Sciopero della fame dei Radicali per l’approvazione dei decreti di riforma dell’O.P. di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 gennaio 2018 Iniziato alla mezzanotte di ieri il Satyagraha di Rita Bernardini assieme alla comunità penitenziaria. Alla Commissione Giustizia della Camera continua la discussione sull’ordinamento penitenziario. Giovedì saranno ascoltati Federico Cafiero De Raho, Mauro Palma, Glauco Giostra, Gemma Tuccillo e i rappresentanti di Anm, Coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza, Unione camere penali. Come annunciato da tempo, dalla mezzanotte, è iniziato lo sciopero della fame di Rita Bernardini, coordinatrice della Presidenza del Partito Radicale. Parliamo della ripresa del Satyagraha assieme alla comunità penitenziaria per “scongiurare l’ennesimo buco nell’acqua, che - spiega l’esponente radicale Rita Bernardini - significherebbe accettare la deleteria illegale situazione attuale delle carceri e dell’esecuzione penale in generale”. L’obiettivo è sempre quello: chiedere l’approvazione dei decreti delegati per l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario in maniera veloce e completa, inserendo anche quelli sull’affettività e lavoro. La richiesta è quella di concludere l’iter per l’approvazione prima del 4 marzo, il giorno delle elezioni parlamentari. Sì, perché potrebbe cambiare radicalmente la composizione del parlamento e del governo, con una maggioranza magari avversa alla riforma. I tempi, quindi, sono stretti. Lo scorso 22 dicembre il Consiglio dei ministri ha approvato una parte dei decreti attuativi del nuovo ordinamento penitenziario, ma, come già riportato da Il Dubbio, rimangono esclusi quelli che riguardano il lavoro e l’affettività, ovvero due aspetti fondamentali della detenzione che riguardano il corretto mantenimento familiare come i permessi e colloqui, la sessualità, la rieducazione e il reinserimento dei detenuti una volta liberi. Esclusi per ora anche i testi che riguardano la giustizia riparativa e la giustizia minorile. I decreti approvati in via preliminare dal consiglio sono poi passati alle commissioni giustizia della camera e senato dopo aver ricevuto la cosiddetta “bollinatura” dalla ragioneria di Stato. Il 17 gennaio la commissione giustizia della camera si è riunita per esaminare i testi e si concluderà entro il 1 febbraio per porre dei pareri non vincolanti. La prossima convocazione è prevista per giovedì prossimo dove saranno ascoltati Federico Cafiero de Raho, procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo; Mauro Palma, Presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale; Glauco Giostra, in qualità di presi- della Commissione per la riforma dell’ordinamento penitenziario presso il Ministero della giustizia; i rappresentanti dell’Associazione nazionale magistrati (Anm); rappresentanti del Coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza; Gemma Tuccillo, capo dipartimento per la giustizia minorile e di comunità rappresentanti dell’Unione delle Camere penali italiane (Ucpi) e Franco Della Casa, in qualità di componente della Commissione per la riforma dell’ordinamento penitenziario presso il Ministero della giustizia. La commissione giustizia del Senato, invece, ancora non ha calendarizzato la convocazione. Una corsa contro il tempo che vede nel frattempo delle prime critiche giunte dal Movimento Cinque Stelle. Nei giorni scorsi, tramite un loro comunicato, hanno denunciato che il Partito Democratico “vuole smantellare l’articolo 4 bis riguardante il divieto di concessione di benefici penitenziari (permessi premio, lavoro all’esterno, misure alternative alla detenzione), facendo un regalo a detenuti di particolare pericolosità sociale”. In sintesi criticano il fatto che, se passasse questa riforma, anche questi detenuti potranno vedersi concedere questi benefici. Concetto ribadito durante la prima seduta in Commissione giustizia dal deputato M5S Vittorio Ferraresi. Si è dichiarato, anche a nome del gruppo “stellato”, fortemente preoccupato per l’emanazione del provvedimento in discussione con il quale, a suo avviso, si determina la rinuncia totale da parte dello Stato ad esercitare la potestà punitiva nei confronti dei criminali. Ritiene che il governo, nel corso della presente legislatura, abbia fornito ai cittadini onesti l’esempio di come condotte anche particolarmente gravi ed odiose possano sostanzialmente rimanere impunite. Nel manifestare apprensione in merito all’adozione di un provvedimento che allarga le maglie per l’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative e non migliora, invece, la qualità della vita all’interno degli istituti carcerari, Ferraresi stigmatizza l’intero contenuto dello schema di decreto legislativo, chiedendo l’avvio, da parte della Commissione, di un articolato ciclo di audizioni. Nel ritenere il provvedimento in titolo “criminale”, osserva come, in danno dei cittadini onesti, sia di fatto sancita la definitiva resa dello Stato nei confronti di chi delinque. Donatella Ferranti, presidente e relatrice, nel replicare al deputato Ferraresi, evidenzia come nessun provvedimento legislativo, attuativo di princìpi e criteri di delega democraticamente approvati dal Parlamento, possa essere qualificato come “criminale”. Con riferimento al provvedimento in discussione, in particolare, sottolinea come lo stesso tenga conto dei principi di cui all’articolo 27 della Costituzione, oltre che delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’Uomo. Richiama altresì l’attenzione sul fatto che lo schema di decreto legislativo non introduce alcun nuovo istituto in tema di misure alternative, ribadendo che comunque permangono tutte le preclusioni relative all’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative già contemplate dall’articolo 4bis. Durante la seduta è intervenuta anche la deputata Sofia Ammoddio del Pd chiedendo le ragioni per le quali lo schema di decreto legislativo in discussione non attui i princìpi e criteri direttivi previsti dalla legge delega in materia di lavoro penitenziario intramurario ed extra-murario e di affettività dei carcerati. Sempre la presidente della commissione Ferranti, nel rispondere alla collega Amoddio, fa presente che il provvedimento in titolo non deve necessariamente attuare tutti i principi di delega contenuti nella legge n. 103 del 2017, in quanto sono previste ulteriori fasi di attuazione della delega stessa. Con riferimento, in particolare, ai criteri di delega relativi al lavoro penitenziario intramurario ed extra-murario, osserva che lo stesso determina dei riflessi finanziari che necessitano di ulteriori approfondimenti da parte dell’Esecutivo. A proposito di quest’ultimo punto, il sottosegretario Cosimo Maria Ferri, nel concordare con la presidente, è intervenuto precisando che con riferimento al tema dell’affettività all’interno del carcere, il Governo è intenzionato a proseguire e rafforzare le iniziative già intraprese al fine di risolvere tale problematica. Nel frattempo, non mancano attestati di stima e adesione alla battaglia radicale per l’attuazione della riforma. È intervenuto ai microfoni di Radio radicale, durante un’intervista realizzata da Michele Lembo, l’ex ministro della Giustizia - all’epoca fu duramente criticato per il suo sostegno al magistrato Giovanni Falcone, ed ex appartenente al Partito socialista italiano Claudio Martelli. “La riforma dell’ordinamento penitenziario - spiega Martelli, per quello che ne è rimasto visto che sono stati tralasciati aspetti importanti come l’affettività, è importante per il trattamento rieducativo dei detenuti e l’aspetto che mi preoccupa è la tempistica dell’approvazione. Per questo motivo - annuncia Martelli -, in modo più diretto possibile, mi iscrivo al Partito Radicale e parteciperò allo sciopero della fame per dimostrare solidarietà alla Bernardini visto che sta conducendo delle battaglie storiche che rientrano nell’area libertaria socialista e umanitaria”. Sulle intercettazioni penalizzati difesa e informazione di Giovanna De Minico* Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2018 Il decreto delegato sulle intercettazioni muoverà i suoi primi passi nel 2018. Può essere considerato parte di una più ampia politica penalistica da tempo orientata verso il diritto penale d’autore: cioè quello che descrive il fatto criminoso in ragione delle caratteristiche del reo e non in forza del fatto materiale di reato. L’involuzione verso la punibilità dell’intenzione delittuosa probabilmente concorre a spiegare un ricorso troppo ampio e quindi abusivo alle intercettazioni. Ne può infatti venire che siano disposte dai giudici non più come strumenti probatori di ultima istanza, ma come rimedi ordinari utili per offrire ulteriori elementi idonei a comporre la fisionomia criminale, da porre a fondamento della punizione unitamente alla - e magari in luogo della - materialità della condotta. È una filosofia di dubbia costituzionalità, perché contraddice il principio della materialità del fatto di reato. Da essa non si affranca il decreto, che nel tentativo di porre argini - probabilmente poco efficaci - all’abuso dello strumento incorre anzi in una seconda incostituzionalità. Il decreto distingue opportunamente ciò che è penalmente irrilevante da ciò che non lo è, affidando questo delicato compito alla coppia pubblico ministero-giudice per le indagini preliminari. Solo dopo la cernita sarà compilato l’elenco, visionabile anche dalla difesa per eventuali contestazioni ma in tempi molto ristretti e con forti limitazioni. Quindi per evitare che anche l’irrilevante penale sia riversato nell’originaria udienza stralcio, che si prestava alle facili fughe di notizie, esso viene chiuso in un armadio, le cui chiavi sono custodite dal pubblico ministero. Ebbene, questa fase non vede Pm e imputato operare su un piano di parità. Il Pm ha il vantaggio della prima mossa su cui il difensore interviene solo in secondo momento, in una dialettica processuale non ossequiosa dei principi di cui agli articoli 27 e 111 della Costituzione: presunzione di innocenza e parità delle parti. Andiamo poi alla fase dell’ordinanza cautelare, in cui il Gip porta a conoscenza delle parti e dei giornalisti le intercettazioni penalmente rilevanti. Si riconosce così effettivamente a ogni giornalista il pari diritto di accedere al materiale giudiziario, e si rende ininfluente il fatto che solo taluni dispongono di canali personali e privilegiati. Ma rimane ancora un punto oscuro: che fine fa il materiale valutato dal Pm come penalmente irrilevante? A esso è precluso l’accesso perché chiuso nella cassaforte del giudice, che con una valutazione unica ha deciso la sua inutilità penale ma indirettamente anche la sua inutilità sociale come notizia. E se il disegno normativo sulle intercettazioni è censurabile quanto al profilo penalistico per le incostituzionalità prima denunciate, ancor meno saranno apprezzabili i suoi effetti sulla relazione informativa. Infatti, il giornalista interessato a narrare fatti di pubblica utilità non potrà farlo se quei fatti sono stati valutati dal giudice penalmente insignificanti, perché sono divenuti anche irrilevanti ai fini informativi. Questa automatica