Come sarà la nuova legge penitenziaria: la richiesta di trasferimenti più “umani” Il Mattino di Padova, 22 gennaio 2018 La nuova legge penitenziaria è al vaglio della Commissione Giustizia della Camera, e sono senz’altro importanti i cambiamenti che propone riguardo alle misure alternative al carcere, un po’ meno coraggiosa sembra la parte sulla vita detentiva, che è proprio la materia su cui più si dovrebbe intervenire, come spiega bene un dirigente dell’Amministrazione penitenziaria fra i più sensibili, Luigi Pagano. Dal canto loro, i detenuti chiedono soprattutto di non tagliare la parte dedicata agli affetti e di usare in modo più umano i trasferimenti, per avvicinare alle famiglie e non per “deportare” lontano da casa. Sono un carceriere che non ama il carcere Nelle carceri eravamo a 66 mila detenuti nel 2012, e in quel momento, dalla presidenza della Repubblica al Governo e al Parlamento ci fu proprio una serie di input, ricordo la famosa lettera di Napolitano alle Camere, e una serie di riforme che accelerò un passaggio da 66 mila a 52 mila detenuti, ed era quello il momento in cui veramente dovevamo prendere al volo un’occasione per poter cambiare, ma non cambiare chissà cosa, applicare l’Ordinamento penitenziario del 1975 sarebbe stato già notevole. Poi si trattava di guardare veramente alla vita penitenziaria, perché alla fine la condanna di Strasburgo non era, come fu poi pensato, limitata al famoso problema dei tre metri quadri per detenuto, ma ci contestava e ci censurava questa disapplicazione di un Ordinamento che noi stessi avevamo voluto, è l’Ordinamento penitenziario per esempio che dice che la cella, art. 6, o meglio, la ex cella, perché attualmente è definita camera di pernotto, deve essere camera di pernotto, per cui la persona tendenzialmente dovrebbe andare all’interno della camera di pernotto, e non della cella, soltanto nel momento in cui va a riposarsi di sera, e per il resto la vita penitenziaria deve svolgersi all’esterno. Quindi la vita deve essere fuori, deve essere negli spazi esterni alle camere, e lo scopo è quello di ricreare degli spazi all’interno delle carceri per rendere vivibile la vita delle persone detenute. E non è vero che gli istituti non hanno gli spazi, molti istituti hanno spazi che non vengono utilizzati, nell’ambito di quegli spazi si potevano creare le attività, le iniziative trattamentali, i colloqui, la formazione professionale, le scuole, il lavoro, ma si doveva anche riorganizzare l’istituto, perché soltanto riorganizzando l’istituto tu puoi creare un rapporto con l’esterno. Fare entrare l’esterno è quindi una scommessa, perché il trattamento è anche sicurezza, come la sicurezza è prodromica per l’attività trattamentale e l’attività trattamentale per la sicurezza. È la scommessa del carcere di Bollate, la scommessa di Padova e credo che tutto sommato sia una scommessa vinta, il problema è che è facile, anzi, non è facile creare determinate condizioni come non lo è stato per Bollate e non è stato per Padova, ma la difficoltà maggiore è il loro mantenimento all’interno degli istituti penitenziari, anzi, quanto più è importante l’iniziativa tanto più è difficile mantenerla, perché ripeto, è la normalità che è difficile fare all’interno delle carceri, il cambiamento non si misura sui chilometri ma sui centimetri, centimetro per centimetro guadagni un altro centimetro che poi consolidi e vai avanti fino a quando quella base lì non ti permetterà di cambiare la quotidianità. Noi è proprio sulla quotidianità che falliamo. Gli Stati Generali dell’esecuzione penale sono stati importanti perché hanno creato questa dialettica, questa cultura anche ragionando con delle menti diverse da quelle giuridiche e dei burocrati come posso essere io, ed è anche importante la loro realizzazione nell’ambito delle norme che verranno, però l’attività amministrativa è quella che vale giorno per giorno e probabilmente è li che non abbiamo prestato sufficiente attenzione, perché è sul quotidiano che si valuta veramente se il carcere sta cambiando. E quel tempo che abbiamo perso temo sia difficoltoso recuperarlo, anche perché ormai le cose si stanno complicando, noi abbiamo attualmente 58 mila persone detenute, abbiamo ancora in carcere 20 mila persone, prevalentemente tossicodipendenti ed extracomunitari, che hanno pene al di sotto dei due anni e 10 mila con delle pene al di sotto di un anno. Sono persone che non possono uscire perché non hanno famiglia, non hanno lavoro, non hanno un reddito, anche perché il problema per i tossicodipendenti e per gli stranieri è chi paga. Io sono un carceriere che non ama il carcere. Voglio dire che non credo di essere un repressore, però dico che l’unica maniera per difendere i diritti dei detenuti è che quel diritto sia valido dappertutto. Luigi Pagano, Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria Penitenziario più vicino alla mia famiglia Rispetto ai nuovo Ordinamento penitenziario, se ci sarà, ho un desiderio nel cuore: sono entrato in galera poco più che maggiorenne, ora di anni ne ho 28, è per colpa di una strada sbagliata che ho intrapreso che mi sono rovinato gli anni della giovinezza. Mi trovo qui a Padova da tre anni, da una parte sono avvantaggiato perché sono in uno dei pochi carceri che è non dico all’avanguardia, ma almeno dignitoso. Dall’altra parte però con questa mia lontananza dalla terra in cui abitano i miei parenti (la Calabria) ho perso e sto perdendo quello che mi resta di più caro, la famiglia, che è davvero la cosa più importante che esiste. La mia speranza è che la nuova legge penitenziaria modifichi le norme sui trasferimenti, e che io possa essere trasferito in un’altra Casa di reclusione, quella di Laureana di Borrello, per essere più vicino a casa e per coltivare gli affetti famigliari, non so se è possibile, ma spererei che questo mio desiderio si avverasse perché la distanza e tanta galera mi stanno allontanando del tutto da quello che mi resta della famiglia. Biagio Vecchio Cambiare il modo di trattare gli affetti Sono ventidue gli anni che ho trascorso nelle carceri, e sempre più mi assale il senso di solitudine, lo sconforto di stare lontano dalla mia famiglia. A volte vorrei rivolgermi alle autorità competenti, al Presidente della Repubblica, al Ministro della Giustizia, al Papa, per chiedere con forza un cambiamento nella cura dei rapporti con le famiglie, quelle famiglie che spesso sono a loro volta vittime nostre, dei loro stessi