Alternative ampie al carcere. Innalzato il limite di pena per accedere alle misure di Claudia Morelli Italia Oggi, 24 gennaio 2018 Lo schema di decreto delegato di riforma dell’ordinamento penitenziario è alle Camere. Misure alternative al carcere ad ampio raggio: viene innalzato a 4 anni il limite di pena da eseguire per le domande di accesso alle misure alternative, si semplifica la procedura per accedervi dopo un anno di osservazione, cadono alcuni automatismi preclusivi al loro riconoscimento. Sono infatti eliminate le attuali preclusioni per i condannati per reati collegati alla criminalità organizzata e alla immigrazione clandestina sempreché non si tratti di ipotesi di eccezionale gravità o pericolosità del soggetto, sia provato un collegamento stabile con la organizzazione criminosa e non abbiano ricoperto ruoli chiave nella struttura organizzativa. L’eventuale collaborazione con la giustizia potrà avere un ruolo. Centrale diventa il ruolo della magistratura di sorveglianza laddove la comunicazione del procuratore nazionale o distrettuale relativo al collegamento con la organizzazione criminosa non avrà più effetto preclusivo per l’accesso alle misure. Alle misure alternative potranno accedere anche i condannati per violenza sessuale, che però potranno richiedere di essere sottoposti volontariamente a trattamento terapeutico dopo la commissione del fatto e prima che abbia inizio la esecuzione della pena. Sono sempre esclusi, dalla ipotesi di richiedere ed eventualmente accedere alle misure alternative, i condannati per reati di mafia e terrorismo. Sostanzialmente fuori dalla riforma, invece, il tema della promozione del lavoro penitenziario intra ed extra murario. Lo schema di decreto delegato di attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario, contenuta nella legge 103/2017 è di quelli che scottano. Il provvedimento è all’esame delle commissioni parlamentari, che dovranno esprimere un parere. Ma già la commissione giustizia della camera ha deciso di ascoltare in audizione, giovedì prossimo, le rappresentanze di molti operatori per sondare terreno e opinioni. Per il ministero, per la commissione ministeriale che ha studiato la riforma, presieduta da Glauco Giostra, e per tante riflessioni maturate in seno agli Stati generali dell’esecuzione penale, contano i numeri: chi espia la pena in carcere delinque ancora nel 68% (recidiva), contro il 19% di chi ha potuto usufruire; percentuale che scende all’1% per coloro che hanno potuto reinserirsi nel mondo del lavoro. Senza contare le sentenze della Corte Edu, della Corte costituzionale e della Corte di cassazione e la sentenza Torreggiani che, proprio a inizio legislatura ha costretto l’Italia a fare una riflessione approfondita sulle condizioni disumane vissute all’interno delle carceri nazionali. D’altra parte, ancora oggi la situazione è grave: con quasi 57 mila detenuti al 30 giugno 2017, il tasso di affollamento è salito intorno al 113% (113 detenuti ogni 100 posti a disposizione), 5 punti in più del 2016, e sempre più vicino al tasso limite per cui l’Italia è stata condannata. L’estensione dell’accessibilità alle misure alternative (lavoro esterno, permessi premio, affidamento in prova, detenzione domiciliare, semilibertà) dopo un anno di osservazione del detenuto, almeno sulla carta, perché comunque sarà il giudice a decidere, è conseguenza del principio di delega che ha chiesto al governo di eliminare gli automatismi preclusivi fondati pressoché unicamente sul tipo di reato e non sulla personalità del singolo detenuto/condannato. Da qui la scelta di restringere l’area dei reati certamente esclusi e di prevedere la possibilità anche per coloro che scontano l’ergastolo, per i quali lo schema rivede i limiti all’accesso (e non li elimina). La previsione di percorsi riparativi, collegati anche al tipo di reato commesso, e un ferreo controllo da parte della polizia penitenziaria, in un sistema anche di semplificazione delle procedure, dovrebbe rendere “più umana” l’espiazione della pena. Viene profondamente rivisto l’istituto dell’affidamento in prova: al condannato, sottoposto a un periodo di osservazione iniziale, saranno dettate prescrizioni adeguate alle nuove responsabilità, anche in funzione riparativa nei confronti della vittima del reato se disposta ad un percorso di mediazione. E cambia la detenzione domiciliare: potranno svolgersi attività utili al reinserimento sociale, con una valutazione del giudice che dovrà soppesare le esigenze di sicurezza. Isolati e messi sotto terra: “area riservata” al super 41bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 gennaio 2018 Socializzazione ridotta al minimo e spazi angusti, come più volte denunciato dal Cpt e dal Garante. Le testimonianze dei detenuti riportano condizioni di vita ai limiti della tortura, per alcuni insostenibile: come nel caso di Francesco Schiavone, cugino di “Sandokan”, che si è dissociato. Ulteriore riduzione dell’ora di socialità, isolamento pressoché totale, completamente al buio perché il più delle volte si è internati sottoterra. Un super 41bis per alcuni condannati al 41bis. Parliamo della cosiddetta “area riservata” che non ha nessun fondamento normativo, eppure è un atto amministrativo che viene applicato per i boss mafiosi di un certo calibro. Se già il 41bis è al limite della Costituzione - è nato come misura emergenziale e avrebbe dovuto durare per un periodo limitato di tempo, ma poi è diventato perenne grazie alla legge del 2002 sotto il governo Berlusconi e reso ancora più duro nel 2009 sempre con il governo di centrodestra, l’area riservata sospende completamente il dettato costituzionale. Sì, perché questo regime ulteriormente duro è stato più volte messo all’indice dagli organismi internazionali come il comitato europeo per la prevenzione sulla tortura (Cpt), ma anche dal dossier della commissione dei diritti umani preseduta dal senatore Luigi Manconi e, non da ultimo, dal Garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma. Il Cpt ha evidenziato il “quasi isolamento” previsto dal regime speciale di questa area riservata caratterizzato da un accesso limitato all’aria aperta, una socializzazione ridotta al minimo e con possibilità di accedere solo a spazi angusti. In alcune carceri, queste aree riservate riservano un isolamento totale. Basti pensare al caso segnalato da Mauro Palma nella sua relazione del 2017. Il Garante parte dalla riflessione sull’applicazione congiunta del regime di sospensione delle regole del trattamento penitenziario previsto dall’articolo 41bis, della sorveglianza speciale di cui all’articolo 14 bis e della pena dell’isolamento diurno prescritta dall’articolo 72 che danno luogo a stati di isolamento prolungato, protratto anche per molti anni, che incidono gravemente sull’integrità psichica e fisica della persona detenuta. Palma lo ha riscontrato nella Casa circondariale di Tolmezzo dove aveva incontrato un detenuto che era collocato nell’area riservata ed era in isolamento continuo da sei anni, senza poter accedere ad alcuna anche minima forma di socialità. Durante la visita effettuata dalla delegazione del Garante, la persona si presentava in condizioni igieniche appena sufficienti e riferiva di soffrire di cecità dall’occhio sinistro per “foro maculare” e ridotta visibilità al destro per “cellophane maculare”. La condizione di isolamento continuo protratta per sei anni, verosimilmente responsabile anche del decadimento fisico, psichico e igienico del detenuto che trascorre le proprie giornate soltanto ascoltando la radio (non potendo nemmeno guardare la televisione a causa del difetto visivo), secondo Mauro Palma pone concretamente la questione della compatibilità con i parametri dell’umanità della pena e del divieto di trattamenti inumani e degradanti dettati dalla Costituzione e dall’art. 3 della Convenzione europea per la tutela dei diritti umani. Alla richiesta del Comitato europeo per la prevenzione della tortura avanzata nel 2008 di chiarire quale fosse la norma che istituisce tali aree, le autorità italiane l’hanno individuata nell’art. 32 del regolamento penitenziario, il quale prevede una separazione del detenuto che abbia un comportamento che richiede particolari cautele dal resto della comunità carceraria o l’assegnazione a istituti e sezioni per motivi cautelari, e cioè per la tutela dello stesso detenuto o dei compagni da possibili aggressioni o sopraffazioni. Eppure la spiegazione non risulta esaustiva visto che, nel caso delle aree riservate, manca la finalità di tutela del destinatario del provvedimento, che legittima l’assegnazione dell’art. 32. Inoltre, consistendo il regime speciale del 41bis nella sospensione totale o parziale dell’applicazione del normale regime carcerario, in presenza di ragioni di ordine pubblico e di pubblica sicurezza, il riferimento a una fonte subordinata disciplinante regimi detentivi ordinari non sembrerebbe idoneo a giustificare la scelta di ricorrere a tale isolamento. Un super 41bis così duro, al punto che l’amministrazione passata, per non subire accuse di disumanità, ha dovuto inventarsi di trovare per ogni detenuto isolato in queste condizioni quello che nel gergo carcerario viene definito “dama di compagnia”, ovvero un altro detenuto sacrificato per dare una parvenza di umanità. Cosa significa? Oltre ai mafiosi di grosso calibro, vengono sacrificate altre persone che appartengono alla mafia di “basso rango”. Per capire meglio la durezza di tale regime, riportiamo una testimonianza tratta dal libro di Ornella Favero, giornalista e direttrice della rivista Ristretti Orizzonti, che ha una redazione composta da 35 detenuti del carcere “Due Palazzi” di Padova. Il libro si intitola “Cattivi per sempre? Voci dalle carceri: viaggio nei circuiti di Alta Sicurezza”, uscito per la collana Le Staffette, edizioni Gruppo Abele. Raccoglie le storie di alcuni detenuti che hanno vissuto anni di regime duro al 41bis. Tra questi c’è l’ergastolano Biagio Campailla che arrivò al 41bis dopo aver vissuto nel carcere, dignitoso, del Belgio. Ad un tratto del suo percorso detentivo, dal 41bis “normale” (sempre se può definirsi tale) era stato messo nell’area riservata. “Per dieci anni sono stato isolato totale - racconta nel libro -, in una cella di un metro e cinquantadue di larghezza e due metri e cinquantadue di lunghezza compreso il letto e tutto, non mi arrivava nessun raggio di luce, perché era proprio come sotto terra”. Campailla poi spiega il trattamento di “socialità”: “Nel regime di 41bis area riservata, tu vai al massimo con un’altra persona, ti assegnano un altro