coincidenza suggerisce un’ultima riflessione: quale valore ha fatto retrocedere il nostro diritto di essere informati? La riservatezza? Ma se così fosse, perché sottrarre proprio all’Autorità ad hoc la valutazione sull’utilità sociale del fatto di cronaca? La riservatezza va dunque esclusa. Il danno all’informazione può rivelarsi grave, come è messo in evidenza dalla fortuita coincidenza del decreto con l’avvio della campagna elettorale. Si sottolinea infatti come la politica possa temere fughe di notizie che portino a conoscenza degli elettori fatti o comportamenti che si preferirebbe fossero ignorati. Ma in una democrazia il sommo bene da difendere non è il diritto al voto consapevole? E può mai essere utile celebrare anniversari e difendere a parole la Costituzione se poi la si calpesta con gli atti normativi? *Osservatorio Fondazione Bruno Visentini-Ceradi Baby gang ai lavori sociali di Nicola Quatrano Corriere del Mezzogiorno, 23 gennaio 2018 Tra allarmi e appelli, pieni di parole angosciate ma avari di proposte, tento da parte mia di sviluppare una riflessione pacata, intorno a quattro punti. Primo. C’è un ragazzino in Francia, chiamato il “terrore di Limoges” perché a 12 anni aveva già realizzato tre aggressioni in soli otto giorni. A 14, con la sua banda, figurava in 60 dossier giudiziari. Attualmente, quasi 18enne, è in carcere, ma uscirà a maggio. Potrei ancora citare le manifestazioni degli abitanti del 19° arrondissement di Parigi contro le bande giovanili, o gli scontri ricorrenti tra la gendarmerie e gruppi di giovanissimi nelle banlieue parigine e di Bruxelles. O i conflitti endemici, negli Usa, tra giovani e una polizia che non va troppo per il sottile coi Neri. O gli hooligan, presenti un po’ dappertutto. Dico questo in nome di un consolatorio “tutto il mondo è paese”? No, è per capire meglio, per sprovincializzare il dibattito. Secondo. La “tolleranza zero” negli Stati Uniti si salda con la cifra di circa 2,3 milioni di detenuti, tra carceri locali, statali, federali e private. In definitiva gli Usa, con meno del 5% della popolazione mondiale, vantano il 25% della popolazione carceraria. Certo a New York il numero di omicidi è molto calato (“solo” 285 nel 2017). Ma, oltre ad avere “ripulito” le strade, si può dire che il problema è risolto? Naturalmente gli arrestati sono quasi tutti neri, ispanici e bianchi poveri. Terzo. È terribile la violenza subita da Arturo, come anche quella delle altre giovani vittime di atti insensati e crudeli. C’è dietro una crisi educativa e un senso di impunità, come ha detto Cazzullo, ma non solo. È che anche gli autori di questi gesti imperdonabili sono e si sentono vittime di una forma di violenza, di un’emarginazione sociale che produce rancore. Non intendo giustificarli. Penso anzi che la questione sia ancora più grave di quanto appaia. Penso che ci sia oggi nel mondo una questione letteralmente esplosiva, ed è la questione giovanile. Se un ragazzino di origine araba se ne va in centro, a Parigi, sa che verrà controllato ripetutamente perché ha la pelle olivastra. Non è solo razzismo, lo prevedono i protocolli ispirati alle statistiche sui comportamenti criminali. Lo stesso circolo vizioso funziona negli Stati Uniti coi giovani Neri, anch’essi controllati più dei bianchi (e qualche volta uccisi). E con gli hooligan, in guerra permanente contro altri ragazzi che indossano la divisa. Poi ci sono quelli delle periferie napoletane che, fin da piccoli, sono svegliati in piena notte dalle irruzioni della Polizia nelle case del quartiere, e fanno esperienza del carcere andando a trovare familiari o amici. Questi bambini sanno di non far parte del mondo bello e colorato che risplende in tv o nelle vie del centro. E questa estraneità trova conferme nelle esperienze frustranti di una scuola che spesso e volentieri li butta fuori e, adesso, pure nella minaccia di strapparli alla famiglia “mafiosa”. Si aggiunga che, in Italia, la povertà giovanile è cresciuta, dal 2010 al 2015, del 12,9%. Ecco la radice del rancore, e degli atti di teppismo. Che diventa anche peggio quando qualcuno decide di investirci sopra. Quando a investire sono le reti wahhabite dell’Arabia Saudita o dei Fratelli Mussulmani, nascono i foreign fighter. Quando sono i cartelli della droga, ecco le gang del narcotraffico. Al di là delle evidenti differenze, i due fenomeni si somigliano, almeno per il profilo dei protagonisti: tutti giovani delle periferie emarginate che, nel jihad o nelle droghe, vedono l’unica occasione loro offerta per sottrarsi ad un destino segnato. Di povertà ed emarginazione certo, ma anche di oscurità assoluta in un mondo in cui bisogna brillare come le vedette dello spettacolo. Un’occasione per essere qualcuno, e forse anche per diventare martiri e vivere in eterno, come Emanuele Sibillo che oggi è un nuovo San Gennaro. Quarto. Che fare? Non certo perdonare. La fatuità è parte del problema e la sanzione può aiutare a crescere. Ma il carcere è il contrario della responsabilizzazione, ed è uno stigma che si aggiunge all’ esclusione. Meglio provare con lavori di pubblica utilità o comunità di socializzazione. Ma è soprattutto il contesto ambientale che va curato, e qui viene il difficile. Non ci sono ricette, c’è piuttosto un tessuto morale, civile e culturale da ricostruire. C’è bisogno di scuola, come dice il ministro Orlando. Ma non quella che boccia i bambini difficili, piuttosto quella di Don Milani, magari con un custode che la protegga dalle razzie. E di lavoro e sviluppo. Intanto cominciamo a considerare il disagio dei giovani delle periferie come una malattia anche nostra. In ognuna delle coltellate inferte al povero Arturo c’era un po’ della nostra inerzia, della nostra indifferenza, c’era l’assenza della politica e l’incapacità delle classi dirigenti. Baby gang. Cantone: “vince l’idea dell’impunità, serve la linea dura” Il Mattino, 23 gennaio 2018 “È sbagliato spiegare la violenza messa in atto da certi ragazzi come conseguenza della visione di Gomorra. Minorenni che delinquono ci sono sempre stati, basta ricordare che le prime condanne di ragazzini per fatti di camorra risalgono a 10 anni fa. Erano ragazzi inseriti in tutto e per tutto nella rete della criminalità organizzata. Lo dice Raffaele Cantone, presidente dell’Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione, agli studenti dell’Istituto superiore Marconi. Studenti giuglianesi come lui, che i problemi del territoriali conosce bene. Cantone ha esortato i ragazzi a non perdere la speranza per il futuro e a impegnarsi sempre nel combattere contro l’illegalità, L’incontro, organizzato dalla dirigente scolastica Mugione, si è tenuto nella sede della scuola, a pochi metri dall’ospedale San Giuliano dove negli stessi minuti veniva dimesso Gaetano, il 15enne ferito da una baby gang due settimane fa e operato d’urgenza per l’asportazione della milza. “Gomorra non l’ho mai vista, ma sono certo che la realtà napoletana non corrisponde solo ed esclusivamente all’immagine data dalla fiction e noi dovremmo imparare a dire che qui c’è la camorra ma anche altro. Questa serie tv insegna ai ragazzi che nella vita tutto si può ottenere ma proviamo a spiegare loro che non vale la pena avere una breve vita per un paio di scarpe firmate”, ha ammonito Cantone, sottolineando che, sul piano legislativo, occorrono modifiche perché chi sceglie la violenza sia adeguatamente sanzionato. “Oggi vince l’idea dell’impunità, alcune leggi sembrano dare ai ragazzi la certezza che non saranno puniti. Quelli che accoltellano hanno già valicato la linea della paura del carcere, bisogna prenderne atto e adottare la linea dura”. Per il presidente dell’Anac comunque l’ondata di violenza di questi ultimi giorni non è una novità: “Ce ne stiamo accorgendo perché il fenomeno ha raggiunto la Napoli “bene”, ma in altre zone è ben noto”. Per capire il perché, Cantone invita i ragazzi a “farsi un giro nelle periferie delle città della provincia, dove c’è un alto tasso di disoccupazione e dove funziona un altro welfare che non è quello dello Stato ma è quello della camorra”. Ed è qui che nasce il problema: “Sono ragazzi che in gruppo e quando sono armati si sentono forti e che poi, una volta finiti in carcere e sono da soli, sembrano tante pecore e fanno quasi tenerezza. Ecco perché ‘ esorta Cantone ‘ se tutti voi riuscite a fare gruppo si può contrastare questo fenomeno e la camorra”. Ma il presidente dell’Anticorruzione parla anche dei motivi che l’hanno spinto a non abbandonare Napoli: “Non sono mai andato via da qui perché devo quello che sono a questo contesto, a questa realtà. Questi luoghi mi hanno fatto vedere da vicino la realtà di come si vive”. L’appello quindi è di “non mettere la testa sotto la sabbia” e “di lottare tutti insieme per sconfiggere chi distrugge questi territori. Bisogna essere orgogliosi di essere di queste terre”. Cantone ha anche parlato del malaffare nella politica e dell’emergenza rifiuti, di camorra e di estorsioni. Ha risposto alle decine di domande che gli alunni gli hanno rivolto, a quella “se rifarebbe tutto”, la sua risposta è stata un secco “sì”. E mentre si parlava di camorra e baby gang, Gaetano tornava a casa sua, a Melito. Il quindicenne è tornato a casa, accompagnato dalla madre Stella e dallo zio Giosuè, che notte e giorno hanno vegliato su di lui. “Ora vuole solo riposare a casa sua - dicono i familiari - ha chiesto solo del suo letto e di avere di nuovo a disposizione la Play Station”. In cella ma non era colpevole: niente risarcimento di Simone Di Meo Il Giornale, 23 gennaio 2018 Assolto dall’accusa di stupro, il verbale era falso. Non otterrà nulla per l’ingiusta detenzione. Due settimane nella sezione “Crimini sessuali” di Poggioreale. Altri sei mesi ai domiciliari. E alla fine assolto con formula piena per “non aver commesso il fatto”, perché le indagini della volante dell’Ufficio prevenzione generale della Questura erano piene di omissioni, errori, travisamenti e persino di “dimenticanze”. Lo Stato doveva disporre il risarcimento per ingiusta detenzione e così il giornalista napoletano Roberto Ruju ha avanzato richiesta. Additato all’opinione pubblica come il bruto che aveva violentato, in una fredda serata di due anni fa, una studentessa in un androne di un palazzo del capoluogo. Solo che, di fronte ad una sentenza cristallina di non colpevolezza, la Corte d’appello di Napoli ha deciso che Ruju non ha diritto ad alcun indennizzo. E questo perché, nonostante sia stato dichiarato innocente, secondo i giudici prima del suo fermo, alla vista della Polizia, si sarebbe dato a forsennata fuga nei vicoli di Napoli e solo dopo un inseguimento di un agente sarebbe stato raggiunto e bloccato. Questa fuga ha quindi ingenerato negli agenti e nei giudici, che poi convalidarono l’arresto, la legittima convinzione della sua colpevolezza. Se Ruju si fosse fermato al controllo degli agenti e avesse tranquillamente consegnato i suoi documenti, l’incubo non si sarebbe mai materializzato. Peccato che, a guardare gli atti processuali, le cose non pare siano andate affatto così. In una storia che ha letteralmente distrutto un’esistenza, la circostanza inquietante è che Ruju non sarebbe mai scappato. Anzi, si è