41bis “speciale”. Ma che civiltà è questa! di Piero Sansonetti Il Dubbio, 25 gennaio 2018 Che direbbe oggi Voltaire dell’Italia? Direbbe che è un paese incivile. Voltaire è stato uno dei più grandi filosofi del settecento, è il padre dell’illuminismo. In realtà si chiamava François- Marie Arouet: il nome Voltaire è uno pseudonimo. Lui sosteneva che “la civiltà di un paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. L’articolo di Damiano Aliprandi racconta uno scandalo. E cioè l’esistenza di una condizione carceraria che mette il nostro paese fuori dei limiti ragionevoli della civiltà moderna. Il 41bis “speciale”, cioè la condizione di 41bis aggravata che esiste in alcune prigioni italiane, è una forma autentica di tortura. Ragionevolmente illegale e palesemente incostituzionale. Chi difende il 41bis sostiene che è necessario per impedire i collegamenti tra mafia e carcere. Ok. Ma per impedire questi collegamenti non è necessario il trattamento feroce che viene riservato ad alcuni detenuti. Questo trattamento equivale alla tortura, probabilmente usata per indurre i detenuti al pentimento. È un metodo che non è consentito da nessuna legge. È un metodo incivile. È un metodo del tutto estraneo al diritto. È un metodo orrendo. Possibile che non ci sia nessuna forza politica capace di prendersi sulle spalle questo problema, e di intervenire, e di protestare, e di gridare, e di imporre alle istituzioni di assumersi le proprie responsabilità “Stanze dell’amore” in carcere: la situazione in Italia e nel mondo di Aldo Maturo (Avvocato) studiocataldi.it, 25 gennaio 2018 I colloqui intimi in carcere sono ammessi in moltissimi Stati. In Italia ci sono diverse proposte ad alto livello istituzionale per risolvere il problema. È possibile conciliare le esigenze di sicurezza degli istituti penitenziari - evitare che si possano introdurre pistole, coltelli, oggetti atti ad offendere, droga, telefonini e tutto quanto è noto agli operatori di polizia penitenziaria - con il diritto all’affettività dei detenuti? È possibile ipotizzare la predisposizione, nelle carceri, di stanze dell’affettività o “camere dell’amore” dove il detenuto possa soggiornare con la sua famiglia o con la sua compagna per ore senza il controllo visivo del personale di custodia previsto dall’art. 18 dell’ordinamento penitenziario? Le regole all’estero Evidentemente la risposta deve essere affermativa se 31 Stati su 47 componenti del Consiglio d’Europa autorizzano con varie procedure le visite affettive dei detenuti. Ricordiamo, tra gli altri, Russia, Francia, Olanda, Svizzera, Finlandia, Norvegia, ed Austria. In Germania e Svezia ci sono miniappartamenti dove il detenuto è autorizzato a vivere per alcuni giorni con la famiglia. Avviene anche nella cattolicissima Spagna (in Catalogna dal 1991) che è il Paese d’Europa con il maggior numero di detenuti, circa 70.000, stipati in 77 carceri. È considerato partner colui o colei che si presenta regolarmente ai colloqui ordinari, che hanno luogo ogni fine settimana. Ne usufruiscono quasi tutti i detenuti e gli incontri sono permessi anche fra persone dello stesso sesso. In Olanda le visite avvengono in locali appositi o anche in cella. La Danimarca autorizza visite settimanali di un’ora e mezza. In Canada le visite fino a 72 ore avvengono dal 1980 in apposite roulotte esterne al carcere. In Finlandia e Norvegia c’ è un sistema di congedi coniugali. In Croazia e Albania, invece, gli istituti di pena concedono incontri non controllati della durata di quattro ore. In America, fin dagli anni 90, in un campo di lavoro nel Mississippi ogni domenica i prigionieri hanno la possibilità di ricevere in visita una sex worker (lavoratrice del sesso). Le visite intime sono ammesse anche in India, Israele e Messico, ma la carrellata potrebbe continuare. Le proposte in Italia In Italia la proposta è stata rinverdita di recente dagli Stati Generali sull’Esecuzione Penale, una supercommissione di esperti del mondo del carcere voluta dal Ministro Orlando, che ha terminato i lavori nel 2016. Per l’affettività in carcere, ha proposto l’istituto della “visita”, diversa dal “colloquio” da svolgersi senza il controllo visivo e/o auditivo del personale di sorveglianza. La “visita” dovrebbe svolgersi in “unità abitative” collocate all’interno dell’istituto, separate dalla zona detentiva, con pulizia affidata ai detenuti, e da svolgersi in un “opportuno lasso temporale”. In Parlamento giacciono due progetti di legge, uno al Senato e uno alla Camera. Disegno di Legge 1587 Senato (XVII Legislatura terminata il 28.12.2017) - Per il senatori firmatari dei tre articoli della proposta di legge i detenuti e gli internati hanno diritto a un incontro al mese di durata non inferiore alle tre ore consecutive con il proprio coniuge o convivente senza alcun controllo visivo, da svolgersi in locali per consentire relazioni personali ed affettive. Il secondo articolo amplia il principio per i detenuti già condannati ed ospiti quindi delle Case di Reclusione prevedendo che hanno diritto a trascorrere mezza giornata al mese con la famiglia, in apposite aree presso le case di reclusione. Disegno di Legge C1762 Camera (XVII Legislatura, terminata il 28.12.2017) - Per i Deputati firmatari i detenuti e gli internati hanno diritto a una visita al mese della durata minima di sei ore e massima di 24 ore con le persone già autorizzate a fare colloqui. La visita si svolge in locali adibiti e realizzati a tali scopi per permettere l’affettività. La visita si svolge senza il controllo visivo ed auditivo da parte del personale di custodia. Lo scoglio dell’art. 18 L. 354/75 e profili di costituzionalità Il Magistrato di Sorveglianza di Firenze, su ricorso di un detenuto, aveva sollevato profilo di costituzionalità dell’art.18 dell’ordinamento penitenziario (che prevede il controllo a vista e non auditivo del colloquio) perché questo impediva di avere rapporti intimi anche sessuali con il coniuge o con persona legata da rapporto di convivenza. L’eccezione era corredata da una lunga serie di motivazioni e richiami agli articoli della Costituzione (Art. 2, art. 3, art. 27, art. 29, art. 32) nonché richiami a Raccomandazioni del Parlamento Europeo adottate dal Consiglio d’ Europa l’11.1.2006 che ha stabilito che “le modalità delle visite devono permettere ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali. La sentenza della Corte Costituzionale n. 301/2012 La Corte, nel ritenere inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art.18, ha ribadito che il controllo a vista del personale di custodia non mira ad impedire in modo specifico ed esclusivo i rapporti affettivi intimi tra il recluso e il suo partner ma persegue finalità generali di tutela dell’ordine e della sicurezza all’interno degli istituti penitenziari per prevenire reati. L’eliminazione del controllo visivo non basterebbe a realizzare l’obiettivo perseguito, perché per le visite occorrerà predisporre una disciplina che stabilisca termini, modalità, destinatari, numero, durata, misure organizzative. La Consulta ha poi richiamato l’attenzione del legislatore sul problema dell’affettività in carcere anche per le indicazioni provenienti dal paragone con tanti Stati nel mondo che riconoscono al detenuto una vita affettiva e sessuale intramuraria. Ha ricordato che gli artt.8/1 e 12 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, prescrivono agli Stati di permettere i rapporti sessuali all’interno del carcere anche tra coppie coniugate (Corte Europea dei Diritti dell’uomo, sentenze 4.12.2007, Dickson contro Regno Unito, e 29.7.2003, Aliev contro Ucraina) La soluzione dei permessi premio Attualmente, in Italia, il sistema utilizzato per mantenere relazioni anche intime con il proprio partner è quello dei permessi premio, periodo da trascorrere in famiglia che il magistrato di sorveglianza concede al detenuto meritevole. È noto, però, che il beneficio non è esteso a tutti i detenuti ma solo ai condannati che hanno tenuto regolare condotta e non risultano socialmente pericolosi. I permessi non servono a coltivare solo interessi affettivi ma anche culturali, non possono superare complessivamente 45 giorni all’anno per una durata non superiore a 15 giorni per ciascuna autorizzazione. Sono esclusi dal beneficio gli imputati in custodia cautelare o che si trovino in altre limitazioni giuridiche previste dall’ordinamento penitenziario. Nel 2017 sono stati concessi 34.000 permessi premio, badando bene che il dato statistico è comprensivo di quei detenuti che hanno usufruito di più permessi. Stanze dell’affettività, le prime esperienze in Italia In Italia le “stanze dell’affettività” già esistono, in via sperimentale, nel carcere di Milano Opera e, pare, di Milano Bollate, anche se non è nota la precisa organizzazione interna di tali spazi. Sono formate da una cucina, un frigorifero, un tavolo con le sedie, un divano con un televisore. Per un giorno intero le persone ammesse potranno parlare, prendere un caffè, giocare, abbracciarsi e baciarsi come una famiglia normale dimenticando di essere dentro un carcere. Al beneficio sarebbero ammesse 16 famiglie per incontrarsi in una piccola casa dotata da microtelecamere nascoste (ma la loro presenza deve essere nota agli occupanti) che vengono seguite a distanza dal personale di custodia. Sono gli educatori, ogni anno, a selezionare i nuclei familiari più sofferenti, proposti al Direttore, per beneficiare di questi colloqui. Il ruolo della Polizia Penitenziaria Al momento non è ben chiaro quale dovrà essere il ruolo del personale di polizia penitenziaria e degli altri operatori nella gestione di questo “servizio” né, è da ritenere, potrà assistere agli incontri con telecamere nascoste come nel citato esperimento soft di Milano. D’altra parte se quello dell’affettività e dell’intimità è un diritto che contribuisce a stabilizzare l’equilibrio psicofisico della persona, bisognerà valutare come risolvere il problema per tutti quei detenuti che non hanno legami affettivi all’esterno e che quindi non sono ammessi a usufruire di normali colloqui. Al 31 dicembre scorso erano presenti in carcere circa 57.000 detenuti.Si tratta di una popolazione detenuta, molto giovane (il 54% ha meno di 40 anni) e spesso senza una famiglia (il 39% è celibe/nubile, quindi senza moglie, amica/o, amante, fidanzata/o), che non riesce ad usufruire di benefici ben più importanti, quali ad esempio le misure alternative al carcere. Sarà un bel problema per la Direzione trovare una risposta anche per quei detenuti stranieri (circa il 35%) - ma la cosa riguarda anche tanti italiani single o abbandonati dalle famiglie - che presenteranno la “domandina” per essere ammessi, come gli altri, alle “stanze dell’affettività” o “love room”. Di sicuro le esperienze degli altri Stati potranno aiutare a trovare delle linee guida che possano contemperare le opposte esigenze. La sicurezza, la dignità del personale di custodia, l’affettività dei reclusi. Io che guardo negli occhi i baby criminali di Napoli di Maria Pirro Panorama, 25 gennaio 2018 Intervista a Maria Franco, l’insegnante che da 34 anni lavora nel carcere minorile di Nisida e, nel 2017, ha ricevuto il riconoscimento come miglior docente d’Italia. Napoli che subisce l’ennesima ferita profonda: le baby gang. Un bollettino di guerra segnala 13 aggressioni nell’ultimo mese, con uno studente pugnalato alla gola, un altro con la milza spappolata a calci. Per il ministro degli Interni Marco Minniti si tratta di terrorismo urbano. Ma l’esercito di militari ed educatori, chiamato a fermare gli assalti, ha le armi spuntate. “Qui siamo seduti su una bomba innescata”, dice a Panorama Maria Franco, 65 anni e da 34 insegnante nel carcere minorile a Nisida e tra i cinque vincitori del prestigioso riconoscimento per l’eccellenza pedagogica “Italian Teacher Prize 2017”. Lei, con vari laboratori, si prende cura della settantina di ragazzi, tra loro anche cinque ragazze, che sono reclusi sull’isola-prigione nel golfo partenopeo. Perché la situazione è così esplosiva? Manca una rete sul territorio, in grado di mettere insieme competenze diverse, che affrontino le emergenze di questi ragazzi. Io li chiamo sfrantummati. Sono adolescenti senza riferimenti tra gli adulti e, spesso, senza interessi. Restano in strada, da soli, fino alle 3 del mattino. Finiscono in cella per rapina, tentato omicidio e omicidio, spaccio di droga, a volte hanno condanne superiori alla loro età. Sono diversi dalle generazioni precedenti? Sono più istintivi e aggressivi. Molti mi dicono: “La camorra è finita”. E infatti, non ammettono che la moglie del boss abbia la Porsche e la loro fidanzata la Panda. Quando Roberto Saviano sostiene che le paranze siano diventate paranzelle - ovvero gruppi improvvisati, non legati ai clan - credo che abbia ragione, ma la realtà è addirittura peggiore di quella che descrive. Ho iniziato a leggere in classe il suo ultimo libro, “Bacio feroce”: 15 minuti dopo, i ragazzi sbadigliavano. Perché? Dicono che il libro descrive i muccusielli, bambini che non contano niente. Lei li conosce: è d’accordo con l’affermazione? Questi ragazzi hanno il solo potere di far paura, per il resto si sentono invisibili e nessuno di loro ha memoria di giochi o favole. Quasi tutti conservano un pessimo ricordo della scuola. In che misura la droga è un problema? Oggi questi ragazzi fumano marijuana “rinforzata” con sostanze sintetiche. Tra i detenuti, ci sono figli della borghesia? In decenni di lavoro ho visto un solo ragazzo arrivare dal Vomero, scarcerato subito. Mai da Posillipo. L’emergenza sociale è evidente. Com’è una sua lezione? La scuola è l’unico luogo dell’istituto senza sbarre, non ci sono cattedre e i ragazzi sono divisi in gruppi da otto o 15 al massimo. Con loro io leggo molto i giornali per aprire il dibattito. Ricorda il primo giorno di lezione? Nel 1984, quando arrivai, pensai fosse subito finita l’esperienza perché, dopo pochi giorni, un ragazzo mi rovesciò il tavolo addosso e finì in isolamento. Invece, al rientro in classe, mi disse in dialetto: “Che dobbiamo fare oggi?”