Le sbarre del carcere spezzate dal perdono di Manuela Petrini interris.it, 26 gennaio 2018 L’Apg23 propone un percorso educativo personalizzato per i detenuti in alternativa al carcere. “Non c’è santo senza passato, non c’è peccatore senza futuro”. Sono queste le parole che Papa Francesco, ha rivolto ad Antonello, detenuto che ha svolto un percorso alternativo al carcere nella Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi. Antonello, durante l’udienza generale ha consegnato al Pontefice una caciotta chiamata “Formaggio del perdono”, prodotta in un’azienda agricola dell’Apg23. In Terris ha intervistato Giorgio Pieri, responsabile del progetto Cec - comunità educante con i carcerati - dove circa 290 detenuti ed ex detenuti seguono un percorso educativo personalizzato. Cosa sono le comunità educanti con i carcerati? “Le Cec sono comunità che hanno l’obiettivo non solo di educare i detenuti ma anche gli operatori e i volontari. Chi la vive, cammina e si lascia educare dalle provocazioni di questa realtà. È un percorso di revisione della propria vita, ma anche di fede. Sono formate dai cogestori del progetto, che sono gli operatori responsabili della Comunità Papa Giovanni XXIII, da volontari e dai recuperandi, ossia i reclusi”. Quali sono i principi alla base di queste realtà? “Le Cec si basano fondamentalmente su quattro pilastri: innanzitutto la presenza della comunità esterna. Le Cec non possono esistere se il territorio non è coinvolto direttamente. Vengono quindi chiamati dei volontari, persone che donano il loro tempo, gratuitamente, per portare avanti questa opera. Vengono coinvolti due volte a settimana per gli incontri di gruppo e personali, inoltre accompagnano i carcerati nelle varie attività come scuola di calcio, corsi d’italiano e uscite libere la domenica. Rappresentano il mondo esterno e devono assolutamente essere coinvolti nel percorso educativo perché poi i carcerati prima o poi usciranno da queste comunità. Questa condivisione con i carcerati mette in crisi le proprie sicurezze, perché sono persone difficili, perché nel reato di ogni persona, in qualche modo, è coinvolta anche la società. Nei momenti significativi dell’anno liturgico andiamo nelle parrocchie per partecipare alle liturgie penitenziali, durante le quali il detenuto parla dei reati che ha commesso, il volontario dei propri peccati e si scopre che sono abbastanza equiparabili. Il secondo principio è quello dell’auto mutuo aiuto: all’interno di questa comunità i detenuti non sono assistiti, ma vengono coinvolti in varie modalità e si chiede loro di impegnarsi in prima persona nelle diverse responsabilità. Fra queste quella del confronto reciproco che serve a liberarsi dalle catene interiori. Le sbarre che si fa più fatica a rimuovere sono quelle dentro la persona, incatenata a una serie di comportamenti che in qualche modo inducono a perpetrare atteggiamenti delinquenziali. Se si riesce a far ciò, il recuperando diventa un vero maestro di vita, un apostolo nei confronti degli altri, la sua parola ha peso. Il terzo è la pacificazione con le famiglie di origine: non possiamo pensare o sperare in un cambiamento effettivo se la famiglia non è coinvolta in questo percorso di liberazione. L’ultimo pilastro è rappresentato dall’attività ergo-terapica o lavoro terapia o attività occupazionale: la capacità di occuparsi di varie mansioni, anche lavorative, in molti casi porta anche alla professionalizzazione della persona”. Con quali criteri proponete il progetto ai detenuti? “Nelle nostre strutture ci sono omicidi, ladri, rapinatori, ma anche persone che hanno trafficato in esseri umani e indotto molte ragazze alla prostituzione. Noi accogliamo tutti secondo il criterio che “l’uomo non è il suo errore”. Questo era quello che ci diceva sempre don Oreste Benzi, perché l’uomo ha una vocazione ad amare e questo è quello che noi dobbiamo fare: tirare fuori la capacità di amare che in molti casi viene bloccata dal peccato. Noi cerchiamo di rimuovere questi ostacoli e far emergere la dimensione positiva che è presente in ogni uomo”. Ci sono dei detenuti che abbandonano il percorso? “Non sono poche le persone che rientrano in carcere, perché stare da noi è dura. Proprio adesso abbiamo a che fare con un detenuto che ha passato 35 anni dietro le sbarre per omicidio. Lui sta seriamente ragionando se tornare in carcere perché la vita comunitaria è impegnativa. Per alcuni è più comodo stare su una brandina senza fare niente. Invece da noi ogni ora è scandita dalle varie attività che gli proponiamo, soprattutto sul piano educativo”. Lo Stato contribuisce al sostentamento delle Cec? “La legge permette l’affidamento a chi ha la possibilità in qualche modo di mantenersi. L’Apg23 provvede al sostentamento di queste persone che diventano a costo zero per lo Stato e quindi permette ai detenuti di iniziare un percorso con noi. Questa è una grande ingiustizia”. Qual è il tasso di recidiva tra chi termina questo percorso? “Il rischio di recidiva si abbassa dal 75% - che è quella a livello nazionale di chi sconta una pena in carcere - al 15%. Ogni giorno nelle carceri italiane entrano circa 150-180 detenuti e ne escono 140. Noi sappiamo per certo che circa 105 di loro, tornano dietro le sbarre per reati anche più gravi di quelli commessi precedentemente. Questo significa che le prigioni italiane stanno diventando sempre di più una scuola, anzi un’università della delinquenza. In poche parole il sistema si sta autoalimentando, allora possiamo osare e dire che il carcere ha fallito nella sua missione di restituire alla società persone migliori”. Per realizzare questo progetto a chi vi siete ispirati? “La metodologia su cui si basano le Cec si basa sul metodo Apac (Associazione per la protezione e Assistenza dei condannati) nato in Brasile negli anni 70. Grazie all’utilizzo di questo metodo, nello stato del Minas Gerais, si stanno chiudendo le carceri tradizionali e aprono quelle Apac, dove non ci sono guardie. In questi casi la recidiva si abbassa dall’80% al 10%. Se questo metodo funziona in Brasile, deve essere applicabile sia in Italia che in Europa. Il progetto delle Cec, in fin dei conti, è nato nel 2008 quando don Oreste ci ha mandato in Brasile per capire come funzionavano le Apac. Una volta lì ci siamo resi conto che non dovevamo inventarci nulla di nuovo, ma abbiamo integrato quel metodo con l’esperienza dell’Apg23 e cerchiamo di dare una risposta ai detenuti”. Quante Cec sono attive in Italia? “La prima comunità educante è nata nel 2004 e si chiama “Casa Madre del Perdono” e si trova a Taverna di Montecolombo (Rimini). Nel 2005 è stato sviluppato il “progetto Rinascere” al “Pungiglione” a Mulazzo (Massa Carrara). Poi c’è la “Casa Madre della Riconciliazione” e poi abbiamo aperto altre strutture a Vasto, Cuneo e Coriano. Fra un mese ne inaugureremo un’altra a Forlì. Sono sette in totale. All’apertura della “Casa Madre del Perdono”, il vescovo ha lanciato l’idea dell’università del perdono che è un’iniziativa molto interessante. La società guarda ai detenuti identificandoli sempre nel carnefice, ma sono anche vittime. Prima di intraprendere un percorso di riconciliazione con la società, devono perdonare chi ha fatto loro del male. Il male cresce nelle ferite del cuore. Le ferite, spesso, sono provocate dal peccato. È un circolo vizioso che va spezzato. Per spezzare questa catena il perdono è la parola d’ordine”. “La Cedu affosserà la nuova legge sulle intercettazioni” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 26 gennaio 2018 La denuncia di Silvia Buzzelli, docente di procedura penale europea. Sul banco degli imputati l’eccessivo potere della Polizia giudiziaria. “Si rischia di alterare in maniera sostanziosa la parità tra accusa e difesa”. È iniziata nell’ambiente accademico una discussione sulla riforma delle intercettazioni telefoniche voluta dal ministro della Giustizia Andrea Orlando ed approvata nelle scorse settimane. Molti i punti critici che sono stati evidenziati. La professoressa Silvia Buzzelli, docente di procedura penale europea e diritto penitenziario all’Università di Milano-Bicocca non esclude futuri rilievi da parte della Cedu di Strasburgo. Più che in fonte di prova - dichiara Buzzelli - le intercettazioni si sono trasformate in strumento investigativo essenziale: una definizione quest’ultima che si trova, tra l’altro, nelle varie relazioni dell’Ufficio legislativo del Ministero e appare davvero distante, se non addirittura opposta, alle premesse generali da cui sono abituati a prendere le mosse i giudici di Strasburgo quando esaminano i casi di possibile violazione dell’art. 8 Cedu. Per quanto riguarda la nuova normativa, “molti dei primi commentatori, tra questi magistrati come il consigliere del Csm Piergiorgio Morosini o ex magistrati, ora parlamentari, come Felice Casson hanno espresso dubbi e manifestato preoccupazioni e pure il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte non ha nascosto il suo disappunto”. Il problema attiene soprattutto al potere attribuito alla polizia giudiziaria di trascrivere quelle rilevanti. “Chi controllerà - aggiunge la docente - la possibile scrematura fatta sulla base di un parametro (irrilevanza) che mal si concilia con le incertezze e le dinamiche della fase preliminare? Si rischia di alterare in maniera sostanziosa la parità tra accusa- difesa, pilastro del processo effettivamente giusto (art. 6 Cedu), imponendo alla difesa sforzi sostanziosi, pure in termini economici per poter accedere a tutte quelle non trascritte”. E su una decisione della Cedu in caso di ricorso aggiunge: “È sempre impegnativo fare previsioni, tutto dipende dalle caratteristiche del caso concreto che i giudici di Strasburgo debbono affrontare e risolvere. Probabilmente l’equità processuale esce indebolita e non risultano rispettati i parametri che di solito la Corte europea elenca quando si occupa dell’art. 8 Cedu e quindi del diritto al rispetto della vita privata e familiare. Per ora non resta che attendere nei prossimi mesi gli sviluppi legati all’applicazione nel caso concreto della norma”. “Giro armato contro i ladri”, giudice si candida con la “quarta gamba” di Milvana Citter Corriere della Sera, 26 gennaio 2018 Treviso, la richiesta del magistrato Angelo Mascolo sarà esaminata dal plenum del Consiglio superiore della magistratura. Era famoso anche per aver scarcerato tre rapinatori poi irreperibili. “Mi è arrivata una proposta dalla famosa “quarta gamba” e ho accettato perché penso che se i migliori continuano a stare in poltrona a lamentarsi senza mettersi in gioco le cose, in questo Paese, andranno sempre peggio”. Con il suo solito modo, schietto e sornione, il giudice Angelo Mascolo lancia la sua candidatura alla Camera dei deputati con “Noi per l’Italia”, la cosiddetta “quarta gamba” della coalizione di centrodestra: “Una formazione di destra moderata della quale condivido il programma”, ci spiega. Mascolo ha inviato nella tarda mattinata di giovedì la richiesta di aspettativa, subito presa in carico dal Csm che ha annunciato che sarà valutata nel corso di un “Plenum straordinario convocato per domani, venerdì 26 gennaio”. Si è così svelata la decisione di scendere in politica, del giudice noto per le sue decisioni spesso contestate e per alcune interviste su giornali e televisioni nelle quali dichiarava: “Lo Stato non è più in condizioni di garantire la sicurezza dei cittadini, anzi semplicemente non c’è più. Io mi armo”. Il personaggio - Mascolo è abituato a essere al centro della ribalta, per le sue decisioni impopolari e spesso appellate. Lo era quando, da giudice del dibattimento si conquistò il soprannome di “giudice dei record” perché in una mattina riuscì a smaltire 69 udienze in appena 195 minuti, praticamente una ogni 2 minuti e 49 secondi. Così come da quando è in forza all’ufficio dei giudici per le indagini preliminari. Le sue sentenze gli sono spesso costate attacchi durissimi e interrogazioni parlamentari da parte della Lega Nord per certe sue “scarcerazioni o assoluzioni facili”. Come quella, motivata con l’assenza: “di gravi indizi di colpevolezza” con la quale nel 2015, annullò un ordine d’arresto che aveva portato in cella cinque albanesi accusati di una trentina di furti e così sfuggenti da essere stati ribattezzati dai carabinieri “la banda dei fantasmi”. Decisione sconfessata prima dal Riesame e poi dalla Cassazione mentre i “fantasmi” erano spariti nel nulla e