mostrato immediatamente collaborativo, esibendo i documenti e rispondendo alle domande. Nel verbale di fermo c’è scritto che il sospettato si “dava alla fuga”, ma, codice alla mano, se non vi fosse stata questa annotazione il fermo di pg non poteva essere eseguito. In sintesi, la VIII sezione della Corte di Appello di Napoli ha attribuito rilevanza a un accadimento che non si sarebbe affatto verificato, come poi emerso a dibattimento e accertato dalla ricostruzione dei fatti eseguita dai giudici che hanno assolto Ruju. Quindi, il giornalista che per questa storia ha perso il lavoro e per le notizie dell’arresto in rete non riesce a trovarne uno nuovo è stato danneggiato dallo Stato tre volte. I poliziotti hanno detto che fuggiva, ma non era così. Il pm e il gip lo hanno tenuto agli arresti, e non lo meritava. È stato assolto, ma non potrà ricevere alcun indennizzo. Spiega l’avvocato Maurizio Lojacono, difensore del giornalista: “Proporremo immediato ricorso per Cassazione. È un provvedimento ingiusto, che non ha affatto verificato il contenuto degli atti dibattimentali, gli unici che valgono in un giusto processo. La Corte d’appello si è fermata a un verbale di fermo, che per essere legittimamente emesso doveva necessariamente presupporre la fuga di un indiziato. Ma a dibattimento, lo stesso agente che aveva redatto quel verbale ha dovuto ammettere che Ruju non era affatto scappato e ha regolarmente consegnato i documenti”. Stalking: reato insistere anche un solo giorno di Rita Maria Esposito Il Messaggero, 23 gennaio 2018 Appostamenti, pedinamenti, apprezzamenti: vietato insistere. Don Giovanni oggi dovrebbe arrendersi, così come avrebbe dovuto fare un professionista milanese, condannato in via definitiva per la corte spietata a una giovane donna di cui si era “innamorato” senza essere corrisposto. Tre giorni di tentativi e pedinamenti gli sono costati cari e sono stati sufficienti per far confermare in Cassazione la condanna già incassata in Appello di sei mesi per stalking. E gli ermellini mettono in guardia gli ostinati: possono bastare anche 24 ore. Tutto ha avuto inizio nel 2015, quando l’uomo, invaghitosi della vittima, avrebbe cominciato un corteggiamento più che serrato. Pedinamenti, appostamenti quotidiani, apprezzamenti e tentativi di stabilire una vicinanza anche fisica. Un pressing vissuto dalla donna come inopportuno, tanto da spingerla a denunciarlo. L’uomo aveva anche scoperto l’orario in cui la donna portava i bambini ai giardinetti e l’aveva seguita fin dentro il parco giochi, infastidendola mentre si trovava lì con i figli. A nulla sarebbero valsi i tentativi della signora di dissuaderlo. Al contrario, davanti ai ripetuti rifiuti, anziché desistere, l’uomo avrebbe perseverato, in un crescendo di “comportamenti invasivi della libertà personale e della sfera personale” della vittima. Un incubo durato tre giorni, durante i quali la donna avrebbe vissuto in uno stato di ansia, finendo per cambiare abitudini. A sua difesa l’uomo ha sostenuto che il suo era stato solo un corteggiamento non corrisposto e che i suoi tentativi di approccio non erano stati tali da poter determinare nell’oggetto delle sue attenzioni un simile stato di paura: non aveva mai assunto comportamenti aggressivi o minacciosi. Era solo un corteggiamento. E, soprattutto, l’amore era durato in tutto tre giorni. Settantadue ore, troppo poche - secondo la tesi sostenuta dal suo difensore - per determinare uno stato di ansia permanente, come quello poi denunciato dalla giovane mamma. La tesi non ha convinto affatto gli ermellini che hanno confermato il verdetto. Scrivono i giudici: il reato di atti persecutori si concretizza nel momento in cui tali comportamenti “hanno un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima”. Cosa effettivamente accaduta, in base a quanto ricostruito dagli inquirenti. Nulla conta che tali atti si siano protratti solo per tre giorni, lo stalking si prefigura anche “quando le singole condotte sono reiterate in un arco di tempo molto ristretto (anche una sola giornata) a condizione che si tratti di atti autonomi e che la reiterazione di questi, pur concentrata in un brevissimo arco temporale” determini uno stato di grave disagio nelle vittime. Ossia “un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico”. Proprio in questa situazione si sarebbe trovata la mamma milanese, costretta a modificare le sue le abitudini e, segnatamente “l’orario di gioco al parco con i propri figli”. Odio razziale, l’aggravante convive con l’attenuante per provocazione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 22 gennaio 2018 n. 2630. L’aggravante dell’odio razziale può convivere con l’attenuante della provocazione. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 22 gennaio 2018 n. 2630, confermando la condanna a quattro anni di reclusione di un uomo per il reato di omicidio preterintenzionale aggravato da finalità di odio razziale con la concessione dell’attenuante della provocazione e delle attenuanti generiche. Contro questa decisione l’imputato ha proposto ricorso denunciando la mancata concessione della scriminante della legittima difesa e la mancata esclusione dell’aggravante dell’odio razziale, incompatibile, a suo dire, con l’attenuante della provocazione. Quanto al primo motivo, la Suprema corte, rilevato che la sentenza era stata pronunciata con la formula dell’applicazione della pena su richiesta, l’ha dichiarato inammissibile. Mentre il secondo è infondato considerato che è stato lo stesso imputato a formulare richiesta di applicazione di pena (ex articolo 444 cpp), “sulla base della coesistenza dell’aggravante speciale di cui all’articolo 3 della legge 205/93 con l’attenuante comune di cui all’articolo 62 n. 2 c.p., per cui ora non può dolersi di una loro pretesa incompatibilità”. Comunque, prosegue la decisione, la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso è configurabile non solo quando l’azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulti intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell’accezione corrente, a un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, non avendo rilievo la mozione soggettiva dell’agente. Conseguentemente, prosegue la decisione, “non appare applicabile la pacifica giurisprudenza di questa Corte in tema d’incompatibilità tra l’attenuante della provocazione e l’aggravante dei futili motivi poiché non è possibile la coesistenza di stati d’animo diversi nella medesima azione”. Infatti, conclude sul punto, “una cosa è la coesistenza nella medesima azione criminosa di stati d’animo contrastanti mentre altra cosa è la coesistenza tra uno stato d’animo che attenui la gravità del fatto e una condotta, destinata a rendere percepibile all’esterno un sentimento d’odio, senza che assuma rilievo la mozione soggettiva dell’agente: il tutto a non voler considerare il lasso di tempo intercorrente tra le espressioni razziste pronunziate dall’imputato e la reazione aggressiva della vittima, che vale a rendere insussistente la pretesa contemporanea coesistenza di situazioni soggettive diverse”. L’estero-vestizione non esonera dall’obbligo di dichiarazione Iva di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 2407/2018. L’estero-vestizione di una società non è un’operazione abusiva con la conseguenza che l’omessa presentazione della dichiarazione in Italia costituisce una fattispecie penalmente rilevante. A fornire questo importante chiarimento è la Cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 2407 depositata ieri. La vicenda nasce da una contestazione della Gdf con la quale veniva considerata estero-vestita una società tedesca. Il legale rappresentante veniva così accusato di omessa dichiarazione Iva. Il Gip disponeva un sequestro preventivo finalizzato alla confisca sia nei confronti della società sia del suo amministratore, fino a concorrenza dell’imposta evasa. Il Tribunale del riesame confermava il decreto di sequestro e l’indagato, il legale rappresentante della società, proponeva ricorso per Cassazione. Tra i motivi di doglianza, la difesa rilevava che la realtà tedesca non era stata indagata dalle relative autorità; quindi, al massimo poteva essere contestato, attesa la veridicità delle operazioni commerciali, un abuso del diritto di stabilimento della sede operativa, ma non il reato di omessa presentazione in Italia della dichiarazione. Non era configurabile alcun delitto, poiché nel nostro ordinamento è esclusa la rilevanza penale delle operazioni abusive (articolo 10 bis dello Statuto del contribuente). I giudici di legittimità, richiamando giurisprudenza precedente, hanno innanzitutto ricordato che l’obbligo di presentazione della dichiarazione annuale Iva da parte di società avente residenza fiscale all’estero sussiste se c’è una stabile organizzazione in Italia. Tale caratteristica si desume da elementi fattuali rilevanti quali la sede delle decisioni strategiche, industriali e finanziarie (la cosiddetta “alta amministrazione”) nonché della conduzione delle attività costituenti l’oggetto sociale. Nella specie, in Italia era stata rinvenuta in sede di verifica tutta la documentazione contabile, bancaria (peraltro di conti correnti italiani) e commerciale e la bontà di tali prove era stata già valutata dal Tribunale con adeguata motivazione sul punto. Con riferimento all’abuso del diritto, per la Suprema corte le operazioni abusive si configurano solo quando non violano disposizioni tributarie e penali tributarie; è una norma di applicazione solo residuale rispetto ad altre relative a comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione ed all’utilizzo di documentazione falsa. Perciò non può esistere abuso quando i fatti in contestazione integrano fattispecie penali connotate da elementi costitutivi specifici. Dai documenti in atti era indubbio che si trattasse di estero-vestizione e pertanto che la società avesse dovuto rispettare gli obblighi fiscali italiani. I reati di falso in documenti validi per l’espatrio. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2018 Reati contro la fede pubblica - Falsità personale - Documenti validi per espatrio - Fattispecie di cui all’articolo 497-bis del Cp - Autonome figure criminose. I due commi di cui all’articolo 497 bis c.p. puniscono diversamente, in ragione del diverso grado di gravità, la condotta del mero possesso di un documento valido per l’espatrio, da un lato, e la condotta, ben più allarmante sul piano delle falsità personali per la connotazione organizzativa che la caratterizza, della contraffazione del documento stesso a opera dello stesso detentore, o del concorso da parte di costui alla falsa formazione del documento o della detenzione fuori dai casi di uso personale. Sebbene la pena sia indicata con un sistema di computo per relationem rispetto a quella del comma 1, nel senso che “è aumentata” - elemento in genere ritenuto indicativo del rapporto circostanziale dell’una fattispecie rispetto all’altra - la struttura delle stesse si rivela ontologicamente distinta, nel senso che il criterio strutturale della descrizione del precetto penale depone nel senso di due reati autonomi. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 1° dicembre 2017 n. 54297. Reati contro la fede pubblica - Delitti - Falsità personale - In genere - Possesso di una carta d’identità italiana di provenienza furtiva contraffatta dallo stesso possessore - Integrazione del reato di cui all’art. 497 bis, comma secondo, cod. pen. - Ragioni. Integra il reato di cui all’art. 497 bis, comma secondo, c. p., e non quello meno grave di cui al comma primo della stessa norma, il possesso di una carta d’identità recante la foto del possessore con false generalità, essendo evidente, in tal caso, la partecipazione di quest’ultimo alla contraffazione del documento. (In motivazione la S.C. ha chiarito che le due ipotesi di reato si presentano alternative tra loro). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 14 aprile 2016 n. 15681. Reati contro la fede pubblica - Delitti - Falsità personale - In genere - Concorso nella contraffazione del falso passaporto posseduto - Integrazione del reato di cui all’art.497 bis, comma secondo, c. p. e non di quello di cui al comma primo dello stesso articolo - Ragioni. Integra il reato di cui all’art. 497 bis, comma secondo, c. p. (possesso e fabbricazione di documenti falsi), concorrere nella contraffazione del falso passaporto posseduto, considerato che la “ratio” della previsione incriminatrice - che costituisce ipotesi autonoma di reato rispetto a quella del mero possesso prevista dall’art. 497-bis, comma primo, cod. pen. - è quella di punire in modo più significativo chi fabbrica o, comunque, forma il documento, con la conseguenza che il possesso per uso personale rientra nella previsione di cui all’art. 497-bis, comma primo, cod. pen., solo se il possessore non ha concorso nella contraffazione. (Fattispecie in cui il passaporto recava la foto del possessore ma con generalità diverse). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 4 febbraio 2015 n. 5355. Reati - Reati contro la fede pubblica - Falsità personale - Art. 497 bis c.p. - Possesso di documenti falsi - Falsificazione di documenti - Qualificazione circostanziale o costitutiva di una fattispecie - Criterio strutturale. Il solo criterio idoneo a distinguere le norme che prevedono circostanze da quelle che prevedono elementi costitutivi della fattispecie è il criterio strutturale della descrizione del precetto penale. Con riferimento specifico all’art. 497-bis c.p. sul possesso e fabbricazione di documenti di identificazione falsi, esiste tra le due fattispecie (di cui rispettivamente al primo e al secondo comma), una “immutazione degli elementi essenziali delle condotte illecite descritte in quanto il riferimento è ad eventi che esprimono, ciascuno, una realtà fenomenica distinta e indipendente”. L’ipotesi di cui al comma 2 punisce infatti la condotta della fabbricazione di documento falso, in sé del tutto distinta da quella del possesso di cui al comma 1, e non certo in rapporto di progressione criminosa, costituendone semmai il presupposto e l’antefatto naturale. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 24 aprile 2013 n. 18535. Trento: per i detenuti aumentano le misure alternative di Caterina De Benedictis Corriere del Trentino, 23 gennaio 2018 Il direttore Apas: “Il carcere è rigido, l’affidamento impone responsabilità”. Secondo i dati Ispat, delle 327 persone condannate al carcere nel 2016 in Trentino per ben 129 di loro sono state disposte delle misure alternative. Giazzon: “L’obiettivo deve essere rieducare”. La società civile entra nel mondo penitenziario. È ciò che si evince dalle analisi dell’Ispat - Istituto di statistica della provincia di Trento - sui dati pubblicati riguardo i condannati sottoposti a misure alternative alla detenzione negli anni 2010-2016. Nel 2016, infatti, i condannati sottoposti a misure alternative nella provincia di Trento sono stati 129. Per leggere tale dato risulta necessario fare altresì riferimento al numero totale dei condannati nello stesso anno: 327. Osservando semplicemente i numeri si potrebbe pensare che si sia registrato un ricorso maggiore alla detenzione piuttosto che alle misure alternative. In merito, tuttavia, si esprime il direttore dell’Apas Aaron Giazzon. “Il carcere è un’istituzione rigida, che per sua natura non esclude nessuno - commenta - Invece il ricorso alla misura alternativa prevede la redazione di un progetto con la persona e con un’ampia rete di soggetti”. Dunque, analizzato alla luce di tale complessità, il numero relativo ai condannati sottoposti a misure alternative non appare più così ridotto. “In riferimento ai dati dell’Ispat, la riflessione principale dovrebbe riguardare la tipologia di misura alternativa cui si è fatto ricorso”, spiega Giazzon. Infatti, nel 2016 sono stati 46 i soggetti cui è stata applicata la detenzione domiciliare e 55 i soggetti che hanno usufruito dell’affidamento in prova ai servizi sociali. Prima di analizzare la rilevanza di simili numeri è necessario specificare cosa effettivamente lo Stato italiano intende con il termine “misure alternative alla detenzione”. Per essere definite tali, infatti, le misure alternative alla detenzione devono essere volte alla realizzazione della funzione rieducativa della pena. “Leggendo i dati si registra un utilizzo molto simile di misure alternative profondamente diverse - spiega il direttore dell’Apas - Infatti, se da una parte si può fare riferimento alla detenzione domiciliare come modalità attraverso la quale il condannato riesce ad alleviare le proprie sofferenze personali, dall’altra parte l’affidamento in prova ai servizi sociali punta maggiormente a rispondere al bisogno di rieducazione quale elemento fondante delle misure alternative”. L’affidamento risulterebbe dunque essere la “misura alternativa per eccellenza”. “La detenzione domiciliare allevia le pene del condannato e contemporaneamente grava però sulle spalle dei familiari, peraltro spesso già pesantemente provati - spiega Giazzon - Inoltre non mira alla rieducazione e alla responsabilizzazione, diversamente dall’affidamento”. Infatti, non solo l’affidamento deve necessariamente basarsi sulla responsabilizzazione del condannato, ma permette anche di tracciare la strada dell’impegno della società civile in termini di rieducazione. Trieste: i detenuti fanno lo “sciopero del carrello” di Elisabetta Burla* Ristretti Orizzonti, 23 gennaio 2018 Per un’esecuzione della pena rispettosa della dignità della persona. Con convinzione e responsabilità è stato accolto dalle persone private della libertà della Casa Circondariale e dal Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste l’invito di Rita Bernardini di aderire alla protesta non violenta volta a ricordare alla Politica la necessità di giungere all’approvazione dei decreti attuativi del nuovo ordinamento penitenziario portando così a termine il progetto di riforma. Importante sarebbe riuscire ad integrare il decreto attualmente all’esame della Commissione Giustizia della Camera con le tematiche relative all’affettività e al lavoro cui è collegata la tematica sulla liberazione anticipata oltre che la parte concernente l’ordinamento penitenziario minorile. La protesta non violenta a cui le persone private della libertà di Trieste - unico Istituto nel Friuli Venezia Giulia ad ospitare anche la sezione femminile - hanno aderito è volta ad ottenere una riforma che possa garantire un’esecuzione della pena in forma dignitosa; non vengono rivendicati benefici, viene chiesto il rispetto dei diritti: il diritto all’istruzione, alla formazione, al lavoro diritti che garantiscono un percorso effettivamente rieducativo e risocializzante. E certamente un percorso individualizzato che tenga conto delle abilità e che rafforzi le difficoltà della persona è il giusto percorso per intraprendere la via della risocializzazione, il giusto strumento per permettere alla persona di poter scegliere del proprio futuro. Ma anche l’aspetto dell’affettività è tematica importante per le persone private della libertà che ben conoscono le difficoltà nel mantenere rapporti familiari e affettivi una volta fatto ingresso in carcere: le limitazioni nei colloqui telefonici (10 minuti a settimana) e cosa dire se si ha un figlio minore che difficilmente riuscirà a cogliere “l’opportunità concessa per questo tempo limitato”; i colloqui sotto il controllo visivo costante da parte degli agenti mortificante per il detenuto e il proprio caro ma anche per molti agenti; l’assenza di adeguati spazi per gli incontri con i figli; l’assenza di adeguati supporti tecnici (vedi collegamenti skype) che potrebbero quantomeno rendere meno asettico un colloquio a distanza con i familiari specie per le persone straniere. Queste le ragioni che hanno suggerito a 115 persone private della libertà, altre persone se ne stanno aggiungendo, di aderire allo sciopero del carrello. Persone che colgono l’opportunità di aderire ad una manifestazione per il riconoscimento di diritti fondamentali della persona e che nel contempo chiedono che il cibo che non verrà loro somministrato sia donato ad associazioni che operano nel settore del volontariato a favore delle persone in difficoltà. Il Garante Comunale dei Diritti dei detenuti di Trieste condivide le ragioni dell’iniziativa aderendo allo sciopero della fame per la giornata del 23 - 26 - 29 gennaio p.v. *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Avellino: detenuti in sciopero della fame “si applichi la riforma Orlando” Il Mattino, 23 gennaio 2018 “Applicare la riforma Orlando”. Una sollecitazione, questa espressa anche dai detenuti del penitenziario di Bellizzi Irpino, che si è tradotta, dalla mezzanotte, in uno sciopero della fame e della spesa. Ad annunciarlo sono stati gli stessi reclusi, in un comunicato nel quale sottolineano “la forma non violenta” della protesta, e chiedono al governo di portare a termine “l’iter di approvazione dei decreti legge della cosiddetta Riforma Orlando”. In particolare, i detenuti fanno riferimento a quelle misure che garantiscano “condizioni più umane e meno degradanti” del regime detentivo e il diritto alla salute. In occasione della recente visita nel carcere di Avellino del garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, era stata sottolineata la necessità di incrementare la presenza di medici specialisti esterni per ridimensionare i tempi di attesa ai quali devono sottostare i detenuti malati: nel corso del 2017, sono state 455 le visite esterne e 90 i ricoveri presso strutture ospedaliere. Ogni detenuto che viene sottoposto a visite e cure all’esterno del carcere, viene accompagnato in media da tre agenti della Polizia Penitenziaria, il cui organico sottostimato (208 su una pianta organica che ne prevede 297) non consente tempestività ed efficacia all’assistenza sanitaria. Attualmente sono 530, di cui 22 donne, i detenuti nel carcere irpino a fronte di una capienza di 501 posti. Soltanto 7 detenuti godono della possibilità di lavorare all’esterno. La legge Orlando ha individuato criteri e principi cui il Governo dovrà attenersi, come la semplificazione delle procedure per le decisioni di competenza del magistrato e del tribunale di sorveglianza, nonché la revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative, nell’ottica di facilitarne l’applicazione quando la condanna