compagno e ci sono anche dei periodi che per mesi e mesi rimani da solo; invece nelle sezioni di 41bis non area riservata, sei assegnato con tre persone, puoi andare per quelle ore d’aria con quelle tre persone, puoi svolgere tutto con quelle tre persone”. Il regime 41bis in area riservata è super duro, così duro che diventa per alcuni una tortura insostenibile. Così come accadde al cugino del capoclan Francesco Schiavone, suo omonimo detto “Cicciarello”, che lo portò a dissociarsi. “Non sentivo alcun rumore quando ero in cella - aveva spiegato ai giudici Schiavone - nemmeno una porta sbattere o una persona chiacchierare. Stavo impazzendo”. Eppure il 41bis ufficialmente non ha la funzione di portare la persona al pentimento, perché al contrario sarebbe una tortura. Oppure no? Ad oggi l’unica forza politica che chiede apertamente, da anni, il superamento del carcere duro è il Partito Radicale, a questo recentemente si è aggiunta la nuova formazione di sinistra radicale che si presenta alle elezioni politiche. Si chiama “Potere al popolo” e sul programma elettorale ha scritto nero su bianco che ne chiede l’abolizione. Riforma Orlando, detenuti in sciopero della fame e della spesa tg24.sky.it, 24 gennaio 2018 I detenuti, in sciopero della fame e della spesa, hanno sottolineato la forma “non violenta” della protesta. Protesta non violenta ad Avellino e a Palermo per “garantire condizioni più umane e meno degradanti”. Tra i problemi in cella c’è la mancanza di medici specialisti esterni. Alcuni detenuti, per il momento solo di Avellino e Palermo, hanno cominciato uno sciopero della fame e della spesa. Lo hanno fatto per chiedere al governo di portare a termine “l’iter di approvazione dei decreti legge della cosiddetta Riforma Orlando”. Una protesta “non violenta” che sperano possa servire a garantire “condizioni più umane e meno degradanti” del regime detentivo e il diritto alla salute. La protesta della Casa Circondariale di Bellizzi - In occasione della recente visita nel carcere di Avellino del garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, era stata sottolineata la necessità di incrementare la presenza di medici specialisti esterni per ridimensionare i tempi di attesa ai quali devono sottostare i detenuti malati: nel corso del 2017, sono state 455 le visite esterne e 90 i ricoveri presso strutture ospedaliere. Ogni detenuto che viene sottoposto a visite e cure all’esterno del carcere, viene accompagnato in media da tre agenti della Polizia Penitenziaria, il cui organico sottostimato (208 su una pianta organica che ne prevede 297) non consente tempestività ed efficacia all’assistenza sanitaria. Sciopero della fame anche dei detenuti a Palermo - Massiccia l’adesione nelle due strutture detentive di Palermo: Pagliarelli e Ucciardone. Nel carcere già noto come Pagliarelli, lo scorso anno intitolato ad Antonio Lorusso, agente di polizia penitenziaria assassinato dalla mafia insieme al procuratore Scaglione, in 766 detenuti su 1.350 hanno aderito allo sciopero della fame. Un’adesione massiccia anche all’Ucciardone, carcere intitolato al maresciallo degli agenti di custodia Calogero Di Bona, ucciso dalla mafia nell’agosto 1979, dove 212 detenuti su 463 hanno rifiutato il cibo e la direttrice ha scelto di consegnarlo alla “Missione Speranza e Carità di Biagio Conte”. “Oggi ho incontrato i detenuti di Pagliarelli e dell’Ucciardone - ha spiegato il sottosegretario alla Salute Davide Faraone sul suo blog - Ho sentito da loro parole e richieste che stanno scritte nella nostra Costituzione”. “Fabio al Pagliarelli - scrive Faraone - ha commesso tanti errori, lo ammette, e vuole pagare il suo conto con la giustizia, tutto, ma lo vuole fare ‘non da animalè, ma con un trattamento non contrario al senso di umanità. Gabriele sottolinea che la rieducazione del condannato passa anche da pene alternative, Antonino chiede soltanto di essere curato e dice che mancano non solo i farmaci per patologie gravi, ma anche le compresse contro l’influenza o i gastroprotettori e che la doccia fredda continua a distruggere i suoi polmoni”. I risultati di Orlando: numeri “buoni”, intercettazioni “cattive” di Liana Milella La Repubblica, 24 gennaio 2018 Non ci convincerà, il Guardasigilli Andrea Orlando, che la sua legge sulle intercettazioni è “cosa buona”. Né tantomeno che è altrettanto “buona” quella sulla prescrizione. Sulle prime ha fatto un favore a Renzi e messo comunque un bavaglio alla stampa riducendo di fatto il numero degli ascolti disponibili; sulla seconda non ha avuto il coraggio di andare fino in fondo e bloccare la prescrizione dopo il primo grado. Ma tant’è. Comunque Orlando, da ministro della Giustizia, ha lavorato ogni giorno e affrontato questioni, come quella del carcere, certo non mediaticamente produttiva, ma umanamente indispensabile. I numeri, adesso, gli danno soddisfazione. Sono i tradizionali numeri di bilancio dell’anno giudiziario che si è appena concluso e che diventano oggetto di discussione alla Suprema corte prima e nei singoli distretti giudiziari subito dopo. Due cifre su tutte, -3,2% nelle pendenze civili e -4,3% in quelle penali, svettano nella relazione sulla giustizia depositata dal Guardasigilli in Parlamento. Riguardano l’andamento dei processi civili e penali e il loro numero complessivo, con un raffronto tra il 2013 e il 2017. Orlando è ministro della Giustizia dal 2014. Guardiamoli. Al dicembre 2013 i processi civili pendenti in Italia erano 4.681.098. Alla stessa data del 2017 risultano essere 3.634.146. La Banca mondiale, nella classifica Doing Business, vede il miglioramento e sposta l’Italia dalla casella 160 in cui era nel 2013 alla 108 del 2017. Resta però la durata dei processi civili in primo grado, ben 981 giorni, anche se in calo rispetto al passato. Trend simile nel penale: 3.027.764 processi pendenti al 30 giugno 2017, il 4,3% in meno rispetto al 2013. Cala il debito della legge Pinto, per i processi troppo lenti, 456 milioni nel gennaio 2015, 338 milioni di euro a luglio 2017. Tant’è che il Consiglio d’Europa, a fine 2017, chiude 1.747 procedure della Corte di Strasburgo proprio per l’eccessiva durata dei processi civili. Infine il carcere, l’8 gennaio 2013, quando Strasburgo condanna l’Italia per la cattiva detenzione, in cella c’erano 65.755 persone. Al 16 ottobre 2017 ce n’erano 57.823. 900 i posti in più in cella. Novità per i recidivi: 68,4% per chi espia la pena in carcere, 19% per chi fruisce di una pena alternativa, 1% per chi è stato reinserito nel circuito produttivo. Nel penale cala lo stock. Resta il nodo-prescrizione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2018 Resta il nodo prescrizione. Ma anche nel penale diminuisce lo stock di procedimenti arretrati, confermando una tendenza tutto sommato abbastanza positiva che coinvolge tutta l’amministrazione della giustizia. Il numero complessivo di giudizi pendenti infatti è diminuito del 4,3%, attestandosi a 3.027.764 al 30 giugno 2017. Una riduzione il cui merito è da attribuire a una pluralità di cause che hanno permesso agli uffici di recuperare efficienza. Da una parte è stato messo un argine ai fascicoli in entrata per effetto di un doppio intervento di depenalizzazione varato all’inizio del 2016 (intervento che ha presumibilmente contribuito a fare segnare una diminuzione quasi dell’11% delle nuove iscrizioni); dall’altro sono stati messi in campo strumenti per evitare la dispersione di risorse su procedimenti di limitato (o nullo) allarme sociale: è il caso delle nuove cause di non punibilità per tenuità del fatto oppure, da pochi mesi, per effetto di condotte riparatorie. E ancora da “pesare” in termini di impatto sono poi altre misure come l’allargamento delle possibilità di patteggiamento oppure i limiti alle impugnazioni sia da parte del pubblico ministero sia da parte dell’imputato. I procedimenti con autore noto iscritti nell’anno giudiziario 2016/2017 sono diminuiti del 12,6% rispetto all’anno precedente con un andamento diversificato: analogamente a quanto registrato negli anni passati, crescono i procedimenti di competenza della Direzione distrettuale antimafia (+8,2%), mentre diminuiscono quelli ordinari (-11,3%) e quelli di competenza del giudice di pace (-21,3%). Il medesimo trend si registra nelle definizioni, con un aumento del 9,8% per i procedimenti di competenza della Dda rispetto al precedente anno giudiziario, ed una diminuzione del 14,5% per i procedimenti relativi a reati ordinari. Per gli uffici di Tribunale, nel complesso, l’anno giudiziario 2016/2017, rispetto al precedente, evidenzia una diminuzione delle iscrizioni e definizioni rispettivamente del 10,8% e del 14,3 per cento. Anche per i procedimenti di competenza del giudice di pace è confermato l’andamento generale con la diminuzione di nuove iscrizioni e definizioni nel dibattimento nella misura dell’11% e del 20 per cento. I dati a livello nazionale mostrano però che la prescrizione conserva un’incidenza sulla sorte dei procedimenti e anzi evidenziano una lieve crescita del fenomeno: si confermano le differenze tra i diversi distretti e la particolare rilevanza del dato nel grado di appello, in cui la prescrizione, nel primo semestre del 2017, ha inciso per il 25% circa. E se la riforma della prescrizione approvata ad agosto deve ancora dispiegare suoi effetti, con l’aumento dei termini di sospensione in caso di condanna nel grado precedente di giudizio, si è però intervenuti per ridurre i casi di appellabilità dei giudizi (di norma, il pm non potrà più appellare le pronunce di condanne e l’imputato quelle di assoluzione) e rivedere gli organici. Un faro è stato poi acceso dal ministero della Giustizia sulla situazione di alcune Corti d’appello in particolare sofferenza (le Corti d’appello di Venezia, Roma, Napoli e Torino incidono per oltre il 50% sul totale delle definizioni per prescrizione a livello nazionale) per concentrare su queste iniziative mirate che consentano di superare la situazione di accumulo di procedimenti risalenti. Quanto al carcere, senza dubbio il tema più rilevante di queste ultime settimane di legislatura con un denso decreto di riforma dell’ordinamento penitenziario approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 22 dicembre, al 31 dicembre i detenuti erano in tutto 57.608, in aumento malgrado la maggiore capienza degli istituti di circa 900 posti dal 1° gennaio 2016 al 31 dicembre 2017). In ogni caso, per effetto delle modifiche legislative via via introdotte, alcuni risultati sono stati ottenuti, visto che erano 65.755 le presenze all’8 gennaio 2013 (data di pubblicazione