ai carabinieri erano serviti mesi per arrestarli di nuovo. Al clamore suscitato dalle sue decisioni, Mascolo serafico rispondeva: “Da lungo tempo ho cessato di interessarmi delle critiche. Io faccio il mio provvedimento. Poi se è sbagliato lo impugnano, se invece è giusto va avanti. Capito? Questo è”. La posizione di garanzia non basta per la responsabilità di Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2018 La posizione di garanzia rivestita dall’amministratore di una società di capitali poi fallita non costituisce di per sé indice sintomatico della responsabilità per bancarotta fraudolenta. Secondo la Cassazione (sentenza n. 3623 depositata ieri) il principio di colpevolezza impone la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione, da parte dell’amministratore nella posizione di garanzia, di una regola cautelare, sia della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire, sia della sussistenza del nesso causale tra condotta ascrivibile al garante ed evento dannoso. La Corte di legittimità ha annullato con rinvio la sentenza con la quale la Corte d’appello di Milano, pronunciandosi già in sede di rinvio, aveva confermato la decisione del Gip di condanna degli imputati per bancarotta fraudolenta patrimoniale posta in essere quali amministratori di una società di capitali. Il Supremo collegio, dopo aver rilevato la mancata ottemperanza della Corte territoriale alle indicazioni interpretative già fornite in sede del precedente rinvio, ha quindi sottolineato che l’individuazione della responsabilità penale impone di verificare non solo se la condotta gestionale dell’imputato abbia concorso a determinare l’evento e se la condotta sia stata caratterizzata dalla violazione di una regola cautelare, generica o specifica, ma anche se questi poteva prevedere, con un giudizio ex ante, quello specifico sviluppo causale che avrebbe portato alla concretizzazione delle condotte di bancarotta fraudolenta patrimoniale, attivandosi per impedirne l’evento. Ne esce confermato l’insegnamento per cui il principio di colpevolezza nel nostro ordinamento prevede necessariamente oltre che la sussistenza del nesso di causalità materiale tra condotta ed evento anche un elemento soggettivo, dovendo sussistere un legame evidente tra il fatto e il suo autore, almeno nella forma della colpa in senso stretto, intesa come prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso. In altri termini, la pronuncia ribadisce che il principio di colpevolezza ripudia ogni forma di responsabilità oggettiva. Principio non sufficientemente ancora radicato presso le corti di merito, come dimostra, nella specie, la sequenza processuale. La Cassazione, infatti, aveva già cassato la pronuncia della Corte d’appello in sede di un precedente rinvio rilevando la mancata ottemperanza alle linee guida dei Giudici di legittimità proprio per ciò che riguardava l’accertamento dell’elemento soggettivo del reato. Alle sezioni unite la motivazione del decreto di sequestro probatorio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sezione III - ordinanza 25 gennaio 2018 n. 3677. Saranno le sezioni unite a stabilire se per le cose che costituiscono corpo del reato, il decreto di sequestro probatorio possa essere motivato in “forma” sintetica, nel caso la sua funzione di prova sia di immediata evidenza, perché desumibile dalla particolare natura delle cose che lo compongono, o se debba invece, a pena di nullità, essere comunque sorretto da un’idonea motivazione riguardo al presupposto della finalità perseguita in concreto per l’accertamento dei fatti. Questo il quesito che i giudici della terza sezione penale, con l’ordinanza interlocutoria 3677 depositata ieri, sottopongono al Supremo consesso. La decisione di passare la parola alle Sezioni unite è imposta dal nuovo codice di rito penale che ha modificato l’articolo 618 chiarendo che “se una sezione della Corte ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite rimette a queste ultime con ordinanza, la decisione del ricorso”. Una circostanza che si è verificata nel caso esaminato in cui i giudici della terza sezione, avrebbero aderito alla tesi del Pm ricorrente secondo il quale, in un caso come quello esaminato, di sequestro nell’ambito di abusi edilizi, non possono esserci dubbi sul fatto che gli immobili costituiscano il corpo del reato. Il Pm sottolineava inoltre che “i beni immobili sequestrati in seno ad un procedimento penale per reati edilizi presentano quale connotato ontologico e immanente di immediata evidenza, la loro finalizzazione probatoria, dal momento che l’attività investigativa non potrà che passare attraverso una puntuale verifica delle difformità prima facie riscontrate nella fase iniziale dell’indagine”. Una conclusione che, secondo la sezione remittente, sarebbe estensibile a tutti i casi analoghi in cui la qualifica di corpo del reato è del tutto evidente, come la sua funzione probatoria. Aderendo a questo principio però la sezione semplice si sarebbe discosta da quanto affermato dalle Sezioni unite con la sentenza 5876 del 2004. In quell’occasione le Sezioni unite avevano chiarito che “anche per le cose che costituiscono corpo di reato il decreto di sequestro ai fini di prova, deve essere sorretto, a pena di nullità, da idonea motivazione in ordine al presupposto della finalità perseguita in concreto per l’accertamento dei fatti”. Spetta ora alle Sezioni unite decidere se mantenere fermo quanto già affermato o rivedere l’orientamento. Richiedenti asilo, no a test psicologico su omosessualità di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2018 La Corte Ue, sentenza nella causa C-473/16 del 25 gennaio, ha bocciato il ricorso a test psicologici per accertare l’orientamento sessuale di un richiedente asilo. Per i giudici di Lussemburgo un simile metodo configura un’ingerenza sproporzionata nella vita privata del richiedente. Nell’aprile 2015, un cittadino nigeriano aveva presentato alle autorità ungheresi una domanda di asilo, dichiarando che temeva di essere perseguitato nel suo Paese a causa della propria omosessualità. La richiesta venne però rigettata perché la perizia psicologica non aveva confermato l’orientamento sessuale dichiarato. Proposto ricorso per violazione dei diritti fondamentali, il tribunale amministrativo ungherese ha rinviato la questione alla Corte Ue. Con la decisione di oggi, la Corte constata che la direttiva sulle condizioni per l’attribuzione dello status di rifugiato consente alle autorità nazionali di disporre una perizia nell’ambito dell’esame di una domanda di asilo. Tuttavia, essa deve essere conforme ai diritti fondamentali garantiti dalla Cedu. In questo senso, il ricorso a una perizia psicologica per accertare l’orientamento sessuale del richiedente costituisce un’ingerenza nel diritto della persona in questione al rispetto della sua vita privata. Non solo, l’impatto di una tale perizia sulla vita privata è sproporzionato rispetto all’obiettivo, risolvendosi in una ingerenza particolarmente grave, in quanto è volta a mettere in luce gli aspetti più intimi della vita del richiedente. La Corte rileva altresì che la perizia non è indispensabile per valutare l’attendibilità della dichiarazioni del richiedente relative al suo orientamento sessuale. Infatti, le autorità nazionali, che devono disporre di personale competente, possono basarsi, tra l’altro, sulla coerenza e plausibilità delle dichiarazioni della persona interessata. Del resto, prosegue la decisione, la perizia ha, nel migliore dei casi, un’affidabilità limitata, cosicché la sua utilità al fine della valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni di un richiedente asilo può essere rimessa in discussione, soprattutto nel caso in cui, come nella fattispecie, le dichiarazioni del richiedente non presentano contraddizioni. In definitiva per i giudici il ricorso a una perizia psicologica volta ad accertare l’effettivo orientamento sessuale di un richiedente asilo non è conforme alla direttiva, letta alla luce della Carta. “Mio marito, finito in cella a distanza di 17 anni dal reato” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 gennaio 2018 La lettera inviata a Rita Bernardini. “Era un ragazzo, oggi è un uomo con tanto di lavoro e famiglia. È proprio vero che per comprendere alcune cose, le devi vivere”. Così esordisce la lettera inviata a Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale che dalla mezzanotte di lunedì ha ripreso lo sciopero della fame per chiedere l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario prima delle elezioni politiche del 4 marzo. A scriverle è una moglie di un detenuto che è stato tratto in arresto a febbraio dello scorso anno, ma per un reato commesso nel lontano 2000, con una condanna definitiva a 11 anni e 11 mesi per associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti. Storia che riguarda quella della lentezza dei nostri processi. Persone che nel frattempo cambiano vita, si “rieducano” da soli trovando un lavoro onesto e formando una famiglia. I processi, in Italia, molto spesso durano un’eternità. Motivo per il quale, la Corte europea dei diritti dell’uomo inflisse all’Italia diverse condanne per “l’irragionevole durata del processo”. La moglie del detenuto si rivolge alla Bernardini spiegando che fino a un anno fa non capiva come mai, persone come l’esponente radicale o Marco Pannella, avessero così a cuore l’esistenza delle persone che finivano in galera. “Tutti quegli scioperi - scrive, quelle lotte, ma perché? Ma per chi? Ma chi glielo fa fare? Pensavo. “È gentaglia quella, la feccia del paese, non merita nessuna pietà”. La moglie del detenuto prosegue: “E poi? E poi è toccato a me affrontarla quella feccia, viverla, odiarla, amarla, capirla e sperare, pregare che gente come lei (Rita Bernardini, ndr), adesso che Marco Pannella non c’è più, non mollassero, ma continuassero a lottare per cercare di ridarci un minimo di dignità e felicità, quella appunto che ormai non abbiamo più. In un attimo capisci che in quella feccia ci sono madri, padri, mogli, figli, persone come me, che vivono il mio stesso dramma”. Nella lettera viene riportata la richiesta di grazia al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella dove ben riassume il suo caso. Per motivi di privacy omettiamo qualsiasi riferimento che possa ricondurre alla persona. “Ill.mo Signor Presidente Mattarella, i miei occhi sono gonfi, secchi, non ho più lacrime da versare, il mio sguardo è perso e la mia bocca è serrata, poche parole per tante emozioni, se è vero che il silenzio vale più di mille parole, il mio dentro sta urlando, piangendo, strappandosi i capelli. È un silenzio che ha tante cose da dire, ma che non sa come fare, perché è incredulo, scoraggiato, allibito. Nel 2017 per la mia famiglia si è aperta una porta, quella del carcere. Si è aperta la porta a quella che io definisco “la mia realtà virtuale”, quella che non posso più definire vita. Nel 2017, in pochi istanti si è distrutto tutto ciò che di buono in questi anni abbiamo costruito. Mio marito non è innocente, ma è un uomo diverso, totalmente diverso da quello che nel lontano 2000 ha commesso, come definirli... “errori”. Era poco più di un ragazzo all’epoca, andava ancora a scuola e, a quell’età è facile travisare la realtà, ammirare chi sembra comandare, pensare di essere onnipotenti, volere il soldo facile, ostentarsi, essere idolatrato dagli altri, perché parliamoci chiaro, questo è quello che succede, soprattutto nel Sud Italia, la gente non ti evita, ma ti fa la riverenza. Un ragazzo di 19/ 20 anni, che d’accordo un bambino non lo è più, osserva, ne è attratto, lo desidera, del resto è scritto anche nella Bibbia “che quando il desiderio diviene fertile partorisce il peccato” e ha peccato e come tale andava punito. Sì, Signor Presidente andava punito, ma all’epoca. Sono passati 17 anni e da quell’episodio non ne sono più susseguiti altri, era solo un ragazzo, ma la lezione l’ha capita subito, dopo aver scontato un po’ di pena, si è rimboccato le maniche, è andato via da quel paese che lo aveva portato a desiderare ciò che era sbagliato, si è allontanato e ha cominciato a lavorare e ha lavorato, lavorato e lavorato. Ha messo il lavoro al centro della sua vita, pochissimi giorni di ferie, tanta responsabilità, doveva riscattarsi, dimostrare che la lezione l’aveva imparata e che c’è più gusto e soddisfazione a guadagnarsi onestamente il pane e non con