non riguardi ipotesi di eccezionale gravità ovvero delitti di mafia e terrorismo. Avellino: il Garante regionale “carcere, troppi vuoti in organico” di Marco La Carità Il Mattino, 23 gennaio 2018 Ciambriello, il garante dei reclusi, sollecita assunzioni nei reparti. Boccia la scelta della costruzione del nuovo padiglione su un’area adibita a campo sportivo, ma promuove le iniziative volte a favorire l’inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro il Garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello in visita al carcere di Ariano Irpino. Ciambriello, seguito nel suo percorso di visita dal direttore Gianfranco Marcello, declina punti di forza e di debolezza della struttura e delle attività che vengono messe in essere con associazioni e chiesa. Si sofferma anche sullo sciopero della fame dei detenuti del carcere di Bellizzi per sensibilizzare l’accelerazione dell’iter di approvazione dei decreti legge della cosiddetta riforma Orlando. Il Garante nell’analisi dello stato dell’arte della casa circondariale parla in prima battuta del nuovo padiglione: “Mi sembra una grande anomalia - dice Ciambriello - il fatto che la nuova struttura sia stata costruita su un’area adibita a campo sportivo e poi nessuno abbia pensato di realizzarlo. Pensate a quanto sia importante avere un impianto sportivo per 320 detenuti perché significherebbe riabilitare mente e corpo”. Il Garante fa la conta del personale mancante che potrebbe ridare maggiore qualità ai servizi: “Ci sono solo due educatori quindi spero che il Provveditore del dipartimento regionale possa distribuire al meglio le risorse incrementando l’organico di due unità. Mancano inoltre -aggiunge Ciambriello - le figure intermedie del personale della Polizia Penitenziaria quali sovrintendenti e commissari che fungono da raccordo con gli agenti”. Di rilievo le attività scolastiche legate al Liceo Artistico che potrebbero essere incrementate nell’offerta formativa. Ciambriello rimane comunque colpito positivamente da diversi fattori: “È bello scoprire che un gruppo di detenuti esca fuori dalla struttura per svolgere compiti di orto sociale, artigianato e cucina. Ed è apprezzabile il fatto che 68 di essi ottengano permessi premio, fatto che fa superare la concezione del carcere di Ariano quale struttura di massima sicurezza”. Il Garante, che apprezza il rapporto umano del direttore Marcello con i detenuti, annuncia che donerà alla struttura giochi per i figli dei carcerati e farà rientrare Ariano nella programmazione regionale per corsi di formazione. Non è mancato un confronto sull’episodio denunciato dal Sappe riguardo un’aggressione tra detenuti: “Il direttore Marcello - spiega il Garante - ha specificato che si è trattato di un momento di incandescenza di un soggetto con problemi specifici che ha creato scompiglio per calmarlo, quindi non c’è stata alcuna aggressione perché non rientra nella casistica”. Ciambriello, a proposito del sciopero dei detenuti di Bellizzi afferma: “Il 29 avremo un incontro a Roma per discutere dello stato dell’arte dei decreti, ma credo che sia necessario conoscere le osservazioni del Parlamento e fare subito”. La visita si è chiusa con il regalo della Guida ai diritti e ai doveri dei detenuti per chiarire che il carcere non è solo luogo di detenzione ma anche di riabilitazione. Resta ora da verificare, tenuto conto delle esigenze rappresentate dai detenuti nel penitenziario di Bellizzi Irpino, quali saranno gli sviluppi della protesta contro la riforma Orlando. Salerno: morto in cella, scontro tra pm e gip “imputazione coatta per il medico” Il Mattino, 23 gennaio 2018 Rischia di chiudersi senza un colpevole l’inchiesta sulla morte di Ivan Gentile, il 43enne di Agerola morto di infarto e trovato cadavere in una cella del carcere di Fuorni nel novembre 2016. Il sostituto procuratore Elena Cosentino, titolare del fascicolo, ha chiesto l’archiviazione per la cardiologa dell’Asl, in servizio presso il penitenziario cittadino M.C., raggiunta da un avviso di garanzia all’indomani del decesso. Il legale nominato dalla famiglia del detenuto, l’avvocato Stefania Pierro, ha però immediatamente fatto opposizione e il Gip Piero Indinnimeo ha fissato per il prossimo 29 gennaio l’udienza camerale in seguito alla quale potrebbe scattare l’imputazione coatta a carico del sanitario. Saranno quindi le perizie a scrivere l’ultima parola sulla vicenda e a decretare se, la morte del 43enne, poteva essere evitata. Ivan Gentile era un soggetto cardiopatico, particolare, questo, contenuto nella cartella clinica in possesso del penitenziario; proprio la sua patologia, secondo le conclusioni del medico legale Giovanni Zotti, avrebbe dovuto spingere gli operatori sanitari della casa circondariale di Fuorni ad effettuare esami più specifici per scongiurare l’infarto. La perizia eseguita dal medico legale Giovanni Zotti sembrava infatti evidenziare delle negligenze da parte degli operatori in servizio presso il penitenziario cittadino che avrebbero omesso di effettuare accurati controlli medici in presenza di una sintomatologia, anche pregressa, che faceva pensare a problemi cardiaci. Solo esami specifici di laboratorio per la ricerca di enzimi cardiaci, ed un successivo ricovero presso il reparto di cardiologia dove il paziente sarebbe potuto essere monitorato, avrebbero potuto consentire la formulazione di una corretta diagnosi ed evitare, quindi, il decesso. Diverse, invece, le conclusioni della perizia eseguita dai consulenti di parte nominati dall’indagata che farebbero propendere per un decesso improvviso per il quale non ci sarebbero responsabilità. Erano stati gli stessi familiari dell’uomo a sporgere denuncia affermando che Ivan Gentile, nei giorni precedenti al malore fatale, aveva lamentato dolori lancinanti al petto ma nulla sarebbe stato fatto per accertare le sue reali condizioni di salute. Affidatisi all’avvocato Stefania Pierro, sporsero subito denuncia pretendendo chiarezza su quella che appariva come una morte sospetta. All’indomani della tragedia, scesero in campo anche i sindacati che puntarono il dito sulla carenza dei sistemi di sicurezza ed, in particolare, sul cattivo funzionamento degli allarmi acustici, previsti all’interno del penitenziario, allarmi che dovrebbero garantire gli interventi tempestivi di emergenza tipici di un istituto carcerario e che non sarebbero scattati in occasione del decesso di Gentile dove l’allarme per richiedere i soccorsi necessari, fu lanciato attraverso un inquietante passaparola tra gli operatori all’interno dell’Istituto. Voghera (Pv): detenuti impegnati per l’ambiente e la storia, così cambiano vita di Nicoletta Pisanu Il Giorno, 23 gennaio 2018 Non è difficile a Voghera vedere i detenuti intenti a pulire le rive del torrente Staffora, o impegnati in progetti di paleontologia con il Museo di scienze naturali. La Casa circondariale da anni lavora con volontari, associazioni e con il Comune per garantire attività culturali e socialmente utili ai detenuti, nell’ottica di un percorso di rieducazione e inserimento nella società cittadina. Portando persone e storie in mezzo alla gente: “A dicembre abbiamo tenuto un incontro alla sezione classica del liceo scientifico Galilei sul tema della povertà - ha spiegato l’assessore comunale ai Servizi sociali, Simona Virgilio, cui tra gli altri hanno partecipato anche due detenuti che hanno parlato delle loro esperienze”. Il Comune sta valutando per il 2018 nuove collaborazioni con la casa circondariale: “Da parte nostra c’è la massima disponibilità a intraprendere progetti con l’istituto - ha spiegato Virgilio -. Attualmente, collaboriamo in diversi modi, legati ai lavori socialmente utili”. Dall’ufficio educatori della casa circondariale vogherese, fanno sapere che sono in atto collaborazioni anche con il Centro provinciale di istruzione adulti e l’Istituto Maserati, per quanto riguarda l’ambito dell’istruzione, è stato inoltre siglato un protocollo di intesa con il tribunale di Pavia per attività di archiviazione, la casa circondariale collabora anche con l’ente di formazione Apolf e associazioni come Caritas e Agape: “Docenti in pensione prestano la loro attività in sostegno ai singoli detenuti, abbiamo anche un gruppo di buddisti che svolge attività di sostegno”, spiegano dall’Ufficio educatori dell’istituto penitenziario. Secondo i dati riportati sul sito del Ministero della Giustizia, sono centoventi i detenuti a Voghera impegnati contemporaneamente in più attività non lavorative, mentre sono sessantatré con turnazione mensile le persone recluse che si dedicano al lavoro. La casa circondariale offre, come spazi comuni, due campi sportivi, dieci palestre, diciannove aule, un teatro, due biblioteche, tre laboratori, un’officina, un locale di culto e tre mense. Non mancano attività scolastiche e culturali, come il corso di teatro, di recupero dei beni naturalistici, ma anche seminari di divulgazione scientifica e corsi di scrittura creativa. Il tutto fondato sull’operato dei volontari e delle associazioni. Milano: un documentario per ricucire “lo strappo” del crimine di Paolo Foschini Corriere della Sera, 23 gennaio 2018 Fa un certo effetto vedere seduti uno accanto all’altro un ergastolano per mafia e il magistrato Alberto Nobili, che contro la mafia ha combattuto una vita, e sentire il primo che dice “è un privilegio essere qui con lei”, e il secondo che risponde “l’emozione è mia, la sua presenza qui oggi e il suo percorso di recupero sono una delle soddisfazioni più grandi che ho provato dacché faccio il mio lavoro”. È solo uno dei (tanti) momenti intensi che hanno caratterizzato la mattina di ieri all’Istituto Molinari di via Crescenzago, cinque scuole in rete e centinaia di studenti nella stessa aula magna per fare “quattro chiacchiere sul crimine”, come recitava il titolo. Chiacchiere si fa per dire, perché a parlarne e soprattutto rispondere alle domande dei ragazzi c’erano il fondatore di “Libera” don Luigi Ciotti, e familiari di vittime della criminalità più diversa - da Manlio Milani la cui moglie morì nella strage di Brescia a Maria Rosa Bartocci il cui marito fu ucciso in una rapina, da Margherita Asta che in un attentato di mafia perse la madre e due fratelli a Daniela Marcone a cui la criminalità uccise il padre - e poi il provveditore delle carceri lombarde, Luigi Pagano, e altri condannati per omicidio, e magistrati, giornalisti, avvocati. Tutti lì per discutere di quella cosa che è “Lo strappo” prodotto ogni volta in cui c’è un crimine: strappo nella vittima, nella società, ma anche in chi lo compie. “Lo strappo” in effetti è anche il titolo del documentario presentato sempre ieri e realizzato su un’idea dello psicologo Angelo Aparo, del magistrato Francesco Cajani, del giornalista Carlo Casoli e del criminologo Walter Vannini, in collaborazione con il Comune, con Libera, con l’associazione Trasgressione.net, con la Casa della Memoria, con l’associazione Romano Canosa e con Agesci Lombardia. È scaricabile sul sito lostrappo.net. Un motivo per farlo è già nelle parole con cui Manlio Milano lo apre: “Siamo abituati a pensare che le cose negative accadono sempre a qualcun altro, poi un bel giorno, quando colpiscono noi, ci accorgiamo