. Quali altre storie e volti le sono rimasti nel cuore? Mi ha colpito il figlio di un boss tra i più temibili, bellissimo e sorridente, con un’educazione d’altri tempi. Di un altro, Christian, conservo una lettera, nonostante non si sia deciso a cambiare vita. E poi, Gaspare, più colto degli altri, amava dibattere anche dietro le sbarre: ha voluto diventare bibliotecario. Alessandro, che ho lasciato nel 2000, mi ha telefonato dicendo di avere con me un debito d’onore: “Allora non avevo capito niente...”. E un 16enne, che continua a dirmi: “Prima non vi sopportavo, adesso vi voglio bene”. E le ragazze come sono? All’inizio Anna non sapeva né leggere né scrivere, poi mi consegnò quattro quaderni, in cui descriveva il suo rapporto con la figlia. Alla figlia di un’altra ragazza, di origini rom, ho fatto da madrina. Dà a tutti il suo numero di telefono e il contatto Facebook? Accetto tutte le richieste di amicizia sui social, ma solo con alcuni il rapporto continua. Ed è facile uscirne sconfitti. Qual è stata la delusione più cocente che ha avuto da questi ragazzi? Aniello è stata la prima persona che, per cinque anni, ho visto ogni giorno: faceva le pulizie in istituto prima delle lezioni. Cominciò a cambiare a Pasqua, dopo aver portato la croce nella processione del Venerdì santo. Però è morto ammazzato a distanza di una settimana dalla scarcerazione, durante una rapina. Chi è che tra loro ce la fa? Più spesso, voltano pagina quei ragazzi che riescono ad allontanarsi dall’ambiente di provenienza. Alcuni vengono ospitati dalla diocesi di Pozzuoli. La semilibertà, che permette di lavorare di giorno e tornare in carcere di notte, è un’altra possibilità interessante. “Csm in mano a gruppi di potere”. In tribunale il duello tra toghe di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 25 gennaio 2018 Nomine contestate, processo dopo la querela. Oggi interrogatori incrociati Quella che andrà in scena questa mattina davanti al tribunale di Roma non sarà una normale udienza di un normale processo per diffamazione. Perché l’oggetto del procedimento 58411/15 è l’annosa questione della politicizzazione della magistratura. Perché sia l’imputato che la parte offesa sono due alti magistrati (uno in carriera, l’altro in pensione). E perché oggi entrambi saranno interrogati in udienza pubblica. I protagonisti del duello rusticano sono Bruno Tinti, già procuratore di Ivrea e procuratore aggiunto di Torino (sua l’inchiesta Telekom Serbia) poi autore di libri di successo come “Toghe rotte”, e Arturo Soprano, 40 anni di carriera dalla pretura di Gavirate al Palazzo di giustizia di Milano. I fatti risalgono a tre anni fa, quando il Csm deve nominare il presidente della Corte d’appello di Torino. Soprano, allora presidente di sezione di Corte d’appello a Milano, si candida. A contendergli il posto è Piercamillo Davigo, ex pm di Mani Pulite, allora giudice di Cassazione. Il Csm sceglie Soprano a larghissima maggioranza. Tinti scrive sul “Fatto” un articolo che contesta la decisione. Soprano non ci sta. Si rivolge all’avvocato Jacopo Pensa e sporge un’articolata querela, oltre 60 pagine allegati compresi. Lamenta che l’articolo di Tinti, “da me mai conosciuto e mai incontrato”, sia “altamente diffamatorio, gettando ampio discredito su di me, sia come persona sia come magistrato nonché sferrando un duro attacco al mio onore e al mio decoro professionale (...) con il chiaro scopo di screditarmi e svalutarmi”. Trattasi, sostiene Soprano, di “un attacco gratuito alla sfera morale della mia persona” a colpi di “accostamenti allusivi e denigrazioni intollerabili”. Raro imbattersi in parole così pesanti tra colleghi magistrati. Dunque, che cosa aveva scritto Tinti? Paragonava la promozione di Soprano ad altre contestate nomine del Csm. Quella di Antonino Meli, “giudice senza infamia e senza lode”, al posto di Giovanni Falcone (1988) e quella di Alfonso Marra, “altro magistrato di ordinaria caratura” poi dimissionario per lo scandalo P3, al posto di Renato Rodolf (2010). Tinti elogiava il curriculum e le qualità di Davigo al cospetto della “vita professionale che più ordinaria non si può” di Soprano: “Pretore per un sacco di anni (...) e alla fine presidente di sezione (ce ne sono una ventina)”, con un solo processo importante gestito, in realtà nemmeno così importante (“processi come questo andavano un tanto al mazzo, ce n’erano centinaia”). Eppure, sosteneva Tinti, il Csm ha preferito Soprano a Davigo: “motivazioni risibili” e “sconcertanti considerazioni” professionali celano, a prezzo di “vergogna o improntitudine”, una “verità politica”: Davigo aveva contro tutte le correnti delle toghe. Non solo quella di Soprano, la centrista Unicost, ma anche quella di sinistra Area (che da sempre contesta) e quella di destra Magistratura Indipendente, cui lo stesso Davigo apparteneva prima di promuovere una polemica scissione. Quanto ai membri laici del Csm, “sono due politici: volete che abbiano simpatia per un pm di Mani Pulite?”. Legittimo esercizio del diritto di critica? No, secondo Soprano che rivendica le sue performance di produttività, lamenta di essere stato “descritto come un magistrato senza valore né meriti, di assoluta mediocrità e inettitudine” e ritiene “gratuita offesa” l’accostamento a Meli e Marra, uno “senza infamia e senza lode” l’altro coinvolto nell’inchiesta P3: “Dunque io sarei nominabile solo a seguito di una decisione delittuosa, con atto vergognoso e sfrontato. Peggiore aggressione, peggiore attacco, peggiore lesione della mia reputazione e del mio onore di uomo e magistrato non è immaginabile”. Argomenti che oggi Soprano ripeterà in tribunale. Poi toccherà a Tinti difendersi. Con una memoria altrettanto corposa, firmata dal suo difensore Gian Maria Nicastro, e poi nell’interrogatorio in cui sosterrà che Soprano non deve offendersi per essere stato definito “magistrato ordinario” e non “eccezionale” come Davigo, perché il suo obiettivo polemico era “la degenerazione correntizia del Csm”, in mano “a gruppi di potere” che attuano “una gestione clientelare dei propri adepti” spartendosi gli incarichi. Tesi che da anni sostiene in articoli, libri e dibattiti, citando documenti, mail e interventi di altri magistrati e perfino un discorso di Giorgio Napolitano, allora presidente della Repubblica, proprio davanti al Csm. Mai una questione interna alla politica e alla magistratura era diventata scontro processuale, in modo plateale. Codice antimafia, crescono sequestri e confische di Paolo Florio* e Marco Anesa** Italia Oggi, 25 gennaio 2018 Serve una riforma per accelerare la fase di destinazione. Le norme penali in materia di sequestri e confisca, contenute nel Codice antimafia (riformato in ultimo con la legge 161/2017), quale strumento nella lotta alla criminalità organizzata e in genere a quella economica, consentono di sottrarre beni frutto o reimpiego di attività illecite, con l’intento di restituirli alla collettività. Obiettivo delle disposizioni è limitare la disponibilità economica di provenienza illegale e al tempo stesso eliminare dal sistema economico elementi “tossici”, origine di concorrenza sleale. In tal senso, l’efficacia della norma, che prevedeva originariamente il contrasto ai soli fenomeni di tipo “mafioso”, ha spinto il legislatore (non esente da critiche) ad ampliare la platea dei destinatari, includendo anche diversi specifici reati (tra cui quelli contro la pubblica amministrazione) e, in genere, la categoria residuale dei soggetti che vivono abitualmente con i proventi di attività delittuose, come l’evasore fiscale o il bancarottiere “incallito”. Il meccanismo di funzionamento delle misure si basa sulla presunzione che chi può acquistare beni, ed è un soggetto socialmente pericoloso, deve poter dimostrare la provenienza delle somme se il suo reddito non è congruo alla spesa. Si procede nell’individuare soggetti che dalla precisa analisi del “curriculum criminale”, in base ai reati commessi nel corso del tempo, possono essere qualificati come “socialmente pericolosi” per l’ordine pubblico. Accertata la pericolosità da parte del tribunale, che deve essere “abituale” e non necessariamente “attuale”, scatta la legittimità di un meccanismo presuntivo volto a verificare la congruità del reddito. A nulla può servire la giustificazione che i redditi provengono da evasione fi scale (che di per sé può in determinati casi raffigurare fattispecie criminali e delittuose). Se c’è sproporzione, e la stessa si verifica nel periodo di tempo in cui il soggetto è stato qualificato socialmente pericoloso, scatta il sequestro dei beni acquistati. Il sequestro può coinvolgere eventuali “presta-nomi” sempreché ne sia dimostrato il collegamento. Si apre, quindi, il contraddittorio con la parte e se non si supera la presunzione, si passa alla confisca, in un procedimento che prevede tre gradi di giudizio (l’ultimo quello della Cassazione). Tra le novità di rilievo della recente riforma vi è la maggiore tempestività in cui si dovrebbe giungere al provvedimento definitivo di confisca, anche grazie alla creazione di sezioni specializzate presso le Corti d’Appello. In seguito al sequestro e prima della confisca, la gestione dei beni è affidata in “custodia” ad un professionista nominato dal Tribunale (nella maggior parte dei casi un dottore commercialista) che, sotto la direzione del giudice deve amministrarli, al fi ne di incrementare, se possibile, la redditività. L’Albo degli amministratori giudiziari, pubblicato sul sito del ministero della giustizia, è in costante aggiornamento: a metà gennaio 2018 risultano n. 1.666 iscritti nella sezione ordinaria e n. 808 nella sezione esperti in gestione aziendale. Il numero di iscritti in quest’ultima sezione deve far riflettere: confrontando la quantità dei sequestri disposto ogni anno, con il numero dei professionisti presenti (n. 808) è evidente come non vi siano ad oggi amministratori giudiziari in numero sufficiente rispetto agli incarichi da affidare per la gestione delle aziende. Il nodo è che un limite puramente “quantitativo”, individuato dalla norma in tre incarichi, sebbene prudenziale, data la materia, può non servire al fine. Al di là di un’esatta definizione di ciò che deve essere considerato “incarico” di amministrazione giudiziaria, è evidente che l’indicazione numerica potrebbe essere troppo o troppo poco: esistono realtà aziendali da elevata complessità o, di contro, aziende dalla semplice gestione. Si dovrebbe trovare un giusto equilibrio per garantire l’esigenza di permettere all’attuale platea di professionisti (tra cui in primis i dottori commercialisti), soprattutto giovani, che si dedicano, o che comunque intendano dedicarsi, a tale attività, di specializzarsi, investire in formazione e creare strutture adeguate. Gli strumenti legislativi attuali hanno consentito di disporre un numero elevato di sequestri (in buona parte poi confluiti in confische) in costante aumento se si analizzano i dati degli ultimi anni. Per comprendere la portata e dimensione del fenomeno delle confische basta osservare i dati riportati sul sito dell’Anbsc: al 15 gennaio 2018 risultano in gestione 17.275 immobili di cui 13.040 già destinati e 2.883 aziende di cui 878 già destinate. Nel 2017 sono stati destinati 2.276 beni immobili e 15 aziende. L’amministratore giudiziario resta in carica fi no al giudizio di II grado: dopo la confisca in appello la gestione dei beni viene, invece, trasferita all’Anbsc che, dopo la definitività della confisca, provvede alla destinazione. Le criticità maggiori sussistono, proprio, nella fase della destinazione dei beni, che risente di specifiche problematiche, da superare con un importante intervento legislativo. La fase della destinazione rappresenta il momento conclusivo di un procedimento di legalità e quindi di estremo rilievo, per dimostrare alla collettività intera l’effettivo funzionamento del Sistema. Non ha senso sequestrare e confiscare beni se poi gli stessi gravano su uno Stato che non riesce a gestirli ovvero a ricollocarli sul mercato. La creazione di uno specifico ente quale l’Anbsc, nata nel 2010 e più volte modificata, non ha apportato quella svolta tanto attesa ed auspicata. Il bene confiscato è un bene pubblico, un bene di tutti, e per essere tale deve essere visibile e così percepito dalla collettività. Cruciali diventano, in tal senso, campagne di marketing e sensibilizzazione dei cittadini, volte a dimostrare che il crimine non paga e che di quella ricchezza lo Stato se ne è riappropriato, in modo efficiente ed efficace. Ciò è ancor più significativo in quei territori e contesti ambientali, considerati ad alta intensità mafiosa, dove il bene, confiscato e reinserito nel conteso economico, svolge un’importante funzione educativa per la collettività e la crescita del territorio, confermando la presenza dello Stato di diritto. Diversamente accade che la destinazione è solo apparente: i diversi enti pubblici (primi fra tutti i comuni, ma non solo) non riescono né a conservare i beni né a gestirli, non avendo spesso le risorse economiche per le spese più elementari quali la semplice manutenzione. Così operando, ogni confisca ha una scarsa utilità educativa, determinando solo enormi costi senza alcun risultato concreto: anzi l’immagine che si dà all’opinione pubblica è assolutamente negativa, confermando l’incapacità dello Stato di gestire la propria ricchezza. A tutto ciò si aggiunge un eccessivo livello di burocratizzazione della fase della destinazione, che vede coinvolti enti pubblici diversi (primi fra tutti l’Anbsc, l’Agenzia