facilità. Sono passati 17 anni e di strada ne ha fatta tanta, ha conosciuto me, ci siamo sposati, abbiamo avuto due meravigliosi bambini, abbiamo comprato una casa, abbiamo cominciato a costruire il nostro futuro. Abbiamo cercato di educare i nostri figli alla lealtà, all’onestà. Stava andando tutto bene, avevamo trovato il nostro equilibrio, una famiglia come tante, non una perfetta, ma la nostra famiglia. E poi nel 2017 si è aperta quella maledetta porta. Signor Presidente, mi dica a cosa serve adesso? A cosa serve inserire una persona totalmente riabilitata, rieducata, in un ambiente che a quello dovrebbe servire? Lo allontaniamo dai suo affetti, lo facciamo stare a contatto con persone che ancora quel percorso riabilitativo non l’hanno completato, lo diseduchiamo… mi perdoni, ma lo scopo del carcere in questo caso ha perso il suo scopo… abbiamo perso Signor Presidente. Siamo in difficoltà Signor Presidente, prima si percepivano due stipendi che ci permettevano quantomeno di arrivare a fine mese, adesso un solo stipendio. Come spiegherò questo ai miei figli? Come potrò guardali negli occhi e dire: “Sì, è vero papà ha sbagliato, è giusto che paghi, ma ha sbagliato quando era ancora un ragazzo, quando voi non eravate neanche nei nostri pensieri, quando non sapeva che ci sareste stati, quando non si è in grado di capire appieno le conseguenze delle azioni sbagliate”; “È vero papà ha sbagliato, quindi è giusto che paghi, però lo ha capito subito, non ha più commesso errori”; “È vero amori miei, ho sempre detto che, alle persone che si rendono conto dei loro errori, bisogna dare una seconda possibilità…” e sentirmi poi rispondere: “E perché mamma a noi non la stanno dando? Cosa mi vuoi dire che se io faccio anche un solo errore nella mia vita sono spacciato? Tutti si ricorderanno solo dell’errore che ho commesso e nessuno terrà conto della persona che sono diventato ora? Nessuno mi aiuterà?”. “Cosa mi stai dicendo mamma… papà quando lo rivedrò, quando tornerà a casa, quando torneremo ad essere felici? Quando potrò vederlo più di un’ora alla settimana e non stare seduti dietro ad un tavolino, ma magari dare due calci ad un pallone?”. “Mamma, cosa mi stai nascondendo, non credo a quello che stai dicendo, non ci credo che papà abbia fatto un solo errore e poi più, chissà cosa avrà fatto! Mamma perché non mi rispondi?”. E quindi rispondo: “Tesori miei è proprio così, papà è una brava persona, ci ama, non vede l’ora di tornare a casa e riprendere la nostra vita lì, dove l’abbiamo interrotta… ma purtroppo io non sono in grado di rispondere a tutte queste domande”. Signor Presidente, mi aiuti Lei a farlo, ci aiuti Lei a chiudere quella porta e ad aprire quella della nostra casa. La lettera poi prosegue rivolgendosi sempre a Rita Bernardini spiegando che il marito rientra nella prima fascia del reato ostativo, il 4 bis, quello che vieta ogni tipo di beneficio. “Non so - scrive l’autrice della lettera - come andrà a finire la storia dei decreti attuativi per la modifica dell’ordinamento penitenziario, che non ci risolverebbero la situazione, ma sarebbero comunque un barlume di luce in questo buio più totale”. La moglie del detenuto chiede un aiuto all’esponente radicale, ovvero quello di ottenere un provvedimento a loro favore. Non pretende che sia totale. “Ci accontentiamo di qualunque cosa - scrive nella lettera-, anche di un anno, anche della possibilità di avere l’affidamento lavorativo. Il lavoro come sa nobilita l’uomo e restituirebbe una valenza a un uomo che adesso si sente inutile e responsabile delle sofferenze della sua famiglia”. La lettera rivolta all’esponente del Partito Radicale, si conclude con una domanda, retorica, che racchiude tutto il senso di ingiustizia relativa all’irragionevole durata del processo e, soprattutto, l’inutilità di una pena che interrompe la rinascita di un uomo che in gioventù ha commesso dei gravi errori: “È giusto continuare a far pagare una persona che è già riabilitata e lo ha dimostrato con la sua condotta in ben 17 anni di vita vissuta?”. Campania: verso l’istituzione dell’Osservatorio regionale per le persone detenute ildenaro.it, 26 gennaio 2018 Il Garante convoca le associazioni. Il Garante Regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello, ha convocato tutte le associazioni e le cooperative che operano nelle carceri campane, domani, venerdì 26 gennaio 2018 a partire dalle ore 14.30, presso il Consiglio regionale della Campania - sala convegni, I° piano - Isola F13 - Centro Direzionale sita a Napoli. Così come sancito dalle Legge Regionale n. 18 del 2006 la quale ha istituito l’ufficio del garante dei detenuti, all’art. 2 comma 7 si disciplina che: “[…] presso l’ufficio del Garante è istituito l’osservatorio regionale sulle condizioni della detenzione, composto dalle associazioni, organizzazioni o enti che si occupano delle questioni legate alla detenzione […]”. All’incontro, aperto anche alla stampa, interverrà il presidente del Consiglio Rosetta D’Amelio, l’assessore regionale alle Politiche Sociali, Lucia Fortini e il presidente della sesta commissione Politiche sociali, Tommaso Amabile. Roma: detenuta si toglie la vita nel carcere di Rebibbia Corriere della Sera, 26 gennaio 2018 La vittima era accusata di omicidio. Non si conoscono le ragioni del gesto. L’allarme del sindacato autonomo polizia penitenziaria: “Siamo lasciati a gestire queste situazioni di emergenza”. Ha deciso di togliersi la vita impiccandosi nella Casa circondariale femminile di Rebibbia, dov’era detenuta perché imputata di omicidio. La notizia è stata diffusa dal sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe. “La donna - ha spiegato Maurizio Somma, segretario nazionale Sappe per il Lazio - si è suicidata in cella venerdì mattina all’alba, impiccandosi. L’agente di polizia penitenziaria di servizio si è accorta dell’accaduto e ha dato l’allarme. Purtroppo sono stati vani i tentativi di soccorso per rianimarla”. “Soli nell’emergenza” - Non si conosco le ragioni che hanno spinta la donna detenuta a togliersi la vita. Ma è allarme, perché spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe: “Questo è il quinto suicidio in carcere di un detenuto dall’inizio dell’anno, il quinto! E conferma come i problemi sociali e umani permangono nei penitenziari, lasciando isolato il personale di polizia penitenziaria a gestire queste situazioni di emergenza. Il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri e le soluzioni adottate fino ad oggi si confermano inefficaci e inutili”. Trento: Rita Bernardini “un carcere bello, ma abbandonato a se stesso” di Donatello Baldo Il Dolomiti, 26 gennaio 2018 La visita a Spini dell’esponente radicale Rita Bernardini. L’ex deputata si è recata nella struttura di Spini con il radicale Fabio Valcanover e il presidente dell’Ordine degli avvocati Andrea de Bertolini. “Gravi problemi di manutenzione e detenuti che vivono nell’ozio. Questa non è rieducazione e a rimetterci è l’intera società”. “È bello il carcere di Trento, forse uno tra i più belli d’Italia - afferma Rita Bernardini, storica esponente dei Radicali italiani che oggi ha visitato la struttura di Spini - ma il problema lì dentro è la vita dei detenuti, l’ozio, il fatto che non ci sono attività legate alla rieducazione”. Nell’ispezione della casa circondariale è stata affiancata dagli avvocati Fabio Valcanover e Andrea de Bertolini, quest’ultimo presidente dell’Ordine. Una visita iniziata a metà mattina che si è conclusa nel pomeriggio, gli incontri con il direttore e con gli agenti di polizia penitenziaria ma anche con i detenuti. La fotografia della situazione del carcere di Trento non fa onore al Trentino delle eccellenze, non è un fiore da portare all’occhiello, un esempio di cui la politica può andare fiera nel confronto con le altre realtà italiane. “Oggi i detenuti presenti erano 306 di cui 221 con condanne definitive e 85 in attesa di giudizio. Il totale dei detenuti stranieri è di 233, una delle percentuali più alte in Italia, il 76%. Il problema - afferma l’ex deputata - non è il sovraffollamento, sono ben altri i problemi a Trento”. “È una struttura dimenticata - spiega Bernardini - e si vede che non c’è nessun rapporto con le istituzioni locali”. Inizialmente i costi per il mantenimento erano assunti, in parte, anche dalla Provincia. “Ma ora i fondi sono gestiti direttamente dallo Stato - spiega Valcanover - e a fronte di 300 mila euro di previsione annua gli stanziamenti sono soltanto di 30 mila”. Il 10% di quanto servirebbe. “Il rischio - sottolinea de Bertolini - è che quella struttura collassi su se stessa, ci sono innumerevoli deficienze soprattutto per quanto riguarda la componente elettronica”. Ma il tema, come si diceva, è anche quello della vita del detenuto: “C’è un’evidente difficoltà ad accedere ai trattamenti”, ammette de Bertolini, riferendosi alle iniziative volte alla rieducazione, che in gergo si chiamano appunto trattamenti. Ma il presidente dell’Ordine tocca anche un altro punto delicato, che caratterizza negativamente la realtà trentina, quello delle misure alternative al carcere. “I magistrati di sorveglianza ne fanno un uso troppo parsimonioso, quasi non fossero considerate utili per la rieducazione, quando invece sono fondamentali”. Rita Bernardini, in questi giorni, ha iniziato uno sciopero della fame a cui si sono aggiunti oltre 4 mila detenuti delle carceri di tutto il Paese. La finalità è quella di attirare l’attenzione sulla riforma dell’ordinamento penitenziario che il Governo, sentite le Commissioni giustizia di Camera e Senato dovrebbe attuare con l’approvazione dei decreti delegati. “Il tempo stringe - spiega - questa importante riforma deve arrivare all’approvazione prima del voto. E sarebbe opportuno che nel testo fossero inseriti anche due temi in particolare, quello del lavoro dei detenuti e quello dell’affettività”. Temi che per de Bertolini hanno a che fare con “la dignità dell’essere umano, qualcosa che non è negoziabile, nemmeno se si tratta di detenuti, e lo stato deve farsi carico del riconoscimento a tutti di questa dignità”. “La riforma - ha spiegato Andrea de Bertolini - è necessaria, imprescindibile. E mi auguro che la sua approvazione non sia contaminata dalle questioni elettoralistiche. Il tema è cruciale e la sua approvazione non sarà una vittoria dei radicali, degli operatori del diritto o dei soli detenuti. La vittoria sarà dell’intera società”. L’avvocato Valcanover si è invece soffermato su quelle che potrebbero essere le soluzioni, gli strumenti necessari che avvicinerebbero il carcere alle istituzioni. “Ieri in Consiglio regionale è stata approvata un’importante mozione, che propone l’istituzione di un provveditorato regionale competente per le carceri di Trento e Bolzano”. Questo organismo è ora a Padova e oltre che del Trentino Alto Adige si occupa anche di Veneto e Friuli. Un provveditorato regionale garantirebbe un intervento molto più efficace sia sugli aspetti strutturali che su quelli trattamentali. “Sarebbe più incisivo l’intervento su tutto quello che riguarda la rieducazione del detenuto, attraverso il lavoro e le altre attività, quelle finalizzate ad abbassare la recidiva e a restituire alla società la persona che ha scontato la sua pena”. L’ex deputata radicale e gli avvocati trentini hanno poi spiegato nei dettagli le situazioni che ora pesano maggiormente sulla situazione interna al carcere di Spini. “Molti detenuti hanno chiesto invano un avvicinamento alla famiglia - racconta Bernardini - gli educatori sono la metà di quelli previsti, uno andrà in pensione a breve e ne rimarranno soltanto tre”. Il carcere di Trento, come quasi tutti quelli italiani, non serve per la rieducazione del reo. Anzi, è addirittura “criminogeno”, come ha definito gli istituiti italiani lo stesso ministro alla Giustizia. Lecce: percorsi di volontariato e lavoro esterno per i detenuti di Sandra Signorella ilpaesenuovo.it, 26 gennaio 2018 Sottoscritto un protocollo d’intesa tra Comune e Istituto penitenziario. Promuovere l’inserimento di detenuti in percorsi di volontariato e lavoro esterno: questo il senso di un protocollo d’intesa sottoscritto questa mattina al carcere di Borgo San Nicola dal sindaco di Lecce Carlo Salvemini e dalla direttrice della Casa Circondariale Rita Russo. È stata, infatti, individuata la necessità di mettere in relazione il Comune di Lecce, l’Istituto penitenziario e la società civile e promuovere “azioni