famigliari. La mia famiglia vive in Ungheria e io non ho possibilità di fare frequenti colloqui, ma dopo tante richieste la direzione finalmente mi ha dato la possibilità di fare alcuni colloqui in videochiamata Skype per vedere i miei cari; la tecnologia aiuta a ricongiungere la famiglia, anche per quelle persone che sono distanti, e disagiate. Spero che questa possibilità mi sia mantenuta anche con il nuovo Ordinamento, che stanno discutendo in questi giorni. Purtroppo spesso le regole dettate dall’amministrazione penitenziaria sono carenti di sensibilità verso i familiari, il diritto di amare il proprio congiunto viene messo in secondo piano, o viene gestito con quelle stesse dure regole con cui viene a volte trattata la persona detenuta. Eppure basterebbe un poco di sensibilità, basterebbe immedesimarsi nella persona che nei giorni di festa guarda sempre un posto vuoto a tavola per capire la sofferenza che potrebbe portare nel cuore una moglie, una madre, un figlio di una persona detenuta. La mia lettera l’ho scritta per chiedere un cambiamento radicale nel modo di considerare gli affetti delle persone private della libertà, nella tutela di tutti i familiari che, malgrado già abbiano subito quella umiliazione di trovarsi con una persona cara in carcere, sono costretti a subire anche l’ingiustizia di vedere ignorato il diritto all’affetto, proprio da quel sistema carcerario che a volte è distante dai problemi che affliggono le famiglie, non tanto perché non vuole riconoscere un diritto, quanto piuttosto perché è semplicemente assente, distratto, lontano. Agostino Lentini Riforma dell’Ordinamento penitenziario: più spazio alle misure alternative al carcere di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2018 Il nuovo ordinamento penitenziario punta sulle misure alternative alla detenzione. Infatti, lo schema di decreto legislativo(trasmesso la scorsa settimana dal Governo alle Camere per i pareri e che dovrà poi ricevere l’ok definitivo dal Consiglio dei ministri) che riforma la legge 354/1975 implementa le misure alternative sia sotto il profilo del perimetro applicativo, sia nel contenuto risocializzante per il condannato e riparativo per le conseguenze del reato. Per garantire che i benefici non comportino rischi per i cittadini, ai controlli collaborerà la polizia penitenziaria, a supporto delle altre forze dell’ordine e degli assistenti sociali. L’affidamento in prova - Viene modificato, anzitutto, l’affidamento in prova al servizio sociale, che sarà consentito per pene da eseguire fino a quattro anni e potrà essere eseguito, per chi non disponga di una soluzione abitativa autonoma, presso strutture pubbliche di cura o accoglienza e “dimore sociali”. La misura potrà essere concessa in via provvisoria dal magistrato, in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza, nel caso la detenzione determini un grave pregiudizio al reinserimento sociale dell’interessato. I condannati verranno responsabilizzati sia sotto il profilo degli impegni che dovranno assumere per elidere o attenuare le conseguenze del reato, sia verso la prestazione di attività anche a titolo gratuito per progetti di pubblica utilità in favore della collettività e percorsi di giustizia riparativa. Al maggior impegno richiesto farà seguito, in caso di esito positivo della prova, la revoca delle misure di sicurezza e della dichiarazione di abitualità, professionalità nel reato e tendenza a delinquere. L’esito positivo dell’affidamento estingue anche le pene accessorie. È poi introdotta, per pene fino a sei anni o a quattro anni se relative a uno dei reati indicati dall’articolo 4bis, comma 1, dell’ordinamento penitenziario (come terrorismo, mafia, scambio elettorale politico-mafioso, tratta di persone, organizzazione dell’immigrazione clandestina e traffico di stupefacenti) un nuovo tipo di affidamento, modellato sull’affidamento “terapeutico” per i tossicodipendenti, che consentirà ai condannati con infermità psichica di iniziare o proseguire un programma terapeutico e di assistenza psichiatrica. La detenzione domiciliare sarà applicabile anche a detenuti genitori di figlio con disabilità grave. La misura sarà possibile per pene fino a quattro anni se idonea al recupero sociale del condannato, a prescindere da altre condizioni, se il pericolo di commissione di altri reati non consenta la concessione dell’affidamento in prova. La semilibertà - Maglie più ampie anche per la semilibertà: l’ergastolano vi potrà accedere dopo avere scontato 20 anni di pena o quando abbia fruito correttamente per almeno cinque anni consecutivi dei permessi premio. Non sarà più automatica ma valutata dal giudice la denuncia o la condanna per evasione, che comunque potrà comportare la revoca del beneficio. Si interviene, infine, anche sulla liberazione condizionale. La misura, concedibile una volta esaurito il percorso rieducativo del condannato, è diretta a chi abbia scontato almeno 30 mesi e comunque metà della pena inflitta, se il rimanente non superi i cinque anni o all’ergastolano dopo almeno 26 anni di pena o dopo la sperimentazione in regime di semilibertà per almeno cinque anni consecutivi. L’esito positivo determina la revoca delle misure di sicurezza personali e la revoca della dichiarazione di abitualità, professionalità nel reato e tendenza a delinquere. Decorso un anno dall’entrata in vigore, sarà soppressa l’esecuzione della pena presso il domicilio prevista dalla legge 199/2010. Riforma dell’Ordinamento penitenziario. Le principali novità in pillole di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2018 Ecco le principali novità in tema di misure alternative introdotte dallo schema di decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario, approvato in prima lettura dal Consiglio dei ministri e all’esame delle commissioni parlamentari per il parere. Affidamento in prova al servizio sociale - Consentito per pene da eseguire fino a quattro anni - Istruttoria semplificata per pene da eseguire fino a sei mesi - Strutture pubbliche di cura o accoglienza e dimore sociali per chi non dispone di abitazione - Concessione provvisoria quando la detenzione determina un grave pregiudizio al reinserimento sociale - Specifici impegni dell’affidato a elidere o attenuare le conseguenze del reato - Prestazione di attività anche a titolo gratuito per progetti di pubblica utilità in favore della collettività - Percorsi di giustizia riparativa - L’esito positivo della prova