del demanio, il tribunale, i comuni, le prefetture e altri enti) con sovrapposizioni di ruoli e interventi, che anziché semplificare determinano solo confusioni e rallentamenti. Quali allora le proposte e possibili soluzioni? La vendita dei beni (anche immobili) confiscati ai privati e al mercato non deve più essere considerato un “tabù” dal legislatore (non è possibile secondo l’attuale normativa) per la preoccupazione che possano essere riacquistati dagli stessi soggetti a cui erano stati sequestrati: in alcuni casi resta l’unica scelta percorribile se non si vuole evitare l’abbandono dei beni. Non vi è dubbio che tale procedimento debba essere sottoposto a tutele rafforzate, soprattutto nella verifica della controparte acquirente. I beni confiscati dovrebbero essere pubblicizzati con specifiche campagne di comunicazione e sensibilizzazione dei cittadini, affinché gli stessi possano essere utilizzati per fi ni sociali e per il lancio di nuovi progetti imprenditoriali, anche privati, accompagnati da eventuali finanziamenti pubblici: dovrebbe essere possibile per ogni cittadino poter accedere in modo semplice su internet ad un database pubblico dei beni confiscati con fotografi e, localizzazione e schede tecniche. Vi sono poi le somme di denaro già liquide e sequestrate e gestite dal Fondo unico di giustizia (che rappresentano un importo vicino ad una manovra finanziaria) che devono essere destinate in larga parte per finanziare e migliorare la fase della destinazione dei beni confiscati, onde evitarne l’abbandono. Per ultimo, è necessario dimostrare, da parte del legislatore, di voler effettivamente rilanciare il ruolo dell’Anbsc, non come il solito ente statale eccessivamente burocratizzato ma con investimenti importanti in termini di persone (che devo essere stabilmente legate all’ente), capacità e approccio, anche di tipo economico oltre che finalizzato all’ordine pubblico, tenendo in debito conto il ruolo e il contributo dei professionisti coinvolti nel percorso verso la legalità. *Tesoriere Fondazione centro studi Ungdc **Consigliere fondazione centro studi Ungdc Moby Prince, chi tentò di affossare la verità? di Nicola Pinna La Stampa, 25 gennaio 2018 Lo scontro del traghetto nella notte dell’10 aprile del 1991 provocò 140 morti. Ora le conclusioni della Commissione d’inchiesta verranno trasmesse a due procure: una per riaprire il caso e una per individuare chi mentì, nascose o confuse le prove. Una nuova inchiesta sull’incidente in mare non basterà. Ce ne vorrà un’altra, per inchiodare alle proprie responsabilità tutti quelli che sulla strage del Moby Prince hanno mentito, omesso o nascosto. E per questo il malloppo con le conclusioni del lavoro fatto dalla Commissione d’inchiesta del Senato verrà trasmessa a due procure: a quella di Livorno per riaprire il caso e dare una spiegazione allo scontro che nella notte del 10 aprile del 1991 ha provocato 140 morti e a quella di Roma per individuare (e magari punire) chi ha fatto di tutto perché sulla strage di Livorno non si sapesse mai niente di certo. I tentativi di affossare la verità sullo scontro tra il traghetto diretto a Olbia e la petroliera Agip Abruzzo sono andati avanti per almeno otto anni, fino a quando la prima indagine (condotta con superficialità, secondo la commissione d’inchiesta) dei magistrati livornesi non si è conclusa con un processo senza colpevoli. E forse sono proseguiti anche successivamente quando lo stesso tribunale ha archiviato il secondo fascicolo. Ora a disposizione dei magistrati ci sono documenti mai trovati e mai cercati, testimonianze che si è fatto finta di non sentire e consulenze specializzate che mostrano la vicenda sotto una nuova luce. Ora in rada si vede qualcosa. E si vedeva anche quella sera, stando a quello che ha appurato la commissione d’inchiesta presieduta da Silvio Lai. Perché la nebbia utilizzata per spiegare sbrigativamente l’incidente, in realtà non è mai esistita. I senatori hanno recuperato foto e video che lo dimostrano e le perizie fatte dai carabinieri del Racis dei carabinieri lo spiegano ulteriormente. “Diciamolo con chiarezza, una volta per tutte - precisa di fronte ai parenti delle vittime, il senatore Silvio Lai - Quei fenomeni atmosferici sono stati immaginati, sì immaginati, dopo la tragedia. Insomma, nulla non corrisponde al vero. Così come non corrisponde al vero che la petroliera si trovasse ormeggiata in una zona consentita: gli accertamenti tecnici che abbiamo svolto lo provano senza dubbio”. E a confermarlo ulteriormente ora saranno anche i pochi resti della nave che i sub della Marina militare stanno recuperando nelle acque del Golfo di Livorno. Le bugie sulla posizione, dunque, sono smontate definitivamente, nonostante la velocità con cui le due navi vennero spostate nelle settimane successive all’incidente. “Ogni giorno - si legge nel documento finale della commissione - l’equipaggio della petroliera annottava la posizione di ormeggio, tranne quella notte”. C’era qualcosa da nascondere, forse. E anche su questo i senatori hanno fatto i loro accertamenti. Il sospetto è che fosse in corso uno scambio di greggio: dalla grande petroliera alle bettoline che andavano e venivano in rada. Negli atti dell’inchiesta di allora di questo non si parlava, ma le testimonianze raccolte in questi due anni di lavoro lo chiariscono. E lo spiega anche il fatto che la cisterna numero 6 della nave sia stata ritrovata aperta, con un manicotto penzolante. “Sulla petroliera - dice il presidente Lai - abbiamo chiarito anche un’altra bugia. Non è vero che il 4 aprile era partita dall’Egitto: già nei giorni precedenti all’incidente aveva fatto tappa nelle acque di altre zone d’Italia. Per scoprirlo è bastato recuperare i registri delle assicurazioni custoditi a Londra. Perché questa falsità? Perché nessuno aveva verificato i registri? E poi perché nessuno ha fatto un’ispezione a bordo per accertare bene cosa trasportasse l’Agip Abruzzo?”. La sopravvivenza e i soccorsi sono l’argomento che da sempre sta più a cuore ai parenti dei 140 morti sul traghetto. E a questo passaggio potrebbero agganciarsi le nuove indagini che la commissione d’inchiesta auspica. “Dalla posizione di ritrovamento dei corpi - sottolinea Silvio Lai - possiamo dire che tutti i passeggeri erano stati riuniti nelle sale ignifughe e grazie alle perizie che abbiamo richiesto a due grandi esperti di medicina legale abbiamo appurato che non è vero che sono morti in 20 minuti. È insostenibile anche scientificamente. A questo punto non ci spieghiamo perché allora non sia stata fatta alcuna analisi sui corpi delle vittime. L’equipaggio ha svolto bene il proprio dovere: non solo non è vero che l’incidente è avvenuto per la distrazione del comandante, ma non è neanche vero che non si è fatto di tutto per salvare i passeggeri e spegnere l’incendio”. Chi non ha fatto niente per portar via dall’inferno i viaggiatori del Moby Prince è la Capitaneria di porto di Livorno e tutto questo la commissione d’inchiesta l’ha scritto chiaro. “C’erano tante persone che potevano essere salvate - si legge nella relazione finale - Dopo oltre un’ora dall’incidente il traghetto non era stato neppure ancora trovato”. E i soccorsi - denunciano i senatori - non sono arrivati in ritardo: non sono mai arrivati. “Abbiamo tante prove sul fatto che i viaggiatori hanno vissuto a lungo, compresa quella dell’unico superstite, il mozzo del traghetto. Lo abbiamo interrogato e ci ha raccontato di aver gridato più volte ai soccorritori che a bordo c’era ancora gente viva”. L’accordo tra compagnie marittime per i risarcimenti miliardari (con l’impegno a non farsi causa a vicenda) ancor prima che si chiudessero le indagini, la scomparsa dei tracciati radar della vicina base aerea americana, il funzionamento delle comunicazioni radio italiane e l’incompatibilità della Capitaneria di Livorno nel curare l’indagine sono tutti aspetti che la commissione d’inchiesta non ha trascurato. E ora per le famiglie dei 140 c’è il primo faro di luce a distanza di quasi 27 anni. “Aspettavamo queste parole da 27 anni ma noi le ripetevamo già da 27 anni - commenta Angelo Chessa, il figlio del comandante del traghetto, che quella notte perse anche la madre - L’inchiesta fatta su questo caso è una vergogna per l’Italia”. “Noi comunque non siamo ancora soddisfatti - incalza Loris Rispoli, che quella sera sul molo saluto per sempre la sorella Liana - Adesso vogliamo che i responsabili di questa grande tragedia vengano puniti e paghino”. Ma le leggi sulla prescrizione dei reati lo permetteranno? Più annullamenti senza rinvio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 3464/2018. Via libera a un maggiore ricorso all’annullamento senza rinvio. La Cassazione può, infatti, annullare la sentenza quando considera superfluo il rinvio, e può farlo con valutazione discrezionale se ritiene di poter decidere la causa sulla base degli elementi di fatto già accertati o delle decisioni adottate dal giudice di merito, senza che siano necessari ulteriori accertamenti di fatto. Le Sezioni unite della Suprema corte, con la sentenza 3464, valorizzano l’intento del legislatore, chiarito anche nella relazione conclusiva della legge 103/2017 di riforma del Codice di rito penale. L’obiettivo era di mettere a punto delle proposte di modifica che, nell’ottica della razionalizzazione, deflazione ed efficacia delle procedure di impugnazione, comprendessero anche l’allargamento delle ipotesi di annullamento senza rinvio, disciplinate dall’articolo 620 del codice di procedura penale. Dai lavori preparatori emerge che l’intervento è chiaramente ispirato all’analoga previsione per il giudizio civile di Cassazione, regolato dal secondo comma dell’articolo 384 del Codice di procedura civile. Il richiamo è alla disposizione secondo la quale la Corte di legittimità, in sede civile, in caso di accoglimento del ricorso cassa la sentenza impugnata con rinvio ad altro giudice “ovvero decide la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto”. Nella previsione civilistica la condizione negativa riferita agli ulteriori accertamenti di fatto ha una doppia funzione: segna il limite di annullamento senza rinvio in assenza di tale necessità e individua nelle verifiche già fatte dal giudice di merito gli elementi in base ai quali il potere deve essere esercitato. Nel mettere mano alle modifiche dell’articolo 620, comma 1 lettera l) del codice di rito penale, il legislatore ha assimilato il potere del giudice penale a quello concesso al giudice civile. L’annullamento senza rinvio diventa una via praticabile quando le decisioni possono essere prese, in sede di legittimità, alla luce degli accertamenti in fatto esposti nel provvedimento di merito. Ed è guardando alle valutazione di giudici di merito che la Suprema corte può muoversi anche nella rideterminazione della pena, quando ritiene di avere tutti gli elementi per decidere. La possibilità per la Cassazione di annullare senza rinvio si basa dunque su valutazioni discrezionali “vincolate”, proprio da quanto accaduto in sede di merito. E per valutare se esistono tutti i tasselli per evitare l’ulteriore “navetta” del rinvio non basta guardare alle sole decisioni assunte dai giudici di merito sui singoli punti controversi del provvedimento impugnato. Nell’esame delle statuizioni assunte, devono rientrare anche i passaggio argomentativi che le sostengono e gli accertamenti di fatto che le giustificano. “Solo in questa visione estensiva - si legge nella sentenza - possono rinvenirsi elementi che orientino effettivamente la discrezionalità riconosciuta dalla nuova norma al giudice di legittimità”. In pratica il rinvio diventa superfluo quando, vista la completezza degli elementi raccolti e valutati nel giudizio di merito, non sarebbe possibile adottare, con il rinvio, una decisione diversa da quella che il giudice di legittimità è in grado di pronunciare. La strada indicata dalle Sezioni unite “aumenta” le responsabilità dei giudici di merito, più che mai oggi chiamati a scrivere motivazioni esaurienti e ad indicare tutti gli elementi sui quali hanno basato la loro decisione. Una chiarezza imposta dal rispetto della nuova normativa, tesa a contenere i rinvii della Corte di Cassazione e gli ulteriori nuovi giudizi. La prescrizione non estende al coimputato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 3391/2018. Della dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione non può beneficiare anche il coimputato che non ha impugnato, se la causa estintiva è maturata dopo l’irrevocabilità della sentenza emessa nei suoi confronti. Le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 3391, scelgono tra due tesi contrastanti la più restrittiva. Secondo il principio più favorevole all’imputato - abbracciato dalla sezione remittente ma disatteso dalle Sezioni unite - l’estensione della prescrizione al coimputato non impugnante, per effetto dell’articolo 587 del Codice di procedura penale, sarebbe possibile anche quando la causa estintiva sia maturata dopo il passaggio in giudicato della sentenza nei suoi confronti. In base a questo orientamento, infatti, l’unica condizione preclusiva sarebbe da individuare nella natura strettamente personale dei motivi di impugnazione della sentenza di condanna. Le Sezioni unite ricordano che, secondo l’effetto estensivo previsto dall’articolo 587 del codice di rito penale, nel caso di concorso di più persone nello stesso reato l’impugnazione proposta da uno degli imputati giova anche agli altri, a meno che non sia fondata su motivi personali. Una “regola” che vale quando si tratta di casi che investono questioni comuni - dalla valutazione dell’attendibilità delle prove dichiarative, all’utilizzabilità delle intercettazioni - e incidenti su più imputati, per i quali l’ordinamento impone una soluzione conforme per motivi di giustizia e di uniforme applicazione delle norme processuali. Diverso è il caso della prescrizione del reato, sul cui verificarsi incidono le scelte individuali fatte nel corso del processo, come la scelta del rito o dei mezzi di impugnazione. Strategie alle quali si unisce anche la situazione personale degli imputati, come avviene ad esempio nell’ipotesi in cui la recidiva riguardi solo alcuni. Per il Supremo collegio “il decorso del termine di prescrizione si sostanzia nella relazione tra un imputato e il reato da lui commesso e il tempo trascorso, relazione che cessa definitivamente e perde ogni ragione d’essere quando nei confronti dell’imputato sia intervenuta sentenza irrevocabile”. E l’effetto estensivo della pronuncia di prescrizione non può riguardare chi ha rinunciato ad avvalersi dello “scorrere del tempo”. La scelta di impugnare del coimputato e dilatando dunque i tempi del procedimento è processuale ed “esclusivamente personale”, non collegata a un vizio di procedura nella comune “causa” o al merito di un’accusa comune. Secondo le Sezioni unite dunque il principio possibilista non è condivisibile, perché non può essere considerato comune il fattore “tempo” legato a decisioni personali. Maltrattamenti in famiglia anche per i coniugi separati di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 24 gennaio 2018 n. 3356. Maltrattamenti in famiglia anche per il coniuge separato, prima di fatto e poi anche legalmente, che attraverso persecuzioni telefoniche, ingiurie, minacce e violenze private, ha reso “abitualmente dolorosa” la relazione con la moglie e i figli. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 3356 del 24 gennaio, affermando che, contrariamente a quanto sostenuto dall’imputato, la convivenza non è un requisito necessario per far scattare il reato. Secondo il ricorrente, invece, nell’ambito dell’articolo 572 del codice penale, l’espressione “maltratta una persona della famiglia o comunque convivente” deve essere interpretata come “familiari conviventi e conviventi quand’anche non familiari” mentre la giurisprudenza che afferma il contrario “si pone al di fuori del testo della norma”. Per cui, sempre per l’imputato, considerato che “le condotte si erano verificate dopo che la convivenza era cessata” la sentenza andava annullata. Di diverso avviso la Suprema corte secondo cui il reato è configurabile “anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l’agente, quando quest’ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione”. Dunque, “il reato persiste anche in caso di separazione legale tenuto conto del fatto che tale stato, pur dispensando i coniugi dagli obblighi di convivenza e fedeltà, lascia tuttavia integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale nonché di collaborazione”. Pertanto, continua la decisione, “poiché la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie, la separazione non esclude il reato di maltrattamenti, quando l’attività vessatoria si valga proprio o comunque incida su quei vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudiziario, pongono la parte offesa in posizione psicologica subordinata o comunque dipendente”. Una simile interpretazione, prosegue la Corte, resiste anche alla novella dell’articolo 612 bis Cpche, nel prevedere una forma aggravata del reato di atti persecutori ove questi siano rivolti nei confronti del coniuge separato, “genera un concorso apparente di norme con il reato previsto dall’art. 572 c.p. ogni volta che, come nel caso di specie, gli atti di maltrattamento siano rivolti nei confronti del coniuge separato”. Il rispetto della clausola di sussidiarietà, prevista dall’articolo 612 bis del codice penale, spiega la Cassazione, “rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie, mentre si configura l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale”. Trentino Alto Adige: Provveditorato regionale per il carcere, approvata la mozione Corriere del Trentino, 25 gennaio 2018 Richiesta trasversale di Verdi, Pd, Patt e Upt. Dello Sbarba: “Reinserimento, serve un coordinamento migliore”. Istituire un provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per i carceri di Trento e Bolzano: è quanto chiesto in una mozione, poi approvata in consiglio regionale senza alcun voto contrario, che ha visto come firmatari i verdi Dello Sbarba, Foppa e Heiss, Mattia Civico (Pd), Lorenzo Ossanna (Patt) e Giampiero Passamani (Upt). Il consigliere proponente Dello Sbarba, durante la seduta di ieri, ha ricordato il percorso di dialogo che ha portato a questa mozione, rimarcando quanto sarebbe decisivo poter avere un provveditorato regionale: “Portarlo qui significherebbe potersi coordinare meglio e intervenire efficacemente nei settori della rieducazione, reinserimento e socializzazione, in modo da ridurre le recidive dei reati”, ha spiegato Dello Sbarba. Attualmente i due carceri sono sottoposti ad un provveditorato “macro-regionale” che comprende anche Veneto e Friuli Venezia Giulia. Diversi gli interventi nel corso del dibattito: Berhard Zimmerhofer, pur dicendosi a favore di una maggiore autonomia in ogni settore, ha chiesto che si lavori per l’autonomia separata per le due province, chiedendo conto di come mai l’Alto Adige non abbia rivendicato a suo tempo questa competenza. L’assessore Giuseppe Detomas, pur chiarendo che si tratta di una competenza statale, ha tuttavia ribadito che comunque esiste un accordo di collaborazione con la Giustizia penitenziaria. Marino Simoni (Progetto Trentino) ha quindi espresso parere favorevole alla mozione, sostenendo la necessità di rafforzare l’autonomia anche in questo settore, ricordando che inizialmente la legge statale prevedeva proprio la competenza regionale. Alessandro Urzì (Gruppo misto), ponendo l’accento sull’aspetto della rieducazione, ha ricordato che “le amministrazioni pubbliche dovrebbero occuparsi di più di queste istituzioni e in particolare del personale che vi lavora, spesso in condizioni estreme, che talvolta significa anche di sicurezza”. Caltanissetta: prevenzione suicidi e formazione ai detenuti, protocollo tra Asp e carceri radiocl1.it, 25 gennaio 2018 Ieri presso la sede della Direzione Generale dell’ASP, è stato sottoscritto il protocollo d’intesa per la “Prevenzione del rischio suicidario” tra l’Azienda Sanitaria Provinciale di Caltanissetta, rappresentata dal Direttore Generale, Carmelo Iacono, e gli Istituti Penitenziari della provincia, rappresentati dal Direttore della Casa Circondariale di Caltanissetta e della Casa di Reclusione di San Cataldo, Francesca Fioria, dal Direttore della Casa Circondariale di Gela, Gabriella Di Franco, e dal Direttore dell’Istituto Penale per Minori di Caltanissetta, Maria Grazia Carneglia, alla presenza del Direttore Sanitario, Paola Marcella Santino, del Direttore Amministrativo, Alessandro Mazzara, al Direttore dell’U.O.C. Cure Primarie, Gabriele Roccia e al Referente della Medicina Penitenziaria dell’ASP di Cl, S. Maurilio Cortese. “Lo scopo del Protocollo d’Intesa - si legge nel documento - è quello di disciplinare in maniera condivisa ed integrata le modalità operative che gli operatori degli Istituti Penitenziari (Sanitari e dell’Amministrazione Penitenziaria) dovranno adottare per un’adeguata prevenzione dell’azione suicidaria e la gestione del disagio psichico della popolazione detenuta adulta e minore”. La normativa sul passaggio delle competenze dalla sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale, avvenuto per la Regione Sicilia a decorrere dal 5 Febbraio 2016, prevede tra gli obiettivi di salute “la prevenzione dei suicidi e dei tentativi di suicidio, attraverso l’individuazione dei fattori di rischio”, e stabilisce espressamente che i presidi sanitari presenti negli istituti penitenziari e servizi minorili debbano adottare procedure che riducano il più possibile gli effetti traumatici della privazione della libertà mettendo in atto gli interventi necessari a prevenire atti di autolesionismo. L’intesa prevede inoltre che le parti mettano in campo tutte le azioni necessarie al fine di garantire la tutela della salute, fornendo adeguata formazione non soltanto agli operatori del settore ma anche ai detenuti. Particolare importanza verrà data, infatti, alla promozione dei corsi Blsd (rianimazione cardiopolmonare con defibrillazione) di “caregivers” o “peer supporters”, per fornire agli stessi detenuti competenze adeguate per lo svolgimento di interventi secondo il modello del caregiver familiare, per la gestione delle emergenze cardiovascolari. Quest’ultima iniziativa, proposta dall’Asp di Caltanissetta, è stata accolta con grande interesse dai Direttori degli Istituti Penitenziari, consapevoli dell’importanza di un intervento tempestivo in caso di arresto cardiaco e di quanto possa far bene all’animo di una persona ristretta rendersi utile all’Altro. Grande soddisfazione è stata espressa dal Direttore Generale dell’Azienda Sanitaria e dai rispettivi Direttori degli Istituti per la sigla del presente Protocollo, che rappresenta un’innovativa iniziativa nel settore. Il Protocollo infatti pone particolare attenzione non soltanto alla prevenzione ma anche al disagio e alla formazione. Como: detenuto morto in carcere, il medico non ha colpe Corriere di Como, 25 gennaio 2018 Si chiude con il decreto di archiviazione firmato dal giudice Carlo Cecchetti, la vicenda processuale di una dottoressa del Bassone che era stata indagata per l’ipotesi di omicidio colposo in seguito alla morte di un detenuto che si era impiccato. La donna era stata tirata in ballo per una presunta responsabilità successiva al fatto, con l’accusa di non aver evitato con il proprio intervento l’esito drammatico del gesto. Secondo il giudice di Como (e anche la Procura) il medico “prestò però soccorso in modo tempestivo e conforme alle linee guida”, dopo che il detenuto - il 29 agosto 2015 - era giunto in ambulatorio al Bassone “con l’assenza di parametri vitali”. “Il tentativo di manovre di rianimazione non diedero però esito positivo”. Ma nessuna responsabilità sull’accaduto è imputabile all’indagata che, assistita dall’avvocato Pierpaolo Livio, vede chiudersi la sua vicenda penale. “Sono stati mesi terribili, una situazione molto pesante ma finalmente questa vicenda è conclusa - ha commentato il medico del Bassone - Spero che questo incubo sia finalmente finito”. Il pm aveva già chiesto una archiviazione nel marzo del 2016 ma i familiari del detenuto (che avevano presentato l’esposto) si erano opposti. Milano: la parola agli indifesi, a ciascuno la sua legge di Zita Dazzi La Repubblica, 25 gennaio 2018 L’Ordine degli Avvocati di Milano ha presentato un volume di 700 pagine che raccoglie tutte le norme, i decreti, le convenzioni a tutela dei diritti delle donne, dei bambini e dei disabili spesso discriminati. Un caso unico in Italia. Per loro spesso non c’è giustizia perché chi è povero è anche senza strumenti culturali ed economici per difendersi, senza voce per reclamare protezione, a volte anche semplicemente senza l’idea, la nozione di essere titolare di diritti. Ma da oggi c’è un libro di oltre 700 pagine che elenca tutte le leggi, i decreti, le convenzioni, gli articoli, i commi, le disposizioni a tutela di chi di solito viene discriminato, abusato, maltrattato, dimenticato, violato. A pensare a uno strumento del genere non è stata un’associazione di volontariato ma il potente Ordine degli avvocati di Milano, primo in Italia, e probabilmente anche in Europa, a porsi il problema etico di aiutare i cittadini “fragili”, cioè chi non ha santi in paradiso, a capire come tirarsi fuori dai guai, come farsi sentire da chi ha il potere di condannare gli abusi, risarcire i danni e stabilire la verità. Il “Codice dei diritti degli indifesi” - questo il titolo dell’opera, edita da Giuffrè - è stato presentato ieri al Tribunale dal presidente dell’Ordine Remo Danovi, circondato da molti avvocati e rappresentanti di sigle del terzo settore. Quegli enti, come Telefono Azzurro, che ascoltano le voci dei bambini violati, o come la fondazione Don Gnocchi che da quasi un secolo si occupa di disabili anche gravissimi e li accoglie come una grande famiglia anche quando i genitori di sangue non ci sono più. “Questa è una summa necessaria che si auspica sia estesa a tutti i settori della vulnerabilità - sottolinea il presidente onorario della Don Gnocchi, monsignor Angelo Bazzarri - I numeri ci dicono che le diseguaglianze stanno aumentando e anche nell’ambito socio assistenziale e sanitario come il nostro i contenziosi sono sempre di più. Gli avvocati spesso sostengono non il diritto alla cura, ma quello alla guarigione: mentalità pericolosa. Questo libro comunque è per addetti ai lavori, ma anche per chi si occupa di categorie socialmente svantaggiate, che in questo Palazzo non sono di casa”. Per rafforzare l’azione di prevenzione, l’Ordine degli avvocati sta lanciando anche corsi nelle scuole sul “rispetto di genere”, corsi per 200 avvocati all’anno sulle violenze sulle donne e sportelli di orientamento legale per le vittime di abusi in famiglia che cercano informazioni di carattere giuridico su conflitti, difese e mediazioni possibili. Cosenza: “Volontari per le misure di comunità”, al via corso di formazione Seac agensir.it, 25 gennaio 2018 Un’alternativa al carcere per favorire l’inserimento sociale dei detenuti. Il progetto “Volontari per le misure di comunità” promosso dal Seac, il Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario, e sostenuto da Fondazione con il Sud nell’ambito del bando reti nazionali 2015, “nasce proprio per favorire il reinserimento sociale di coloro che sono sottoposti, a vario titolo, a misure di comunità”. Lo ricorda una nota diffusa oggi, che precisa: “L’iniziativa coinvolge, nel Sud Italia, cinque associazioni di