di integrazione, occasioni di coinvolgimento e partecipazione dei detenuti ammessi al lavoro esterno, favorendo così il loro reinserimento sociale e personale”. Si tratta di un’iniziativa dalle ricadute sociali importanti: la limitazione della libertà di un individuo, in un ambiente di certo poco confortevole come il carcere, può causare tensioni, senso di inadeguatezza, frustrazioni. L’idea che si possa svolgere, da detenuti - un lavoro esterno o, addirittura, essere utile agli altri, può instillare senso di responsabilità, consapevolezza, volontà di superare il proprio passato. Di certo questo vale solo a determinate condizioni e non in tutti i casi ma, di sicuro, fornisce un contributo importante alla battaglia per la legalità. “Ho conosciuto la direttrice del carcere qualche mese fa - dichiara il sindaco Carlo Salvemini - quando non ero ancora sindaco, e insieme assumemmo un impegno a prescindere dal risultato elettorale: adoperarci a scrivere una pagina diversa nel rapporto tra l’Istituzione comunale e l’Istituto penitenziario più importante di Puglia, che si percepiva come un corpo estraneo alla comunità. E così oggi sigliamo questo protocollo, che arriva subito dopo un altro importante impegno, quello di istituire, attraverso apposito avviso pubblico, la figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale”. Ed ecco i dati diffusi dal Ministero: il detenuto che sconta per intero la pena in carcere ha una possibilità di recidiva del 70%, nel caso di detenuti ai quali si offre la possibilità di un lavoro o di una detenzione anche fuori dall’Istituto, attraverso varie forme, questa percentuale si abbassa intorno al 20%. “Lavoreremo dunque in questa direzione e in sintonia - sottolinea Salvemini - per definire insieme iniziative che offrano sul territorio la possibilità di reinserimento al maggior numero di detenuti, attraverso progetti di lavoro a servizio della cittadinanza. La firma di oggi sancisce un legame, un riconoscimento tra la città e il carcere, finora debole: afferma che chi vive nel carcere, chi vi lavora ogni giorno è dentro la nostra comunità. Anche per questo ho voluto che la sottoscrizione dell’accordo fosse a Borgo San Nicola e non a Palazzo Carafa”. “Ringrazio il sindaco Salvemini - dichiara la direttrice Rita Russo - perché per la prima volta riusciamo a siglare un protocollo con l’Amministrazione comunale, un accordo attraverso il quale l’Istituto penitenziario diventa finalmente parte della città. Facilitare l’ingresso del carcere nella città è l’obiettivo principale di questo sodalizio che intende far partecipare i cittadini alla rieducazione dei detenuti e promuovere altresì l’educazione dei cittadini al carcere. Solo così possiamo parlare di un carcere sociale, quando i cittadini possono accedervi e supportare tutte le azioni educative che si tengono all’interno dell’Istituto. Abbiamo bisogno di rendere visibile l’Istituto penitenziario, è questo che abbiamo chiesto al sindaco e questo accadrà attraverso il protocollo che abbiamo siglato”. “Questo rapporto con il Comune di Lecce è per noi fondamentale - dichiara il comandante della Polizia penitenziaria Riccardo Secci - e sono certo darà il via a tante iniziative. Per noi e per tutta la popolazione che vive il carcere - i detenuti e chi ci lavora - è importante portare fuori l’immagine di un penitenziario diverso, nel quale la priorità è quella di creare legalità. Lo facciamo già con tante iniziative che realizziamo anche in collaborazione con gli istituti scolastici. Questo protocollo aprirà i cancelli a tante persone che potranno finalmente rendersi utili”. “Questo Istituto penitenziario, che è il più grande di Puglia - dichiara l’assessore ai Diritti Civili e alle Politiche attive del lavoro Silvia Miglietta - si muove da tempo a favore del reinserimento sociale dei detenuti e delle detenute in articolo 21 attraverso numerosi progetti. Questo protocollo intende rafforzare le buone pratiche già esistenti e proporre progetti nuovi con un duplice obiettivo: da una parte consentire a quei detenuti che possono farlo di varcare i cancelli del penitenziario e svolgere delle attività a carattere sociale che puntino alla valorizzazione delle capacità e della dignità delle persone; dall’altra far conoscere all’esterno, alla cittadinanza le esperienze e le attività della casa circondariale che conta circa mille detenuti e quasi ottocento lavoratori e che può quindi essere considerata un vero e proprio quartiere della città”. Savona: i detenuti si riscattano, primi due condannati al lavoro nella Protezione civile di Federica Pelosi Il Secolo XIX, 26 gennaio 2018 Delitto e castigo, ma con una punizione che possa essere educativa per il colpevole e utile per la collettività. È il senso della convenzione stipulata dal tribunale di Savona con il coordinamento volontari di Protezione civile della provincia, e che prevede, per coloro si sono macchiati di reati di minore allarme sociale (ossia con pena detentiva non superiore ai quattro anni), un periodo di messa alla prova tra chi si prodiga per garantire la sicurezza e l’incolumità altrui. L’accordo è in vigore da metà dicembre, e sono già due le persone a beneficiarne. Su di loro la privacy è massima per garantire piena serenità nello svolgimento del servizio. Hanno entrambi poco più di quarant’anni e uno ha optato per un ruolo più operativo, mentre l’altro è in amministrazione: le mansioni assegnate tengono conto delle loro capacità e professionalità. In generale, la maggior parte degli adulti che beneficia dello strumento della messa alla prova, è responsabile di incidenti per guida in stato d’ebbrezza; in percentuale minore, si tratta invece di reati di natura amministrativa (abusi edilizi, a esempio), di spaccio (modica quantità), ma anche di delitti più odiosi come diffusione di materiale pedopornografico. Gli imputati che decidono di usufruire di questa opportunità vengono affidati all’ufficio di esecuzione penale esterna per lo svolgimento di un programma di trattamento che prevede come attività obbligatoria e gratuita l’esecuzione di un lavoro di pubblica utilità in favore della collettività che può essere svolto presso istituzioni pubbliche, enti e organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. “Noi abbiamo optato per la Protezione civile - spiega Irene Barengo, responsabile dell’ufficio di esecuzione penale esterna di Savona - Il nostro ufficio si occupa di detenuti e misure alternative, come anche la messa alla prova: una misura valida da tre anni anche per gli adulti che ne fanno richiesta, i quali però possono beneficiarne solo una volta e solo se non sono recidivi; inoltre, si deve trattare di condanne non superiori ai 4 anni. La messa alla prova, se regolarmente portata a termine, comporta l’estinzione del reato”. In questi mesi gli incontri con il coordinamento volontari di Protezione civile savonese sono stati fitti: “Sono previsti una serie di colloqui con chi viene a scontare la propria condanna prestando servizio da noi, e non c’è obbligo di accettazione - precisa Giovanni Naso, presidente del coordinamento savonese - Stiliamo inoltre relazioni cicliche sul loro lavoro, e questi sono chiamati a firmare su un apposito registro. Tutto avviene sotto il nostro stretto controllo e con la piena collaborazione dell’ufficio preposto. Impegnarsi in un lavoro socialmente utile può essere ispirante per queste persone che hanno così l’opportunità di trasformare errori passati in un’occasione di riscatto”. Il lavoro di pubblica utilità si può svolgere per un minimo di dieci giorni, anche non continuativi, e non può superare le otto ore giornaliere. “Nel caso delle due persone in servizio da noi, abbiamo tenuto conto delle loro attitudini, destinandole a compiti diversi” conclude Naso. Roma: nasce “RecuperAle”, la birra contro gli sprechi prodotta dai detenuti di Valentina Barresi La Repubblica, 26 gennaio 2018 Il progetto delle Onlus EquoEvento e Vale la Pena si propone di “recuperare” il cibo e le persone. Una birra tutta artigianale al “sapore” (delle ore) di libertà dei detenuti che la producono. E dal profumo di croste di pane secco impiegate per realizzarla. Arriva sugli scaffali, la chiara dal marchio “RecuperAle”, nata dal progetto delle Onlus romane EquoEvento e Vale la Pena con due nobili scopi: unire istituzioni e privati nella lotta allo spreco alimentare e contribuire al reinserimento sociale dei detenuti. La birra è realizzata all’Istituto Tecnico Agrario Sereni, sede di Vale la Pena, che dispone di un birrificio dove i detenuti di Rebibbia, in regime di libertà giornaliera, si recano per imparare le tecniche di produzione: un’iniziativa che, spiega la presidente di EquoEvento Onlus, Giulia Proietti, “dà una seconda possibilità alle persone e alle materie prime destinate a essere inutilizzate”. In occasione della Giornata mondiale contro gli Sprechi alimentari del 5 febbraio, Eataly ha scelto di contribuire a “RecuperAle” organizzando degustazioni guidate e fornendo parte della materia prima: il pane dei suoi banchi di ristorazione. A raccontare l’idea dietro al prodotto è Paolo Strano: “Presiedo la Onlus Semi di Libertà, e sono il fondatore di Birra Vale la Pena - spiega - Ho lavorato nel carcere romano di Regina Coeli, ed ho deciso di realizzare una serie di iniziative per contrastare un fenomeno drammatico, quello delle recidive dei detenuti, “RecuperAle” è una di queste”. Oltre alle birre, il progetto prevede anche il lancio di una “campagna su Eppela per mettere a punto una produzione più ampia e coinvolgere quindi più persone. Per farlo abbiamo bisogno di affittare un impianto, a questo serviranno i fondi raccolti. Potremo così continuare a recuperare risorse umane e alimentari”. Lo scopo è tutto umanitario, con i ricavati della vendita delle birre destinati a sostenere le mission delle due associazioni in parti uguali: servono all’acquisto dei macchinari e a contribuire alle spese delle Onlus. Una collaborazione, quella nata tra le due realtà che operano sul territorio romano, che muove da una riflessione: “Una domenica mattina - raccontano gli attivisti di EquoEvento - abbiamo realizzato che il tema che ci accomunava era il recupero, per noi del cibo e per loro delle persone, ed è così che abbiamo pensato di fare una birra artigianale riprendendo la ricetta originaria della birra, che sembra sia nata proprio da un pane raffermo lasciato fermentare nell’acqua piovana da un contadino”. Trento: alternative alla detenzione e reinserimento sociale, domani un convegno consiglio.provincia.tn.it, 26 gennaio 2018 Organizzato dalla Garante dei detenuti, Antonia Menghini. Domani, 26 gennaio alle 9.00 la facoltà di giurisprudenza dell’università di Trento (aula 1, via Verdi 53) ospiterà il convegno “Misure alternative alla detenzione e reinserimento sociale”. L’organizzazione scientifica dell’iniziativa è di Antonia Menghini, Garante dei detenuti incardinata presso il Consiglio provinciale nonché docente presso la facoltà di giurisprudenza dell’università di Trento. Il convegno intende promuovere la cultura delle “alternative alla detenzione”. Nell’ottica di flessibilizzazione della risposta sanzionatoria, infatti, l´accesso alle misure alternative alla detenzione diventa un passaggio fondamentale nel percorso rieducativo del condannato e uno snodo cruciale nell’ottica del suo reinserimento sociale, oltre che elemento incidente in maniera più che significativa sul tasso di recidiva. Il convegno, che si svolgerà nell’arco di una giornata, è strutturato in due sessioni. Quella mattutina prevede relazioni di più ampio respiro sui temi relativi alle misure alternative e alla sospensione del procedimento con messa alla prova, oltre che della giustizia riparativa in fase esecutiva. Particolare attenzione verrà dedicata alle esigenze di riforma. La sessione pomeridiana è stata invece strutturata quale tavola rotonda in cui, con interventi più snelli, parteciperanno tutti gli operatori coinvolti sul territorio: l’Uepe, la Magistratura, gli educatori, l’avvocatura, il Serd e il servizio alcologia e alcune realtà del volontariato sociale. Milano: i detenuti del carcere di Bollate in mostra da Click Art Il Notiziario, 26 gennaio 2018 Sabato 27 gennaio 2018, si terrà presso la galleria d’arte contemporanea Click Art in via Dall’Occo 1, la Mostra collettiva dei detenuti del carcere di Bollate e gli artisti del movimento artistico Psicoavanguardia. La Mostra