che siamo parte di una realtà, che può colpire chiunque”. Milano: dall’Ordine degli avvocati un nuovo codice per i diritti degli indifesi di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 23 gennaio 2018 C’è il codice penale, quello civile, quelli di procedura, e poi il codice dell’ambiente, e il codice antimafia e i codice della privacy e... da oggi a suo modo anche un “Codice dei diritti degli indifesi”: nel senso di una raccolta organica, facile da consultare anche per chi non è giureconsulto, di tutti quei provvedimenti che, sparsi tra le varie fonti (dalle costituzionali alle internazionali, dai codici appunto “veri” sino alle leggi speciali e alle norme di attuazione), possono a maggior ragione sfuggire proprio a coloro ai quali più servirebbero esattamente nel momento nel quale servirebbero: gli “indifesi”, intesi - spiega Remo Danovi, presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano che ha curato questa particolare raccolta - come “i più deboli che, a causa di situazioni permanenti o temporanee che accompagnano la loro vita o ne contrassegnano particolari momenti, non hanno voce per reclamare status e riconoscimenti, e sono spesso costretti a inseguire un proprio diritto come fosse un semplice desiderio, perché nel frastuono generale la loro voce, il loro corpo, la loro mente appaiono meno potenti ai superficiali e ai distratti, siano essi persone, burocrazie, istituzioni”. Un’umanità variegata - Ludopatia, bullismo, violenze di genere, immigrazione, problemi della disabilita, usura e crisi da sovra-indebitamento personale: sono solo alcuni dei temi delle fasce disagiate di popolazione alle quali già da tempo l’Ordine offre la consulenza (su base di volontariato) di centinaia di avvocati a rotazione agli “Sportelli del cittadino” l’elenco degli sportelli legali presso i vari consigli di Municipio, informazioni anche allo 0254101935 e alla casella sportello@ordineavvocatimilano.it). Ed è davvero un’umanità variegata, e meno scontata di quanto si possa pensare, a contattarli. Al capitolo usura, ad esempio, c’è classicamente l’imprenditore caduto nella morsa dei “cravattari”, e che quindi viene aiutato a fare la denuncia, a stare a galla economicamente di fronte a sfratti e pignoramenti, a istruire le richieste allo Stato per accedere ai previsti fondi antiracket. Ma c’è anche - racconta l’avvocato Ilaria Ramoni - la persona che pur fuori da un contesto criminale, magari con un lavoro persino stabile e uno stipendio fisso non disprezzabile, finisce ugualmente a rischio-usura a causa della propria propensione al consumo. Sono cioè persone che chiedono aiuto quasi sempre in extremis, quando sono disperate, quando insomma il morbo della ludopatia o la propensione al compulsivo consumo di beni acquistati con carte di credito, o con prepagate o con finanziamenti vari, li porta sull’orlo della perdita della casa o alle soglie dell’impossibilità di far mangiare la propria famiglia. Percorsi psicologici - E qui lo sportello dell’Ordine può da un lato affiancare la persona in un percorso psicologico che la aiuti ad affrancarsi dalla “dipendenza” matrice dei propri guai (che sia l’azzardo oppure la frenesia di acquisti), e dall’altro lato può orientarla verso servizi sociali del Comune, o verso Fondazioni private disponibili a prestare garanzie ad esempio per consentire di far fronte a un mutuo, oppure ancora verso l’Organismo di composizione della crisi da sovra-indebitamento: e cioè verso una stanza di conciliazione nella quale il mediatore, sulla base di quanto ascolta ed esamina nelle posizioni del debitore e dei creditori, può proporre una percentuale e uno schema di rientro dal debito, che, se accettato dalle parti, viene poi ratificato dal giudice fallimentare, evitando (un po’ come in un concordato a misura di individuo) il “fallimento dei piccoli”. L’Ambrogino d’oro - In fondo, osserva Danovi, anche questo nuovo “Codice dei diritti degli indifesi” è il saldo di una sorta di debito: la funzione sociale dell’avvocatura meneghina è stata riconosciuta l’anno scorso dal Comune di Milano “che ha conferito all’Ordine degli avvocati di Milano l’Ambrogino”, e allora “quest’anno abbiamo pensato di dedicare noi pure, anche se idealmente, un dono: a tutte le persone indifese, ai colleghi e agli altri volontari che si prendono cura di loro, e alle istituzioni che dovrebbero soddisfare bisogni e diritti”. Roma: i detenuti cucinano per i bambini malati della terra dei fuochi superabile.it, 23 gennaio 2018 Mercoledì prossimo, 24 gennaio 2018, alle ore 13, in via Ardeatina, 930 a Roma, presso l’Isola Solidale, si terrà un pranzo speciale preparato dai detenuti per i bambini oncologici in arrivo dalla terra dei fuochi (in particolare dai comuni di Giugliano e Casalnuovo) a Roma per incontrare Papa Francesco. L’Isola solidale è struttura che da oltre 50 anni accoglie detenuti (grazie alle leggi 266/91, 460/97 e 328/2000) che hanno commesso reati per i quali sono state condannate, che si trovano agli arresti domiciliari, in permesso premio o che, giunte a fine pena, si ritrovano prive di riferimenti familiari e in stato di difficoltà economica. In questi giorni si stanno già facendo i preparativi per accogliere il 24 gennaio, dopo l’udienza con il Pontefice, il gruppo di oltre 80 persone (45 adulti e 35 bambini), che fanno parte dell’associazione “Angeli Guerrieri della Terra dei Fuochi” fondata da genitori di bambini andati via per sempre perché stroncati dal cancro in una terra tristemente nota come terra dei fuochi dove lo scempio ambientale miete ogni giorno nuove vittime soprattutto tra i bimbi (molti di quelli che verranno accolti all’Isola Solidale sono oncologici). Il pranzo verrà cucinato e servito appunto dai detenuti, mentre le materie prime verranno fornite dal Centro Agroalimentare di Roma (Car). Il pane e la pizza, invece, arriveranno attraverso il progetto “Il pane a chi serve 2.0” delle Acli di Roma e provincia. Le bibite, invece, grazie alla Chinotto Neri. “Abbiamo pensato di offrire - spiega Alessandro Pinna, presidente dell’Isola Solidale- un segno di accoglienza e vicinanza a queste famiglie, soprattutto ai bambini che arrivano da un territorio martoriato e tristemente noto in tutta Italia. Il nostro vuole essere un gesto che possa offrire, con semplicità, fiducia e speranza in un futuro diverso. Desidero anche ringraziare il Car e le Acli di Roma per essere sempre al nostro fianco in queste iniziative che ci donano nuova linfa per la nostra attività di volontariato”. “Abbiamo aderito volentieri a questa iniziativa - spiega Fabio Massimo Pallottini, Direttore Generale del Car e Presidente Italmercati - quale naturale effetto di una più volte dichiarata sensibilità nei confronti del tema della sicurezza alimentare, divenuta un pezzo importante ed insostituibile del nostro brand identity, non da ultimo nella tragica circostanza della Terra dei Fuochi. Offrire a questi piccoli ospiti e alle loro famiglie la possibilità di pranzare con prodotti sani e di grande qualità in arrivo da filiere controllate e certificate rientra in quel circuito virtuoso che ci è proprio”. “Siamo orgogliosi di partecipare a questa iniziativa- racconta Lidia Borzì, presidente delle Acli di Roma e provincia- perché dimostra come facendo rete si possano raggiungere risultati importanti come quello del prossimo 24 gennaio che vedrà protagonisti bambini e le loro famiglie che sono nei nostri cuori”. “Un grazie speciale- aggiunge Tina Zaccaria, presidente dell’associazione “Angeli Guerrieri della Terra dei Fuochi”- a tutti coloro che hanno offerto accoglienza e ospitalità per il nostro gruppo. L’incontro con il Santo Padre rientra in quelle che chiamiamo missioni “scaccia tristezza”, ovvero gite e momenti di svago destinate ai piccoli e famiglie allo scopo di restituire un pizzichino di ciò che la malattia sottrae anche in termini di tempo trascorso insieme. L’incontro con Francesco è molto sentito dai nostri bimbi, ragazzi e famiglie e anche da noi genitori orfani che non smettiamo mai di sperare e pregare per tutti coloro che affrontano il calvario che è toccato anche ai nostri figli e di chiedere all’uomo più rispetto per l’ambiente e il creato come prima forma d’amore verso i bambini”. Foggia: grazie al Csv il carcere di San Severo apre le porte al calcio Vita, 23 gennaio 2018 L’iniziativa in programma il 24 gennaio prevede, dopo la partita che vedrà sugli spalti le famiglie, anche uno scambio di doni e un pranzo condiviso. “Non perdere i rapporti familiari fa bene a chi si trova dietro le sbarre, ai figli e alla società”, sottolinea Patrizia Andrianello, direttrice della struttura. Il carcere di San Severo (Fg) si apre, ancora una volta, all’esterno con l’iniziativa “partita con papà”: 10 detenuti scenderanno in campo per una partita di calcio a cui assisteranno anche i loro figli, che avranno la possibilità di vedere i genitori in un contesto diverso e trascorrere una giornata “speciale”, anche se dietro le sbarre. L’iniziativa, in programma mercoledì 24 gennaio alle 10.30, fortemente voluta dal direttore del carcere, Patrizia Andrianello, e dal commissario Giovanni Serrano, sottolinea come il recupero sociale dei detenuti passi attraverso un loro impegno attivo e la cura dei contatti umani e affettivi. L’organizzazione dell’evento ha visto la collaborazione del Csv di Foggia, dell’Acsi - Associazione comunità straniere in Italia e del Cpia1 - l’Istituto provinciale di istruzione per gli adulti - che doneranno alcuni giochi alle famiglie coinvolte. Alla fine della partita è previsto anche un pranzo che consentirà ai detenuti di trascorre un momento di condivisione con le proprie famiglie. “Con questa iniziativa”, sottolinea Luigi Talienti, volontariato che ha collaborato all’organizzazione dell’incontro, “si completa il quadro delle iniziative di solidarietà, realizzate già a Foggia e Lucera, sempre con l’obiettivo di curare l’aspetto della genitorialità”. “Non perdere i propri rapporti familiari è fondamentale per il recluso - sottolineano i referenti dell’istituto penitenziario - e sostenere questi legami è vantaggioso per chi si trova in carcere, per il figlio, ma anche per la società. In questi casi gli episodi di violenza e di insubordinazione diminuiscono rispetto a quelli dei detenuti che hanno cessato ogni rapporto familiare”. La parola “razza” non è innocente di Dacia Maraini Corriere della Sera, 23 gennaio 2018 Tutti gli esseri umani sono dotati dello stesso tipo di Dna. Non esistono razze in senso biologico. Sembrerebbe tutto chiaro, ma purtroppo non lo è. La parola razza è tornata a farsi sentire. Una parola carica di storia, e perciò non innocente. Si può parlare di specie. E in effetti esiste la specie umana, ma come ha spiegato bene Darwin, deriva tutta da un gruppo di africani vissuto 200.000 anni fa. In quanto al colore nero, deriva da una difesa della pelle contro la forza del sole. Una semplice questione di melatonina. La scoperta del Dna oltre tutto ha chiarito molte cose. Se esistessero le razze umane, infatti, ci sarebbe un Dna degli Ebrei, un Dna del popolo zingaro, un altro dei cosiddetti Ariani bianchi e uno dei neri africani. Ma così non è. Tutti gli esseri umani sono dotati dello