comporta la revoca delle misure di sicurezza e della dichiarazione di abitualità, professionalità nel reato e tendenza a delinquere Affidamento per condannati con infermità psichica - Per i condannati a pena diminuita in base agli articoli 89e 95 del Codice penale(vizio parziale di mente e intossicazione cronica da alcol o droga) o nei casi di grave infermità psichica, in base all’articolo 147, comma 1, numero 2, del Codice penale, possibile l’affidamento per proseguire o intraprendere un programma terapeutico e di assistenza psichiatrica in libertà concordato con il dipartimento di salute mentale dell’azienda sanitaria o con una struttura privata accreditata - La misura è concessa per pene fino a sei anni o a quattro anni se relative a uno dei “reati ostativi” previsti dall’articolo 4bis, comma 1, della legge sull’ordinamento penitenziario (354/1975) - La disciplina è ricalcata sul modello dell’affidamento per condannati tossicodipendenti Detenzione domiciliare - Concedibile anche a detenuti genitori di figlio affetto da disabilità grave in base alla legge 104/1992 - Estesa a pene fino a quattro anni qualora “idonea al recupero sociale del condannato” indipendentemente da altre condizioni se il pericolo di commissione di altri reati non consente la concessione dell'affidamento in prova - Autorizzate brevi uscite per esigenze personali o sociali - Esecuzione presso strutture pubbliche o private convenzionate in mancanza di abitazione propria - Per la detenzione domiciliare speciale, le condannate con figli fino a sei anni possono espiare la pena in Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri) Semilibertà - L’ergastolano può accedere alla semilibertà dopo avere scontato 20 anni di pena ovvero quando abbia fruito correttamente per almeno cinque anni consecutivi dei permessi premio - La denuncia o la condanna per evasione non comporta automaticamente la revoca della misura ma viene valutata dal giudice Liberazione condizionale - La misura è traslata dal Codice penale alla legge 354/1975 - Il presupposto è il compimento del percorso rieducativo del condannato - La misura è concedibile al condannato che abbia scontato almeno 30 mesi e comunque almeno metà della pena inflitta, qualora il rimanente della pena non superi i cinque anni, o al condannato all’ergastolo che abbia scontato almeno 26 anni di pena ovvero che abbia sperimentato in modo positivo e costante il regime di semilibertà per almeno cinque anni consecutivi - Sono applicate le prescrizioni dell’affidamento in prova - Il tribunale di sorveglianza, se revoca la liberazione condizionale, determina la pena residua da espiare - L’esito positivo determina la revoca delle misure di sicurezza personali nonché la revoca della dichiarazione di abitualità, professionalità nel reato e tendenza a delinquere Giustizia alla prova sugli abusi contro le donne di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 22 gennaio 2018 L’imponente fenomeno che dagli Stati Uniti e valicando l’oceano si è sviluppato a partire da denunce di attrici di violenze e abusi sessuali da parte di uomini, porta alla luce una realtà che caso per caso è di varia consistenza materiale, ma è sempre grave e molto diffusa. Carattere unificante dei vari casi è l’assoggettamento della donna, in quanto donna, ad una sopraffazione, che può assumere la forma della violenza fisica o quella della minaccia di usare del potere prevalente che il maschio abbia sui luoghi di lavoro, nei rapporti sociali, nella vita famigliare. L’ondata di denunce, qualunque sia il fondamento di questa o di quella, è importante segno di rottura di una storica subordinazione, oggi socialmente non più tollerabile. La battaglia iniziata dalle donne non può essere lasciata ad esse sole. Tutte le volte che sia in gioco la dignità e la libertà di qualcuno è l’intera collettività ad essere offesa. Da essa si attende reazione. Solitamente si aspettano indagini e processi. Ci si limita a questo, con esiti spesso deludenti. Questa volta invece si assiste, specialmente nel mondo dello spettacolo, a iniziative di stigmatizzazione sociale, come quella del rifiuto di continuare rapporti di lavoro con la persona indicata come autore delle violenze. Certi attori, idoli del pubblico (e capaci di produrre successo per film e spettacoli), diventano improvvisamente infrequentabili e probabile causa di flop economici per chi lavora con loro. Non più “macho” invidiati, ma soggetti da tener lontani. È questo un segno molto importante della forza del movimento che si è messo in moto e del terreno favorevole su cui interviene. Rischi di errori o esagerazioni nel metter alla gogna gli accusati sono certo presenti. Ma il valore della reazione sociale è indubbio. Molte delle denunce cui assistiamo daranno inizio a processi penali. Ma è probabile che, dopo i tempi lunghi della giustizia, si abbiano sentenze di assoluzione. Ci saranno assoluzioni perché la prova oltre ogni ragionevole dubbio è difficile o impossibile in ognuna delle sempre diverse vicende: non testimoni, normalmente, non documenti, non tracce. Una parola contro l’altra e, nel dubbio, la presunzione di innocenza, irrinunciabile. Alle assoluzioni seguiranno proteste e accuse, probabilmente infondate poiché le regole del processo penale sono sempre stringenti. Ma le proteste non dovrebbero lasciare innocentisti e colpevolisti sterilmente confrontarsi. Le future prevedibili soluzioni giudiziarie non potranno giustificare la conclusione che si tratta di una montatura da parte di donne che inventano una realtà inesistente. Il rischio c’è, se non si tiene conto della specificità dell’accertamento giudiziario penale, che non necessariamente nega che i fatti siano avvenuti, anche quando conclude che non vi sia prova sufficiente per una condanna. Evitiamo dunque, come avviene solitamente in Italia, di ridurci a cercare soddisfazione in esiti penali che potrebbero essere pochi. Mentre l’efficacia di una rivoluzione che metta fine alla soggezione della donna passa attraverso la diffusione della consapevolezza della sua inaccettabilità. Come spesso accade, il richiamo alla funzione della scuola è d’obbligo. Noi europei solleviamo obiezioni nei confronti di altre culture e società, proprio perché irrispettose dell’eguaglianza e della dignità della posizione della donna. Ecco un terreno su cui la civiltà dell’Occidente deve ancora crescere. Non è separato dal tema degli abusi sessuali in danno delle donne, quello