dal titolo “Art In - Art Out”, nasce da un progetto di Luigi Profeta e del movimento Psicoavanguardia e il laboratorio Artemisia, diretto dalla responsabile Nadia Nespoli. Il progetto consiste in cinque incontri con i detenuti, che in collaborazione con gli artisti, hanno creato dei lavori su uno specifico tema: Bruno Cavestro e Roberto hanno elaborato il loro lavoro sul tema: “Forme e ideologia”; Claudio Dal Pozzo e Antonino hanno affrontato il lavoro sul “Profumo della vita”; Angela Ippolito e Giambattista hanno elaborato il tema “Riverberi, il sentire dell’umano”; Enzo Malazzi e Simone hanno invece affrontato il tema: “La mia piccola rivoluzione personale”, ed infine Luigi Profeta e Nicola hanno pensato al tema: “L’ingiustizia”. Tutte le coppie lavorano con materiali molto diversi e con tecniche che si differenziano, dalla china, all’acrilico, alla carta, al legno, ai pigmenti. Il lavoro consiste in tre opere a testa, per un totale di sei tele per ogni coppia. Le tele più grandi sono state realizzate insieme ai detenuti, ed anzi solo loro hanno messo mano, mentre le tele più piccole sono frutto di un lavoro a quattro mani, dove l’artista interviene sul lavoro del detenuto e viceversa. I detenuti hanno saputo interpretare magistralmente i loro lavori, grazie anche alla responsabile del laboratorio artistico Artemisia, Nadia Nespoli, che lavora con loro da ormai cinque anni, e che ha saputo trasmettergli oltre che la tecnica, la capacità di affrontare i lavori a loro proposti. Profeta ricorda inoltre: “Tutte le opere esposte, meritano di essere conosciute e apprezzate. Le stesse verranno messe in vendita, e il ricavato verrà interamente destinato ai detenuti, in modo che possano continuare a lavorare con colori, tele e pennelli”. Un’idea importante nata per stare vicino a persone in difficoltà. “Questo progetto è frutto di persone, artisti, e collaboratori, che hanno svolto e svolgono, ogni giorno, questo lavoro come volontari, senza nulla percepire e che solo grazie alla passione e all’amore per l’arte e per la vita, è possibile affrontare, con la speranza di donare a chi è recluso, un po’ di serenità e speranza. Queste persone meritano di essere incoraggiate, e questo lo possiamo fare sabato 27 gennaio dalle ore 16 all’inaugurazione della mostra “Art In - Art Out”. Vorrei, per chiudere, ringraziare Nadia Nespoli, per l’opportunità che ha dato a noi artisti, offrendoci un’esperienza che non può far altro che farci crescere, e anche ai detenuti per l’impegno che ci hanno messo nell’affrontare un nuovo progetto”. Pescara: parte oggi la seconda fase del progetto “Sulle Ali della Libertà” di Alessia Stranieri lanotizia.net, 26 gennaio 2018 Prenderà il via oggi, alle ore 15, nel carcere S. Donato, la seconda fase del progetto “Sulle ali della libertà”, promosso dall’Assessorato alle Politiche sociali per favorire il recupero e la valorizzazione dei detenuti, attraverso l’emersione del potenziale espressivo e la riflessione interiore. All’incontro parteciperanno l’assessore Antonella Allegrino, il direttore della casa circondariale, Franco Pettinelli, l’educatrice Rina Pisano, la docente Barbara Nardella e cinque studenti del liceo artistico Misticoni-Bellisario, una rappresentanza dell’associazione culturale “Lo Spazio di Sophia” e della Croce Rossa. L’incontro di oggi servirà ad illustrare ai detenuti il contenuto e le tecniche con cui i ragazzi del Mibe realizzeranno alcuni murales nella stanza dei colloqui con i familiari, situata all’interno del carcere. “Il progetto è articolato in due fasi- spiega l’assessore Allegrino - Nella prima, che si è svolta nei mesi scorsi, i detenuti hanno avuto la possibilità di vivere un’esperienza di ricerca interiore attraverso una serie di incontri di filosofia organizzati e condotti dagli operatori dell’associazione “Lo Spazio di Sophia”, che hanno cercato di stimolare in loro una riflessione che li aiutasse ad esteriorizzare le proprie idee sui murales e, più in generale, a favorire il processo comunicativo. Gli studenti, a loro volta, hanno prodotto diversi disegni ispirati anche al contenuto di questi incontri. Alcuni sono stati selezionati per i murales, che saranno realizzati in uno spazio di vita sociale dei detenuti, quello destinato ai colloqui con i familiari e i bambini. Le attività rientrano tutte nella funzione rieducativa della pena stabilita dalla nostra Costituzione”. La Croce Rossa, che già da tempo opera con un gruppo all’interno della casa circondariale, contribuirà al progetto attraverso l’acquisto di parte del materiale necessario alla realizzazione delle opere. Dopo l’incontro di oggi, gli studenti del Mibe avvieranno la realizzazione dei murales e saranno presenti in carcere due giorni alla settimana. Il progetto “Sulle ali della libertà” ha avuto anche rilevanza nazionale con un lungo articolo apparso sul trimestrale di filosofia “Diogene”. Milano: una cena per i detenuti minorenni del Camerun con i missionari cappuccini agensir.it, 26 gennaio 2018 Una cena di solidarietà per raccogliere offerte per le necessità dei detenuti minorenni del Camerun. È l’iniziativa dei missionari cappuccini di Milano che sarà realizzata al centro sportivo “U.S. Aldini”, venerdì 9 febbraio, nel quartiere Quarto Oggiaro. L’evento si svolge in occasione della “Festa del volontariato in missione” e vuole riunire anche altre realtà impegnate nel sostegno degli ultimi. L’obiettivo è quello di sostenere la missione guidata da fra Gioacchino Catanzaro nel Paese africano, dove “moltissimi giovani, dai 12 ai 18 anni, si trovano in carcere senza aver commesso alcun reato rimanendo in attesa di giudizio per mesi o addirittura anni, in condizioni di vita disagiate: alimentazione ridotta a un piatto di riso al giorno, nessuna formazione professionale”, raccontano i frati in una nota. L’appuntamento è per le 20,30. Prima della cena interverranno fra Emilio Cattaneo, responsabile del volontariato in missione della Provincia di Lombardia, fra Stefano, missionario che ha lavorato per un anno nelle carceri camerunensi, e fra Hugo Mejía Morales, consigliere generale dell’Ordine dei frati minori cappuccini e responsabile delle missioni cappuccine di volontariato nel mondo. Si continuerà con la “Cena con il missionario”, gioco di ruolo ispirato dalla “Cena con delitto”. Volterra: una “cena galeotta” con i detenuti della Casa circondariale di Ilaria Biancalani La Nazione, 26 gennaio 2018 È così che don Donato Agostinelli, storico parroco di Cerreto Guidi festeggerà i suoi 60 anni. Il parroco di Cerreto Guidi, don Donato Agostinelli, festeggerà in carcere il suo sessantesimo compleanno. Il sacerdote ha infatti deciso di invitare gli amici a una “Cena Galeotta”, venerdì 26 gennaio, preparata dai detenuti della casa circondariale di Volterra. Le Cene Galeotte sono nate nel 2005 da un’idea della direttrice del carcere, Maria Grazia Giampiccolo: la loro preparazione coinvolge una trentina di detenuti, che seguono un percorso di reinserimento, e il ricavato va in beneficenza. Oltre che con la “cena galeotta”, don Donato Agostinelli festeggia il compleanno dando alle stampe un’autobiografia, dal titolo “Dondò”, come viene chiamato il parroco dagli amici. Si tratta di 150 pagine di aneddoti, foto e di testimonianze, che tracciano il profilo di questo prete “fuori dagli schemi”. Un sacerdote che preferisce la tuta da lavoro all’abito talare, che gira il mondo per portare aiuto agli ultimi, che va a celebrare i matrimoni con la sua bici da corsa e che ha partecipato pure a “La Corrida”. Nel libro ci sono i racconti dei suoi incontri con madre Teresa di Calcutta, di quella notte che dormì a pochi metri da papa Bergoglio, dei viaggi sui monti Nuba con voli non autorizzati, delle esperienze nella ex Jugoslavia in guerra. Come per la cena il ricavato della vendita del libro, disponibile anche in formato eBook, andrà in beneficenza, in favore del Movimento di cooperazione internazionale Shalom, di cui don Donato è fra i fondatori. “Anche il nostro vescovo Andrea Migliavacca si è prenotato per la cena galeotta - scrive il fondatore del Movimento Shalom, don Andrea Cristiani, nell’introduzione del libro -. Fosse stato appena un po’ più vicino, neanche Papa Francesco sarebbe mancato”. Oltre ai ricordi e alle testimonianze, il libro Dondò contiene molte foto, che rappresentano benissimo lo spirito di don Agostinelli: nella prima impugna una motosega, al lavoro dopo l’uragano che si abbatté su Cerreto Guidi nel settembre 2014, in un’altra sta restaurando il tetto del campanile e un’immagine lo ritrae con il megafono in mano e i piedi sui pedali, mentre invita i cittadini all’infiorata. “Lo confesso - scrive in Dondò - a differenza di alcuni miei compagni di seminario, a me l’aspetto rituale e solenne della liturgia Cattolica non faceva impazzire. A quei tempi, poteva anche apparire come un segnale di scarsa vocazione. Certi miei compagni erano fortemente attratti dai paramenti, dalle toghe, dagli orpelli ecclesiastici. A me, sinceramente, piacevano i jeans, le magliette e le tute da lavoro. Scherzosamente don Andrea mi dice ancora che la mia imitazione di Cristo servo si avvicina di più ai suoi lunghi anni di Nazareth, quando lavorava come carpentiere, che alla fase della predicazione del Regno”. Shoah. Giorno della Memoria, Mattarella demolisce il mito degli italiani brava gente Il Manifesto, 26 gennaio 2018 Cerimonia al Quirinale per il giorno della Memoria, il presidente della Repubblica usa parole durissime sulle connivenze all’antisemitismo radicate nella società italiana subito dopo le leggi razziali e sulle colpe del fascismo: inaccettabile dire che ebbe anche dei meriti. “Il presidente è stato molto chiaro e mi hanno fatto particolarmente piacere alcune sue frasi sul passato. Speriamo che sia effettivamente il passato”. Al Quirinale, Pietro Terracina, uno dei sopravvissuti di Auschwitz, commenta così il discorso di Sergio Mattarella per il giorno della memoria. Il presidente della Repubblica alla condanna dei crimini della storia ha aggiunto un deciso avvertimento per il presente. La cerimonia si è svolta ieri perché il giorno della memoria - 27 gennaio, anniversario dell’aperture dei cancelli di Auschwitz da parte dell’Armata rossa sovietica (le “truppe russe” nel discorso di Mattarella) - cade quest’anno di sabato, giornata del riposo per gli ebrei. Oggi il capo dello stato è impegnato con l’apertura dell’anno giudiziario in Cassazione. Mattarella aveva in qualche modo anticipato il suo richiamo al valore della memoria - “un antidoto indispensabile contro i fantasmi del passato” - nominando la settimana scorsa senatrice a vita Liliana Segre, anche lei sopravvissuta e testimone dell’olocausto. “Tutte le vittime dell’odio sono uguali e meritano uguale rispetto, ma la Shoah per la sua micidiale combinazione di delirio razzista, volontà di sterminio, pianificazione burocratica, efficienza criminale, resta unica nella storia d’Europa”, ha detto Mattarella. Per la prima volta il capo dello stato ha voluto invitare anche il rappresentante della comunità dei rom, sinti e camminanti. “Speriamo che il passato non torni mai - ha detto Terracina - non temo per me o per i miei correligionari, temo invece per altre minoranze che sono ancora a rischio”. Con parole mirate, Mattarella ha demolito il mito degli italiani brava gente e della dittatura lieve. “Sul territorio nazionale il regime fascista non fece costruire camere a gas e forni crematori. Ma il governo di Salò collaborò attivamente alla cattura degli ebrei che si trovavano in Italia e alla loro deportazione verso l’annientamento. Le misure persecutorie - ha aggiunto - la schedatura e la concentrazione nei campi di lavoro favorirono enormemente l’ignobile lavoro dei carnefici delle SS”. Mattarella ha ricordato l’ottantesimo anniversario delle leggi razziste del 1938, “ideate e scritte di pugno da Mussolini, trovarono a tutti i livelli delle istituzioni della politica, della cultura e della società italiana connivenze, complicità, turpi convenienze, indifferenza”. Di rara nettezza la condanna del fascismo: “Con la normativa sulla razza si rivela al massimo grado il carattere disumano del regime fascista… dopo aver soppresso i partiti, ridotto al silenzio gli oppositori e sottomesso la stampa, svuotato ogni ordinamento dagli elementi di democrazia, il fascismo mostrava ulteriormente il suo volto”. “E per questo sorprende sentir dire, ancora oggi, da