della sentenza Torreggiani della Corte europea dei diritti dell’uomo che sanzionò l’Italia per l’invivibilità delle nostre carceri). Determinante su questo fronte sarà allora il nuovo ordinamento penitenziario che molto scommette sulle misure alternative alla detenzione. E con ragione se si riflette sui dati relativi alla recidiva: tra chi sconta la pena in carcere, il tasso di recidiva è del 68,4%, ma scende al 19% per chi ha fruito di pena alternativa, per crollare all’1% tra coloro che sono stati inseriti nel circuito produttivo. Processi civili, una svolta lenta ma significativa di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2018 Non sarà la rivoluzione, ma segnali di inversione di tendenza sono evidenti. Certo ancora insufficienti e però significativi. La lettura della Relazione sull’amministrazione della Giustizia depositata da poche ore in Parlamento (non ci sarà dibattito visto che le Camere sono state sciolte), permette di scattare una fotografia che coincide quest’anno con la fine della legislatura e assume le caratteristiche di un bilancio. Rispetto al dicembre 2013, in cui erano pendenti 4.681.098 cause civili, alla data del 31 dicembre 2017 il totale nazionale (stimato) dei fascicoli pendenti risulta, al netto dell’attività di volontaria giurisdizione (giudice tutelare e verbalizzazione di dichiarazione giurata), pari a 3.634.146. L’andamento nazionale del carico dei procedimenti civili conferma, anche per l’anno 2017, il trend decrescente, con una riduzione della pendenza pari al 3,2 per cento. Molto hanno inciso fattori come lo spazio più ampio dato alle soluzioni alternative delle controversie e la ormai chiara fisionomia di un circuito alternativo all’esercizio più consueto della giurisdizione, affidato in larghissima parte agli avvocati. Come pure significativo è stato il contributo della digitalizzazione dei procedimenti che ha dato risultati assai significativi per alcuni procedimenti “basici” come i decreti ingiuntivi. Va piuttosto osservato con qualche rammarico come lo scorcio finale della legislatura abbia impedito l’approvazione di due riforme “di struttura” come quella della procedura civile (al netto di un tentativo effettuato con l’ultima manovra ma poi ritirato per l’opposizione di magistrati e avvocati) e della Legge fallimentare. In dettaglio, al 31 dicembre 2017, le iscrizioni annuali per tutti i gradi di giudizio sono pari a 3.252.953, mentre le definizioni a 3.361.116 e le pendenze a 3.634.146, ossia 119.849 cause in meno rispetto allo stesso periodo del 2016. Infatti, il totale delle pendenze al 2003 era pari a 4.597.480 procedimenti, contro i 3.753.955 del 31 dicembre 2016 e i 3.634.146 del 31 dicembre 2017. Complessivamente, la riduzione più marcata dei procedimenti civili pendenti si è verificata in Corte d’appello, nonostante l’aumento delle iscrizioni complessive: il risultato è l’esito della crescita delle definizioni, del crollo delle pendenze per le cause in materia di equa riparazione (che sono scese agli attuali 11mila procedimenti, pari a un terzo di quelle presenti soltanto 4 anni fa) e della forte riduzione dei procedimenti pendenti in materia di lavoro e previdenza. Presso i tribunali la diminuzione della pendenza è più sensibile per i procedimenti in materia di lavoro e per i procedimenti contenziosi, mentre per le procedure esecutive la flessione della pendenza è estremamente contenuta. A calare sono i nuovi procedimenti per separazioni e divorzi, soprattutto per i divorzi consensuali, le cui iscrizioni registrano un -13% nell’ultimo anno, dato che sicuramente è influenzato dalla possibilità di risoluzione stragiudiziale del matrimonio. Per il tribunale ordinario la diminuzione complessiva della pendenza è essenzialmente dovuta alla riduzione complessiva delle iscrizioni, non tanto invece alla migliorata capacità di smaltimento, tenuto conto della contestuale riduzione, nel 2017, del numero complessivo delle definizioni rispetto al 2016. Nel 2017 i tempi di definizione dei procedimenti contenziosi in primo grado sono scesi a 981 giorni, mentre la durata media dei procedimenti, calcolata sull’intero settore civile del tribunale (contenzioso e non contenzioso) - e, cioè tenendo conto sia di procedimenti con tempi più elevati (per esempio contenzioso commerciale) che di quelli di più rapida definizione (decreti ingiuntivi, volontaria giurisdizione), è stata al 30 giugno 2017 di 360 giorni. La Cassazione è l’unico ufficio in controtendenza rispetto alla generalizzata riduzione delle pendenze, mostrando un sia pur lieve aumento (106.856 al 30 giugno 2017) rispetto allo stesso periodo del 2016 (106.467). Ma qui incide in maniera determinante il peso delle controversie tributarie che, da sole, rappresentano quasi la metà dell’intero arretrato. Il dettaglio delle materie trattate in Corte d’appello permette di evidenziare la riduzione della pendenza, al 30 giugno 2017, di 6.797 procedimenti per eccessiva durata del processo rispetto al medesimo periodo dell’anno precedente. Di rilievo la riduzione delle pendenze in materia di previdenza (37.097 al 30 giugno 2017 rispetto ai 44.211 del 2016) e di lavoro (47.436 al 30 giugno 2017 rispetto ai 53.879 del 2016). Presso i tribunali ordinari, nell’ultimo anno giudiziario si osserva un calo dei procedimenti pendenti per il contenzioso ordinario (614.283 al 30 giugno 2017 rispetto ai 643.047 del 30 giugno 2016) e anche per quello in materia commerciale (369.207 al 30 giugno 2017 rispetto ai 394.775 del 30 giugno 2016). In calo risultano anche le pendenze del settore lavoro e previdenza ed i fallimenti (92.840 al 30 giugno 2017 rispetto ai 94.969 del 30 giugno 2016). Mafie. Quando si confondono le Cupole di Alessia Candito La Repubblica, 24 gennaio 2018 Dice vecchia regola non scritta del mercato e del commercio: “Se non lo puoi superare, imitalo”. E la ‘Ndrangheta, a Reggio che è la sua capitale e nella Calabria che è il suo feudo, l’ha seguita alla perfezione. Fin dall’Ottocento, raccontano gli archivi, la nascente picciotteria calabrese - o “maffia” come appare in alcuni scritti - si è infilata dietro gli altari, sotto le statue in processione, nelle parrocchie e nelle canoniche, si è mischiata a flagellanti e si è nascosta nelle confraternite. Alla ricerca di legittimazione, l’organizzazione nata nelle carceri borboniche che divideva con massoni “mangiapreti” e da questi ispirata, ha preso al cattolicesimo santi, simboli e liturgie per mischiarle ai propri rituali e giuramenti. Un modo per raccontarsi non in contrapposizione, ma in perfetta linea di continuità con quella religione che all’epoca era forse l’unica matrice di identità unica della sparpagliata popolazione calabrese. Risultato, un sincretismo criminale, a metà fra culto laico e santerìa meridionale, che ha trasformato i santuari in covi di ‘ndrangheta, santi e madonne in protettori di latitanti e i beati in patroni degli omicidi. Un’operazione perfettamente riuscita. E contro cui la Chiesa, quanto meno fino a qualche tempo fa, non ha certo fatto barricate. Salvo qualche rara eccezione, nella storia del secolo breve, non risulta che la Chiesa in Calabria si sia spesso scagliata contro chi sui territori distribuiva pallottole con l’ecumenicità delle ostie durante la comunione. Innumerevoli latitanti si sono sposati davanti agli altari, hanno battezzato figli e allo stato non risulta che qualche boss sia morto senza il cosiddetto conforto dei sacramenti. Di rado poi, sacerdoti e soprattutto vescovi si sono scostati quando i boss sgomitavano per farsi vedere accanto a loro in processione, nelle chiese o durante pubbliche liturgie. Una necessità per i capimafia, ansiosi di dimostrare di essere potere reale, in grado di confrontarsi - se non di controllare - il potere spirituale. Una comodità per una Chiesa che al sud era in primo luogo feudataria e grazie a quell’esercito informale spesso si sentiva protetta contro braccianti affamati di terre e il “pericolo rosso”. C’è anche chi potrebbe anche aver perso di vista il confine fra le due organizzazioni. Così gli investigatori pensavano di don Stilo, potentissimo prete della Locride, grazie alla Dc “padrone” dei fondi per gli alluvionati di Africo, divenuti strumento per assicurarsi voti e anime, ma anche proprietario del collegio che ha regalato diplomi a più di un mafioso, in cui forse - dicono i pentiti - avrebbero soggiornato anche Luciano Liggio e Totò Riina. Sotto gli occhi benevoli della Chiesa calabrese, che non si è scomposta neanche quando il suo sacerdote è stato arrestato e condannato (sentenza poi miracolosamente annullata), don Stilo per decenni ha incontrato boss e picciotti “per ragioni di apostolato”. Allo stesso modo, per decenni sembra si sia sviluppata una sistematica e generale miopia, che ha impedito a tonache di ogni grado di vedere che gli ‘ndranghetisti compravano i banchi delle chiese e ne finanziavano la ristrutturazione, che i portatori delle vare erano noti picciotti o che santi e madonne in processione si inchinavano di fronte alle case dei boss. Pratiche tuttora molto in voga. Adesso però - quanto meno quando assurgono agli onori delle cronache - la Chiesa calabrese sembra reagire. Sorteggia e non mette all’asta i posti sotto la vara, rispedisce al mittente le offerte di imprese in odor di mafia, e non sembra più infastidirsi (troppo) per quei sacerdoti riottosi che si ostinano ad affrontare in prima linea i clan. Ma ancora inciampa in operazioni fin troppo cosmetiche. Quando è finito in manette don Pino Strangio, storico rettore di Polsi, santuario divenuto punto di riferimento mondiale della ‘Ndrangheta, la Chiesa calabrese si è affrettata a rimuoverlo dall’incarico. Ma ancora oggi, che da imputato risponde di concorso esterno e violazione della Legge Anselmi sulle associazioni segrete, don Strangio è il parroco di San Luca, uno dei paesi della Locride a maggiore densità mafiosa, da cui il santuario di Polsi dipende. Certo sarà un processo a stabilire eventuali responsabilità penali, ma talvolta non è necessario attendere una sentenza per valutare l’opportunità di rapporti, comportamenti e frequentazioni. Al netto delle annunciate scomuniche papali, c’è ancora tanto lavoro da fare. Omicidio preterintenzionale, aggravante dell’odio può convivere con la provocazione di Silvia Marzialetti Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2018 Corte di Cassazione - Sentenza 2630/2018. Nell’omicidio preterintenzionale, l’aggravante dell’odio razziale può convivere con l’attenuante della provocazione. Lo ha chiarito la Cassazione, con la sentenza 2630 del 22 gennaio 