stesso tipo di Dna. Non esistono razze in senso biologico. Esistono differenze, e moltissime, ma sono storiche, geografiche, culturali, economiche, filosofiche, religiose. Qualsiasi persona informata lo sa. Sembrerebbe tutto chiaro, ma purtroppo non lo è. La ragione e la consapevolezza storica non sembrano guidare chi cerca soluzioni ai suoi problemi. Ma la cosa più grave è che coloro che dovrebbero guidare gli umiliati e offesi, accantonano anche loro la ragione per soffiare sul fuoco di un legittimo ma spesso cieco scontento. Affidati a noi che siamo i migliori e sappiamo risolvere i problemi. E come? chiedono gli umiliati e offesi. Chiudendoci nella nostra bella casa, prendendo un fucile per sparare a chiunque si avvicini, alzando un bel muro attorno alla città che abitiamo in modo che i barbari e i delinquenti non possano entrare. Ma io a chi vendo le patate che coltivo, chiede l’umiliato? Non ti preoccupare, faremo a meno delle patate che non servono a niente. Servono le patate? Il nazismo e di seguito il fascismo hanno inventato l’eugenetica, ovvero il miglioramento sistematico della razza bianca ariana, considerata pura e superiore. L’eugenetica e l’igiene razziale hanno giustificato la soppressione dei deformi e dei pazzi, che sono stati i primi a morire gassati. La razza superiore doveva produrre donne e uomini bianchi di pelle, sani di corpo e di mente. Tutti gli altri erano considerati impuri e perciò potevano essere trattati come inferiori e quindi resi schiavi , gettati via come scarti dell’umanità e se possibile, eliminati. Questa è la storia che si porta dietro la parola “razza”. E per questo chi ha consapevolezza storica l’ha eliminata. Cerchiamo di non cancellare la memoria che è il motore della nostra coscienza. Migranti. Tornano gli sbarchi ma cambiano le rotte. A gennaio +15% di Fabio Albanese e Francesco Grignetti La Stampa, 23 gennaio 2018 Stabili le partenze dalla Libia, crescono Tunisia e Turchia. Dall’inizio dell’anno sono sbarcati in Italia 2.749 migranti, il 14,88% in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Lo dicono i dati del ministero dell’Interno. Ed è la prima volta che succede dal luglio scorso. Ma la novità di questo gennaio brucia al Viminale. Così i dati degli sbarchi vengono spacchettati: si sottolinea dunque che 2.195 sono quelli che provengono dalla Libia (l’anno scorso erano stati 2.226); i restanti 749 vengono perlopiù da Turchia e Tunisia. È soprattutto su queste nuove rotte che si appunta l’attenzione del ministero dell’Interno. L’11 gennaio scorso, per dire, nel porto di Crotone è arrivato un barcone proveniente dalla Turchia con 264 migranti a bordo, di nazionalità siriana, afghana, pakistana e irachena. Il barcone è stato intercettato mentre era in navigazione nello Ionio e costretto a entrare in porto. Due giorni prima, un altro veliero era stato avvistato da un velivolo della Guardia di Finanza nello Ionio: a bordo hanno trovato due scafisti ucraini e 33 migranti di provenienza curda. Pare che la barca li avesse presi a bordo in Grecia e avesse garantito un ingresso facile in Italia. “La pressione migratoria è ovviamente un fatto epocale - spiegano al ministero dell’Interno - e nessuno si illude di avere un rubinetto da aprire e chiudere a nostro piacimento”. A riprova di come siano parzialmente cambiati i flussi, è cambiata anche la tavola delle nazionalità: in questi primi 22 giorni di sbarchi, al primo posto ci sono ora 257 pakistani (“Per loro è facilissimo prendere un volo fino a Istanbul, poi si attiva la locale filiera dei trafficanti”), 232 tunisini (concentrati quasi tutti a Lampedusa, dove ci sono stati tafferugli nei giorni scorsi e il sindaco Totò Martello protesterà oggi con il ministro Marco Minniti), 192 libici e poi tutto il resto dell’Africa. Visto il fenomeno con gli occhi del Viminale, si tratta ora di tamponare la falla. La polizia ha già preso contatto con i colleghi della Turchia, chiedendo più attenzione. La Tunisia garantisce di avere fatto il possibile. E poi c’è la solita Libia. A giudicare dai numeri, siamo tornati al periodo che precede la “Dottrina Minniti”. “È la conferma che le migrazioni non si fermano con azioni di contenimento - dice Stefano Argenziano, Medici senza Frontiere - l’unica differenza emersa rispetto a un anno fa è che adesso si sa cosa accade nei campi di detenzione libici e che la gente continua a partire nonostante la capacità di intervento delle Ong sia cambiata”. È un fatto però che le partenze dalla Libia hanno avuto un’impennata tra martedì e mercoledì della settimana scorsa, quando 1.671 persone sono state recuperate da navi militari e navi umanitarie, poi sbarcate nei porti siciliani di Catania, Palermo, Augusta, Pozzallo, Messina. E peraltro nelle statistiche italiane non ci sono nemmeno i “salvataggi” della Guardia costiera libica, quelli fatti nelle acque territoriali della Libia. Secondo i loro comunicati, almeno altri 1.393 migranti in queste prime tre settimane dell’anno sono stati recuperati e riportati indietro, negli infernali centri di detenzione. Salta agli occhi però che la stragrande maggioranza dei barconi sarebbe partita dal porticciolo libico di Gasr Garabulli, ossia Castelverde, a Est di Tripoli. Proprio qui, a Gasr Garabulli, ha raccontato nei giorni scorsi il portavoce della Marina libica, l’ammiraglio Ayob Amr Ghasem, attualmente operano i trafficanti. E siccome il governo Serraj ha avuto i suoi problemi nei giorni scorsi, con una guerra fratricida tra milizie che teoricamente dovrebbero stare dalla stessa parte, si è aperta una crepa nel meccanismo di contenimento da parte libica. “Possiamo dire con certezza - dice intanto Gerard Canals, della spagnola ProActiva Open Arms - che questo inverno abbiamo fatto salvataggi in ognuna delle missioni di soccorso effettuata, e che i numeri di migranti a bordo di barconi e gommoni sono sempre gli stessi. L’unico problema è che ora viaggiano per più miglia, visto che noi dobbiamo stare lontani dalle acque libiche, e questo aumenta il rischio di naufragi”. Marijuana: allo Stato conviene legalizzarla? di Milena Gabanelli e Andrea Marinelli Corriere della Sera, 23 gennaio 2018 La mattina del primo gennaio, in California, lunghe file di consumatori hanno atteso anche un’ora per acquistare legalmente, e per la prima volta, marijuana a scopo ricreativo nei negozi con regolare licenza. A renderlo possibile è stata la Proposition 64, a favore della quale si è espresso il 53% degli elettori dello Stato l’8 novembre 2016, giorno dell’elezione di Donald Trump. All’inizio del 2018, ventuno anni dopo aver aperto la strada negli Stati Uniti alla marijuana medica (approvata il 5 novembre del 1996 con il cosiddetto Compassionate Use Act), la California è diventata dunque l’ottavo Stato in America a legalizzarne l’uso ricreativo, affiancando Alaska, Colorado, Maine, Massachusetts, Nevada, Oregon e Stato di Washington, dove i cittadini si sono espressi tramite referendum fra il 2012 e il 2016, negli anni della presidenza Obama. Il pugno duro dell’amministrazione Trump - Proprio per prendere le distanze dalle politiche permissive della precedente amministrazione e per fermare l’ondata di legalizzazione degli ultimi anni, appena tre giorni dopo l’entrata in vigore della Proposition 64 l’amministrazione Trump ha emesso una direttiva per abolire le linee guida varate nel 2013 dall’ex presidente Obama, che limitavano l’interferenza federale nel processo di legalizzazione degli Stati e invitava giudici e polizia federale a non adottare interventi repressivi negli Stati in cui la marijuana era stata legalizzata. Il memo diffuso dal ministro di Giustizia Jeff Sessions ha esplicitamente invitato tutti gli Stati a tornare alla vecchia legge del 1970, il Controlled Substances Act, che proibiva coltivazione, distribuzione e possesso di marijuana. In un Paese in cui la marijuana ricreativa resta comunque illegale a livello federale, la decisione di Sessions, ha scritto Massimo Gaggi sul Corriere della Sera, ha “aggiunto incertezza, dando ai rappresentanti a locali la possibilità di intervenire con ampi margini di discrezionalità. Se non è una dichiarazione di guerra alla nascente industria della cannabis poco ci manca”. L’entrata in vigore in California - Intanto in California, almeno all’inizio, non sarà facile acquistare marijuana legalmente: i negozi dovranno ottenere sia una licenza statale che una municipale, e la precedenza è stata dati ai dispensari che già fornivano cannabis per fini medici. Lo Stato, infatti, ha varato un complesso regolamento di 276 pagine che si aggiunge ai diversi regolamenti di ogni municipio e contea e che ha permesso ad appena 90 negozi di cominciare le vendite già il primo gennaio. A Los Angeles e San Francisco, a causa della lenta approvazione dei regolamenti locali, la vendita è stata per esempio ritardata, mentre altre città più conservatrici - in particolare Fresno, Bakersfield e Riverside - hanno approvato dei regolamenti per proibirla a livello locale. La legge californiana - Secondo la Proposition 64, le persone con più di 21 anni potranno possedere fino a un’oncia di cannabis, ovvero 28 grammi, e potranno coltivare un massimo di sei piante privatamente, a patto che abbiano ottenuto una licenza. Per i dolci e le torte a base di marijuana i grammi scendono a 8. I negozi, oltretutto, non potranno vendere nulla fra le 22 e le 6 del mattino. Nonostante le norme stringenti, o forse proprio a causa di queste, il nuovo mercato della marijuana rischierà di offrire involontariamente un’opportunità di riciclaggio di denaro sporco: in un Paese in cui quasi tutte le transazioni sono effettuate elettronicamente, per la cannabis tutto va fatto usando denaro contante. Essendo il commercio di marijuana ancora proibito a livello nazionale, infatti, le banche temono rappresaglie delle autorità federali. I costi - Nonostante questi primi impedimenti, si stima che il mercato della marijuana ricreativa in California toccherà i 7 miliardi di dollari annui già nel 2020. Lo Stato, inoltre, punta a guadagnarne uno in tasse e a risparmiare 100 milioni nella lotta all’attività di spaccio. Secondo il sito specializzato greenstate.com, la marijuana ricreativa legale non sarà economica, ma in media costerà circa 8 dollari in più rispetto al mercato nero: 3,5 grammi si potranno acquistare per circa 58 dollari. Un’analisi di Marketwatch sostiene però che i costi si potrebbero ridurre fino al 50% se il mercato seguirà quello che è successo in Colorado e nello Stato di Washington, i primi due Stati a vendere marijuana ricreativa legalmente. Quali sono i rischi e quali i vantaggi della legalizzazione? - Proprio per questo Colorado e Stato di Washington si sono trasformati in laboratori, diventando protagonisti di numerosi studi e ricerche. Il più completo è quello annuale realizzato dalla Drug Policy Alliance, organizzazione no profit che si batte contro la cosiddetta “guerra alla droga”. Dallo studio del 2016, l’ultimo disponibile, emergono quattro punti fondamentali: 1) l’uso fra gli adolescenti non è aumentato: in Colorado, per esempio, è calato del 3,8% fra il 2009 e il 2015; 2) gli arresti per marijuana sono calati facendo risparmiare agli Stati milioni