volontariato di Sicilia, Campania, Sardegna e Calabria e prevede la formazione dei volontari, il rafforzamento della rete tra le associazioni di volontariato penitenziario, la sensibilizzazione della società all’accoglienza delle persone in esecuzione penale esterna”. Il primo ciclo formativo si è concluso a Cagliari, Palermo e Avellino, mentre a gennaio è stato avviato a Cosenza e Isola Capo Rizzuto coinvolgendo circa 150 aspiranti volontari. Nel progetto sono partner le associazioni AsvoPe di Palermo, Oltre le sbarre di Cagliari, Liberamente di Cosenza e I Giovani della Carità di Isola Capo Rizzuto oltre alla Caritas di Avellino. Fanno, inoltre, parte della rete Controluce di Pisa, Sesta Opera San Fedele di Rieti, Sesta Opera San Fedele di Milano e VoReCo Volontari Regina Coeli di Roma. “Il progetto - dichiara la presidente del Seac, Laura Marignetti - comporta la definizione di un ruolo inedito del volontariato quale facilitatore dell’inclusione sociale. È previsto, infatti, che a ciascuno dei cicli formativi segua una fase di impegno attivo nell’accompagnamento di soggetti in esecuzione penale esterna, al fine di offrire ai volontari competenze non solo teoriche. Ma soprattutto il progetto prevede, in conformità alle direttive europee, un massiccio intervento di sensibilizzazione del tessuto sociale, volto a incrementare nell’opinione pubblica la fiducia nei confronti delle pene non detentive, anche con riferimento al tema della sicurezza intorno al quale fioriscono, spesso, le peggiori speculazioni”. L’obiettivo finale è creare una rete per l’attuazione delle misure di comunità con tutte le istituzioni operanti in ambito penitenziario, in particolare gli Uepe (Uffici esecuzione penale esterna) e aumentare la diffusione delle misure alternative contribuendo alla loro efficacia. Foggia: “In me non c’è che futuro”, al via il progetto con la Farmalabor canosaweb.it, 25 gennaio 2018 Sarà presentato lunedì 29 gennaio 2018, presso la Casa Circondariale di Foggia, il progetto “In me non c’è che futuro”, nato dalla collaborazione tra l’azienda farmaceutica Farmalabor S.r.l, il provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per le regioni Puglia e Basilicata, la Cooperativa sociale “Pietra di scarto” e l’Istituto penitenziario foggiano. Il progetto nasce con un obiettivo preciso: dare un’opportunità di riscatto sociale e personale ai detenuti, al fine di rendere educativa l’esperienza della reclusione. Ai detenuti verrà data la possibilità di sviluppare in loco competenze legate alla produzione farmaceutica che, oltre a restituire dignità personale e professionale, possono rappresentare uno strumento fondamentale per il reinserimento nel mercato del lavoro. Dopo una fase iniziale di formazione tecnica, le risorse si dedicheranno all’allestimento di packaging farmaceutico in un locale attrezzato all’interno del carcere. I prodotti finiti saranno contrassegnati con un apposito bollino, in modo da informare la clientela sull’iniziativa sociale e sensibilizzare l’opinione pubblica sul reinserimento dei detenuti nel mercato del lavoro Il programma della giornata prevede: alle ore 11,00, i saluti istituzionali e taglio del nastro; ore 11,15 interverrà il dott. Carmelo Cantone (Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Puglia e Basilicata) su “Prevenzione speciale: un’opportunità per i detenuti e per il territorio”; ore 11,30 dott.ssa Rosa Musicco (Direttore Casa Circondariale di Foggia) su “Finalità e step di realizzazione del progetto “In me non c’è che futuro”; ore 11,45 dott. Pietro Fragrasso (Presidente Cooperativa sociale “Pietra di scarto”) su “La lotta alla criminalità parte dal basso: le esperienze della Cooperativa”; alle ore 12,00, interverrà il dott. Sergio Fontana (Amministratore unico Farmalabor s.r.l.) su “Responsabilità sociale d’impresa: il caso pugliese”. Eboli (Sa): libri in comune tra studenti e detenuti di Filippo Folliero La Città di Salerno, 25 gennaio 2018 Venerdì prossimo all’Icatt di Eboli avrà luogo il secondo appuntamento dell’evento “Pusher di cultura: liberi dalle dipendenze”, ideato e condotto dall’avvocato Paola De Vita, che si svolgerà dalle 9 alle 12 al Teatro della Casa di reclusione. Nell’ambito del laboratorio trattamentale, in corso nella struttura a custodia attenuata di Eboli, i detenuti incontreranno gli studenti della 5D della sezione artistica dell’Istituto “Perito-Levi “ di Eboli, accompagnati dalle professoresse Angela La Monica e Donata De Cristofaro. Il disagio e il riscatto sociale saranno i temi affrontati attraverso le personali esperienze di vita e di cambiamento dei giovani detenuti. L’attività, punta alla prevenzione e all’integrazione in maniera creativa attraverso lo strumento della lettura. Il libro, infatti, sarà l’espediente per tracciare un percorso di introspezione in maniera creativa attraverso la lettura e, il testo scelto dai detenuti, tra i tanti inventariati all’interno della biblioteca del carcere, si intitola “Io e te” di Niccolò Ammaniti, edizioni Einaudi. “Il colore del vento” di Luciana Martini, edizioni Le Monnier, è invece il libro scelto dalla classe 5D. I detenuti si racconteranno “Liberi” dalle dipendenze e alcuni stralci del libro faranno da filo conduttore a una vita, la loro vita, che vuole essere esempio di emancipazione e monito sociale alle giovani generazioni. Gli studenti del liceo artistico, inoltre, si esibiranno anche in performance visive attraverso la manipolazione di materiali naturali. Seguiranno altri interessanti incontri con le scuole del territorio a testimonianza che il cambiamento è possibile e che la propria esperienza di sofferenza può salvare altre vite. Pusher sì ma di cultura. Latina: nel carcere pregano insieme cattolici, ortodossi ed evangelici di Roberta Sottoriva radioluna.it, 25 gennaio 2018 L’iniziativa della Diocesi pontina per favorire il dialogo tra detenuti di diverse confessioni. “Il carcere può diventare una importante occasione di dialogo tra le fedi religiose e dunque tra le persone”. Ne è convinta la Diocesi di Latina che proprio nella Casa Circondariale di Via Aspromonte concluderà la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, il 25 gennaio alle 11, con una preghiera guidata dal vescovo Mariano Crociata e dal pastore valdese Emanuele Fiume, cui parteciperanno i detenuti di confessione cattolica, ortodossa ed evangelica. Mariangela Petricola, direttrice dell’Ufficio diocesano per il dialogo ecumenico e interreligioso, ha spiegato il senso di questa iniziativa: “È la prima volta che si offre la possibilità ai detenuti di vivere un momento di comunione fraterna attraverso una preghiera che richiama all’unità dei credenti in Cristo, che per loro assume un valore altamente simbolico di condivisione e solidarietà in un momento della vita che segna la propria fragilità e vulnerabilità. I cristiani si trovano a convivere con detenuti di numerose nazionalità e quindi anche di diverse religioni. La preghiera invita a saper trovare nell’altro ciò che unisce piuttosto di ciò che divide. Il carcere diventa così un importante laboratorio di dialogo”. Il 19 gennaio scorso nella chiesa dell’Immacolata a Latina, si è tenuto anche un altro incontro di preghiera ecumenica guidato dal vescovo Crociata, insieme al al sacerdote ortodosso p. Ciprian Agavrilloae e al pastore protestante Lothar Vogel. “Grazie anche al lavoro delle singole parrocchie, durante l’anno prosegue la fraterna collaborazione tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa, così come il rapporto con le altre confessioni”, sottolineano dalla Diocesi. Milano: i detenuti di Bollate espongono con gli artisti del movimento Psicoavanguardia milanotoday.it, 25 gennaio 2018 Sabato 27 gennaio 2018, si terrà presso la galleria d’arte contemporanea Click Art in via Dall’Occo 1 a Cormano (Mi), la mostra collettiva dei detenuti del carcere di Bollate e gli artisti del movimento artistico Psicoavanguardia. La mostra dal titolo “Art In - Art Out”, nasce da un progetto di Luigi Profeta e del movimento Psicoavanguardia e il laboratorio Artemisia, diretto dalla responsabile Nadia Nespoli. Il progetto consiste in cinque incontri con i detenuti, dove in collaborazione con gli artisti, hanno creato dei lavori su uno specifico tema. Bruno Cavestro, e Roberto, hanno elaborato il loro lavoro sul tema: “Forme e ideologia”, Claudio Dal Pozzo e Antonino, hanno affrontato il lavoro sul “Profumo della vita”, Angela Ippolito e Giambattista, hanno elaborato il tema “Riverberi, il sentire dell’umano”, Enzo Malazzi e Simone, hanno invece affrontato il tema: “La mia piccola rivoluzione personale”, ed in fine Luigi Profeta e Nicola, hanno pensato a tema: “L’ingiustizia”. Tutte le coppie lavorano con materiali molto diversi e con tecniche che si differenziano, dalla china, all’acrilico, alla carta, al legno, ai pigmenti. Il lavoro consiste in tre opere a testa, per un totale di sei tele per ogni coppia. Le tele più grandi, sono state realizzate assieme ai detenuti, dove solo loro, hanno messo mano, mentre le tele più piccole sono frutto di un lavoro a quattro mani, dove l’artista interviene sul lavoro del detenuto e viceversa. I detenuti hanno saputo interpretare magistralmente i loro lavori, grazie anche alla responsabile del laboratorio artistico Artemisia, Nadia Nespoli, che lavora con loro da ormai cinque anni, e che ha saputo trasmettergli oltre che la tecnica, la capacità di affrontare i lavori a loro proposti. Tutte le opere esposte, meritano di essere conosciute e apprezzate. Le opere saranno in vendita, e il ricavato verrà interamente destinato ai detenuti, in modo che possano continuare a lavorare con colori, tele e pennelli. Questo progetto è frutto di persone, artisti, e collaboratori, che hanno svolto e svolgono, ogni giorno, questo lavoro come volontari, senza nulla percepire e che solo grazie alla passione e all’amore per l’arte e per la vita, è possibile affrontare, con la speranza di donare a chi è recluso, un po’ di serenità e speranza. Queste persone, meritano di essere incoraggiate, e questo lo possiamo fare sabato 27 gennaio alle ore 16,00 all’inaugurazione della mostra “Art In -Art Out”. In fine, mi sento di ringraziare Nadia Nespoli, per l’opportunità che ha dato a noi artisti, offrendoci un’esperienza che non può far altro che farci crescere, e ai detenuti per l’impegno che ci hanno messo nell’affrontare questo nuovo progetto”. Saluzzo (Cn): “La Favola Bella”, va in scena lo spettacolo teatrale dei detenuti targatocn.it, 25 gennaio 2018 Domenica 28 gennaio, lo spettacolo va in scena al teatro Magda Olivero con nove detenuti ed ex detenuti del penitenziario saluzzese. È inserito nel cartellone comunale. È la rivisitazione della fiaba di Cappuccetto Rosso, vista con gli occhi del lupo. iglietti acquistabili la sera dello spettacolo. Domenica 28 gennaio va in scena al teatro Magda Olivero “La Favola Bella”, prodotto nel carcere “Morandi” di Saluzzo dall’Associazione Voci Erranti. Sul palcoscenico nove attori detenuti ed ex detenuti, diretti da Grazia Isoardi. Quella del gruppo teatrale del penitenziario saluzzese è l’unica realtà in Italia ad uscire, mensilmente, dalle mura e senza scorta per andare a recitare in teatri del territorio o in altre regioni. Lo scorso anno sullo stesso palcoscenico l’applaudissimo “Amunì”, quest’anno dopo le trasferte a Gorizia, Verbania e Roma, approda al civico di via Palazzo di Città 15, con La Favola Bella, rivisitazione della fiaba di Cappuccetto Rosso, vista con gli occhi del lupo. Un punto d’osservazione che consente ai detenuti attori la possibilità di riconoscersi all’interno di quella che è probabilmente la fiaba più nota e rappresentata dai tempi della versione seicentesca di Perrault a quella dei fratelli Grimm. La morale rimane comunque intatta. L’obbiettivo è la comprensione che, nonostante la natura umana, è sempre possibile trovare la giusta strada per uscire dal bosco, l’unica via percorribile per divenire persone adulte. Anche La Favola Bella è frutto del laboratorio teatrale attivo all’interno dell’istituto di pena di Saluzzo da 16 anni. Un progetto innovativo condiviso dal Magistrato di Sorveglianza del Tribunale di Cuneo e dal Direttore Giorgio Leggieri per il valore riabilitativo e risocializzante del percorso di formazione, che vede nel teatro un ponte tra la comunità reclusa e quella libera. Ogni anno gli spettacoli teatrali attirano la presenza di quasi tremila spettatori dentro al carcere ed altrettanto fuori. Il progetto è sostenuto grazie al contributo della Compagnia di S. Paolo di Torino. La pièce, regia di Grazia Isoardi, coreografie di Marco Mucaria è stata inserita, come lo scorso anno “Amunì”, nel cartellone della stagione “Saluzzo a teatro” per volontà dell’assessore alla Cultura Roberto Pignatta. I biglietti, 10 euro intero, 7 euro il ridotto, non sono in prevendita, ma acquistabili al botteghino del teatro la sera dello spettacolo, a partire dalle 20. Info: www.vocierranti.org. Fake news. Papa Francesco: “sono un pericolo sociale, odio e arroganza dilagano” di Franca Giansoldati Il Messaggero, 25 gennaio 2018 Città del Vaticano Papa Bergoglio coglie al balzo l’occasione della Giornata delle Comunicazioni Sociali - che si celebra oggi - per dichiarare guerra alle fake news. In un documento diffuso in varie lingue prima offre una definizione condivida del fenomeno (“informazioni infondate, basate su dati inesistenti o distorti e mirate a ingannare e persino a manipolare il lettore. La loro diffusione può rispondere a obiettivi voluti, influenzare le scelte politiche e favorire ricavi economici”), poi elenca una serie di antidoti che i governi, le social company, i mass media dovrebbero adottare. “L’efficacia delle fake news è dovuta in primo luogo alla loro natura mimetica, cioè alla capacità di apparire plausibili. In