delle violenze domestiche o legate a rapporti di coppia, di cui, in assoluta prevalenza, sono vittime le donne. Si tratta di una realtà gravissima e molto diffusa, che rimane largamente nascosta tra le mura domestiche entro le quali la soggezione della donna è occultata. L’enorme numero di uccisioni di donne da parte di uomini ne è solo l’aspetto più noto, perché non nascondibile. Il fondamento discriminatorio in danno delle donne degli abusi di tipo sessuale e delle altre violenze emerge anche nella reazione delle varie autorità che dovrebbero proteggerne le vittime. Dopo quelle pronunciate dalla Corte europea dei diritti umani contro la Turchia e la Romania, anche l’Italia di recente è stata condannata per la sottovalutazione, il ritardo, l’incuria con la quale è stata trattata una serie di episodi di violenza in danno di una donna da parte del marito. Violenze fisiche gravi e ripetute, denunciate dalla donna senza che venissero prese misure contro il marito aggressore, palesemente pericoloso. Una condanna per lesioni è arrivata dopo anni e dopo che il marito, in un ulteriore episodio, aveva ferito la moglie a coltellate e ucciso il figlio intervenuto a difenderla. La Corte europea ha ricostruito il contesto sociale (e i dati statistici) riscontrando che le donne sono sempre le vittime e che poco si fa efficacemente (non bastano le leggi, che pur ci sono!) per combattere una piaga che è così grave anche perché alle vittime si presta una ridotta attenzione, frutto appunto di discriminazione. Giustizia, l’autogoverno finisce in stand-by di Antonello Cherchi e Gianni Trovati Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2018 Se ne riparlerà, nel migliore dei casi, fra non meno di due mesi, quando il nuovo Parlamento uscito dalle elezioni del 4 marzo potrebbe iniziare a funzionare. Nel frattempo le funzioni di autogoverno e di disciplina di tre giustizie - quella amministrativa, contabile e tributaria - continueranno a essere svolte dai Consigli di presidenza (così si chiamano i “Csm” di quelle magistrature) in carica. Il che qualche problema lo crea: per esempio, l’organo di autogoverno di Tar e Consiglio di Stato in proroga deve limitarsi all’ordinaria amministrazione. Tutto questo perché una parte dei componenti di quei Consigli deve essere eletta da Montecitorio e da Palazzo Madama, che non sono riusciti a farlo prima dello scioglimento delle Camere. Ci hanno tentato il 13 dicembre, ma in quell’occasione non si è andati oltre l’scrizione del tema all’ordine del giorno. Al voto non si è neanche arrivati. In Corte dei conti si è sfiorata la paralisi, perché le scadenze sono arrivate alla vigilia dell’uscita per pensionamento dell’ex presidente Arturo Martucci di Scarfizzi. Il problema è stato superato in extremis accelerando la scelta del successore, nel consiglio dei ministri pre-natalizio che ha indicato Angelo Buscema. Un’incombenza, dunque, lasciata in eredità al futuro Parlamento, che dovrà indicare 12 personalità - sei le nominerà la Camera e altrettante il Senato - scegliendole solitamente fra professori universitari di materie giuridiche e avvocati. Posti di prestigio e anche ben remunerati, a cui aspirano in tanti e sui quali dovrà essere trovato l’accordo fra le forze politiche. Posti che potrebbero far gola anche a quanti, al prossimo giro, resteranno fuori dalle aule parlamentari. In attesa dell’elezione delle nuove Camere, i tre “Csm” continuano a lavorare pur essendo scaduti. E i componenti togati della nuova consiliatura che sono stati già designati non si possono insediare perché mancano i colleghi laici. È il caso della giustizia amministrativa, dove il consiglio di presidenza è formato da quattro consiglieri di Stato, sei magistrati Tar e quattro componenti indicati dal Parlamento, ai quali si aggiunge il presidente del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno, in qualità di presidente dell’organo di autogoverno. Tranne il presidente, gli altri membri restano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggebili. A ottobre il Consiglio di presidenza è scaduto e nello stesso mese sono stati rinnovati i dieci componenti togati, confidando che a stretto giro di posta sarebbero stati designati anche quelli laici. Invece così non è stato e anche un caso assai scottante come quello del consigliere Francesco Bellomo, accusato di comportamenti non consoni con lo status di magistrato, alla fine è stato chiuso dall’organo di autogoverno scaduto, che lo scorso 12 gennaio ha votato per la destituzione. Tra i Consigli di presidenza in proroga, quello della giustizia tributaria è il più giovane. La consiliatura è scaduta ieri e le elezioni per il rinnovo dei componenti togati sono state fissate per il 6 maggio: le regole vogliono, infatti, che siano indette entro quattro mesi dalla scadenza dell’organo di autogoverno (il Parlamento, però, aveva già messo in calendario prima dello scioglimento la designazione dei membri laici). Un gioco di date che, probabilmente, consentirà al Csm tributario di arrivare al rinnovo senza troppe sfasature, perché a maggio anche Camera e Senato potrebbero aver finalmente detto la loro. Ci sono 20mila baby criminali, è boom degli italiani di Marco Cobianchi Il Giornale, 22 gennaio 2018 Bastano quattro numeri. Eccoli: il 15 febbraio 2017 i minori in carico ai servizi sociali erano 14.466, il 15 dicembre erano diventati 20.313. Al 15 febbraio 2017 i reati compiuti da minorenni erano 40.669 diventati 54.962 solo 10 mesi dopo. Per chi ha ancora dubbi sul fatto che ci sia un'emergenza criminalità giovanile, ecco le percentuali: tra febbraio e dicembre i minori in carico ai servizi sociali sono aumentati del 40,4% e i reati del 35,1%. Che i ragazzini, italiani e stranieri si associno per compiere delitti in quelli che la cronaca ha ribattezzato baby gang è un dettaglio, il problema vero, a quanto pare, sono i ragazzini stessi. I numeri elaborati dal sito di data-journalism Truenumbers.it sulla base di dati ufficiali fanno davvero impressione: i minori accusati di omicidio volontario sono 117 dei quali 78 italiani e 39 stranieri. Il ministero della Giustizia, nel pubblicare i dati, non elabora la percentuale sulla popolazione, ovvero, non dice di quanto delinquono di più i ragazzi stranieri rispetto agli italiani, tutti i numeri portano a pensare che sia effettivamente così. E questo vale per tutti i reati che il ministero considera “contro la persona”. Oltre ai 117 omicidi volontari ci