qualche parte, che ebbe alcuni meriti, ma fece due gravi errori: le leggi razziali e l’entrata in guerra. Si tratta di un’affermazione gravemente sbagliata e inaccettabile, da respingere con determinazione. Perché razzismo e guerra non furono deviazioni o episodi rispetto al suo modo di pensare, ma diretta e inevitabile conseguenza”. In conclusione, Mattarella ha detto che “focolai di odio, di intolleranza, di razzismo, di antisemitismo sono presenti nelle nostre società. Non vanno accreditati di un peso maggiore di quel che hanno ma sarebbe un errore capitale minimizzarne la pericolosità”. Migranti economici, quando si finge di credere alle loro bugie che dicono per disperazione di Marianna Cavalli La Repubblica, 26 gennaio 2018 Le Commissioni Territoriali dove avvengono le interviste delle persone che sbarcano in Italia. Spesso sono fabbriche di mendicanti e sfruttati. Le persone respinte a volte raccontano bugie per ottenere lo status di protezione internazionale, dopo l’inferno del deserto e delle galere libiche. Bakary è partito dal Mali perché la sua famiglia stentava a sopravvivere. Nel suo villaggio, Bakary aveva organizzato una scuola per i bambini che non potevano permettersi di andare a quella pubblica. Aveva raggiunto in bicicletta la città, a più di venti chilometri dal villaggio, per chiedere al sindaco di garantirgli gratuitamente l’accesso all’elettricità per un’ora ogni sera, per poter fare lezione, e il sindaco gliel’aveva concesso. Ma un giorno suo padre gli ha chiesto di partire, per andare in Europa e trovare un buon lavoro, che potesse consentire alla famiglia di andare avanti. La Commissione Territoriale. Alla Commissione territoriale che ha esaminato la sua richiesta di protezione, Bakary ha raccontato che è dovuto partire perché una parte del suo villaggio ha attaccato la sua famiglia e l’ha costretta a fuggire, a seguito di alcune contese sulla proprietà di un terreno. Dopo una serie di peripezie, Bakary si è ritrovato da solo ad attraversare il confine del Mali e ha preso la strada per la Libia, su consiglio di alcune persone che gli avevano assicurato che il Paese, di recente uscito dalla guerra, era in piena ricostruzione e le possibilità di trovare lavoro erano molte. La Commissione ha creduto, o ha finto di credere, al racconto narrato da Bakary e gli ha accordato la protezione umanitaria. Gli altri. Nello stesso centro d’accoglienza, però, a molti degli amici di Bakary la Commissione non ha accordato né lo status di rifugiato, né la protezione sussidiaria, e nemmeno umanitaria. Eppure, le storie che hanno raccontato erano spesso simili a quella citata, e a volte persino identiche. Semplicemente, il commissario che le ha ascoltate non era lo stesso. Nelle risposte alle loro richieste di protezione si leggono frasi del tipo: “Il racconto desta molte perplessità”; “L’asserita fede cattolica appare pretestuosa e non credibile”; “Considerato che quanto narrato dal richiedente appare inverosimile”; “L’affermazione di non avere alcun familiare in patria non è supportata da elementi oggettivi e circostanziati”. Gli amici di Bakary vengono perciò classificati come “migranti economici” e non riceveranno il permesso di soggiorno. Il migrante economico. Un migrante economico è colui che ha saputo mentire peggio alla Commissione Territoriale e rappresenta più della metà dei migranti che avanzano una richiesta di protezione in Italia. Un migrante economico è anche quello che, dopo aver attraversato il deserto del Niger e aver visto morire sotto al sole la gente caduta dal camion straripante sul quale viaggiava, dopo aver trascorso mesi nei campi di detenzione libici, da alcuni definiti come un “insulto all’umanità”, dopo essersi imbarcato su un gommone zodiac da 30 posti, che di persone ne conteneva 140, dopo aver attraversato il mare, di notte, ed essere naufragato ed aver passato parecchie ore in acqua prima che arrivassero i soccorsi, dopo aver atteso per un anno in un centro d’accoglienza il momento in cui la Commissione Territoriale avrebbe deciso del suo futuro, ebbene, un migrante economico è colui che, dopo essere passato attraverso tutto questo, si sente dire che la sua richiesta è stata rifiutata. Dopo che anche l’ultima carta del ricorso sarà stata giocata, al migrante economico verrà intimato di lasciare la stanza in cui ha vissuto per oltre un anno e mezzo, e si ritroverà direttamente in strada, senza documenti, senza casa, senza soldi. La fabbrica del disagio. Ed è così che il centro d’accoglienza si trasforma in un’enorme fabbrica di vagabondi, di mendicanti, di sfruttati che lavoreranno in nero nei campi per due euro all’ora e per 14 ore al giorno, in una parola una fabbrica di scontento e di disagio sociale. Allora forse quel commissario, il quale sa benissimo che la persona che ha davanti sta mentendo, perché ha già sentito quella stessa storia un milione di volte, ma che decide di fingere di crederle, è quel commissario che si è detto: “Forse possiamo perdonare la bugia. Forse è una bugia della sopravvivenza e della disperazione”. Migranti. L’importanza di non chiamarsi Mered di Romina Marceca La Repubblica, 26 gennaio 2018 Medhanie Yehdego Mered è un trafficante che viene chiamato “il generale” dai disperati. È stato arrestato in Sudan nel 2016. Ma l’uomo in carcere dice di essere un’altra persona e si dichiara vittima di un clamoroso errore. Alla fine della sua testimonianza, Robel Kelete si è alzato dalla sedia e ha guardato la foto che ritrae l’uomo con il crocifisso d’oro al collo. Ha iniziato a piangere e ha detto: “Questo è Medhanie Yehdego Mered”. Poi si è voltato verso il gabbiotto dove siedono gli imputati, ha fissato il ragazzo che dice di chiamarsi Medhanie Tesfamariam Behre e ha scosso la testa: “Non è lui Mered”. Un eritreo rifugiato in Svezia è l’ultimo testimone nel processo a Medhanie Yehdego Mered, un pericolosissimo trafficante di uomini chiamato “il generale” e che avrebbe guadagnato milioni sulla pelle dei disperati. Il trentenne in carcere dal 24 maggio 2016 si batte il petto da un anno e mezzo e ripete: “Non sono io”. I testimoni - Il falegname in carcere è difeso dall’avvocato Michele Calantropo. Nella sua lista testi ci sono 25 persone disposte a dire che quel ragazzo non è il trafficante Mered e che si è trattato di un errore di persona. La procura ha già portato in aula diversi testimoni: il funzionario di polizia Carmine Mosca, allora a capo della sezione della squadra mobile che si occupava dei reati connessi all’immigrazione, i poliziotti che andarono con lui in Sudan ad arrestare il trafficante, il vice questore aggiunto Mariapia Marinelli dello Sco di Roma, e l’ingegnere che ha eseguito la perizia sul telefono trovato all’arrestato. Per la procura quell’uomo è “il generale” e quel nome, Medhanie Tesfamariam Behre, non è altro che un alias. Le prove - I punti saldi dell’inchiesta sono per l’accusa i messaggi che si riferiscono a traffici di uomini, le telefonate ad altri trafficanti, la perizia fonica, le intercettazioni telefoniche. Tutti punti ai quali la difesa ha risposto con proprie consulenze. Dice Calantropo: “La voce non è quella di Behre, i messaggi sono stati tradotti e decontestualizzati e alcuni sono stati esclusi. In uno, ad esempio, la sorella del mio assistito, una cameriera, scrive: “Vieni qui a fare pratica con le crepes”. È mai possibile che un trafficante spietato si occupi di cucina? Behre era un uomo in fuga. In un messaggio scrive alla sorella: “Quest’anno affogherò in mare o arriverò in Europa”. E poi, chiamava i trafficanti per chiedere informazioni di suoi parenti e amici in viaggio”. La moglie e la madre - Lydia Tesfu è la moglie di Medhanie Yehdego Mered. Hanno un figlio ma la loro relazione è finita. Su Facebook ci sono foto della coppia. Quella donna è stata tra i primi a dire che in carcere c’era un innocente. Una strategia per proteggere il marito o la verità? Si era anche detta disponibile a partire dalla Svezia per l’esame del Dna al figlio. Poi ha fatto retromarcia sostenendo di temere per la vita del bambino. Meaza Zerai Weldai, invece, è arrivata in Italia e si è sottoposta al test del Dna. È la mamma di Behre. Il Dna le ha dato ragione. Il passaporto falso - Un altro fronte del giallo è stato aperto dal giornale americano New Yorker che ha pubblicato un’intervista con Mered. Il trafficante avrebbe detto di essere stato arrestato negli Emirati Arabi nel dicembre 2015 per avere usato un passaporto eritreo contraffatto. Nel periodo in cui è stato arrestato Behre, lui sarebbe stato in carcere. “So dov’è” - Nell’ultima udienza, infine, la giornalista e attivista eritrea Meron Estefanos ha detto di sapere dov’è il vero Mered. Una testimonianza che ha lasciato perplessi sia il presidente della seconda sezione della Corte d’Assise sia l’accusa, rappresentata in aula dal pm Geri Ferrara, che ha detto: “La teste non è un ufficiale di polizia”. La giornalista, che ha scritto tre libri sul traffico di esseri umani, ha dichiarato di essere stata in contatto con “il generale”, di essere sua amica su Facebook e di averlo sentito a un numero di telefono che ha fornito alla Corte. Il pm l’ha incalzata chiedendole se avesse mai contattato le autorità italiane. “Come giornalista il mio lavoro è quello di raccogliere notizie e raccontare. Sono le autorità a contattarmi”, ha risposto lei. Egitto. Cento piazze giallo-Giulio e le verità del pm Pignatone di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 26 gennaio 2018 Borse di studio intitolate al ricercatore assassinato in Egitto, messaggi per ricordarlo anche da Gentiloni e Boldrini. Si chiama “giallo Giulio”, ormai, in Italia il colore che altrove è una tonalità tra l’evidenziatore e il limone, come gli striscioni che pendono dai balconi di palazzi comunali e facoltà universitarie. Ieri era il secondo anniversario della sua sparizione e insieme ad Amnesty International Italia attorno alle 19,41 - ora in cui Giulio Regeni mandò il suo ultimo sms, sua ultima presenza viva, ultimo atto libero - in cento piazze si sono svolte fiaccolate e sit-in attorno a una candela in ricordo del suo “giallo”, fatto però più di segreti di Stato e ambigue posizioni diplomatiche che di mistero. Nel giorno del secondo anniversario della sparizione di Giulio al Cairo il procuratore Giuseppe Pignatone ha voluto, con una lunga lettera ai giornali, fare il punto, in modo pubblico, sulle indagini e sui rapporti con gli inquirenti egiziani. Rapporti di cui non nasconde, pur nella cooperazione al di là dell’assenza di trattati specifici, i problemi, dai tentativi di depistaggio iniziali su false piste come lo spionaggio di Regeni fino alla mancata condivisione dei dati grezzi dei tabulati telefonici. Due sono le “risultanze” che Pignatone mette in qualche modo agli atti, ribadendo che la magistratura inquirente, che deve risolvere il caso, resta quella cairota: il primo riguarda il movente del barbaro omicidio. Giulio Regeni, chiarisce il magistrato italiano oltre ogni ragionevole o non ragionevole dubbio, è stato ucciso per le sue ricerche, che riguardavano - è bene ricordarlo - le lotte sindacali nell’Egitto di Al Sisi. “Il movente dell’omicidio va ricondotto esclusivamente alle attività di ricerca di Giulio - mette nero su bianco - ed è importante la ricostruzione dei motivi che lo hanno spinto ad andare al Cairo e l’individuazione delle persone con cui ha avuto contatti sia nel mondo accademico sia negli ambienti sindacali egiziani”. Sottolinea come sia “emerso con chiarezza” che alcune delle persone che conobbe nel corso delle sue ricerche lo abbiano “tradito”. Così pure appare acclarato che “apparati pubblici egiziani” avevano preso a sorvegliarlo nei mesi precedenti alla sparizione “con modalità sempre più stringenti”. Quanto agli accertamenti disposti dalla procura italiana a Cambridge, Pignatone dice solo che c’erano contraddizioni tra le dichiarazioni “acquisite in ambito universitario e quanto emerso dalla corrispondenza recuperata nel suo computer”. I primi risultati del materiale sequestrato durante la perquisizione della tutor Maha Abdelrahman, “ad un primo esame sembrano utili”, scrive Pignatone, ma lo studio non è ancora concluso. Il caso non è chiuso e l’Italia intesa come Paese - lo dimostrano le cento piazze che hanno aderito alla campagna di Amnesty “per la verità su Giulio Regeni” e il palinsesto Rai scombussolato da banner e servizi speciali sulla giornata e sulla storia