secondo luogo, queste notizie, false ma verosimili, sono capziose, nel senso che sono abili a catturare l’attenzione dei destinatari, facendo leva su stereotipi e pregiudizi diffusi all’interno di un tessuto sociale, sfruttando emozioni facili e immediate da suscitare, quali l’ansia, il disprezzo, la rabbia e la frustrazione. La loro diffusione può contare su un uso manipolatorio dei social network e delle logiche che ne garantiscono il funzionamento: in questo modo i contenuti, pur privi di fondamento, guadagnano una tale visibilità che persino le smentite autorevoli difficilmente riescono ad arginarne i danni”. Non fa esempi precisi Papa Francesco, ma è facile intravedere dietro questi passaggi del testo, la manipolazione del tema dei migranti, come in passato aveva avuto già modo di denunciare. “Il dramma della disinformazione è lo screditamento dell’altro, la sua rappresentazione come nemico, fino a una demonizzazione che può fomentare conflitti. Le notizie false rivelano così la presenza di atteggiamenti al tempo stesso intolleranti e ipersensibili, con il solo esito che l’arroganza e l’odio rischiano di dilagare. A ciò conduce, in ultima analisi, la falsità”. Davanti a questi rischi il Papa si chiede cosa fare. L’impresa non è facile. Ritiene “lodevoli le iniziative istituzionali e giuridiche impegnate nel definire normative volte ad arginare il fenomeno, come anche quelle, intraprese dalle tech e media company, atte a definire nuovi criteri per la verifica delle identità personali che si nascondono dietro ai milioni di profili digitali”. Per contrastare il virus delle fake news il Papa chiede la promozione di un “giornalismo di pace” capace di non negare “l’esistenza di problemi gravi e assuma toni sdolcinati. Un giornalismo senza infingimenti, ostile alle falsità, a slogan ad effetto e a dichiarazioni roboanti; un giornalismo fatto da persone per le persone, e che si comprende come servizio a tutte le persone, specialmente a quelle - sono al mondo la maggioranza - che non hanno voce; un giornalismo che non bruci le notizie, ma che si impegni nella ricerca delle cause reali dei conflitti, per favorirne la comprensione dalle radici e il superamento attraverso l’avviamento di processi virtuosi; un giornalismo impegnato a indicare soluzioni alternative alle escalation del clamore e della violenza verbale”. Migranti. “Lampedusa, altro che hotspot si sta peggio che in cella...” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 gennaio 2018 Conferenza stampa del Garante dei detenuti Mauro Palma dopo la sua visita nel Centro siciliano. “Bagni alla turca senza le porte o con provvisorie tendine, materassi sui quali non si siederebbe nessuno. anche la mensa è occupata da letti. I migranti spesso mangiano in piedi o seduti a terra”. L’hotspot di Lampedusa si è trasformato in un carcere sconcertante. Questa è in sintesi la valutazione del Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma espressa ieri mattina in conferenza stampa, dopo aver effettuato una nuova visita all’hotspot di Lampedusa per verificare in che modo le autorità locali e nazionali hanno ritenuto di affrontare le criticità in passato più volte segnalate. Il recente suicidio di un ospite della struttura e poi i disordini verificatisi nelle ultime ore avevano reso ancora più opportuno un sopralluogo del Garante nazionale sull’isola. “Sia sul piano formale che materiale - denuncia Mauro Palma purtroppo abbiamo ritrovato la stessa situazione che avevamo già registrato un anno fa e rispetto alla quale avevamo chiesto dei miglioramenti”. Il Garante spiega: “Sul piano materiale abbiamo ancora trovato qualcosa che suscita un certo sconcerto. Bagni alla turca senza le porte o con provvisorie tendine, materassi sui quali non si siederebbe nessuno, carenza di spazi che, dato l’affollamento, le persone non hanno altri posti dove stare che non sia l’area Anche la mensa è occupata da letti”. Poi aggiunge: “Attualmente i migranti presenti sono 194. Spesso mangiano in piedi o seduti a terra o fuori. Il problema principale infatti è contenere i numeri. Tutto ciò avrebbe un valore relativo se le persone stessero solo 24-48 ore, e invece diventa determinante, data la prolungata presenza all’interno dell’hotspot. Ultimamente le statistiche sulla media di permanenza sono migliorate: si parla di dodici giorni in media di permanenza. Resta il fatto che il giovane che si è suicidato il 5 gennaio era arrivato ad ottobre e dopo tre mesi era ancora nell’hotspot”. Quindi se la media di permanenza è di qualche settimana (quindi sempre illegale), ci sono casi di immigrati che permangono al centro per mesi. “Se questa situazione è tollerabile per pochi giorni diventa intollerabile se questi ragazzi rimangono per mesi. A questo punto - sottolinea il Garante - ci si chiede se l’hotspot è un centro di detenzione visto che i migranti non possono uscire dal centro. Mi viene detto che possono uscire da un buco della rete. Ma non sono un’uscita legale del sistema”. Per Palma “c’è bisogno di una riconversione. Non dimentichiamo che siamo su un’isola dove è complicato eseguire un ordine di lasciare il territorio in pochi giorni”. Sempre il Garante ha osservato la situazione generale dell’isola, soprattutto per verificare se l’allarme lanciato dal sindaco Totò Martello fosse veritiero. “Lampedusa - spiega Palma - non è affatto un hotspot a cielo aperto come dice il sindaco Martello, ho avuto la sensazione di una società tranquilla, anche più tranquilla del suo sindaco”. Sempre Palma dice che “i cittadini non vivono la presenza dei migranti come di coloro che vengono aggrediti nella loro quotidianità, i lampedusani vanno ricordati per la loro capacità di accoglienza che non hanno perso neppure di recente. Anche se la situazione è certamente difficile”. Ma cosa sono gli hotspot? Sono strutture più recenti, sollecitata a gran voce da Bruxelles fino a inviarci i loro consiglieri per controllarne l’istituzione. Si trattano di aree attrezzate di sbarco, le prime dove i migranti, dopo essere stati soccorsi e giunti in porto, sono accolti. Lì fanno i controlli con le forze di polizia, le organizzazioni non governative danno istruzioni e orientamenti sui diritti e le possibilità di scelta. Gli hotspot furono reclamati dall’Ue per garantire l’identificazione e i rilievi fotografici e delle impronte digitali degli stranieri sbarcati. In queste strutture, in teoria, i migranti non possono stare più di 48 ore, il termine può allungarsi ma solo di qualche giorno, al massimo, perché il ricambio di arrivi e partenze è alto. Sono presenti a Lampedusa, Pozzallo, Trapani e Taranto. Non è escluso che ne possa sorgere qualche altro. Certo è che l’Italia ha risposto all’iniziale procedura di infrazione di Bruxelles sulla mancata identificazione degli stranieri con le percentuali di rilievi e foto-segnalamenti: sfiorano il 100% degli arrivi. Tanto che la procedura di infrazione è stata ritirata. Gli hotspot presentano diverse criticità. La prima di queste è proprio la loro legittimazione, visto che il concetto di hotspot non trova un fondamento giuridico nella normativa italiana. Dal punto di vista dei diritti violati, invece, i problemi si concretizzano sin dal momenti dell’ingresso nelle strutture. Di fatto, negli hotspot, viene realizzata una detenzione amministrativa dei richiedenti, i quali vengono trattenuti all’interno del centro senza alcun provvedimento da parte dell’autorità giudiziaria, e per un tempo imprecisato, fino a quando la persona non si convince a farsi identificare. Un’altra fonte di preoccupazione è la differenziazione tra richiedenti asilo e “migranti economici”, che avviene sulla base di una intervista che viene effettuata dalla polizia. Secondo la denuncia de l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) queste interviste vengono effettuare senza che queste persone vengano preventivamente informate sui loro diritti. Altra criticità è la condizione materiale della struttura. Ma questo lo ha denunciato ieri mattina il Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale Mauro Palma. La caccia, uno “sport” che abbatte anche esseri umani di Dante Caserta Il Manifesto, 25 gennaio 2018 La stagione venatoria è aperta da quattro mesi e già si contano le persone uccise dai cacciatori: 25 morti (e 58 feriti). Le proposte del Wwf per evitare questa strage assurda. Conoscete uno “sport” che nel giro di meno di 4 mesi provoca 25 morti e 58 feriti? È la caccia, sempre che sia plausibile considerarla uno sport. Sono i dati emersi a fine dicembre dal primo, provvisorio, “bollettino di guerra” redatto dall’Associazione “Vittime della caccia” per la stagione venatoria 2017/18 (il dossier completo uscirà ai primi di febbraio). E non sono solo i cacciatori ad essere colpiti, ma anche escursionisti, agricoltori, cercatori di funghi, ecc.: da settembre a dicembre 2017 sono morte 9 persone del tutto estranee all’attività venatoria. Sono numeri impressionanti e quasi sicuramente per difetto poiché, non esistendo dati ufficiali, le informazioni vengono ricavate e verificate da testate giornalistiche. Non si tratta di fatalità, come spesso si legge sui giornali locali, ma di incidenti tutt’altro che inevitabili, spesso causati da violazioni della legge quadro nazionale e delle leggi regionali di settore, come ha sottolineato il Wwf Italia in una lettera inviata al Ministro dell’Interno, Marco Minniti. I comportamenti più pericolosi alla base di questa escalation (nella stagione 2016/17 i morti erano stati 16) sono il mancato rispetto delle distanze minime da strade e abitazioni, la tendenza a sparare senza inquadrare bene il “bersaglio”, la cattiva abitudine di accompagnare le battute di caccia con abbondanti “colazioni” con vino e altri alcolici. Comportamenti del genere, riscontrati anche dalle guardie volontarie WWF nell’attività di vigilanza venatoria, sono ancora più pericolose in alcune tipologie di caccia. La cosiddetta “braccata” al cinghiale, ad esempio, è una pratica complessa che richiederebbe perizia e ottima conoscenza dell’habitat circostante, e che diventa molto rischiosa se si svolge in zone frequentate da “civili”. A questi comportamenti negativi vanno poi aggiunte l’elevata età media dei possessori di licenza di caccia, i cui riflessi sono fortemente ridotti, e la possibilità per un cacciatore alla prima licenza (18 anni) di utilizzare un numero illimitato di fucili da caccia, anche a lunga gittata. E non va trascurato come con fucili da caccia regolarmente registrati vengano spesso commessi omicidi (ad esempio, per litigi in famiglia o con vicini): è lecito chiedersi come vengano condotte le verifiche psicologiche sui cacciatori prima di autorizzarli a detenere armi estremamente pericolose. Il Wwf Italia ha così proposto alcune misure preventive per evitare che il numero di vittime innocenti continui ad aumentare. Incrementare l’attività di vigilanza, effettuare maggiori controlli sulle licenze di caccia e rendere più severi gli esami per la licenza di caccia; limitare l’uso di armi a canna rigata in grado di sparare a chilometri di distanza senza poter prevedere cosa si colpirà; introdurre il divieto di caccia nei giorni festivi nelle aree frequentate da sportivi ed escursionisti: la maggior parte delle giornate di caccia si svolgono il sabato e la domenica, durante i quali i cacciatori sottraggono tranquillità e serenità a famiglie e amanti della natura; agevolare la nomina di nuove guardie volontarie delle associazioni di protezione ambientale, favorendone le attività, oggi ostacolate e caricate di un gravame burocratico eccessivo non adatto ad un’attività di volontariato svolta a favore della collettività. La missione italiana anti-trafficanti: in Niger nelle basi degli americani di Francesco Grignetti e Giordano Stabile La Stampa, 25 gennaio 2018 Vigilia di missioni militari per l’Italia. Si raddoppia l’impegno bilaterale in Libano. Si sta per cominciare in Niger. È questa l’eredità del governo Gentiloni: ridurre progressivamente l’impegno sui fronti lontani quali Afghanistan e Iraq, dove restiamo essenzialmente per onorare la parola con gli americani, e concentrarci sul Mediterraneo e dintorni. In Niger, il nostro contingente - i primi 120 uomini a giugno, il resto nei mesi seguenti - si sistemerà alla periferia della capitale, Niamey. Saremo ospiti degli americani, che anch’essi hanno lì una missione militare. Non ospiti dei francesi, dunque. Tantomeno schierati in basi avanzate nel deserto del Sahara. Si rafforza così, fin dalla scelta della location, il profilo no-combat della missione italiana. Ed ecco la differenza sostanziale con i francesi, che invece fanno anti-terrorismo e sono attestati nel fortino Madama, quasi ai confini con la Libia. D’altra parte il ministro della Difesa voluto da Macron, la signora Florence Parly, fin dal primo colloquio con la collega Roberta Pinotti, ha precisato che siamo i benvenuti nel Sahel, “ma solo se venite per combattere”. Così non sarà. Le due missioni saranno diverse, parallele, senza alcuna interdipendenza. Come garantisce il capo di Stato maggiore della Difesa, il generale Claudio Graziano, il compito del contingente italiano sarà strettamente di addestramento, volto a rafforzare le capacità delle forze di sicurezza locali. Quanto fa anche la missione statunitense Acota (Africa Contingency Operations Training and Assistance) a cui andiamo ad affiancarci. Quello italiano sarà comunque un addestramento meno “protagonista” di come lo intendono gli Stati Uniti, che in questi casi seguono i reparti da loro addestrati anche in prima linea. Ovviamente correndo dei rischi. Nell’ottobre scorso un convoglio misto, americano e nigerino, è caduto in un’imboscata di jihadisti e ieri sui siti islamisti è comparso un video dell’episodio. A noi, diversamente dalla Francia, preme