sono anche 208 minorenni accusati di tentato omicidio volontario e 5.511 accusati di percosse, tipico delitto delle baby gang. Non solo: ci sono anche 1.013 accusati di violenza sessuale e, addirittura, 134 di sequestro di persona. L'emergenza criminalità giovanile è un'esclusiva napoletana? Per il ministro dell'Interno no, ma è difficile da dire. In effetti la maggior parte dei ragazzini ospitati negli istituti di pena per minori sono a Roma, 29, mentre altri 23 sono a Napoli. Però in questi istituti di pena entrano spesso non solo minorenni, ma anche “giovani adulti”, cioè maggiorenni fino anche a 24 anni di età. Considerando anche loro, il carcere più affollato è quello di Napoli, con 65 persone, al secondo posto viene quello di Roma, con 54 ospiti. Questi due carceri sono gli unici che dispongono anche di una sezione femminile mentre tutti gli altri hanno solo la sezione maschile. Il carcere minorile di Firenze, invece, è presente nell'elenco ma è stato riaperto solo alla fine del 2017. La conclusione è che nella stragrande maggioranza dei casi i minorenni identificati come responsabili di reati non vanno in carcere e per loro si preferiscono pene alternative. Se, infatti, i reati commessi sono 54.962 appena 437 sono i minorenni in carcere al 15 dicembre 2017 (dai 444 di febbraio): degli altri si occupano altri servizi pubblici. I servizi sociali, ad esempio, hanno in carico 20.313 persone e se si va a vedere la nazionalità si resta abbastanza impressionati da tre fatti. Il primo è che tutte le nazionalità, tra febbraio e dicembre, mostrano una crescita; il secondo è che i minori italiani sono passati da 10.649 di febbraio a 15.011 di dicembre. Terzo, che tra i minori a rischio ci sono anche brasiliani ed ecuadoregni, segno che le gang dei latinos potrebbero aver deciso di fare breccia anche da noi utilizzando anche ragazzini. Basti pensare che a febbraio nessun minore brasiliano era in carico ai servizi e a dicembre erano già diventati 66. Ora: che la criminalità minorile aumenti è un fatto, ma rispetto all'Europa? Stando ai dati dell'Eurostat, che si riferiscono al 2015, abbiamo un tasso di criminalità giovanile, calcolata sul numero di minorenni in carcere, di circa 4 volte più basso di quello scozzese: 12,3 rispetto a 44,8. Ma non è una consolazione: prima di tutto perché, come abbiamo visto, i delitti aumentano ma calano i ragazzini in carcere. Secondo, perché il tasso di minori in carcere in Italia è molto più alto di quello spagnolo (8,01), francese (4,7) e, addirittura, romeno (8,4) e bulgaro (3,8). Purtroppo la Germania non comunica all'Eurostat i dati sui propri crimini giovanili e l'Eurostat, in assenza di numeri comparabili, si limita a dire che in tutta Europa i ragazzi in carcere sono diminuiti, tra il 2008 e il 2015, del 47,6% e tra i pochi Paesi nei quali c'è stato un aumento c'è la Germania. Quindi, che i minorenni in carcere diminuiscano o che a Napoli non ci sia la più alta concentrazione di ragazzini in carcere, non è così importante. Quello che è importante è che nei 10 mesi dell'anno scorso i minorenni si sono resi responsabili di quasi 25 reati ogni giorno. Levano al boss detenuto la foto della madre deceduta. La Cassazione: “lesa la sua dignità” tusciaweb.eu, 22 gennaio 2018 L'immagine era stata sequestrata perché superava di otto centimetri le misure massime consentite. Una foto della madre, deceduta. Tommaso Costa, esponente di spicco dell’omonima ‘ndrina di Siderno (Reggio Calabria), la teneva con sé nella cella del carcere di Viterbo, dove è detenuto. È lo stesso Costa condannato, in secondo grado, all’ergastolo per aver ucciso un commerciante di trentacinque anni: Gianluca Congiusta, freddato con un colpo di lupara alla testa la sera del 24 maggio 2005 a Siderno. Gli agenti di Mammagialla trovano quell’immagine il 3 maggio 2016, e la sequestrano perché “eccedente (18 x 15) le misure massime (10 x 15) stabilite dal regolamento interno” del carcere. Un provvedimento contro il quale Costa si “ribella”, rivolgendosi al magistrato di sorveglianza di Viterbo che però “rigetta il reclamo”. Ma il presunto capobastone ricorre per Cassazione, chiedendo la restituzione della foto “in virtù del fatto che l’immagine della madre deceduta era da ritenere funzionale alla cura del proprio diritto all’affettività”. La suprema corte accoglie il ricorso. “La domanda è da ritenersi inerente a un diritto soggettivo della persona reclusa, individuabile in quello alla cura delle relazioni affettive e da ritenersi esercitabile anche attraverso la conservazione di immagini riproducenti le persone care, specie se decedute. Il diritto in questione comprende quello alla conservazione dell’immagine che riproduce la persona defunta, sorta di diritto al “mantenimento della memoria” attraverso la visione dell’immagine, aspetto che rientra nel mantenimento della dignità della persona”. Guida in stato di ebbrezza, prima della sentenza definitiva no al lavoro di pubblica utilità di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sezione IV penale Sentenza 7 dicembre 2017 n. 54985. L'esecuzione di una pena prima della definitività della sentenza che l'ha comminata si pone in contrasto con il fondamento stesso della potestà punitiva dello Stato e con il principio di legalità della pena. I giudici della Cassazione, con la sentenza n. 54985 del 2017, chiariscono che ciò vale anche per il lavoro di pubblica utilità, previsto dall'articolo 186, comma 9-bis, del codice della strada, quale sanzione sostitutiva della pena detentiva e pecuniaria, giacché il legislatore, nel prevedere l'ipotesi della revoca della pena sostitutiva con ripristino di quella sostituita anche da parte del “giudice che procede” (in alternativa al giudice dell'esecuzione), lungi dal legittimare implicitamente una esecuzione dei lavori di pubblica utilità che preceda la definitività della condanna, ha solo inteso disciplinare situazioni marginali, ravvisabili in tutte le ipotesi in cui residui una competenza a pronunciarsi da parte del giudice procedente su aspetti della statuizione diversi dalle questioni penali e incompatibili con la proposizione dell'impugnazione (come, ad esempio, nell'ipotesi di una impugnazione che non riguardi i punti o capi della sentenza concernenti le statuizioni penali, comprese quelle relative al trattamento sanzionatorio, bensì le sanzioni amministrative, o nell'ipotesi di una impugnazione di una sentenza di applicazione della pena su