2018, bocciando il ricorso di un imputato marchigiano, accusato di omicidio preterintenzionale aggravato da finalità di odio razziale e con la concessione dell’attenuante. Nel ricorso l’uomo denunciava due violazioni di legge in merito alla mancata concessione della scriminante della legittima difesa e alla mancata esclusione dell’aggravante dell’odio razziale, definita “incompatibile con la concessa attenuante della provocazione”. La circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso, è configurabile non solo quando l’azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, “risulti intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori; ma anche quando essa si rapporti, nell’accezione corrente, ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, non avendo alcun rilievo la mozione soggettiva dell’agente”. Secondo i giudici, contrariamente a quanto richiesto dalla difesa con il ricorso, non appare applicabile la pacifica giurisprudenza della Corte in tema d’incompatibilità tra l’attenuante della provocazione e l’aggravante dei futili motivi, poiché non è possibile la coesistenza di stati d’animo diversi nella medesima azione. Invero, scrivono i giudici, una cosa è la coesistenza nella medesima azione criminosa di stati d’animo contrastanti, altra cosa è la coesistenza tra uno stato d’animo che attenui la gravità del fatto e una condotta, destinata a rendere percepibile all’esterno un sentimento di odio, senza che assuma rilievo la mozione soggettiva dell’agente: il tutto a non voler considerare, secondo quanto affermato dallo stesso ricorrente, il lasso di tempo intercorrente tra le espressioni razziste pronunciate dall’imputato e la reazione aggressiva della vittima, che vale a rendere insussistente la pretesa contemporanea coesistenza di situazioni soggettive diverse. Delle ritenute omesse risponde il cda di Laura Ambrosi e Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2018 Del reato di omesso versamento delle ritenute può rispondere ciascun componente del consiglio di amministrazione della società: ognuno infatti, disponendo di poteri di firma libera e disgiunta, può autonomamente adempiere all’obbligazione tributaria a prescindere dalla suddivisione interna di specifiche competenze. Ad affermare questo principio è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 2741 depositata ieri. Nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione di una società veniva disposto sequestro preventivo finalizzato alla confisca, su beni nelle loro disponibilità per il delitto di omesso il versamento delle ritenute della società. La misura cautelare veniva confermata dal Tribunale del riesame. Avverso tale decisione, ricorrevano gli amministratori in Cassazione, lamentando tra i diversi motivi, l’errata estensione della responsabilità penale all’intero consiglio di amministrazione, anziché imputarla esclusivamente al legale rappresentante della società. La Suprema corte, ritenendo infondata la doglianza, ha innanzitutto chiarito che la condotta penalmente rilevante non è l’omesso versamento delle ritenute nel termine previsto dalla normativa tributaria, ma il mancato versamento delle ritenute certificate (nella versione ante modifiche del Dlgs 158/2015) nel maggior termine stabilito per la presentazione della dichiarazione annuale relativa al periodo di imposta dell’anno precedente. Il reato si consuma così alla scadenza del termine lungo e non prima, con la conseguenza che fino a tale momento, il comportamento omissivo del contribuente non ha alcuna rilevanza penale. Da ciò consegue che la responsabilità potrebbe anche ricadere su un soggetto diverso da chi ha omesso i versamenti delle ritenute: potrebbe infatti accadere che l’amministratore nel corso dell’anno, quando cioè avvengono gli omessi pagamenti, non sia il medesimo in carica all’atto della presentazione della dichiarazione. Con riguardo poi alla sussistenza di un consiglio di amministrazione, i giudici di legittimità hanno precisato che i singoli componenti non sono chiamati a rispondere perché garanti dell’adempimento altrui, ma quali destinatari diretti dell’obbligo di versamento. Trattandosi di una società a responsabilità limitata, se l’ordinaria amministrazione è affidata a più persone disgiuntamente, ciascuno è autonomamente e singolarmente in grado di porre in essere gli atti estintivi delle obbligazioni della società. Il pagamento del debito tributario, peraltro, è un atto giuridico che qualunque amministratore può validamente compiere, non trattandosi di atto di gestione in senso stretto. L’eventuale suddivisione interna delle competenze non è opponibile a terzi e comunque non limita la capacità del singolo membro di compiere atti giuridici, tanto più se il potere di ciascuno è con firma libera e disgiunta. Ciascun amministratore poteva così compiere atti di ordinaria amministrazione di qualsiasi genere ed anche “estranei” al settore di propria competenza. Da qui il rigetto del ricorso. L’ergastolo a vita dev’essere abolito di Romano Gozzelino Il Mattino di Padova, 24 gennaio 2018 Ho letto con attenzione e commozione la lettera “dal carcere” (tra l’altro, scritta anche molto bene), a firma di Giuliano N., “giovane ergastolano”. (Il Mattino, 15/1). Leggendo, ho seguito passo per passo le riflessioni e i sentimenti espressi e mi sono in un certo modo immedesimato nella sua situazione. Non so come mi sentirei io al suo posto. Comunque, quello che lui scrive mi ha fatto molto pensare, confermandomi, peraltro, in alcune convinzioni personali che da tempo ho consolidato. Una cosa vorrei dire, anzitutto: per carattere e per esperienza vissuta, mi sento sempre portato a chiedermi, prima di giudicare, il perché una persona arriva a certi comportamenti, quali le cause che li determinano o che in qualche modo li favoriscono. Circa la capacità di recupero della persona detenuta in carcere, Giuliano dice giustamente che tutte le persone cambiano e “una persona può essere aggressiva a 20 anni e riflessiva a 30, invece un ergastolano non può cambiare perché sarà per tutta la vita quella persona che ha commesso il reato a 20 anni”. Come non condividere questa considerazione? Purtroppo, il credere nella possibilità della riabilitazione fa fatica a entrare nella nostra mentalità, vorrei dire nella nostra cultura “evoluta”. La persistenza stessa della pena dell’ergastolo a vita ne è una prova lampante. Mi pare che anche Papa Francesco si sia espresso a favore dell’abolizione dell’ergastolo a vita. Se, tramite il giornale, posso rivolgermi direttamente a Giuliano, che dice di essersi chiuso nella solitudine più totale, vorrei dirgli: no, cerca, se puoi, di reagire a questa tentazione, pur comprensibilissima. Hai scritto che scambi qualche parola con qualcuno. Forse potrebbe essere un punto su cui far leva, valorizzando al meglio le capacità che hai. Abbi, comunque, tutta la mia partecipazione, per quello che può valere. Io sono credente. Sono convinto che il Signore - qualunque sia la situazione in cui veniamo a trovarci - vuole sempre il nostro vero bene, anche se a volte facciamo fatica a capirlo e a crederlo. Permettimi di aggiungere che ti sono vicino con la mia preghiera. Anche tu prega per me, così come sai e come puoi. Coraggio! Un grande abbraccio. Como: suicidio in carcere, detenuto al Bassone si impicca con la maglietta quicomo.it, 24 gennaio 2018 Il personale di Polizia penitenziaria ha tentato di soccorrerlo in attesa dell’intervento del 118, ma per il detenuto di 44 anni, Michele Altobello, condannato per spaccio di sostanze stupefacenti, non c’è stato nulla da fare. La tragedia, che trova la causa in un disperato ed estremo gesto volontario, si è consumata all’interno di una sala del carcere Bassone di Como dove l’uomo stava attendendo di ricevere cure mediche dopo un’accesa lite con un altro detenuto. “L’uomo, di circa 44 anni, italiano - ha spiegato Alfonso Greco, segretario regionale del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria) - si è suicidato ieri sera, impiccandosi. L’Agente di Polizia Penitenziaria di servizio si è accorto dell’accaduto e ha dato l’allarme. Purtroppo sono stati vani i tentativi di soccorso per rianimarlo, anche con l’ausilio di altri colleghi e dello staff infermieristico. Il tragico fatto è avvenuto nella sala polivalente dell’istituto lariano, mentre aspettava di essere visitato a seguito di una colluttazione avvenuta qualche minuto prima con un altro ristretto italiano. Si disconoscono allo stato attuale le motivazioni che hanno indotto il detenuto a porre in essere l’insano gesto, compiuto usando la propria maglietta”. Palermo: il Sottosegretario alla Salute Davide Faraone “detenuti trattati come animali” palermotoday.it, 24 gennaio 2018 Il Sottosegretario alla Salute ha fatto tappa negli istituti penitenziari Pagliarelli e Ucciardone in occasione dello sciopero della fame organizzato in carcere: “Ho sentito da loro parole e richieste che stanno scritte nella nostra Costituzione, all’articolo 27 per la precisione”. A parlare è il sottosegretario alla Salute Davide Faraone che ieri si è recato negli istituti penitenziari Pagliarelli e Ucciardone in occasione dello sciopero della fame organizzato dal Partito Radicale, dall’associazione “Nessuno Tocchi Caino” e da “Opera Radicale, una mobilitazione nazionale per sollecitare le Commissioni parlamentari Giustizia di Camera e Senato ad esprimere un parere di conformità dei decreti alla legge delega approvati dal governo sulla riforma del sistema penitenziario. “Fabio al Pagliarelli - scrive Faraone - ha commesso tanti errori, lo ammette, e vuole pagare il suo conto con la giustizia, tutto, ma lo vuole fare “non da animale” ma con un trattamento non contrario al senso di umanità. Gabriele sottolinea che la rieducazione del condannato passa anche da pene alternative, Antonino chiede soltanto di essere curato e ci dice che mancano non solo i farmaci per patologie gravi ma anche le compresse contro l’influenza o i gastroprotettori e che la doccia fredda continua a distruggere i suoi polmoni e poi c’è Giuseppe che, con sentenza del giudice del 12 dicembre, avrebbe dovuto lasciare il carcere per essere accolto in una Rems, residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ma non c’è posto e rimane lì. Sono in due i detenuti dichiarati infermi, uno di loro proprio nelle scorse ore ha tentato il suicidio”. “Nella struttura intitolata ad Antonio Lorusso, agente di polizia penitenziaria assassinato dalla mafia insieme al procuratore Scaglione, due uomini legati dall’impegno contro la criminalità e per la rieducazione e il miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri, in 766 su 1350 oggi hanno aderito allo sciopero della fame. Un’adesione massiccia, così come all’Ucciardone, carcere intitolato al maresciallo degli agenti di custodia Calogero Di Bona, ucciso dalla mafia nell’agosto 1979, dove 212 detenuti su 463 hanno rifiutato il cibo e la direttrice ha scelto di consegnarlo alla Missione Speranza e Carità di Biagio Conte”. “Manca un ultimo passo - conclude - e credo che si debba fare in fretta. Così come occorre risolvere le criticità che abbiamo riscontrato in tema di diritto-dovere di cure ai detenuti, determinate spesso da un cortocircuito con le Aziende Sanitarie e con gli assessorati alla Salute. Da questo punto di vista, ancora una volta, ho riscontrato grande disponibilità e professionalità delle due direttrici degli istituti, Francesca Vazzana e Rita Barbera, due donne in gamba, due storie che incarnano quell’articolo 27 della Costituzione della Repubblica Italiana che dice: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Parole dei detenuti, parole di Papa Francesco”. Voghera (Pv): la direttrice del carcere smentisce “nessun progetto per pulire le tombe” La Provincia Pavese, 24 gennaio 2018 La notizia si è diffusa in un baleno su vari media, era anche interessante: ma era falsa. “Gira voce - afferma Maria Antonietta Tucci, direttrice del carcere di Voghera - che qui ci sarebbe un progetto per far pulire ai detenuti in carcere per omicidio, le tombe delle loro vittime. Ma è una follia totale. Non esiste un progetto del genere e non ho mai detto che è nostra intenzione avviarlo. Esiste in astratto un concetto di giustizia riparativa: ma certamente non con questa forma e modalità”. “Con rammarico deve affermarsi che l’argomento della giustizia riparativa e della mediazione penale, affrontato in data 17 U.S., in quanto richiesto, durante una cena organizzata da un Club Rotariano, riveste estrema delicatezza ed importanza e non è da confondersi con azioni di volontariato che si svolgono nell’ambito dell’Istituto Penitenziario di Voghera e che sono state decisamente fraintese da chi ha scritto l’articolo pubblicato in data 21 gennaio su queste colonne. Nessuno in questo istituto si reca a pulire le tombe delle proprie vittime. In particolare, si precisa che la scrivente ha voluto parlare di alcune iniziative di volontariato, utili per l’ammissione dei soggetti ad eventuali progetti di giustizia riparativa, che taluni detenuti compiono, sia mantenendo pulite le tombe, ma di un cimitero locale, ove naturalmente non riposano vittime di rei presenti in questo istituto, sia servendo nelle mense dei poveri, sia svolgendo attività di archivista presso il Tribunale di Pavia. Pertanto la sottoscritta ha posto l’accento sul fatto che è rilevante che i detenuti intraprendano azioni di tal genere, azioni simbolicamente risarcitorie, che favoriscono l’iniziativa di una rielaborazione critica dei fatti commessi. Duole ancora smentire che la scrivente non si è espressa in termini di “killer di mafia”, bensì di “detenuti condannati per alcuni reati previsti 4bis OP”. “e non 41bis O.P.”, categoria peraltro non presente presso questo istituto. In merito al comportamento di chi non ha voluto partecipare all’avvio del progetto di giustizia riparativa, la scrivente si è semplicemente soffermata a sottolineare le diverse reazioni dinnanzi al realizzarsi di tale iniziativa”. Aosta: carcere di Brissogne, al via le indagini sull’acqua “avvelenata” gazzettamatin.com, 24 gennaio 2018 La Procura di Aosta ha aperto un fascicolo per “condotte colpose contro la salute pubblica”. L’acqua potabile manca dalla Casa circondariale di Brissogne da ormai 5 mesi, probabilmente a causa di un guasto alla vasca di decantazione: ai 196 detenuti ed al personale viene quindi somministrata, da allora, acqua in bottiglia (2 litri al giorno a testa). Il carcere possiede un pozzo autonomo da cui pompa acqua ed è una società esterna che si occupa del servizio di approvvigionamento. A fine novembre la direzione ha richiesto l’allacciamento all’acquedotto comunale, ma fino al mese di marzo questo non sarà possibile. Dopo l’esposto del magistrato di sorveglianza di Novara Monica Calì, inviato anche all’Amministrazione penitenziaria e al provveditorato, la Procura di Aosta ha aperto un fascicolo contro ignoti, iscritto per condotte colpose che riguardano l’avvelenamento delle acque, quindi contro la salute pubblica. Il fascicolo è stato affidato al pm Eugenia Menichetti, sotto l’egida del procuratore capo Paolo Fortuna. L’indagine è in una fase iniziale: la procura di Aosta valuterà come procedere dopo aver acquisito le analisi svolte sull’acqua. Napoli: al carcere di Poggioreale iniziano corsi di formazione per i detenuti napolivillage.com, 24 gennaio 2018 Da detenuti a acconciatori e massaggiatori. Per 24 ospiti della casa circondariale di Poggioreale (Napoli) sarà possibile seguire questi corsi di preparazione al lavoro di “Garanzia Giovani” - il programma europeo di avvicinamento al mondo del lavoro rivolto ai giovani - grazie al contributo di Aciief, Ente di formazione leader in Campania, che erogherà due percorsi formativi. Un modo per fornire elementi utili da spendere, una volta scontata la pena detentiva, nel mondo lavorativo per un reinserimento nella società più semplice. I corsi, della durata di 200 ore, sono stati presentati oggi a Poggioreale e sono destinati a giovani inoccupati tra i 18 e i 29 anni non impegnati in altre attività nella struttura penitenziaria. Dodici detenuti avranno accesso al corso Acconciatore, che permetterà loro di apprendere le basi di taglio e messa in piega. Altri dodici allievi invece parteciperanno al corso Massaggiatore Estetico, una figura professionale completa che non opera solo nel settore del benessere ma anche in ambito sportivo. “Questo nostro impegno - afferma la direttrice di Aciief, la dottoressa Dolores Cuomo - va precisamente nella direzione che il nostro ente segue da anni, praticamente dalla sua istituzione. Chi opera a Napoli nel settore formativo ha una responsabilità che va ben oltre il fornire competenze e nozioni didattiche, ma deve saper anche educare al rispetto delle regole e alla legalità. Attraverso questi corsi non facciamo altro che proseguire su quel percorso che ci ha permesso di fornire una formazione di qualità ma anche di poter offrire un’alternativa a tanti giovani che altrimenti alternative non ne avrebbero avute tante, se non la strada. Noi, più della scuola pubblica, li prepariamo professionalmente al lavoro, ma soprattutto cerchiamo di trasmettere nei nostri allievi il valore del lavoro e la speranza nel costruirsi un futuro ‘pulitò con le proprie mani”. Caltanissetta: detenuti stranieri, un Centro d’ascolto e attività ludiche curate dal Movi radiocl1.it, 24 gennaio 2018 Il Mo.V.I., rappresentato da Filippo Maritato e da tutte le altre realtà all’interno della Casa delle Culture e del Volontariato “L. Colajanni”, continua ancora una volta ad essere in movimento. Nella nostra città non vi sono solo gli immigrati del Pian del Lago, delle strade, delle varie comunità, delle famiglie residenti o delle scuole, ma vi sono anche stranieri detenuti all’interno della Casa Circondariale di Caltanissetta. Su 250 detenuti, circa 50 sono stranieri di varie etnie. Il carcere non riesce a comprendere le loro esigenze a causa delle barriere linguistiche e culturali. Grazie ad un cammino costruito con la direttrice Francesca Fioria, coadiuvata dal responsabile dell’area trattamentale Beatrice Sciarrone, siamo riusciti a redigere e firmare un protocollo d’intesa affinché il Mo.V.I. possa animare le attività all’interno della Casa Circondariale. Verrà creato innanzitutto uno sportello di ascolto per i detenuti stranieri, grazie ai mediatori culturali volontari dell’Associazione “Migranti Solidali”. Sono in corso di realizzazione delle attività ludico-ricreative, svolte dai volontari delle associazioni della Casa delle Culture e del Volontariato, rivolte non solo ai detenuti stranieri ma, in generale, a tutti i reclusi. Ci si augura che questo protocollo rappresenti la base di partenza per incrementare le attività trattamentali all’interno della Casa Circondariale. Torino: convegno “Dopo gli Opg, le Rems, articolazioni psichiatriche penitenziarie” di Piergiacomo Oderda vocepinerolese.it, 24 gennaio 2018 Si è svolto nello splendido scenario dell’Auditorium Vivaldi della Biblioteca Nazionale di Torino il convegno “Nel mezzo di una riforma possibile”, meglio specificato dai sopra titoli, “Dopo gli Opg, le Rems e le articolazioni psichiatriche penitenziarie. Il nuovo ruolo delle amministrazioni sanitaria e penitenziaria e della società civile in un percorso all’avanguardia in Europa”. Nel cartellone spicca un disegno di Roberto Sambonet, ricavato dall’incontro con i disturbati di mente nell’ospedale psichiatrico di Juqeri, a cinquanta chilometri da San Paolo in Brasile. Fa parte della mostra “I volti dell’alienazione” aperta fino al 31 gennaio sempre in Biblioteca nazionale, a fianco degli scatti di Max Ferrero, “Nocchier che non seconda il vento. Viaggio all’interno degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari italiani”. Il senso del convegno è espresso con il consueto entusiasmo da Bruno Mellano, garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte. Ringrazia Guglielmo Bartoletti, Direttore della Biblioteca nazionale, per aver concesso “un luogo prestigioso per il tredicesimo allestimento della mostra” che ha compiuto “un doppio giro d’Italia per alimentare la questione delle misure di sicurezza in superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari, per costituire una rete per la presa in carico di malati mentali autori di reato”. La riforma possibile è “un percorso travagliato che porta l’Italia all’avanguardia in Europa, pur tra contraddizioni e difficoltà e che è partito dalla denuncia della Commissione Marino”. Il lavoro della commissione d’inchiesta “fatta non solo con analisi ma con un film, ha reso al Paese una realtà indicibile, incommensurabile, insopportabile”. “Un percorso significativo che non può essere un punto di arrivo ma di partenza per la costruzione di “nuovi possibili”“. Ricorda l’attività di un cartellone di associazioni come StopOpg, le figure istituzionali come quella del garante dei detenuti, “l’attività istituzionale e politica per una valutazione che vede in mano ad un Parlamento in chiusura il potere di un Decreto delegato che vada a riformare le misure di sicurezza nell’ambito della riforma dell’ordinamento penitenziale”. Hanno