di Giulio - non intende lasciare che il tempo e la stanchezza del non avere risposte copra tutto con un manto di oblio e indifferenza. Quest’anno anche molte scuole e università hanno partecipato a questa palestra di memoria individuale e collettiva, con lettere, dibattiti (a Firenze e a Sassari) e borse di dottorato intitolate a Regeni (a Bologna e alla Federico II di Napoli). Mentre a Genova alla fiaccolata ha partecipato l’Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani. Dalla politica molti i messaggi su di lui via twitter, tra cui quello telegrafico del premier Paolo Gentiloni che sottolinea: “L’impegno per la ricerca della verità continua”. E quello della presidente della Camera e candidata di LeU Laura Boldrini, che condivide l’appello dei genitori sul fatto che già “due anni sono troppi” senza verità e giustizia. Egitto. Perché Pignatone fa l’avvocato di al-Sisi? di Guido Rampoldi Il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2018 In una irrituale lettera a due giornali amici, il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ha rivendicato la linearità dei comportamenti del suo ufficio nell’affiancare gli inquirenti egiziani che indagano, o dovrebbero indagare, sull’assassinio di Giulio Regeni. La collaborazione con il Cairo, scrive in sostanza Pignatone, per quanto sia complicata e tortuosa ci ha messo nelle condizioni di sventare depistaggi, scoprire informatori che avevano segnalato il ricercatore agli apparati di sicurezza, e (ma questo non è detto esplicitamente) identificare poliziotti egiziani coinvolti a vario titolo nel delitto. Perché nessuno di questi ultimi è stato incriminato? Come per rispondere a questa obiezione Pignatone fa presente che la cooperazione tra le due magistrature ha i suoi tempi e “qualunque fuga in avanti da parte nostra si trasformerebbe in un boomerang in grado di vanificare quanto fin qui con fatica costruito”. Infine il procuratore difende le indagini condotte a Cambridge e accompagnate da gran fracasso mediatico, in quanto avrebbero offerto materiale “utile alle indagini”. Anche se quest’ultima formula pare troppo vaga per non essere furba, la ricostruzione del procuratore nel complesso rispecchia dati di fatto. Il problema è che contiene solo una parte della verità, e non potendo dire la parte mancante Pignatone avrebbe fatto meglio a tacere, essendo una verità a metà di fatto una menzogna. Per cominciare ciò che rende del tutto anomala la collaborazione tra le due magistrature non è la differenza tra i due ordinamenti, tantomeno la “mentalità araba” chiamata in causa da Pignatone, quanto il paradosso italiano per il quale Roma chiede all’assassino chi sia l’assassino. Ragione per la quale in testa al fascicolo della procura andrebbe scritto a chiare lettere: questa indagine non condurrà mai alla verità. Il Cairo non ci dirà mai come è morto Regeni, chi l’ha materialmente torturato, chi ha dato l’ordine di sopprimerlo, e per- ché. Potremo al più individuare figure di contorno, quelle che peraltro già conosciamo, essenzialmente per merito degli investigatori italiani, carabinieri del Ros e poliziotti del Servizio centrale operativo. Ma appena le indagini arrivassero sulla soglia della camera di tortura, o più esattamente al sistema della tortura e degli omicidi extragiudiziali col quale il regime governa, le informazioni offerte dal Cairo diventerebbero scarse e lacunose: come peraltro è già successo. Se infatti in questa storia c’è una cosa ovvia è che il vertice egiziano sa tutto sulla morte di Regeni dal primo minuto, ma nasconde e mistifica. Questo rende semplicemente farsesca la determinazione a trovare la verità che al-Sisi ripete a italiani compiacenti, politici o ministri. Di questa indecorosa commedia fa parte anche il Procuratore generale Nabil Sadek, che Pignatone ringrazia pubblicamente nella sua lettera benché il personaggio sia un magistrato sui generis, e forse neppure un magistrato. Insediato da al-Sisi dopo il golpe in quanto fidatissimo, Sadek garantisce quantomeno col suo silenzio il sistema che ha inghiottito Regeni. Il rapporto di Human Right Watch del 5 settembre scorso de- scrive quel sistema come una gigantesca “catena di montaggio”: “La polizia e gli ufficiali della sicurezza nazionale torturano regolarmente detenuti politici con metodi che includono pestaggi, scosse elettriche, posizioni dolorose e talvolta stupri”; i dissidenti spariscono nel nulla; e le procure, che Sadek ispira, perseguono non queste sistematiche violazioni ma i magistrati e gli avvocati che le denunciano. Il rapporto di Human Right Watch ammonisce Sadek che questi comportamenti sono configurabili come “crimini contro l’umanità”. Non risulta che il procuratore generale si sia convinto a pentirsi. Il suo predecessore fu fatto saltare in aria nel 2015 da un gruppo di ragazzi alle prime armi, tutti in seguito arrestati, torturati, condannati a morte e ora in attesa di esecuzione. “Terroristi”, concorderebbero magistrati egiziani e italiani. Ma eliminarono lo strumento mortale di un regime golpista con un’azione di resistenza armata che l’etica liberale e i principi degli stati di diritto occidentali tendono a considerare legittima. Non immagino quale sia in merito l’opinione di Pignatone ma il procuratore converrà che le speranze di conoscere l’intera verità sulla morte di Giulio Regeni non dipendono dalla buona volontà di al Sisi e della sua banda, incluso l’esimio procuratore generale, semmai dalla possibilità che costoro spariscano presto della scena, e un regime di transizione autorizzi finalmente a indagarne le malefatte. Gran Bretagna. Prigioni per soli terroristi, in ogni sezione massimo di 50 detenuti di Giovanni Galli Italia Oggi, 26 gennaio 2018 La Gran Bretagna ha creato dei quartieri, all’interno delle prigioni, dedicate soltanto ai terroristi. In sostanza prigioni per gli jihadisti. La prima, l’anno scorso, all’interno del centro penitenziario di massima sicurezza di Durham dove sono rinchiusi diversi attentatori autori di attacchi o che hanno partecipato a complotti di natura terroristica. Altri due saranno creati a breve. Ciascuno di questi quartieri è in grado di accogliere al massimo 50 jihadisti che sono un rischio continuo per la sicurezza nazionale. Saranno totalmente isolati dal resto della popolazione carceraria, secondo quanto ha riferito Le Figaro. La decisione è stata presa in seguito alla pubblicazione del rapporto governativo, nel 2016, sull’islamismo radicale nelle prigioni e mette fi ne ad una serie di errori sulla prevenzione del problema. È venuto fuori che Khalid Masood, che ha compiuto l’attentato a Westminster che causò 5 morti nel marzo 2017, si è convertito all’Islam e si è radicalizzato nel carcere dove era stato rinchiuso in precedenza, per un’aggressione all’arma bianca. Secondo il think-tank Henry Jackson Society, i convertiti quadruplicano le possibilità di commettere atti di terrorismo rispetto a chi è nato musulmano. All’incirca 13 mila detenuti nelle prigioni britanniche sono musulmani, dei quali 137 per delitti legati al terrorismo. Il proselitismo nelle carceri avviene durante gli incontri di preghiera, secondo il rapporto riportato da Le Figaro e da questo è scaturita la decisione di creare quartieri di isolamento sotto stretta sorveglianza. Per il ministero britannico della giustizia impedire agli estremisti più pericolosi di radicalizzare altri detenuti è essenziale per la sicurezza delle carceri e per proteggere la popolazione. Libia. Esecuzioni in strada per punire i terroristi Libero, 26 gennaio 2018 Sanguinosa vendetta delle milizie salafite libiche per l’attacco terroristico che martedì, davanti alla moschea Bait Radwan di Bengasi, in Libia, ha ucciso 41 persone, fra le quali Ahmed Al Fituri, comandante della milizia salafita Madkhali, e Ahmed Al Oraibi, capo dell’unità investigazione e arresti del generale Khalifa Haftar, mentre fra gli 80 feriti vi è Mahdi Al Falah, vice capo dell’intelligence e del controspionaggio. Ieri, davanti alla stessa moschea, Mahmoud Warfalli, comandante delle truppe speciali Al Saiqa, ricercato dalla Corte penale internazionale ma ancora in libertà, ha giustiziato a colpi di kalashnikov sulla pubblica via dieci persone catturate nelle scorse settimane con l’accusa di far parte dello Stato islamico. Mentre il governo italiano si appresta a inviare una missione militare sul territorio libico, è il ministro degli Esteri Angelino Alfano a condannare “nella maniera più ferma” sia l’attentato, chiedendo che i responsabili “vengano al più presto assicurati alla giustizia”, che l’azione di rappresaglia che ne è seguita, esprimendo “profonda preoccupazione e sgomento per le notizie di esecuzioni sommarie”. “L’Italia è al fianco della popolazione e delle Autorità libiche nella lotta al terrorismo e contro ogni forma di violenza che allontanano pace e stabilità”, ha aggiunto il titolare della Farnesina, dicendosi vicino alle famiglie delle vittime. Alfano ha ribadito “il pieno e convinto sostegno dell’Italia al rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite Ghassam Salamè nel suo sforzo per far avanzare il processo politico e di riconciliazione nazionale”. Salamè è arrivato ieri a Bengasi per un incontro con il generale Haftar, che nell’agosto scorso aveva assicurato la comunità internazionale circa l’arresto e l’esautoramento di Mustafa Al Warfalli, considerato dai suoi uomini “l’eroe della Cirenaica”. Invece, le sue milizie salafite sono ancora in circolazione. Fra pochi mesi, la Libia sarà chiamata a elezioni democratiche, secondo il piano di azione adottato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 20 dicembre 2017. Se a vincerle dovesse essere Haftar, attuale comandante dell’autoproclamato Esercito nazionale Libico, la comunità internazionale sarebbe lontana dall’aver trovato una soluzione al caos del dopo-Gheddafi. Brasile. L’ipoteca dei magistrati sul governo del paese di Piero Sansonetti Il Dubbio, 26 gennaio 2018 Una corte d’appello brasiliana ha condannato a dodici anni di carcere Luis Iniacio Lula, l’ex presidente del Brasile, leader indiscusso del Pt, cioè del partito dei lavoratori del più grande paese dell’America Latina. Lula ha governato il Brasile dal 2003 al 2010, realizzando una politica riformista di tipo socialdemocratico. Ha trasformato profondamente il Brasile, dimostrando la sua statura di statista. Poi ha lasciato perché non poteva candidarsi per un terzo mandato e ora, dopo otto anni di intervallo, era pronto a rientrare in lizza. Tutti i sondaggi lo davano come sicuro vincitore delle elezioni in programma per ottobre. Ora invece rischia di essere incandidabile, e addirittura da un momento all’altro potrebbe essere arrestato. È accusato di un reato fantasma. Corruzione, perché una impresa privata, in cambio di alcuni favori in alcuni appalti, gli avrebbe regalato un appartamento sul litorale vicino a San Paolo. Ma quell’appartamento non risulta essere suo. L’accusa si basa esclusivamente sulla testimonianza di un dirigente di questa impresa, che era stato condannato a dieci anni di galera e dopo le accuse a Lula ha visto la pena ridotta a tre anni. Non esiste neppure uno straccio di documento che prova che quell’appartamento sia di Lula. Nemmeno una carta privata, una dichiarazione di intenti, o qualche intercettazione, un sms, una email. Zero. Lula ha dichiarato cento volte che non è suo e non era della moglie. Perché in realtà il testimone d’accusa sostiene che l’appartamento fu dato alla moglie. Che nel frattempo è morta. Nessuno ha mai visto né la signora né l’ex presidente mettere piede nell’appartamento, e al catasto l’appartamento risulta non loro. Quello contro Lula non è stato un processo indiziario: molto meno. È stato un tipico processo nel quale l’unica cosa che conta è il sospetto dei Pm. I Pm - che hanno messo da anni sotto assedio il Pt, e hanno realizzato decine di arresti eccellenti - sono convinti che Lula fosse alla testa di un’organizzazione illegale. E che ne abbia tratto vantaggio. Non hanno trovato però nessun delitto specifico. Neppure generico. E allora hanno puntato su quell’appartamento, e sulla testimonianza di un pentito. Riscontri zero virgola zero. Prove a discarico ignorate. Il principale accusatore di Lula è un certo giudice Sergio Moro. Il quale più volte ha dichiarato di avere studiato e ristudiato la Tangentopoli italiana. Ha letto molto gli scritti di Di Pietro. Lo ha detto lui. Ha incontrato