richiesta, limitatamente alle sanzioni accessorie stabilite dal giudice che restano fuori dal contenuto dell'accordo). I vari orientamenti - In senso contrario, invece, sezione IV, 10 dicembre 2015, Proc. gen. App. Trieste in proc. Jovic, secondo cui il lavoro di pubblica utilità, quale sanzione sostitutiva della pena detentiva e pecuniaria, può essere svolto anche prima del passaggio in giudicato della condanna alla stregua del richiamato dettato normativo, secondo cui, in riferimento all'eventuale revoca della sostituzione in caso di violazione degli obblighi connessi, è prevista la competenza del “giudice che procede” oltre che del “giudice dell'esecuzione”: per l'effetto, proprio la possibilità di revocare la sostituzione per decisione del “giudice che procede” presuppone che la sentenza non sia passata in giudicato. Con specifico riguardo alla questione della revoca della sostituzione, in caso di intervenuta interruzione del lavoro di pubblica utilità, quale pena sostitutiva applicata in materia di circolazione stradale, sezione I, 23 settembre 2014, Di Giannatale, dove si è affermato che occorre avere riguardo alla disciplina dettata dagli articoli 56 e 58 del decreto legislativo n. 274 del 2000: quindi, il giudice, può fare seguire la revoca della sanzione sostitutiva, con conseguente ragguaglio della restante pena da eseguire secondo i criteri di cui all'articolo 58 citato, tenendo fermo il precedente periodo di espiazione a seguito del positivo svolgimento del lavoro sostitutivo, con l'applicazione anche del disposto dell'articolo 56 citato, che individua una specifica fattispecie delittuosa in caso di trasgressione alle prescrizioni. In sostanza, la violazione delle prescrizioni relative al lavoro di pubblica utilità fa scattare nell'ordinamento una reazione analoga a quella che segue all'evasione, con la previsione di una specifica fattispecie incriminatrice, ma non pone nel nulla il periodo di pena già espiato, di cui si deve quindi tenere conto ai fini del ragguaglio. Contrasto tra dispositivo e motivazione nella sentenza penale. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2018 Sentenza penale - Dispositivo e motivazione non contestuali - Contrasto - Carattere unitario della sentenza - Contemperamento - Necessità. In caso di contrasto tra due parti della sentenza, la motivazione conserva sempre la sua funzione di spiegazione e chiarimento delle ragioni per cui il giudice a quo è pervenuto alla sua decisione e, pertanto, ben può contenere elementi certi e logici che facciano ritenere errato il dispositivo o parte di esso. Invero, nell'ipotesi di contrasto tra dispositivo e motivazione non contestuali, il carattere unitario della sentenza nella quale l'uno e l'altra si integrano a vicenda, non sempre determina l'applicazione del principio generale della prevalenza del dispositivo per via della sua natura di immediata espressione della volontà decisoria del giudice. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 15 novembre 2017 n. 52048. Sentenza penale - Dispositivo e motivazione - Errore nel dispositivo - Contrasto apparente - Carattere unitario della sentenza - Contemperamento - Necessità. Laddove nel dispositivo della sentenza ricorra un errore materiale oggettivamente riconoscibile, il contrasto con la motivazione della medesima decisione è meramente apparente: è dunque consentito fare riferimento a quest'ultima per determinare l'effettiva portata del dispositivo, individuando l'errore che lo affligge ed eliminandone gli effetti. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 15 novembre 2017 n. 52048. Sentenza penale - Sentenza penale (in genere) - Contrasto tra dispositivo e motivazione della sentenza - Prevalenza del prima - Motivazione - Volontà del giudice. In caso di contrasto tra dispositivo e motivazione della sentenza, la regola della prevalenza del primo quale immediata espressione della volontà del giudice non è assoluta ma va contemperata, tenendo conto del caso specifico, con la valutazione dell'eventuale pregnanza degli elementi tratti dalla motivazione significativi di detta volontà. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 17 febbraio 2017 n. 7680. Sentenza - Requisiti - In genere - Contrasto fra motivazione e dispositivo - Prevalenza del dispositivo - Regioni - Fattispecie. In caso di difformità tra dispositivo e motivazione, il primo prevale sulla seconda, in quanto il dispositivo costituisce l'atto con il quale il giudice estrinseca la volontà della legge nel caso concreto, mentre la motivazione ha una funzione esplicativa della decisione adottata. (Fattispecie in cui la corte territoriale, pur avendo dichiarato estinti per prescrizione due dei tre reati per i quali vi era stata condanna in primo grado, non aveva provveduto a eliminare la quota parte di pena pecuniaria e detentiva a essi riferibile; nell'affermare il principio, la Suprema corte ha ritenuto di non poter procedere direttamente alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio, non essendo stati esplicitati, dal giudice di merito, i riferimenti relativi ai singoli aumenti da eliminare). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 19 aprile 2016 n. 15986. Sentenza - Penale - Contrasto - Dispositivo - Motivazione - Prevalenza - Dispositivo. In tema di sentenza penale, nel caso di contrasto tra motivazione e dispositivo, va ritenuta la prevalenza del dispositivo, in particolare del dispositivo letto in udienza. Peraltro, l'interpretazione va effettuata attraverso una completa integrazione delle due parti del provvedimento, alla luce delle argomentazioni contenute nella parte motiva, attesa la sua funzione di spiegazione e chiarimento delle ragioni che hanno portato il giudice alla decisione e pertanto ben può contenere elementi certi e logici, utili per dirimere il contrasto. • Corte d'Appello di Roma, sezione III penale, sentenza 20 giugno 2017 n. 5017. Sassari: carcere dei Bancali, il Dap vieta l’ispezione al 41bis di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 22 gennaio 2018 L’Osservatorio carceri delle Camere penali avrebbe dovuto visitare la sezione: non garantiti i diritti alla salute e alla difesa. Si chiama Osservatorio proprio perché lo scopo è quello di verificare, accertare, constatare. Azioni che si possono realizzare “osservando”. Ed era questo l’obiettivo della visita organizzata sabato mattina all’interno dell’istituto penitenziario di Bancali dall’Osservatorio carceri delle