partecipato al convegno Marco Pelissero, ordinario di diritto penale dell’Università di Torino, impegnato nella commissione ministeriale per predisporre un testo di riforma della sanità penitenziale, Franco Corleone, garante dei detenuti della regione Toscana, già commissario unico per il superamento degli Opg e Stefano Cecconi del Comitato nazionale dell’associazione StopOpg, attiva anche a livello piemontese. Nei cataloghi delle mostre sopracitate, sia Pelissero che Corleone insistono sulla necessità di una seria riflessione sulla gestione del disagio psichico in carcere. Occorre potenziare i servizi territoriali e l’operatività in chiave sanitaria delle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) in modo che non diventino nuove mini-Opg. Stefano Cecconi ricorda che alcune disposizioni previste dalla nuova legge (81/2014) sono molto impegnative e hanno bisogno di essere “sostenute” con precisi atti di indirizzo, con il finanziamento e un monitoraggio di Governo e Regioni, con la vigilanza del Parlamento e mantenendo la “pressione sociale”, perché non si attueranno “spontaneamente”. Napoli: i Radicali Italiani chiedono a De Magistris un Garante comunale dei detenuti di Fabrizio Ferrante Ristretti Orizzonti, 24 gennaio 2018 La campagna elettorale è in corso e nell’ambito dei tavoli indetti da +Europa con Emma Bonino a Napoli, va avanti anche l’iniziativa politica di Radicali Italiani sul fronte giustizia. A Poggioreale è partita questa mattina una raccolta firme in calce a una proposta sul punto di approdare sulla scrivania del sindaco di Napoli, Luigi de Magistris. Si tratta dell’istituzione del garante dei detenuti per la città metropolitana di Napoli, chiesta da Radicali Italiani, segnatamente dal dirigente nazionale Raffaele Minieri. Nella lettera che sarà indirizzata al primo cittadino del capoluogo campano, corredata da tutte le firme che i radicali riusciranno a raccogliere a sostegno della proposta, si fa riferimento alla presenza di quattro strutture penitenziarie (Poggioreale, Secondigliano, Pozzuoli, Nisida e forse un giorno Nola) sparse sul territorio della Città Metropolitana. “Tali strutture - si legge nel documento indirizzato al sindaco - sia per le caratteristiche del territorio sia per il patologico e costante sovraffollamento carcerario ospitano, secondo le statistiche del Ministero della Giustizia, complessivamente oltre 3.500 detenuti”. Di questi oltre 2.200 sono rinchiusi a Poggioreale in circa 1.600 posti disponibili ma la ratio della proposta risiede nel fatto che il solo garante regionale non è ritenuto sufficiente per monitorare le tante complessità presenti nelle carceri napoletane. Città Metropolitana chiamata in causa direttamente nella lettera al sindaco - già in distribuzione a chi sottoscrive l’appello ai tavoli - in relazione agli oneri e ai doveri nei confronti dei parenti dei cittadini detenuti. A proposito di questi ultimi, nella proposta si ricordano i doveri della Città Metropolitana tenuta “a fornire una pluralità di servizi (dai trasporti all’accoglienza dei familiari) e ad essere gravata da plurimi oneri nei confronti di tali soggetti”. Dunque anche per tutelare al meglio i bisogni dei parenti, oltre che dei detenuti, si richiede una “figura autonoma di garanzia”. Compiti del garante, si legge nella lettera a de Magistris, “promuovere l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile delle persone detenute, vigilando altresì sul rispetto dei loro diritti: lavoro, formazione, cultura, salute, affettività”. L’istituzione del garante dei detenuti per una singola città in aggiunta a quello regionale non sarebbe una novità assoluta, essendo già presenti figure di questo tipo a Cagliari e a Reggio Calabria. Realtà che, si legge nella proposta, “pur nella loro complessità si trovano in situazioni sicuramente non paragonabili a quelle di Napoli sia per estensione del proprio territorio sia per densità della popolazione residente”. I tavoli dove si potrà firmare per dare maggiore forza alla proposta (che di per sé non necessita di firme per poter essere presentata) continueranno durante le prossime settimane con cadenza quasi quotidiana all’esterno del carcere di Poggioreale, come anche in altre zone della città nell’ambito delle iniziative di +Europa e Radicali Italiani. All’iniziativa ha aderito anche l’associazione degli ex detenuti organizzati di Napoli diretta da Pietro Ioia. Busto Arsizio: serata a teatro? Lo spettacolo è in carcere, sul palco attori professionisti varesenews.it, 24 gennaio 2018 Una nuova proposta dell’associazione “Oblò-Liberi dentro”. Due compagnie teatrali si esibiranno all’interno delle mura: aperte le prenotazioni. Tornano gli spettacolo con le scuole e inizia un nuovo laboratorio aperto a tutti. E se il carcere di Busto Arsizio diventasse uno dei “teatri” della città? Non è un progetto di riconversione della struttura, ma un’idea di integrazione fra “dentro e fuori” che ancora una volta vede protagonista l’attività teatrale. La proposta arriva dall’associazione “Oblò Onlus-Liberi dentro”, nata nel 2016 dall’esperienza dei suoi fondatori fra carcere, teatro e scuola. Da anni, con la regista Elisa Carnelli, l’associazione lavora nell’istituto bustocco e piano piano la compagnia teatrale che si è formata è cresciuta. Dagli spettacoli “interni” per la festa del papà, alle iniziative con le scuole, alle cene con delitto aperte al pubblico esterno (oltre 150 partecipanti in due serate) e poi anche agli spettacoli fuori dal carcere. Adesso parte una nuova sfida: saranno le compagnie teatrali di professionisti a recitare in carcere. Gli spettacoli saranno aperti alle persone detenute e anche al pubblico esterno. “La speranza - racconta Elisa Carnelli - è di poter diventare un pezzetto delle date delle rassegne teatrali dei teatri cittadini”. Il primo appuntamento sarà con lo spettacolo “Figurini, storie di uomini da incorniciare” del Teatro città murata (Como) venerdì 9 febbraio alle ore 20.30. Si prosegue con “Abbracciami pirla” martedì 6 marzo alle ore 2030 con la compagnia Viandanti Teatranti che gestisce Teatro Giovanni Bosco di Busto. Si tratta di spettacoli che, per tematiche, si sposano con la realtà della detenzione. Una prova generale sarà offerta al pubblico di detenuti, in orario pomeridiano. La serata sarà per un pubblico esterno con un gruppo di detenuti presenti in accoglienza, come “maschere”, il gruppo del giornalino e quello di teatro fra il pubblico. Al termine tisana per tutti per dare la possibilità di scambio e conversazioni. È necessario prenotare: obloteatro@gmail.com. Le novità in carcere a Busto non finiscono qui. Dopo il successo della sua prima edizione 2016/2017 che ha portato più di 200 studenti delle scuole del territorio, riprende per il secondo anno il Microfestival Incontri - versione 2.0. Organizzata in collaborazione con la direzione della casa circondariale, gli studenti del triennio delle superiori sono invitati allo spettacolo “Pirandello Remix”, con la compagnia di attori detenuti, nel teatro all’interno dell’istituto penitenziario. La visione dello spettacolo sarà occasione di dialogo e confronto fra studenti e detenuti sui temi dell’esecuzione penale, della risocializzazione, della legalità. E la proposta non è ancora finita. Grazie al sostegno della Fondazione Comunitaria del Varesotto, verranno organizzati prossimamente laboratori teatrali all’interno del carcere per detenuti e persone esterne: 5 sabati mattina ore 9-12. Calendario: 14 e 28 aprile: scrittura creativa con drammaturga Laura Tassi; 5 maggio voce con cantautore Marco Belcastro; 19 maggio movimento espressivo con la danzatrice Francesca Cervellino. Roma: scatti di libertà e fantasia per illuminare la cultura in carcere di Valentina Stella Il Dubbio, 24 gennaio 2018 Presentato alla Camera dei Deputati il libro “Signora Libertà Signorina Fantasia. Un racconto dal carcere”, di Giancarlo Capozzoli e Gerald Bruneau (UniversItalia edizioni), con la prefazione di Erri De Luca. Le pagine affrontano il tema della cultura in carcere, nello specifico il teatro. Questo libro, spiega Capozzoli nella sua introduzione, “nasce dalla esigenza di raccontare come un reportage fotografico ma non solo, il lavoro svolto nell’ ultimo anno all’ interno degli istituti di Rebibbia, Casa Circondariale Nuovo Complesso, e Terza Casa, a Roma. Racconta del teatro innanzitutto. Del teatro portato in scena con i detenuti attori di Rebibbia. Sono alcuni degli scatti di scena che il fotoreporter francese Gerald Bruneau ha realizzato nel luglio del 2016, durante le prove per la messa in scena de “Othello o della verità”, riadattamento da me curato da Shakespeare per e con un gruppo di persone private della libertà personale”. Alla presentazione c’era la criminologa Tonia Bardellino, Pasquale Bronzo, professore di Diritto penitenziario della Sapienza, Patrizio Gonnella di Antigone e l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini che ha sottolineato come “l’elemento che ci ha convinto da sempre a lottare per le persone detenute è il fatto che il carcere è una istituzione oscura, per cui le foto del vostro libro rappresentano fasci di luce che entrano in profondità e fanno comprendere quali sono le condizioni del carcere ma anche le condizioni di bellezza dei detenuti”. Presente anche l’avvocata Maria Brucale del direttivo di “Nessuno Tocchi Caino”: i detenuti fotografati “sono persone luminose, hanno occhi, labbra, mani, vene, abbracci, sorrisi, sono erotismo, sono passione, sono simpatia, sono gioco, sono tutto quello che è una persona”. Gerald Bruneau, che già in passato si era occupato di carcere e soprattutto di pena di morte realizzando un reportage ad Huntsville, città- prigione del Texas, che si è soffermato sui tatuaggi dei detenuti: “ non lo fanno per moda, ma per vedersi segnato dall’esperienza che è il carcere; poi in questo luogo c’è una particolare cultura del corpo: tutti vogliono lavorare su di esso e recuperarlo in modo sano, e il teatro, con la sua disciplina, aiuta anche in questo, per presentarsi, una volta usciti, in maniera migliore al mondo”. Quella speranza di rinascere dopo la caduta di Massimo Vincenzi La Stampa, 24 gennaio 2018 In un Paese dove un giovane uomo di trent’anni viene lasciato morire su un marciapiede (come è successo ieri a Torino), in un Paese dove le diseguaglianze sociali crescono alla stessa velocità con la quale rimpiccioliscono i diritti, in questo Paese forse bisogna andare al cinema per trovare un po’ di speranza e riassaporare l’orgoglio della nostra storia. Nelle sale c’è “L’ora più buia”, che racconta i