che il Niger si rafforzi soprattutto per frenare l’immigrazione clandestina che confluisce in Libia. Per questo abbiamo appena aperto in quel Paese un’ambasciata ed era accorso il ministro Angelino Alfano a sottolinearne l’importanza strategica. E spingiamo sugli aiuti della cooperazione. “Al Niger - diceva - Paese molto fragile che raccoglie 150.000 rifugiati abbiamo voluto destinare più di 100 milioni di euro. I risultati ci sono stati e parlano chiaro: drastica riduzione dei flussi dai 330 mila del 2016 ai 62 mila del 2017”. L’accordo raggiunto tra i nostri Stati maggiori e il comando Africom delle forze armate Usa ci garantisce dunque fin dal primo momento una solida cornice di sicurezza. Il Villaggio Italia nascerà in un compound già urbanizzato e protetto. Naturalmente le spese per i nostri saranno a carico nostro. In questo riposizionamento di forze, rafforziamo anche la cooperazione militare con il Libano. Nel Paese dei Cedri l’Italia ha il secondo contingente, dopo l’Indonesia, all’interno della missione Unifil dell’Onu, con circa 1100 soldati dalla Brigata Folgore. Accanto a Unifil c’è un’altra missione, bilaterale, denominata “Mibil”, per l’addestramento delle forze armate libanesi. E “Mibil” ora raddoppia. Anche se i numeri sono ridotti - da 25 si passerà a 53 militari - l’obiettivo è cruciale. Abbiamo addestrato finora 1200 soldati libanesi, compresa la Guardia presidenziale e reparti di montagna. L’esercito libanese è uscito distrutto dalla guerra civile, quando si spaccò in fazioni legate alle confessioni religiose, ma ora rappresenta un pilastro della coscienza nazionale, con un forte consenso in tutta la popolazione. Dal 2014 le forze armate libanesi, che svolgono anche funzioni di polizia, hanno retto l’urto delle infiltrazioni islamiste dalla vicina Siria, e la scorsa estate hanno cacciato sia Al Qaeda che l’Isis dalle zone di confine. La protezione della frontiera a Nord ha però costretto l’esercito a ridurre la sua presenza a Sud, dove dovrebbe man mano affiancare e poi sostituire, quando ci saranno le condizioni politiche internazionali, la missione Unifil che veglia sulla frontiera con Israele. L’addestramento fornito dall’Italia permetterà di costituire un nuovo reggimento, che potrà essere inviato al Sud per le pattuglie congiunte con Unifil. Più esercito significa anche meno Hezbollah. Egitto. La verità su Giulio Regeni resta affare di Stato di Mario Calabresi La Repubblica, 25 gennaio 2018 Esattamente due anni fa alle 19.41, era la sera di lunedì 25 gennaio 2016, Giulio Regeni inviò l’ultimo sms della sua vita. Poi sarebbe entrato nella metropolitana del Cairo per scomparire. Il suo corpo torturato è stato trovato ai margini dell’autostrada solo nove giorni dopo, il 3 febbraio. L’indagine sul rapimento e l’omicidio di Regeni non ha precedenti nella storia italiana: si tratta di accertare la verità su un delitto commesso al Cairo. Un delitto che coinvolge gli apparati dello Stato egiziano: sicuramente hanno sorvegliato Giulio e hanno depistato le indagini sulla sua morte, con la macabra messinscena degli oggetti personali fatti ritrovare dopo l’uccisione di alcuni piccoli criminali. Esistono gravi indizi anche sulla loro responsabilità nella scomparsa, nelle torture e nell’uccisione. Ma non ha precedenti neppure la mobilitazione nazionale per dare verità e giustizia a questo ragazzo, alla sua famiglia e al nostro Paese, un impegno che Repubblica si onora di portare avanti ogni giorno. Le indagini della nostra magistratura proseguono a singhiozzo, tra mille difficoltà. Ma dei punti fermi - come sottolinea oggi il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone - ora li abbiamo: sono stati respinti i depistaggi e le calunnie, sono stati individuati i traditori, è emerso il movente e insieme a questo le chiare responsabilità degli apparati di sicurezza egiziani. In questo contesto non possiamo dimenticare che la situazione politica egiziana è straordinaria. Il presidente Al Sisi è stato insediato da un golpe militare e il quadro delle prossime elezioni non sembra promettere un ritorno alla democrazia (si pensi soltanto che l’unico sfidante di rilievo del generale è stato arrestato due giorni fa). Proprio per questo la ricerca della verità è un affare di Stato: solo la pressione continua e costante del governo italiano sul Cairo può permettere di arrivare a punire i responsabili. Non ci sono alternative. Noi restiamo scettici sulla decisione ferragostana di rimandare l’ambasciatore. I tempi della giustizia sono lunghi in tutto il Mediterraneo, ma non ci sembra che la scelta di Gentiloni e Alfano abbia garantito la minima accelerazione. E restiamo scettici sul mancato coinvolgimento dell’Unione europea, che ancora una volta si mostra incapace di coordinare le linee di azione diplomatiche: Giulio era un figlio dell’Europa, esponente di quella generazione senza confini nata con l’Erasmus. E in questa campagna elettorale è importante che l’Italia mantenga un’azione compatta sull’Egitto, con l’impegno dei leader dei principali schieramenti a portare avanti la ricerca della verità senza distinzioni, furbizie o cedimenti alla ragione di Stato. Mettendo da parte iniziative ambigue, strumentalizzazioni politiche o imbarazzanti silenzi. Di qualunque colore sarà il prossimo governo dovrà impegnarsi per tenere la luce accesa, ottenere giustizia e tutelare la dignità non solo di Giulio, ma dell’Italia. Gli occhi di una famiglia, di tanti cittadini e di questo giornale non si abbasseranno finché non vedremo la verità. Egitto. “Già molti indizi sugli assassini di Giulio Regeni, andiamo avanti” Corriere della Sera, 25 gennaio 2018 La lettera del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone: cooperazione complessa con gli egiziani. A distanza di due anni dal sequestro, al Cairo, di Giulio Regeni, una breve riflessione su alcuni aspetti dell’indagine. La circostanza che i tragici fatti siano avvenuti in Egitto ha avuto come naturale conseguenza il fatto che spetti, innanzitutto, alle autorità di quel Paese il diritto, ma anche il dovere, di svolgere le indagini. Noi - magistrati e polizia giudiziaria italiani - possiamo solo collaborare e supportare le attività degli inquirenti egiziani, anche con proposte e sollecitazioni; non possiamo, invece, immaginare di raccogliere fuori dall’Egitto elementi decisivi per la individuazione dei responsabili. La collaborazione con i colleghi egiziani è un unicum nell’esperienza della cooperazione giudiziaria. Per la prima volta, credo, un Procuratore Generale di un altro Paese è venuto in Italia, pur in assenza di trattati, per condividere i risultati delle sue attività d’indagine e noi siamo andati al Cairo con lo stesso scopo: in tutto ben sette incontri. E di questo devo ringraziare, anche pubblicamente, il Procuratore Nabeel A. Sadek. Quando, come in questo caso, non esistono accordi e convenzioni internazionali, una cooperazione giudiziaria così impegnativa e complessa può avvenire solo se parallelamente viene attivata una concreta collaborazione tra i due governi. Senza dubbio, su questo ha giocato un ruolo fondamentale la spinta della opinione pubblica, anche internazionale. Nella nostra attività di magistrati, siamo chiamati ad agire nel rispetto di determinati criteri e modalità, nonché sulla base della nostra consolidata cultura giuridica; non sempre è stato facile entrare nella mentalità del mondo arabo e misurarci con un ordinamento giuridico dalle regole processuali e prassi investigative del tutto differenti. Solo per fare un esempio, per non spezzare il filo della collaborazione abbiamo dovuto prendere atto dell’impossibilità giuridica di essere presenti quando i colleghi del Cairo ascoltano i testimoni. In altre occasioni gli ostacoli sono stati, almeno in parte, superati. Anche qui un esempio: avevamo chiesto subito che ci venissero consegnati i dati del traffico di cella di alcune zone del Cairo nelle date cruciali del 25 gennaio e del 3 febbraio 2016 (la scomparsa di Giulio e il ritrovamento del corpo), ma la normativa egiziana non lo consente. Il problema è stato in parte risolto con la consegna della relazione dei loro consulenti, anche se è pacifico che ottenere i dati grezzi e analizzarli direttamente, sarebbe stato per noi ben diverso. Tra tutte queste difficoltà oggettive, abbiamo comunque lavorato e - credo di poter dire - raggiunto risultati concreti, dapprima per evitare che le indagini finissero su binari sbagliati (come un’inesistente attività di spionaggio da parte di Giulio, o la responsabilità di una banda di criminali comuni) e, successivamente, per fissare alcuni punti fermi nel cui quadro dovranno inserirsi i prossimi approfondimenti sull’omicidio. Innanzitutto il movente, pacificamente da ricondurre alle attività di ricerca effettuate da Giulio nei mesi di permanenza al Cairo; è inoltre emerso con chiarezza il ruolo di alcune tra le persone che Giulio ha conosciuto nel corso di tali ricerche, persone che lo hanno tradito. Ed è stata anche messa a fuoco l’azione degli apparati pubblici egiziani che già nei mesi precedenti avevano concentrato su Giulio la loro attenzione, con modalità sempre più stringenti, fino al 25 gennaio. Si tratta di punti fondamentali per proseguire l’inchiesta e - soprattutto - di un approdo condiviso con i colleghi egiziani. Un risultato che due anni fa non era per nulla scontato poter raggiungere. Non intendiamo fermarci a questo, è ovvio. Anche se restiamo ben consapevoli della estrema difficoltà di questa indagine. Ancora un esempio, per meglio comprendere gli ostacoli superati e quelli ancora da affrontare. A dicembre, durante l’ultimo incontro al Cairo, abbiamo voluto condividere con i colleghi egiziani l’informativa, contenente la ricostruzione minuziosa di tutti gli elementi probatori raccolti sino a quel momento, stilata da Ros e Sco, che in questi due anni - va detto - hanno svolto un lavoro eccezionale per il quale meritano la nostra gratitudine. In una indagine ordinaria, sulla base dell’informativa depositata la Procura avrebbe potuto già trarre alcune, seppur parziali conclusioni. Invece, la collaborazione tra i due uffici impone un percorso più lento e faticoso: condividere l’informativa, dare il tempo ai colleghi di studiarla e, quindi, valutare assieme a loro le successive attività da compiere. Un iter complesso, basato sul reciproco spirito di collaborazione. Un metodo che non può avere la speditezza che tutti noi desidereremmo. Ma è l’unico possibile. Qualunque fuga in avanti da parte nostra si trasformerebbe in un boomerang in grado di vanificare quanto fin qui con fatica costruito. Vi è poi da sottolineare come, dato che il movente dell’omicidio va ricondotto esclusivamente alle attività di ricerca di Giulio, è importante la ricostruzione dei motivi che lo hanno spinto ad andare al Cairo e l’individuazione delle persone con cui ha avuto contatti sia nel mondo accademico, sia negli ambienti sindacali egiziani. Per questo le evidenti contraddizioni tra le dichiarazioni acquisite nell’ambito universitario e quanto emerso dalla corrispondenza intrattenuta da Giulio (recuperata in Italia dal suo computer) hanno imposto di effettuare accertamenti anche nel Regno Unito, resi possibili dalla efficace collaborazione delle Autorità d’Oltremanica. I risultati di tali attività - anche di perquisizione e sequestro di materiale - a un primo esame sembrano utili e sono allo studio dei nostri investigatori. Nel corso di questi 24 mesi, abbiamo incontrato molte volte i signori Regeni. Siamo rimasti impressionati dalla dignità con cui questi genitori hanno affrontato la tragedia e dal loro incessante impegno nella ricerca di verità e giustizia. Da parte nostra possiamo assicurare che proseguiremo con il massimo impegno nel fare tutto quanto sarà necessario e utile affinché siano assicurati alla giustizia i responsabili del sequestro, delle torture e dell’omicidio di Giulio. Libia. “Oggi vi ammazziamo tutti”: i migranti torturati e i video per chiedere il riscatto di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 25 gennaio 2018 Plastica fusa sulla schiena, frustate su tutto il corpo: tutto ripreso con i cellulari e poi inviato ai parenti delle vittime. Il governo libico: “Catturati gli aguzzini autori delle torture”. Torture in diretta. Nella scena iniziale per una ventina di secondi gli aguzzini fanno cadere plastica fusa e ancora in fiamme sulla schiena, le braccia e le gambe di un giovane di colore che piange e si dibatte. Il sistema è primitivo. Danno fuoco a un tubo di plastica che s’incendia subito. La vittima è stesa a terra sullo stomaco, implora pietà. Dall’accento pare sudanese. “Zitto! Zitto! Zitto!”, gli urla la voce di un uomo fuori campo. Un altro dei persecutori con l’uniforme gli punta il mitra. “Alza la testa”, gli ordinano. E lui piangendo contorce il corpo magro e nervoso, solleva il collo, obbedisce divincolandosi, l’obbiettivo gli riprende il viso contornato da riccioli scuri nella smorfia di dolore e paura. Ma non può fare altro che subire. L’obbiettivo indugia perché sia ben chiara la sua identità. Pare si chiami Sadiq Abakar Ahmed e venga da Kutum, nel Darfur, nel Sudan occidentale, terra di migranti e ovviamente bande di trafficanti di uomini. Poi la scena si sposta. Sembra avvenga tutto nella stessa capanna misera. Ci sono altri otto giovani, tutti pare rispondano con l’accento sudanese. Alcuni indossano slip o pantaloni sgualciti. Ma le schiene sono nude. Questa volta li frustano. Ancora ordini duri: “La tua faccia…la testa in alto… la tua faccia”. Qui le guardie indossano maschere. “Oggi sarete morti”, dice una voce. “Sdraiati sulla pancia, dai”, minacciano. E ancora: “Colpisci questo cane….come ti chiami tu?”