di dollari (in Colorado sono calati del 46% fra il 2012 e il 2014); 3) gli incidenti stradali per alterazione non sono aumentati (-18% in Colorado fra il 2014 e il 2015, -8% nello Stato di Washington fra il 2013 e il 2014); 4) il fisco ha incassato 220 milioni nello Stato di Washington, mentre il Colorado, nei primi tre anni, è arrivato a mezzo miliardo di dollari. In entrambi gli Stati le tasse arrivano al 37%, mentre in California l’imposta statale sarà del 15%, a cui si aggiungeranno le tasse locali e l’Iva: a Oakland, per esempio, l’aliquota cittadina arriverà al 10%, che sommate a Iva statale e locale (6% e 3,25%), farà salire il totale al 34,25%. Nel resto del mondo - Nel resto del mondo, la marijuana è legale nei coffe-shop olandesi (fuori dalla porta, tuttavia, il possesso di cannabis resta vietato e tollerato solo al di sotto dei 5 grammi) e in Uruguay, primo Paese ad averla legalizzata nel 2013. Se in America il mercato è stato liberalizzato e sono spuntati rivenditori di marjuana in tutti gli Stati che ne hanno legalizzato il commercio, in Uruguay sono solo le farmacie a venderla, ad un prezzo inferiore rispetto a quello dello strada: 1,30 dollari invece di 3, anche se i consumatori devono registrarsi prima presso il governo e potranno acquistare un massimo di 10 grammi alla settimana tramite impronta digitale. A maggio erano 3.500 le persone registrate su una popolazione 3,4 milioni, 6.700 si erano segnati per coltivarla in casa ed erano stati aperti 57 club privati. Fra le mille farmacie del Paese, solo 30 si sono registrate per vendere marijuana. I dati, tuttavia, sono ancora pochi per fare un bilancio. Cosa succede in Italia - In Italia il consumo di marijuana è ancora illegale, benché decriminalizzato, ma da maggio 2017 è possibile acquistare la cosiddetta cannabis light prodotta e venduta dall’azienda italiana EasyJoint, che contiene meno dello 0,6% (il limite di legge consentito) di thc - il principio attivo responsabile degli effetti psicotropi - ed è quindi legale. Nei primi sei mesi, EasyJoint ha fatto registrare un boom di vendite: dicono di aver venduto 14 tonnellate di canapa. Per quanto riguarda la marijuana ricreativa, alla Camera è stata in discussione per oltre due anni una proposta di legge bipartisan sulla legalizzazione (depositata dall’intergruppo parlamentare e sostenuta per lo più da membri di Pd, Sel e M5S) per l’uso ricreativo, ma si è arenata ed è stata “sterilizzata” alla fine del 2017: ne sono state approvate solo alcune parti relative all’uso terapeutico, che hanno di fatto messo a norma la situazione già esistente senza introdurre novità. Ad oggi, dunque, il medico può prescrivere medicinali di origine vegetale a base di cannabis per la terapia del dolore e altri impieghi medici. La ricetta deve essere monouso, dovrà essere indicata la durata del trattamento, che non potrà superare i tre mesi, e i farmaci a base di cannabis prescritti dal medico saranno a carico del servizio sanitario nazionale, tramite uno stanziamento di 1,7 milioni di euro. Tutto il processo di coltivazione, preparazione e distribuzione alle farmacie resta affidato allo Stato, con il monopolio dello stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze che però non basta a soddisfare la richiesta: arriverà a produrre 150 chilogrammi di cannabis entro due anni, e in caso di necessità potrà essere autorizzata l’importazione dai Paesi Bassi, unico Paese europeo ad esportare un massimo di 200 chilogrammi. Anche la somma di 350 chili annui è però unanimemente giudicata troppo bassa per rispondere alla domanda di farmaci. La proposta smontata - Prima che fosse sterilizzata e di fatto sepolta, la proposta di legge era stata smontata anche dall’economista Marcello Esposito, professore di International Financial Markets all’università Cattaneo di Castellanza. “Nella legalizzazione della cannabis ci sono sostanzialmente tre obiettivi che si potrebbero voler perseguire: protezione dei consumatori; risparmio dei costi di repressione; maggiori introiti fiscali”, ha scritto Esposito. “Il problema è che questi tre obiettivi non sono ottenibili tutti insieme. Se ne possono ottenere solo due per volta, sacrificando il terzo”. In poche parole, spiega l’economista, “massimizzare gli introiti fiscali e proteggere i consumatori significa sconfiggere la competizione del mercato illegale. Questo non si può ottenere se non intensificando le azioni repressive delle Forze di Polizia. Massimizzare gli introiti fiscali e rinunciare alla repressione si può ottenere solo estendendo la platea dei consumatori del mercato legale oltre il perimetro di coloro che si servono presso l’attuale mercato illegale. Infine, se si vuole spazzare via il mercato illegale e risparmiare sui costi di repressione, è necessario azzerare l’incidenza fiscale sulla cannabis legalizzata. Ma in questo caso ne deriva che gli introiti fiscali si azzerano”. Secondo Esposito, infatti, una tassazione finale al consumo del 75% del prezzo di vendita - come quella del tabacco - non sarebbe sostenibile per eliminare il mercato nero. Un parere sulla proposta di legge lo ha espresso anche la Direzione Nazionale Antimafia, alla Camera dei Deputati: “Nei limiti e con le precisazioni fornite, la legalizzazione della cannabis è un approdo logico e coerente del sistema a fronte dei deludenti risultati ottenuti con una politica della criminalizzazione”. Le elezioni politiche del 4 marzo - La questione è tornata d’attualità con le elezioni politiche del prossimo 4 marzo. A riportarla all’attenzione degli elettori è stata la lista +Europa di Emma Bonino, che in un post su Facebook ha annunciato di voler “autorizzare l’auto-coltivazione fino a 5 piante; regolamentare la produzione e la vendita con norme precise, con chiare indicazioni sul livello di Thc e con un efficiente sistema di sanzioni; garantire la cannabis terapeutica alle persone che soffrono di determinate patologie con il monitoraggio del ministero della Salute”. Ancora una volta, l’obiettivo della lista che fa a capo a Emma Bonino non è promuovere l’uso della cannabis ma, piuttosto, regolamentarlo “per sottrarre profitti alle mafie e alla criminalità collegata alla produzione e allo spaccio e per ridurre il sovraffollamento delle carceri”. Iran. Stop a pena morte per 5.000 detenuti per reati di droga Askanews, 23 gennaio 2018 Sono oltre 5.000 i detenuti per reati legati alla droga salvati dalla pena di morte in Iran. È questa la decisione del capo della magistratura iraniana Ayatollah Sadeq Amoli Larijani, presa in seguito alla legge votata dal parlamento nell’Agosto del 2017. Una svolta nella strategia di Teheran per la lotta al traffico e al consumo di stupefacenti, dovuta alla diffusione nel paese mediorientale di una politica umanitaria nei confronti dei tossicodipendenti. “La Mezzaluna Rossa Iraniana è molto presente nel paese, tanto che il Governo nazionale ha designato l’Ayatollah Abdul Hussein Mo’ezzi come rappresentante permanente. Ecco perché ritengo che la strategia di diplomazia umanitaria intrapresa con questa Società Nazionale possa aver influito nella recente decisione del Governo di non eseguire condanne a morte per problemi di droga”, dichiara Massimo Barra, fondatore di Villa Maraini, l’agenzia per le tossicodipendenze della Croce Rossa Italiana, e Presidente della Partnership on Substance Abuse. Nel 2007, quando in Iran si registravano solo nella capitale oltre 1 milione di tossicodipendenti, la Mezzaluna Rossa Iraniana chiese supporto all’allora Presidente della Croce Rossa Italiana Massimo Barra, che inviò una psicoterapeuta di Villa Maraini, Annamaria Ruggerini, per un training sulla politica umanitaria di riduzione del danno. Dopo un mese di formazione rivolto a medici, operatori sociali e volontari della Mezzaluna Rossa, fu istituita in Iran la prima Unità di Strada per assistere i tossicodipendenti nei luoghi della capitale maggiormente interessati dal fenomeno. Un nuovo progetto di formazione promosso dallo stesso Barra, avviato nel 2015, ha coinvolto alcuni giovani volontari della Mezzaluna Rossa Iraniana, giunti in Italia per partecipare a esperienze operative e formative sul campo. Tornati in Iran, si sono fatti promotori di programmi di sensibilizzazione e interventi di riduzione del danno in tutto il paese, coinvolgendo anche le autorità pubbliche. Nel febbraio 2016, a conclusione del progetto promosso da Villa Maraini, si tenne a Teheran una Conferenza internazionale su “Giovani e tossicodipendenze” che vide l’intervento dell’Ayatollah Mo’ezzi, il quale accolse con convinzione l’importante sfida umanitaria lanciata da Massimo Barra: restituire dignità e garantire cure ai tossicodipendenti sempre più marginalizzati e criminalizzati dalla società. Francia. Non si ferma la protesta delle guardie carcerarie, fallita mediazione col Governo di Anais Ginori La Repubblica, 23 gennaio 2018 Continuano scioperi e manifestazioni degli operatori carcerari francesi. Una settimana di tensioni, con attacchi contro di loro in diverse carceri, spesso da parte di detenuti musulmani radicalizzati dalla nostra corrispondente. Si allarga la protesta degli agenti penitenziari dopo l’aggressione di tre guardie qualche giorno fa nel nord del Paese da parte di un detenuto islamista. L’emergenza riguarda in particolare i detenuti jihadisti, molti dei quali accusati di violenza e proselitismo. Il numero è esploso negli ultimi due anni, almeno 1500 detenuti considerati radicalizzati sono presenti nel sistema penitenziario, creando spesso incidenti di cui l’ultimo ha provocato un movimento di rivendicazione che non sembra fermarsi. Dalla settimana scorsa gli agenti hanno bloccato diverse prigioni e condotto una manifestazione davanti a Fleury-Merogis, banlieue di Parigi, il più grande carcere d’Europa, dove sono detenuti molti terroristi, tra cui anche Salah Abdeslam, l’unico sopravvissuto dei commando che hanno organizzato gli attacchi del 13 Novembre. Stamattina all’alba un centinaio di agenti manifestava di nuovo davanti al super-carcere. La ministra della Giustizia, Nicole Belloubet, che era andata per dialogare con i manifestanti è stata contestata. Oggi Belloubet ha chiesto di poter incontrare di nuovo i sindacati. I tentativi di mediazione per adesso sono tutti falliti. Il governo ha promesso l’assunzione di altri 1.100 agenti entro quattro anni ma secondo i sindacati non è sufficiente. Un nuovo appello allo sciopero generale. Già due carceri, in Corsica e a Bordeaux, sono bloccate da giorni. In altre ci sono alcuni disservizi, sospese le visite nei parlatori. Ieri un gruppo di detenuti si è rifiutato di tornare nelle celle dopo l’ora d’aria e alla fine sono dovute intervenire delle squadre speciali. Ieri sera, ennesima aggressione: un detenuto ha assalito alcune guardie a Longuenesse, nel nord, utilizzando la gamba di un tavolo di ferro, ferendo gli agenti alle braccia. Una protesta che, se dovesse continuare ed estendersi, potrebbe portare il governo a chiedere l’intervento dell’esercito per garantire la sicurezza dei centri penitenziari. Con 118 carceri e 28mila detenuti, la Francia ha uno dei record di sovraffollamento ed è regolarmente criticata dalle organizzazioni per i diritti umani.