Dopo la Germania si posiziona il Regno Unito con 87 mila arrivi di cittadini italiani registrati in cinque anni. E in questo caso è molto interessante verificare che cosa succede in termini di capitale umano formatosi in campo sanitario nel nostro Paese. Nel settembre 2015 risultavano circa 3000 italiani inseriti nel sistema sanitario inglese. Non si trattava solo di medici, ma anche di infermieri, ostetriche, portantini, autisti di ambulanze. Se analizziamo gli arrivi tra settembre 2015 e settembre 2016, ci accorgiamo che sono altri 2000, più del 30% giovani con meno di 25 anni e il 35% di 25-29 anni. D’altro canto se nella nostra sanità non si assume più, l’età media del nostro personale sanitario supera i 50 anni, non possiamo lamentarci che appena formati i nostri giovani si inseriscano nel sistema sanitario inglese. Sana reazione dovremmo dire. Questi dati ci dicono che il processo di emigrazione è sostenuto e che ha conosciuto una impennata negli ultimi anni. “Non si tratta solo di fuga di cervelli”, come sottolinea il demografo Domenico Gabrielli, studioso di migrazioni “sono coinvolti i giovani formati ma non solo”. È un fatto congiunturale o destinato ad esplodere o a perdurare? Non possiamo dirlo, ma abbiamo delle avvisaglie da tenere seriamente in considerazione, se non vogliamo tornare ad essere come in passato un Paese di elevata e patologica emigrazione. Siamo nell’era della globalizzazione. Non possiamo più considerare la mobilità come 50 anni fa quando era una impresa spostarsi da Roma a Milano, è connaturata a questa epoca. Ma se la mobilità diventa espressione del declino di un Paese o delle gravi difficoltà che incontra, bisogna correre ai ripari in tempo. E dotarci di strategie adeguate prima che sia troppo tardi. Rosarno, incendio nella tendopoli dei migranti: un morto, molti ustionati di Alessia Candito La Repubblica, 27 gennaio 2018 Alle 5 del mattino le fiamme nel ghetto di tende e capanne che ospita i braccianti che arrivano in Calabria per la raccolta delle arance. Nei mesi scorsi più volte l’annuncio della sua chiusura. Una persona è morta e diverse sono rimaste ferite nel vasto incendio scoppiato questa notte alla tendopoli di Rosarno, vero e proprio ghetto di tende e capanne che d’inverno ospita i braccianti che arrivano in Calabria per la stagione delle arance. L’allarme è scattato attorno alle 5, ma quando i vigili del fuoco sono arrivati, per uno degli ospiti era già troppo tardi. Diverse persone sono state invece trasportate in ospedale per ustioni. Nei mesi scorsi, la prefettura ha più volte annunciato che la tendopoli sarebbe stata abbattuta e che ai migranti sarebbero state offerte condizioni di alloggio più decorose, ispirate all’accoglienza diffusa. Ma tutto è rimasto lettera morta. E la tendopoli ha continuato a crescere. Per questa mattina è stato convocato un comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, cui parteciperà anche il ministro dell’Interno Marco Minniti, in città per l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Centro di accoglienza a Conetta (Ve): indagata la coop che gestisce i migranti di Ernesto Milanesi Il Manifesto, 27 gennaio 2018 Inchiesta per associazione a delinquere. Nel Centro di accoglienza dell’ex base missilistica Silvestri, a Conetta, ci sono 700 persone. Un’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica. Un progetto del governo Gentiloni. E una nuova potenziale “rivolta”. Il centro di accoglienza nell’ex base missilistica Silvestri a Conetta (190 residenti ai margini della Città metropolitana) torna sotto i riflettori giusto un anno dopo la morte di Sandrine Bakayoko, ivoriana di 25 anni. La Procura della Repubblica di Venezia ha effettuato una raffica di perquisizioni collegate all’inchiesta che annovera sei indagati. Simone Borile, la moglie Sara Felpati, Gaetano Battocchio e Annalisa Carraro della coop Edeco-Ecofficina per associazione a delinquere nella frode in pubbliche forniture. E due funzionari della Prefettura di Venezia chiamati a rispondere di rivelazione del segreto d’ufficio. Nell’hub a novembre c’erano oltre mille profughi costretti a sopravvivere in condizioni denunciate più volte dai parlamentari in visita. In 300 avevano dato vita alla “marcia per la dignità”, accampandosi nelle parrocchie, sconfinando fino a Padova e alle porte di Venezia. Con un altro morto: Salif Traore, 35 anni, ivoriano, investito da un’auto mentre pedalava al buio lungo l’argine del Bacchiglione per raggiungere gli altri. Oggi nella struttura sono rimasti circa 700 migranti: alcuni nei giorni scorsi hanno protestato davanti al cancello presidiato dalle forze dell’ordine. La gestione Edeco, compreso il servizio pasti, è nel mirino delle contestazioni. Tanto più se, davvero, prosegue oltre i termini fissati dal bando di assegnazione. Ma la coop di Borile & C sembra vantare la predisposizione a vincerli: oltre a Cona, aveva “in portafoglio” le ex basi militari a Bagnoli di Sopra (Padova) e Oderzo (Treviso). Inoltre si era occupata dell’ex caserma Prandina, hub provvisorio nel centro di Padova. Un bel business: più di 15 milioni secondo il bilancio che contabilizzava180 dipendenti, di cui solo una cinquantina soci coop. Borile è un ex Dc, poi consigliere provinciale di Forza Italia, che ha ottenuto più di un incarico pubblico: dal CdA dell’istituto per minorati della vista Configliachi a quello dell’Ater fino alla breve presidenza del Parco Colli Euganei. Quindi si è occupato di gestione dei rifiuti nella Bassa padovana: è finito nell’inchiesta sulle “spese pazze” di Padova Tre. Infine, l’accoglienza con i primi guai giudiziari già nel maggio 2015, quando il pm Federica Baccaglini apre il fascicolo sul bando per venti posti Sprar a Due Carrare: “carte false” con l’avallo di una funzionaria della prefettura di Padova. E ora un’altra inchiesta. “Le indagini sono finalizzate alla verifica dei rapporti tra la struttura di accoglienza e gli uffici pubblici deputati al controllo, nonché alla corretta esecuzione del contratto di appalto di accoglienza dei migranti richiedenti asilo internazionale al centro di Cona” scandisce il procuratore Bruno Cherchi. Intanto il sindaco di Cona Alberto Panfilo lancia l’allarme per il progetto di installare prefabbricati all’interno dell’ex base militare. “Il governo ha chiesto il parere del Comune. Ho convocato un’assemblea pubblica venerdì sera al centro pubblico di Pegolotte, in cui ognuno potrà esprimersi su questa iniziativa”. In sostanza, si tratta di utilizzare prefabbricati al posto delle originarie tensostrutture allestite d’urgenza. In base al piano regolatore, operazione impossibile. Tuttavia il governo può procedere comunque. Cona potrebbe così diventare di nuovo una sorta di santabarbara sociale. Con i migranti esasperati, la coop Edeco alla sbarra e i residenti sul piede di guerra. Il 30 gennaio nella sede del Dipartimento per il coordinamento amministrativo di palazzo Chigi è già stato convocato il “summit” con Comune, Asl e prefettura.