varie volte Piercamillo Davigo, che è andato personalmente in Brasile per addestrare i Pm brasiliani. In effetti i concetti alla base di questa inchiesta sono assolutamente davighiani. Il principio è quello: “Sei un politico? Dunque delinqui”. L’inchiesta della “Mani pulite” brasiliana già ha portato alla destituzione della presidente che aveva preso il posto di Lula nel 2010, e cioè Dilma Rousseff (anche lei del Pt). Sostituita dal suo vicepresidente, che però non è del Pt e governa con la destra. Nessuno lo ha eletto. Il colpo portato dai magistrati al Pt ha già avuto i suoi risultati: la politica riformista si è fermata, è tornata a imperare la vecchia linea liberista. Però gli esperti dicevano che sarebbe durata poco, perché Lula aveva già la certezza di vincere le elezioni del prossimo ottobre. Ora questa certezza non c’è più. La situazione è molto confusa, ma sembra che sarà la Corte suprema a decidere se Lula può o no essere arrestato e se può o no correre per le presidenziali. C’è una legge del 2008, una specie di “Severino brasiliana” (si chiama Ficha Limpia, fedina pulita), che dice che non può presentarsi, ma molti costituzionalisti sostengono il contrario. Vedremo. Quel che è certo è che ci troviamo di fronte a una situazione molto simile a quella che si verificò in Italia un quarto di secolo fa. Con un gruppo di Pm che esautora la politica, cancella il potere delle elezioni. Decide chi deve governare e in sostanza decide anche la linea economica e sociale. Questo gruppo di Pm ha ormai quasi demolito il Pt, cioè il più importante partito di sinistra democratica di tutto il continente americano. O comunque è molto vicino alla sua demolizione. L’unica possibilità che questo non avvenga, possibilità esile esile, è che Lula resista, riesca ad andare al voto e vinca in modo consistente. Forse solo così la magistratura brasiliana si troverebbe in difficoltà. Sarebbe costretta ad arretrare. Del resto, sebbene con attori molto diversi, in Italia, Tangentopoli aprì la strada al ventennio berlusconiano (eterogenesi dei fini!). In Italia però sono ancora robuste le conseguenze della rivoluzione del ‘ 92. I rapporti di forza tra magistratura e politica (e democrazia) si sono ribaltati a favore della magistratura. Che oggi ha un potere vastissimo, e tiene in pugno la politica, e condiziona e limita la democrazia. Del resto anche qui il leader che viene indicato come il più forte dai sondaggi, e cioè Berlusconi, non può presentarsi alle elezioni perché così ha deciso la magistratura. Anche negli Stati Uniti, seppure in forma ancora molto embrionale, sta succedendo qualcosa del genere: i democratici sembrano affidare tutte le loro strategie di opposizione alla speranza che la magistratura fermi le scelte di Trump, e magari avvii l’impeachment. È un fenomeno internazionale, molto scivoloso. Perché se procedesse cambierebbe i connotati della democrazia liberale. Brasile. Prima repubbliche delle banane, oggi regno del giustizialismo di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 26 gennaio 2018 Lula potrebbe davvero finire dietro le sbarre entro un paio di mesi. È in prigione da tempo il suo ex ministro fenomeno dell’Economia, Antonio Palocci, ha preso trent’anni di galera il suo ex braccio destro José Dirceu. I giudici brasiliani che hanno condannato Lula hanno spesso dichiarato quanto la nostra Mani Pulite degli anni 90 li abbia ispirati. Con il processo all’ex presidente e la dura condanna a 11 anni, l’operazione ha visto la sua apoteosi. Paragonabile, se vogliamo, a quel maxiprocesso Enimont del 1993 che mise una pietra tombale sulla nostra Prima Repubblica. In Brasile il vecchio sistema ancora regge, mentre l’urgenza appare un’altra: far eseguire le condanne, spalancare le porte del carcere per i potenti, come risposta al desiderio di giustizia dell’opinione pubblica. Lo stesso in altri Paesi del continente: le carceri si stanno affollando di personaggi che dieci anni fa le cronache raccontavano in ben altro modo. E molti sono in attesa di entrarci. Da noi, come è noto, le condanne per corruzione finiscono per restare spesso senza conseguenze pratiche. Lula potrebbe davvero finire dietro le sbarre entro un paio di mesi. È in prigione da tempo il suo ex ministro fenomeno dell’Economia, Antonio Palocci, ha preso trent’anni di galera il suo ex braccio destro José Dirceu. Sono dentro con condanne pesantissime l’ex governatore di Rio Sergio Cabral, padre delle Olimpiadi 2016, e l’ex presidente della Camera, Eduardo Cunha. Celebri imprenditori sono ancora in prigione, o ne sono usciti sacrificando tutto. E ancora mancano i politici con immunità, salvati per ora da un iter interminabile. Il Perù ha addirittura quattro ex presidenti nei guai. L’ultimo, Ollanta Humala, è in carcere. Una raffica di inchieste sono in corso in Colombia, sempre a causa della grande azienda corruttrice brasiliana Odebrecht. In Venezuela gli indizi di arricchimento personale sono infiniti, ma lo status ormai dittatoriale del regime chavista non permette il lavoro di una magistratura indipendente. In Argentina è sotto la lente dei giudici l’intero sistema K, cioè i 12 anni di potere della coppia Kirchner. L’ex presidente Cristina è dovuta urgentemente tornare in Senato con un mandato che la scherma, per adesso, da un arresto per le indagini sull’arricchimento della sua famiglia. Dalle repubbliche delle banane al giustizialismo. Afghanistan. Chi protegge i civili? di Giuliano Battiston Il Manifesto, 26 gennaio 2018 Dopo l’attacco a Save the Children a Jalalabad, costato la vita a 6 persone, secondo il report dello Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction in 5.753 casi gli Usa avrebbero coperto abusi sessuali sui bambini da parte dei partner afghani. L’attacco di sabato scorso all’hotel Intercontinental di Kabul e quello di mercoledì alla sede di Jalalabad di Save the Children hanno riportato l’Afghanistan sotto i riflettori. Alla rete Haqqani, la componente più intransigente della galassia talebana, i duri e puri che negano ogni compromesso a colpi di attentati sanguinari, è stata attribuita la responsabilità del primo attacco: 43 morti, sebbene le fonti governative forniscano un bilancio meno drammatico. La “provincia del Khorasan”, la filiale locale dello Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, ha invece rivendicato l’assedio di Jalalabad, costato la vita a 6 persone: 4 operatori dell’organizzazione umanitaria Save the Children, un membro delle forze di sicurezza afghane e un passante. Entrambi gli attentati sono stati fortemente condannati da tutte le cancellerie occidentali, che hanno ricordato un principio elementare del diritto internazionale, troppo spesso negato nei conflitti: i civili non possono essere bersagli legittimi. Chi li colpisce deliberatamente, compie un crimine di guerra. I civili vanno protetti, ci viene ricordato. In Afghanistan, però, chi invoca il rispetto dei diritti spesso li nega a sua volta. O non fa nulla per impedire che siano negati. Prendiamo il caso dei bambini. Alcuni giorni fa lo Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (Sigar), un ente governativo americano che fa le pulci alla presenza Usa nel Paese centroasiatico, riferendone al Congresso, ha reso pubblico l’ultimo rapporto. È dedicato agli abusi sessuali compiuti dai membri delle forze di sicurezza afghane sui bambini e sugli adolescenti. Una legge - la Leahy Law, proposta nel 1997 dal senatore del Vermont Patrick Leahy e in vigore dal 2008 - prevede che il Dipartimento della Difesa e quello di Stato interrompano qualsiasi forma di sostegno finanziario ai partner militari stranieri coinvolti in gravi violazioni dei diritti umani. Basta che ci siano “credibili informazioni” su una violazione da parte di un solo membro di una certa unità militare e il flusso di denaro destinato a quell’unità si deve interrompere, ha spiegato l’avvocatessa Erica Gaston con un’analisi dettagliata sul sito dell’Afghanistan Analysts Network. Nel caso afghano, le violazioni sono gravissime, ma i soldi continuano ad arrivare. Secondo il rapporto Sigar, che inizialmente avrebbe dovuto essere reso pubblico solo nel 2042, dal 2010 al 2016 in 5.753 occasioni i vertici militari Usa hanno ricevuto notizie di gravi abusi dei diritti umani, inclusi abusi sessuali sui bambini, da parte dei partner afghani. Ma non è bastato ad applicare la Leahy Law. Il dipartimento della difesa ha preferito appellarsi a una clausola legale per continuare a finanziare le forze di sicurezza afghane. Di fronte alle numerose denunce, è stato fatto il meno possibile (e il New York Times aggiunge che alcuni militari americani che hanno denunciato e combattuto gli stupri sono stati allontanati dall’esercito). Gli abusi sono continuati. Tra i comandanti afghani è infatti piuttosto diffuso il bacha bazi, la pratica di abusare sessualmente di bambini e ragazzi tra i 10 e i 18 anni. Sottratti alle loro famiglie, sequestrati per strada, nelle zone rurali, nelle province più periferiche o nelle città principali, vengono usati come oggetti sessuali (bacha bazi significa “gioco con i bambini”, o “bambini per gioco”). Tenuti in schiavitù, legati ai letti o rinchiusi nelle caserme, a volte costretti a indossare abiti femminili, lavorano per i comandanti e sono vittime di stupri. I vertici militari statunitensi avrebbero potuto arginare gli abusi. Hanno preferito girarsi dall’altra parte. Lo stesso fanno molti governi europei: condannano i sanguinosi attentati in Afghanistan, invocano il rispetto del diritto internazionale, ma poi non esitano a rimpatriare nel loro paese di origine gli afghani la cui richiesta d’asilo non venga riconosciuta valida. Una pratica in vigore da tempo. Avallata dall’accordo tra l’Unione europea e il governo di Kabul firmato alla vigilia del vertice internazionale che si è tenuto il 4 e 5 ottobre 2016 a Bruxelles. Soldi per la ricostruzione in cambio di rimpatri, anche forzati. Il risultato? Drammatico, secondo il rapporto Escaping War. What to Next?, reso pubblico il 24 gennaio e promosso dal Norwegian Refugee Council. Secondo la ricerca condotta dal think tank Samuel Hall, su 10 rifugiati che tornano in Afghanistan dopo aver vissuto all’estero, almeno 7 sono poi costretti ad abbandonare di nuovo la propria casa, a causa del conflitto. Nel 2017 le Nazioni unite sono tornate a classificare quello afghano da caso di “post-conflitto” a “conflitto attivo”, ma le percentuali di riconoscimento dello status di rifugiato continuano a diminuire per i migranti afghani. I rimpatri si fanno sempre più frequenti. Dai paesi vicini, Iran e Pakistan in primo luogo, dove vivono circa 3 milioni di afghani. E dai paesi dell’Ue. Federica Mogherini, l’Alto rappresentante dell’Ue per la politica estera, si è affrettata a condannare l’attentato di Jalalabad, ma continua a sostenere l’accordo capestro con Kabul. Un accordo che mette a rischio di vita i rimpatriati. Rispediti in un paese insicuro. Lo dimostrano i recenti attentati, quelli lontani dai radar dei media internazionali, e i dati del rapporto Escaping War. What to Next? Nel 2017, ogni giorno una media di 1.200 afghani sono stati costretti ad abbandonare la propria casa, per una vita da sfollati interni. Il caso è diventato così clamoroso da far intervenire perfino la Casa bianca, che ieri con un comunicato stampa ha sollecitato le parti a trovare una soluzione nel più breve tempo possibile. In ballo, c’è la tenuta del già fragile governo di unità nazionale che ha sede a Kabul, ma la cui sovranità è limitata. A contenderla non ci sono soltanto i movimenti anti-governativi, che secondo le stime più prudenti controllano il 40% del territorio, ma gli stessi rappresentanti del governo. Come Atta Mohammad Noor, per anni governatore della provincia di Balkh, al confine con l’Uzbekistan, silurato dal presidente Ghani. L’ex governatore non ha però intenzione di andarsene, né di lasciare la sede al suo successore, già nominato. Il braccio di ferro va avanti da settimane. Per Atta Mohammad Noor, se cade lui, deve cadere tutto il governo. Un governo ideato dal segretario di Stato Usa John Kerry nell’estate 2014, quando i due contendenti alla presidenza, Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah, si accusavano reciprocamente di brogli. Per evitare rotture ulteriori, li ha costretti a un governo bicefalo. Paralizzato dal loro antagonismo. E incapace perfino di far insediare un nuovo governatore.