camere penali (sezione di Sassari). Considerate le diverse criticità segnalate in una casa circondariale che conta 505 detenuti - compresi i 90 reclusi del 41bis - era importante guardare con i propri occhi e toccare con mano le diverse problematiche. “Ma quando stamattina siamo arrivati in carcere abbiamo scoperto che il Dap (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ndc) con una mail inviata la notte precedente ha negato il nostro accesso al 41bis”. Così hanno raccontato i componenti dell’osservatorio che durante una conferenza stampa - convocata ieri pomeriggio per fornire un resoconto dell’ispezione - hanno annunciato che si muoveranno a livello nazionale per denunciare quanto accaduto. All’ispezione (nelle sezioni in cui è stata concessa) era presente anche Marco Palmieri, presidente della camera penale, sezione di Sassari e la direttrice dell’istituto, Patrizia Incollu. “Sappiamo di certo che nella sezione di massima sicurezza c’è un’emergenza per quanto riguarda il diritto alla salute - hanno spiegato l’avvocato Maria Teresa Pintus, referente dell’Osservatorio per Sassari e il collega Franco Villa, del foro di Cagliari e componente del direttivo nazionale - Una semplice visita con il medico di base va prenotata per tempo e si può fare solo una volta alla settimana, di mercoledì. Il medico è sì presente 24 ore su 24 ma è da solo per tutti i 505 detenuti. E la privacy non è garantita, considerato che le visite avvengono sempre alla presenza degli agenti. Per quelle specialistiche, poi, c’è un’attesa lunghissima anche perché se si deve andare in ospedale va bloccato l’intero reparto”. Un’altra criticità riguarda il diritto alla difesa. “Il colloquio con gli avvocati è consentito tre volte a settimana e in orari predefiniti, concentrati al mattino quando ci sono le udienze in tribunale e quindi spesso non possiamo andare dai nostri assistiti”. Qualche problema anche per i detenuti comuni: “Ad esempio ci sono sei educatori per 505 reclusi - dice Villa. Non ci può quindi essere un’adeguata attività trattamentale e rieducativa ed è un peccato perché ci sono buoni spazi come la palestra, il campo da calcio, il teatro. Ma senza progetti educativi sono sfruttati al minimo”. Per non parlare dell’acqua: “L’impianto è sottodimensionato - spiegano la Pintus e altri due componenti dell’osservatorio, Gaetano Paoletti e Mario Alberto Ruggiu - non c’è pressione e dalle 23 alle 7 manca proprio. Quindi bisogna distribuire le bottiglie, con un comprensibile aumento di costi”. Bene invece sia la sezione terroristi islamici che quella femminile. Pozzuoli (Na): le cravatte di Marinella per gli agenti, le detenute diventano sarte di Walter Medolla Corriere della Sera, 22 gennaio 2018 Il progetto del carcere di Pozzuoli con il maestro italiano delle cravatte. Lui tiene i corsi e mette i macchinari, mentre le donne imparano un mestiere. Tina, Elena e le altre ci hanno messo tutto l’impegno del mondo. Questa volta non vogliono sbagliare e l’opportunità che è stata loro concessa la vogliono sfruttare appieno. Non capita tutti i giorni, infatti, di imparare a confezionare cravatte sartoriali e la cosa diventa ancora più rara se a insegnarti il mestiere è un certo Maurizio Marinella, che a Napoli e nel mondo è sinonimo di qualità nella produzione di cravatte e accessori. Non siamo in un atelier del centro cittadino. Siamo nel carcere femminile di Pozzuoli, dove le detenute imparano a cucire e a fabbricare cravatte di alta sartoria grazie a un protocollo d’intesa firmato tra la storica azienda napoletana e il ministero della Giustizia. “Quando ci proposero di iniziare questa esperienza - racconta Elena, quarantenne rumena - avevo un po’ paura. Non avevo mai cucito in vita mia, ma l’idea di iniziarlo a fare mi intrigava. Poi abbiamo incontrato delle insegnanti straordinarie che con pazienza e tanta passione ci hanno spiegato tutti i passaggi e i trucchi del mestiere”. Il lavoro e la libertà - Lo scopo del progetto è promuovere un nuovo approccio di implementazione del lavoro all’interno delle carceri, che consenta un più agevole reinserimento all’interno della collettività. La nota sartoria di cravatte napoletana “E. Marinella” ha fornito mobilio e macchinari per un laboratorio tessile all’interno del carcere e ha messo a disposizione anche l’esperienza delle sarte più esperte del proprio laboratorio, che hanno periodicamente incontrato le detenute per incontri formativi. “Per noi - ha spiegato Elena - è una grande opportunità. Manca ancora qualche anno, ma passerà presto, e una volta uscita da qui la mia vita sarà diversa”. A un futuro differente lontano da queste mura crede anche Tina, quasi sessant’anni e “nu cuofano” (tantissimi, ndr) di nipoti ad aspettarla a casa, lì nel cuore del centro storico di Napoli. Spostandosi agile dalla macchina da cucire ad un tavolo di lavoro, fa gli onori di casa: “Venite a vedere come nasce una cravatta, mo’ vi spiego io. Innanzitutto dovete prendere il modello e metterlo su questa pezza di stoffa, toccate qua, guardate che bel tessuto”. Economia sociale - “Cosa mi porterò via da questa esperienza? Un mestiere. Io tra 5 anni esco e mi metto a fare le cravatte e lo insegno pure alle mie figlie. Magari da Marinella hanno bisogno di qualche sarta e ci prendono a lavorare lì”. Le mani di Tina sfilano sicure sotto la macchina da cucire e gli occhi seguono attenti ogni passaggio sotto l’ago. Le sue cravatte, insieme a quelle realizzate alle altre 10 detenute del carcere di Pozzuoli, andranno in uso all’interno dello stesso ministero della Giustizia, per sostenere la politica di spending review: saranno 8 mila le cravatte da produrre e distribuire agli agenti della Polizia Penitenziaria. E dopo l’esperienza di Pozzuoli, è già pronta una nuova collaborazione “sociale” con Brunello Cucinelli: sarà infatti lui, con il lavoro trasferito alle detenute di altre carceri italiane, a fornire i maglioni delle divise della Penitenziaria. Torino: un colore diverso per i fascicoli di ogni reato “così evitiamo la prescrizione” di Claudio Laugeri La Stampa, 22 gennaio 2018 Il piano del Tribunale per smaltire migliaia di fascicoli pendenti. “Con queste forze, non possiamo fare tutto”. Il presidente del tribunale Massimo Terzi scuote la testa. Ha letto la relazione del procuratore Armando Spataro sulle centinaia di richieste di fissazioni di udienze mai avvenute. E processi mai fatti, con il rischio (quasi certezza) di prescrizione. Riguardano