. Risponde: “Marwi”. E allora: “Colpiscilo, colpiscilo”. Si odono le scudisciate secche sulle spalle brunite. “Pagate, per favore pagate. Avete trasferito i soldi?”, implorano le vittime con voce rotta dal dolore. Il fine è ovvio. Occorre che le famiglie a casa paghino. Se non verranno versati per ognuno 120.000 sterline sudanesi, pari a circa 14.000 euro, la tortura continuerà, forse sino alla morte. Del resto chi può controllare? Quanti sono svaniti nel nulla? Il video doveva servire alla banda di trafficanti libici, forse di Sirte, per fare pressione. Un sistema ben collaudato ormai. Ma questa volta è finito sulle chat locali ed è diventato virale. Secondo i media di Tripoli e Misurata, erano molti a credere che fosse un falso. Eppure i dettagli erano precisi. Così nelle ultime ore sono intervenute le squadre della Rada, la milizia più importante al servizio del governo di unità nazionale a Tripoli. E mercoledì in serata i suoi dirigenti hanno postato a loro volta le foto dei quattro aguzzini appena catturati diffondendo nomi e cognomi. Banditi ben organizzati, oppure balordi alle prime armi? La cosa va ancora chiarita. Ma foto e filmati tornano a denunciare platealmente gli orrori subiti in Libia dalle centinaia di migliaia di migranti in arrivo dall’Africa sub-sahariana con la speranza di giungere illegalmente in Europa. “Terribile, ma vero. Sappiamo bene che i migranti vengono spesso rapiti e ricattati. E ciò avviene non nei campi di raccolta ufficiali organizzati dalle autorità libiche lungo la costa, ma piuttosto in quelli segreti delle milizie. Nella sola zona di Bani Walid ci sono almeno otto campi illegali, dove i ricatti di questo tipo sono all’ordine del giorno”, ci raccontava in settembre il sindaco della stessa Bani Walid, la città in pieno deserto circa cento chilometri a sud della capitale che è uno dei maggiori centri di raccolta e smistamento per le colonne di migranti in viaggio dal deserto prima di raggiungere la costa. È la fotografia di un Paese che resta lacerato da violenze e ingiustizie senza fine. E la situazione sembra peggiorare. Dopo i combattimenti tra milizie che una settimana fa hanno bloccato l’aeroporto di Tripoli, le tensioni sono adesso concentrate su Bengasi, dove due auto-bomba martedì sera hanno causato almeno 35 morti. Tra loro alcuni tra i massimi dirigenti militari agli ordini del generale Khalifa Haftar. La risposta non si è fatta attendere. Mercoledì ancora da Bengasi sono state diffuse le immagini di Mohmoud Warfalli, noto ufficiale delle forze di Haftar, che uccide a colpi di fucile una decina di prigionieri jihadisti in ginocchio. Già lo scorso agosto il Tribunale Internazionale dell’Aia aveva richiesto il suo arresto per un’altra esecuzione di massa. Afghanistan. Attacco dell’Isis all’ong Save the children di Giuliano Battiston Il Manifesto, 25 gennaio 2018 Tre membri dello staff dell’ong uccisi, quattro feriti, interrotta l’assistenza ai bambini nel Paese. “È con profonda tristezza che confermiamo che tre membri dello staff di Save the Children sono stati uccisi nell’attacco di oggi alla nostra sede a Jalalabad, in Afghanistan. Tutto il resto dello staff che si trovava nella struttura è stato tratto in salvo, mentre in quattro sono rimasti feriti nel corso dell’attacco e stanno attualmente ricevendo cure mediche”. È con questo comunicato che nel pomeriggio di ieri l’organizzazione non governativa Save the Children ha dato notizia della morte di tre dipendenti, a cui va aggiunta quella di almeno un poliziotto e, secondo alcuni resoconti, dei cinque militanti che nella mattina di ieri hanno attaccato l’ufficio dell’organizzazione a Jalalabad, un’importante città a due ore di automobile da Kabul, verso il confine con il Pakistan. L’assalto, rivendicato dalla “provincia del Khorasan”, la branca locale dello Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, è durato più di 10 ore. Si tratta di una tattica precisa: i militanti scelgono un soft target, un obiettivo civile facile da colpire e conosciuto a livello internazionale, e cercano di prolungarne l’assedio il più a lungo possibile, così da assicurarsi la copertura dei media. Vittime civili, inermi e innocenti, in cambio delle aperture dei telegiornali: è la spietata contabilità dei jihadisti del Califfo. I talebani, che hanno subito preso le distanze dall’attacco, sostengono di essere diversi. Di battersi per la liberazione del Paese dalle forze di occupazione straniera. Dicono di avere un’agenda tutta domestica, nazionalista, di non seguire le sirene del jihadismo gratuitamente sanguinario e transnazionale del Califfo e dei suoi affiliati. Forse l’indirizzo strategico è diverso, ma i metodi sono spesso identici. Pochi giorni fa sono stati i talebani - sebbene la componente più radicale e meno incline al compromesso, quella della Rete Haqqani - a colpire l’hotel Intercontinental di Kabul: diverse ore di assedio e di battaglia con le forze di sicurezza afghane, per un bilancio - ancora provvisorio - di almeno 22 morti civili. Dall’inizio del 2015, il Califfo ha cercato di entrare con prepotenza nella delicata partita afghana: la “provincia del Khorasan” si è distinta per la ferocia degli attacchi, rivolti in particolare contro la minoranza sciita degli hazara e contro i civili. Ma già prima dell’ingresso del Califfo in Afghanistan, i civili sono sempre stati le principali vittime del conflitto, come testimoniano i rapporti redatti da Unama, la missione delle Nazioni Unite a Kabul. Le organizzazioni non governative sono diventate un bersaglio privilegiato. Solo nel 2017, 17 operatori umanitari uccisi, 32 feriti, 47 sequestrati. È emblematica la decisione dello scorso ottobre della Croce rossa internazionale - simbolo di neutralità nei conflitti - di ridurre in modo significativo la propria presenza in Afghanistan, dopo decenni di attività sul campo. Save the Children opera nel Paese centro-asiatico dal 1976, fornisce servizi a milioni di bambini, e ora ha dovuto interrompere temporaneamente le proprie attività. Per i barbuti del Califfo, si trattava di attività di proselitismo, punibili con la morte, per molte famiglie, di servizi fondamentali. Il governo afghano, corrotto e paralizzato dall’antagonismo tra il presidente Ashraf Ghani e il quasi “primo ministro” Abdullah Abdullah, non riesce a garantire i servizi di base a tutti i propri cittadini. Ci sono aree rurali povere e dimenticate. Le tante organizzazioni non governative suppliscono, colmano il deficit di efficienza di uno Stato che si regge soprattutto sul sostegno - finanziario e politico - della comunità internazionale. Da cui arrivano le rituali condanne dell’attentato terroristico. Ma a molti afghani non sfuggono le contraddizioni, l’ipocrisia: perché chi condanna gli atti di terrorismo continua a ritenere sicuro il Paese, tanto da rimpatriare gli afghani arrivati, per esempio, in Europa? Egitto. Avvocati in pericolo chi fermerà la deriva egiziana? di Giulia Merlo Il Dubbio, 25 gennaio 2018 Gli avvocati, quali tutori dei diritti, sono minacciati in molti stati del mondo. Ieri si è svolta presso il Consiglio Nazionale Forense la celebrazione della Giornata internazionale degli avvocati in pericolo, che quest’anno è stata dedicata alla situazione egiziana, anche in considerazione del vicino anniversario dalla scomparsa del ricercatore italiano Giulio Regeni. All’evento (cui si sono connessi in streaming anche gli ordini degli avvocati di Venezia, Napoli, Oristano, Milano, Messina e Siracusa) ha partecipato l’avvocato egiziano Mohamed Azab, componente del Comitato egiziano per i diritti economici e sociali. “Quello del vostro Giulio Regeni, purtroppo, non è l’unico tragico caso di scomparsa e omicidio di civili. Per ricordarne solo un altro, un pacifista è stato prelevato dalla polizia e linciato e, a due anni dai fatti, ancora i colpevoli non sono stati punti”, ha raccontato Azab, il quale ha descritto il regime di terrore in cui vivono gli avvocati nel suo paese. “Noi siamo tute- lati da garanzie costituzionali, ma gli avvocati vengono comunque perseguitati, in particolare i difensori dei diritti umani. Nel paese ci sono 600mila difensori e il loro lavoro di difesa viene ostacolato a livello burocratico, perché sono complicati gli incontri con i detenuti e l’ottenimento delle copie degli atti. Inoltre, il regime ha preso di mira chi difende manifestanti, attivisti politici e sindacalisti”, ha spiegato. Per questo, il rappresentante dell’avvocatura egiziana ha chiesto un intervento attivo da parte dei colleghi italiani: “La solidarietà non basta, ci serve che voi facciate pesare la vostra presenza nelle commissioni internazionali e che esercitiate pressione perché l’opinione pubblica venga sensibilizzata”, ha chiesto. Un messaggio di aiuto recepito dal presidente della Commissione diritti umani del Cnf, Francesco Caia. All’evento, cui hanno preso parte anche il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma con la consigliera Cristina Tamburro e il presidente della Camera Penale di Roma Cesare Placanica, sono intervenuti il presidente del Comitato interministeriale per i diritti umani, Fabrizio Petri e Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia. “È importante che un’istituzione come il Cnf scenda in capo per i diritti, da parte mia c’è la piena disponibilità a collaborare”, ha detto Petri. Ruffini, invece, ha ricordato il caso Regeni: “Il caso di Giulio, un italiano che è stato privato della vita in modo brutale, ci lascia un’eredità pesante. La sua tragica vicenda ha lasciato un segno profondo, che rimane a due anni di distanza, tanto da trasformare Regeni in un difensore dei diritti umani in Egitto, un paese vicino ma dove i diritti umani non sono mai stati pienamente rispettati”. Tra gli interventi, anche quello di Barbara Spinelli, avvocata italiana fermata in Turchia perché attivista in favore dei diritti dei colleghi curdi e membro dell’associazione Giuristi democratici/ Elhd. “La situazione egiziana è particolarmente difficile, soprattutto per le avvocate, che vedono i loro diritti violati come prassi da parte della polizia. In particolare, le avvocate femministe sono perseguitate per le loro posizioni politiche e per le difese che assumono”, ha spiegato, aggiungendo come “Un dato grave è la mancata adesione dell’Egitto alla convenzione contro le sparizioni forzate, un fenomeno diffusissimo nel paese africano”. Sulla stessa linea anche Ezio Menzione, rappresentante dell’Unione Camere Penali, il quale ha sottolineato come “le pene di morte sono in continuo aumento, con un dato che si aggira intorno alle 100 uccisioni l’anno, cui si associa il numero degli scomparsi: più di un migliaio negli ultimi tre anni”. Per questo, ha aggiunto, “è importante sostenere le iniziative dei gruppi di attivisti egiziani, molti dei quali avvocati, che stanno tentando di ottenere una moratoria di 5 anni per l’esecuzione delle condanne a morte”. La testimonianza della situazione egiziana, dunque, ha restituito l’istantanea di come un paese mediterraneo strettamente collegato all’Italia abbia subito un pericoloso arretramento nella tutela dei diritti umani, anche per quanto riguarda l’esercizio della professione forense e il diritto di difesa. Vietnam. Carcere per 12 anni all’eremita buddista dissidente asianews.it, 25 gennaio 2018 Vuong Van Tha, suo figlio ed i suoi due nipoti sono stati arrestati il 18 maggio 2017. Egli ha usato un altoparlante per denunciare “errori e crimini” del governo. Il processo si è svolto in segreto, senza avvocati difensori, né testimoni. Un tribunale della provincia sud-occidentale di An Giang ha condannato un eremita buddista a 12 anni di carcere per aver “diffuso propaganda contro lo Stato”. Fonti a conoscenza del processo segreto riportano che la sentenza è stata emessa ai sensi dell’articolo 88 del codice penale, una disposizione spesso utilizzata dal governo comunista per mettere a tacere il dissenso. Vuong Van Tha, suo figlio Vuong Thanh Thuan ed i suoi due nipoti, Nguyen Nhat Truong e Nguyen Van Thuong, sono stati arrestati il 18 maggio 2017, dopo che le forze di sicurezza ne avevano assediato la casa per quasi due mesi. Tha, membro della setta buddista Hoa Hao, non riconosciuta dal governo, da allora è detenuto in regime di isolamento nella prigione di Bang Lang, nel distretto di Long Xuyen. Prima del suo arresto, Tha ha usato un altoparlante per denunciare quelli che definisce “errori e crimini” del governo vietnamita. Nell’agosto del 2016, Tha era uscito dal carcere dopo aver scontato una condanna a tre anni per “abuso delle libertà democratiche con lo scopo di violare gli interessi dello Stato, i diritti e gli interessi legittimi di organizzazioni e cittadini”. Cong Ly Dan Toc, uno scrittore il cui nome significa “Giustizia per la nazione” riferisce che Tha è stato condannato in assenza di avvocati difensori o della sua famiglia. “Tha ha fortemente protestato durante il processo perché non ha potuto vedere suo figlio. Ha anche chiesto alla corte perché l’udienza non fosse pubblica, visto che la corte stessa è chiamata Tribunale popolare. Ha infine richiesto i suoi avvocati, poiché non vi era nessuno a rappresentarlo”, afferma Cong Ly Dan Toc. “Urlava in segno di protesta ed è stato sottomesso con la violenza prima di essere portato in una stanza privata, dove è stato condannato. Quando Tha è stato assoggettato, i suoi due nipoti hanno ripetutamente sbattuto la testa contro il tavolo, cercando di suicidarsi”, aggiunge il blogger. La fonte riporta che mentre Tha ha ricevuto una condanna a 12 anni di carcere, suo figlio è stato condannato a sette anni ed i suoi due nipoti, entrambi analfabeti, a sei. L’avvocato Nguyen Kha Thanh, riconosciuto dal tribunale popolare di An Giang come difensore dell’imputato, non ha potuto partecipare al processo. Egli dichiara di non saper nulla a riguardo e di non aver potuto contattare la moglie e la figlia di Tha.