terribili mesi in cui Winston Churchill viene chiamato a guidare la Gran Bretagna contro Hitler. Lui non è la prima scelta del re, quattrocentomila soldati sono aggrappati alla vita sulla spiaggia di Dunkerque, il baratro è a un passo. Appesantito, già avanti con gli anni, è circondato da dubbi e veleni. Gli dicono di arrendersi, di trattare con il nemico, di scendere a compromessi. Gli ripetono che l’Europa è perduta. Ma lui dice no. Lo urla. Qui, in questa cocciuta e a tratti insensata volontà, c’è la grande lezione che dovremmo ricordarci. Lo dice nel discorso dopo l’evacuazione miracolosa del grosso delle truppe dalla Francia e lo ripeterà spesso nel corso del conflitto: “Da qui si riparte, questa è la nostra vittoria”. In realtà è una débâcle, ma lui appoggia il cuore su uno dei pilastri della cultura anglosassone: la potenza invincibile della sconfitta. La forza che ti dà l’essere caduto e aver trovato dentro di te il coraggio e l’orgoglio di rimetterti in piedi. C’è una parola chiave negli Stati Uniti: redemption, redenzione. Il concetto affonda nel protestantesimo dei Padri Pellegrini che dall’Inghilterra sbarcarono sulle coste degli Stati Uniti. Significa che ogni uomo, dunque ogni popolo ha il diritto di crollare e di passare attraverso le fiamme della sconfitta e di avere una seconda chance. Una forza che ha permesso all’Italia, settant’anni fa, di riemergere dalle macerie. Ma che ora abbiamo dimenticato e sperperato diventando sempre più aridi, cinici e impietosi. Il modello culturale che insegniamo ai nostri figli è una sorta di pubblicità da soap opera: bisogna essere ricchi, famosi, avere successo. Avere la mascella volitiva da campioni o da leader: cerchiamo di annullare ogni fragilità, ogni differenza, spaventati come siamo dalla nostra immagine. Lo vediamo con i migranti, lo vediamo nell’economia e nelle parole sempre più miopi e senza speranza della nostra politica. Manca un sogno comune, abbiamo perso la voglia di prenderci cura di quelli che restano indietro, illudendoci che questo ci salvi dalla crisi. Negli Stati Uniti è diventato oggetto di culto un piccolo libro. “Two Prospectors: The Letter of Sam Shepard and Johnny Dark”. Sono le lettere che il grande attore e sceneggiatore recentemente scomparso ha scritto nel corso di tutta la sua vita all’amico Johnny. Sam spiega con pazienza e onestà come sia riuscito ad uscire da un mondo malato di alcol e droga. Non lo fa per pietismo, ma appunto perché crede che, dopo essersi salvato, sia suo dovere aiutare quelli che soffrono. E che questo sia un bene inestimabile. Per ogni uomo e dunque per ogni popolo. Forse se tornassimo ad avere il coraggio della sconfitta quel ragazzo morto nella notte di Torino, una delle città più ricche di Italia, camminerebbe ancora con noi. E forse, anzi di sicuro, questo Paese tornerebbe a correre con lui. Migranti. Il Garante dei detenuti a Lampedusa, hotspot sotto esame uovosud.it, 24 gennaio 2018 Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale Mauro Palma, oggi è a Lampedusa per una visita all’hotspot dell’isola. La visita segue diversi episodi drammatici, dal suicidio di un giovane straniero, ai disordini della scorsa settimana con il ferimento di un carabiniere. Contemporaneamente, oggi il sindaco Totò Martello si è recato a Roma per un confronto con il ministro dell’Interno Marco Minniti. Tra gli incontri in programma per il Garante, quello con il questore. E fra gli obiettivi, spiega Palma, c’è quello di valutare la situazione esistente, in relazione ai numeri degli ospiti e alle condizioni della struttura. L’altro aspetto è quello della permanenza. Nell’hotspot è prevista una permanenza massima di 48 ore per essere identificati e poi trasferiti o in una delle strutture per richiedenti asilo o in quelle che devono preparare al respingimento e al rimpatrio: “Molto spesso però avviene - dice Palma - che ci si rimanga troppo nell’hotspot, con conseguenti problemi ai migranti e alla comunità. Ciò avviene anche perché l’Italia, e il ministro dell’Interno in particolare, non hanno mai adottato una politica di forzare in qualche modo l’identificazione, ma piuttosto hanno inteso soprattutto far capire, far comprendere. E questo allunga i tempi. Si parte quindi da un principio positivo, ma si finisce per creare a volte una situazione difficilmente gestibile. Bisogna contemperare le diverse esigenze e questa visita vuole aiutare a fare questo”. Droghe. Cannabis terapeutica, l’oggetto del desiderio di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 24 gennaio 2018 Diciassette associazioni hanno chiesto in una lettera aperta alla ministra Lorenzin di applicare pienamente la legge in vigore e far fronte alla permanente mancanza di prodotti. Migliaia di malati da mesi sono alla disperata ricerca di un farmaco ormai introvabile in Italia, la cannabis. Sui social network, nei gruppi di pazienti che si curano con la cannabis terapeutica, rimbalzano ormai da mesi gli appelli, le richieste d’aiuto e i suggerimenti su dove trovare qualche grammo in una farmacia. Alcuni farmacisti di buona volontà si sono impegnati nell’inventare preparazioni sostitutive, mescolando le poche scorte rimaste, per venire incontro alle esigenze terapeutiche dei pazienti. A Buon Diritto, Antigone, Associazione Cannabis Terapeutica, Associazione Luca Coscioni, Cannabis Cura Sicilia Social Club, Cgil, Cild, Comitato Pazienti Cannabis Medica, Forum Droghe, FP Cgil, LaPiantiamoCsc, la Società della Ragione, Legalizziamo.it, LegaCoopSociali, Lila, Sirca - le 17 associazioni che il 30 novembre scorso avevano organizzato una conferenza stampa in Senato, per chiedere l’approvazione di una legge efficace sulla cannabis terapeutica, purtroppo senza esito positivo - hanno chiesto in una lettera aperta alla ministra Lorenzin di applicare pienamente la legge in vigore e far fronte alla permanente mancanza di prodotti. L’appello chiede prima di tutto di autorizzare “una importazione d’urgenza di farmaci a base di cannabis per sopperire alle tragiche carenze dell’oggi”, in attesa della messa a regime degli interventi di implementazione delle modalità di approvvigionamento, compresa la concessione di permessi di produzione locale. Ma non solo. Sollecita la promozione di studi sulle proprietà terapeutiche della cannabis, di trial clinici sul suo impiego, avviando un percorso che possa portare al riconoscimento formale come farmaco. Fra le principali richieste anche quella volta a rendere effettiva la normativa vigente, con l’avvio di corsi di formazione per tutti gli operatori del settore, a cominciare da quelli della sanità pubblica. Le associazioni invitano anche a condividere i dati delle positive esperienze italiane nella revisione critica della cannabis in seno al comitato di esperti dell’Oms, prevista per maggio 2018. Infine le associazioni hanno intimato di “smettere di perseguire inutilmente, con grande sforzo di mezzi e scarso senso umanitario, i malati che per necessità sopperiscano alle loro esigenze terapeutiche scegliendo la strada dell’auto-coltivazione invece che rivolgersi al mercato illegale”. Un’azienda canadese, Aurora Cannabis Inc, tramite la sua sussidiaria tedesca Pedanios si è aggiudicata la settimana scorsa tutti i lotti della fornitura da 100 kg di cannabis destinati all’Istituto Chimico Farmaceutico di Firenze. Ma anche questi 100 kg non basteranno per rispondere ad una domanda di cura che, trascinata dalle evidenze scientifiche, è aumentata esponenzialmente da quando nel 2007 la Ministra Turco aprì la porta alla cannabis terapeutica in Italia. Alcune voci di ambienti bene informati fanno sapere che le prime scorte arriveranno a fine mese. Ma le ricette in attesa sono migliaia, molte ormai scadute per mancanza di disponibilità. Si rischierà di assistere alla guerra tra poveri, migliaia di persone che dovranno contendersi qualche grammo di cannabis per assicurare il proprio diritto alla cura. Difficilmente si riuscirà a coprire l’intera domanda arretrata ed è probabile che in poche settimane ci si ritrovi daccapo. Le lettere e gli appelli dei pazienti sono caduti nel vuoto, mentre solo le diffide sembrano aver avuto qualche effetto isolato. C’è chi pensa a gesti di disobbedienza civile, chi programma viaggi all’estero, chi si rivolge allo spacciatore, chi pianta un seme. Vinceranno i pazienti sulla miopia della burocrazia ed il silenzio della politica? Egitto. Caso Regeni: continuiamo a sostenerlo, la verità sta al Cairo di Riccardo Noury* Il Manifesto, 24 gennaio 2018 Le indagini e la memoria. Eventuali responsabilità di natura morale o civile di altri soggetti non dovrebbero mai essere confuse né equiparate con le responsabilità penali di chi ha ordinato, eseguito e insabbiato finché possibile la sparizione, la tortura e l’omicidio di Giulio. Il 25 gennaio 2016 al Cairo Giulio Regeni veniva sequestrato, trasferito in uno o più centri di detenzione senza poter avere contatti col mondo esterno, per essere poi sottoposto nei giorni successivi a feroci torture e infine assassinato. Il suo nome si aggiungeva, purtroppo, ai tanti egiziani ed egiziane vittime di sparizione forzata e torturate a morte in Egitto. Da subito chi in Egitto e in Italia conosce bene il sistema di violazioni dei diritti umani nel paese nordafricano ha parlato di “delitto di stato”. E da subito chi difende i diritti umani in Egitto, correndo sempre rischi e pagando spesso col carcere, ha capito quanto sarebbe stato importante indagare a fondo per scalfire il muro dell’impunità del sistema giudiziario del paese: arrivare alla verità per Giulio l’italiano, per poi provare a cercarla per i Giulio egiziani. Come è noto, le autorità egiziane hanno scelto la tattica del depistaggio, della perdita di tempo, delle promesse non mantenute. Hanno preso di mira gli avvocati e gli attivisti direttamente o indirettamente coinvolti nella ricerca della verità. Cinque innocenti sono stati uccisi per creare la messinscena della Pasqua 2016, quella servita sul vassoio d’argento della banda di rapinatori di stranieri. E nonostante il comportamento assai poco collaborativo delle autorità egiziane, lo scorso settembre l’Italia ha fatto tornare alla piena operatività l’ambasciata al Cairo. La decisione, presa nella calura pre-ferragostana il 14 agosto, era stata preceduta da un’imponente campagna mediatica in cui si sosteneva che richiamare l’ambasciatore era stato un errore e rimandarlo avrebbe contribuito alla ricerca della verità per Giulio. Non sappiamo quali passi avanti siano stati chiesti, e soprattutto ottenuti nella rinnovata interlocuzione tra Italia ed Egitto, verso quella verità. Delle relazioni italo-egiziane successive al ritorno dell’ambasciatore al Cairo la stampa locale ha parlato molto, assai meno quella italiana. Ma rimandando l’ambasciatore al Cairo il governo italiano si è assunto una precisa responsabilità, tra l’altro rinunciando ancor prima a ogni altro strumento di pressione; all’inizio del 2018 poi, la Procura di Roma ha proceduto all’interrogatorio di Maha Abdelrahman, tutor di Giulio Regeni presso l’università di Cambridge. Le indagini ci diranno se dall’interrogatorio e dall’analisi di documenti e materiale ora in possesso degli inquirenti italiani emergeranno elementi rilevanti. Dobbiamo essere chiari. Amnesty International ha sempre sostenuto che la verità dovesse essere cercata a tutto tondo. Da questo punto di vista ogni azione investigativa che aiuti a comprendere il contesto nel quale è maturato l’omicidio di Giulio Regeni è benvenuta. Difendere in modo apodittico un’istituzione universitaria in quanto tale non è un approccio costruttivo. Ma anche attaccarla per partito preso o persino per il pregiudizio che la persona in questione sia donna, araba e musulmana. Ancora più chiaramente: eventuali responsabilità di natura morale o civile di altri soggetti non dovrebbero mai essere confuse né equiparate con le responsabilità penali di chi ha ordinato, eseguito e insabbiato finché possibile la sparizione, la tortura e l’omicidio di Giulio. Di sicuro, l’effetto che questi sviluppi investigativi hanno prodotto, in parte dell’opinione pubblica e dei media del nostro paese, è il rilancio della cosiddetta “pista Cambridge”, vista come “pista alternativa” se non addirittura come la “vera pista” rispetto a quella che porta al Cairo. Un effetto benvenuto da coloro (e non sono pochi) che hanno costantemente cercato di sminuire le responsabilità delle autorità egiziane, una legittimazione a posteriori della decisione di rimandare l’ambasciatore al Cairo, la conferma (secondo la più trita letteratura cospirazionista) dell’esistenza di un disegno criminale ordito perfidamente in Gran Bretagna per sabotare, attraverso l’omicidio di “un giovane ricercatore mandato allo sbaraglio”, le relazioni tra Italia ed Egitto. “La verità va cercata a Cambridge, non al Cairo”, dicono tronfi. Noi continuiamo a sostenere che la verità sta al Cairo. In questo clima domani, dunque, saranno due anni da quel maledetto 25 gennaio. Da Fiumicello, il paese natale di Giulio, a Roma e in decine di altri luoghi d’Italia (l’elenco completo, insieme a quello delle adesioni, è sul sito amnesty.it) alle 19.41 - l’ora in cui Giulio venne visto vivo per l’ultima volta - si accenderanno migliaia di fiaccole. Quelle luci saranno il simbolo di un’opinione pubblica che non si arrende, che non rinuncia a chiedere che si vada fino in fondo per conoscere i nomi dei responsabili e la catena di comando che li lega. Spegnere quelle luci per consegnare Giulio a una memoria fatta di mere targhe, e dunque sostitutiva della verità e poi della giustizia, sarebbe un atto irresponsabile. Non accadrà così. A Napoli, ad esempio, è stato trovato un bellissimo modo per ricordare che la memoria - quella che affianca la verità e non la sostituisce - è un valore importante da trasmettere e che il nome e l’esempio di Giulio Regeni rappresentano un forte segnale della libertà e indipendenza della scienza e della ricerca. Infatti, nel prossimo bando di dottorato dell’Università Federico II, ogni corso di dottorato della Scuola Politecnica e delle Scienze di Base intesterà una delle borse a Giulio e l’idea sarà presto fatta propria da altri dipartimenti dell’ateneo napoletano. Allora, domani sera accendiamo migliaia di fiaccole per continuare a chiedere “Verità per Giulio Regeni”. *Portavoce di Amnesty International Italia Iran. Sospesa la condanna di morte per il ricercatore Djalali di Floriana Rullo Corriere della Sera, 24 gennaio 2018 Detenuto a Teheran dal 2016 accusato di essere una spia al servizio dell’Occidente. I giudici, su impulso della difesa, hanno deciso di acquisire nuova documentazione. È stata sospesa la condanna a morte per Ahmadreza Djalali: l’ex ricercatore dell’università del Piemonte Orientale che, detenuto a Teheran dall’aprile 2016, è accusato di essere una spia al servizio dell’Occidente. I giudici, su impulso della difesa, hanno deciso di acquisire nuova documentazione sul caso. Il professor Ahmadreza Djalali sarebbe dovuto essere giustiziato il 19 gennaio. Djalali ha lavorato per quattro anni all’Università del Piemonte Orientale, con sede a Novara. Il suo incarico era quello di ricercatore capo del Centro di ricerca in medicina di emergenza. È malato - A quanto pare le precarie condizioni di salute di Ahmad avrebbero influito sulla decisione della Corte; secondo l’avvocato di Djalali si sono rese necessarie delle cure mediche fuori dal carcere (finora negate dai giudici), soprattutto per verificare un “possibile tumore”. Sperando che le condizioni di salute di Ahmad non si rivelino così gravose, gli avvocati difensori auspicano che questa revisione del processo possa portare a un ribaltamento della sentenza. Contro la sua reclusione in Iran e la sua successiva condanna a morte, emessa dal Tribunale della Rivoluzione, si era sollevata anche Amnesty International, senza dimenticare gli appelli della Farnesina e di una delegazione del Senato italiano. In suo favore 75 premi Nobel - Non solo. Recentemente a favore della scarcerazione del ricercatore si erano schierati anche 75 premi Nobel e della European University Association, tra cui quella del Nobel per la pace iraniana Shirin Ebadi e i vincitori di quest’anno sia per la fisica che per la medicina. Ahmadreza Djalali, 46 anni, era poi stato ‘costrettò a una confessione. Una dichiarazione, davanti alle telecamere, che non aveva convinto nessuno. “Ma quale confessione! È stato torturato finché non ha dovuto dire quanto volevano i suoi carcerieri. Non è bastato che venisse condannato a morte dal Tribunale della Rivoluzione di Teheran per reati mai commessi - aveva detto il professor Francesco Della Corte -. Hanno voluto che pubblicamente si accusasse, in modo da avere una scusa, di fronte all’opinione pubblica, per poterlo uccidere”. Poco dopo la moglie di Ahmadreza, Vida Mehrannia, aveva confermato che suo marito era stato costretto a leggere una confessione prestabilita. Afghanistan. Kamikaze contro la sede di Save the Children, molti feriti di giordano stabile La Stampa, 24 gennaio 2018 L’attacco a Jalalabad, il bilancio provvisorio è di almeno undici colpiti. Si temono vittime. Un commando armato ha attaccato oggi la sede della ong Save The Children a Jalalabad City, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’Est dell’Afghanistan. Il bilancio provvisorio è di almeno undici feriti, ma si temono vittime. Il commando - Le forze di sicurezza hanno riferito a media locale che un kamikaze si è fatto esplodere all’ingresso del compound che ospita l’organizzazione e ha aperto la via al commando. I terroristi sono entrati all’interno e hanno sparato con armi automatiche. Piccoli in ostaggio - Le foto sui social mostrano bambini che fuggono dal compound, recintato con alte barriere di cemento, accolti dai poliziotti che hanno circondato la zona. Non è chiaro il numero di terroristi all’interno, e potrebbero avere ostaggi. Scuole nel mirino - Nella provincia di Nangarhar, al confine con il Pakistan, operano gruppi islamisti sia legati ai Taleban che allo Stato islamico. L’Isis ha condotto numerosi attacchi suicidi contro le forze di sicurezza, mentre i talebani hanno attacco più volte scuole legate all’esercito o a organizzazioni occidentali, soprattutto in Pakistan. Il Messico volta le spalle ai centroamericani in fuga dalla violenza di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 gennaio 2018 Non c’è bisogno che il presidente Trump porti a compimento il progetto delle amministrazioni democratiche di sigillare con un muro il confine col Messico. Secondo un rapporto diffuso oggi da Amnesty International, le autorità messicane addette all’immigrazione voltano regolarmente le spalle a migliaia di persone provenienti da Honduras, El Salvador e Guatemala, senza considerare il rischio cui andranno incontro una volta rimpatriate. In molti casi, si tratta di una clamorosa violazione tanto delle norme interne quanto di quelle internazionali. Il rapporto, basato su 500 interviste a centroamericani che hanno viaggiato attraverso il Messico, rileva che l’Istituto nazionale per le migrazioni (Inm) ha violato sistematicamente il principio del “non respingimento”, pilastro fondamentale del diritto internazionale, che proibisce il rinvio di persone verso paesi in cui rischino di subire gravi violazioni dei diritti umani. Questa prassi può costare, in molti casi, la vita o comunque la sicurezza delle persone respinte verso il paese di origine. In Guatemala, El Salvador e Honduras (il cosiddetto “Triangolo del nord”) la violenza continua a essere generalizzata e i tassi di omicidio sono da quattro a otto volte più alti di quelli che l’Organizzazione mondiale della sanità considera “epidemici”. Da anni, chi lascia questi paesi non lo fa solo nella speranza di trovare migliori opportunità di lavoro ma anche e soprattutto perché vive in alcuni dei paesi più violenti del mondo e teme per la sua sorte. Secondo il diritto internazionale, il Messico è obbligato a proteggere queste persone la protezione dai rischi che correrebbero nei paesi di origine. Invece, i rimpatri illegali proseguono, con conseguenze letali. Il rapporto di Amnesty International racconta la storia di un conducente di autobus respinto dal Messico in Honduras e ucciso pochi giorni dopo. Altre persone hanno raccontato ad Amnesty International di essere state costrette a firmare per accettazione il decreto di espulsione. L’organizzazione per i diritti umani ha rivelato che il 40 per cento delle 297 persone arrestate dall’Inm ha fornito informazioni tali da poter concludere che si sia trattato di violazione del principio di “non respingimento”, anche di fronte a richieste esplicite di asilo. Inoltre, Amnesty International ha riscontrato che il 75 per cento delle persone arrestate dall’Inm non sono state informate del loro diritto di chiedere asilo in Messico, nonostante la legislazione nazionale lo riconosca espressamente. Funzionari dell’Inm hanno assicurato ad Amnesty International che questa norma è rispettata e che il principio di “non respingimento” è rispettato se non in rari casi. Le 500 testimonianze raccolte da Amnesty International forniscono un quadro diverso.