reati considerati “minori” come gravità, ma assai diffusi: dai furti, alle ricettazioni, allo spaccio di droga “di lieve entità”, all’omissione di soccorso stradale, al porto di coltello, alle truffe. Secondo la legge, per quei reati la procura chiede al tribunale di fissare il processo, senza il filtro dell’udienza preliminare. Tra l’ottobre 2017 e l’8 dicembre 2017, la procura ha chiesto le date per 350 processi; il tribunale ne ha fissate dieci. Il collasso Fallimento della Giustizia? “Al contrario, è l’unico modo per riuscire a ottenere qualcosa”, spiega Modestino Villani, presidente della sesta sezione del tribunale, istituita nel giugno 2016 proprio per risolvere il problema degli arretrati, legati soprattutto ai reati “minori”. La sua affermazione sembra un paradosso, soprattutto quando aggiunge: “Nel 2016 c’erano 8103 citazioni dirette con data d’udienza già fissata, spalmate nell’arco di quattro anni. Ma molte cause erano destinate alla prescrizione, magari prima ancora della prevedibile conclusione del processo di primo grado. Abbiamo chiesto alla procura di rifare tutte le richieste, per affidarle”. E così, d’un tratto la procura si è ingolfata e il tribunale si è ritrovato 8 mila fascicoli da trattare di nuovo. “Abbiamo individuato criteri di priorità condivisi con il Csm per organizzare i fascicoli in modo da smaltire il maggior numero di processi, dando la priorità a quelli che non sono vicini alla prescrizione”, aggiunge Villani. Sei colori E così, gli infortuni sul lavoro sono verdi, le ricettazioni e i furti hanno il bollino giallo, le maxi-truffe sono avvolte in cartelline arancioni, il porto di coltello e le “violenze sulle cose” hanno un marchio color pesca, evasioni e diffamazioni sono bianchi e le truffe di piccole entità sono colorate di rosa. Ad ogni bollino corrisponde una percentuale di incidenza sul lavoro dei giudici. In poche parole: ci sono processi più o meno gravosi anche in funzione del tipo di reato. “Secondo un criterio condiviso, ogni giudice deve istruire 300 processi l’anno, distribuiti attraverso cinque udienze-filtro con 60 cause ciascuna”, argomenta Villani. A questi, vanno aggiunti i cento fascicoli affidati ai giudici onorari. I risultati dell’operazione sono nelle cifre: per fare un esempio, nel giugno 2016 le richieste di udienza per infortuni sul lavoro erano 121; a fine 2017, ne rimanevano 56, comprese quelle arrivate nell’anno. “Con il vecchio sistema, le udienze venivano fissate a distanza di quattro anni. Adesso, lo facciamo entro sei mesi”, dice Villani, con una punta d’orgoglio. Il rovescio della medaglia è che il presidente deve “selezionare le cause”, in base ai criteri di priorità e alle date di prescrizione. “L’alternativa è peggiore, finirebbero prescritte molte più cause”, argomenta Villani. La coperta della Giustizia è corta. E ciascuno cerca di fare il possibile per rimediare. La procura ha istituito la Sezione affari semplici (Sas), che ha lasciato cadere la mannaia sugli arretrati: su 15 mila 376 fascicoli “pendenti” il 1° ottobre 2016, i pm hanno chiesto l’archiviazione per 7 mila 112 “casi” (2 mila e 730 erano già prescritti). Il canale della Giustizia è intasato. Ma senza nuovi magistrati e impiegati, fare di più resta un’utopia. Bologna: “ecco come i clan controllavano la vita alla Dozza” di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 22 gennaio 2018 “Dottoressa, il nome non me lo ricordo bene, so che era un capo della ‘ndrangheta a Torino, e alla Dozza mi raccontarono che aveva fatto una sacco di affiliati. Io in carcere ci ero arrivato poco dopo e lui già non c'era più, ma quelli che ancora erano a Bologna mi raccontarono questa vicenda”. Affiliazioni alla 'ndrangheta e non solo. Al carcere della Dozza nel 2010 le cosche calabresi erano e sono ancora operative. Picciotti tenuti a battesimo, concessioni di doti e cariche mafiose, gerarchie ferree da rispettare e “ambasciate” che passavano da detenuto a detenuto nei bracci di alta sicurezza. La vita all'interno dell'istituto penitenziario bolognese è stata raccontata di recente (durante il processo “Minotauro bis”) a Torino, dove a deporre è stato chiamato Francesco Galdi, pentito delle cosche calabresi e “colletto bianco” che fino al suo arresto, il 2 dicembre del 2010, era uomo dei clan Chirillo e Lanzino Ruà della provincia di Cosenza. Non un picciotto di quart'ordine, ma un professionista che con studio da commercialista sotto le Due Torri gestiva gli interessi dei calabresi. Originario di Figline Vigliaturo, 43 anni, con laurea in economia e master a Milano, “U dottori”, come lo chiamavano nell'ambiente, con i Chirillo ci era cresciuto fin da bambino, e una volta laureato lo avevano chiamato a dare manforte al clan, per reinvestire denari e riscrivere i rituali di ‘ndrangheta che “erano sgrammaticati”. È a Torino, interrogato dalla pm Monica Abbatecola, che Galdi ha spiegato come si muovevano le “famiglie” all'interno della Dozza. Intanto le affiliazioni: “Perché tutto il carcere parlava di questo che era “malato”, che all'interno dava cariche a tutti, cercava di affiliare tutti”. Ma come era possibile che il rituale di affiliazione si facesse senza che nessuno si accorgesse di nulla? È sempre il pentito a spiegarlo: “Ormai le doti in carcere si danno in maniera molto veloce, cioè, non c'è più una ritualità come negli anni 80-90, perché c'è un discorso di intercettazioni, di captazioni. Quindi, per evitare questo, si fa all'aria, si fa all'aria esterna durante il passeggio, e si danno le doti anche due o tre insieme, due o tre per volta”. La Dozza in ambiente criminale è considerato un carcere “attivo” e Galdi spiega in che senso: “A Bologna c'erano cariche importanti che sono transitate, quindi dal punto di vista ‘ndranghetistico, Bologna era molto attiva. Sì, sia il braccio A sia il braccio B, perché i bracci dell'alta sicurezza erano A e B. Certo! Certo, sì, sì”. Nessun problema neppure nelle comunicazioni tra detenuti attraverso cui passavano ordini, indicazioni, ambasciate da far uscire dalle mura del penitenziario per raggiungere i propri affiliati. I boss avevano sempre modo di incontrarsi: “A messa, tutte le domeniche mattina, eh... al campo, e... e spesso comunque, quando c'era la guardia giusta, quelli dell'A scappavano. Cioè, se io dovevo andare a parlare con Giampà (capo assoluto della città di Lamezia Terme, ndr.) o Giampà doveva venire a parlare con me, o Favara (altro boss calabrese, ndr.) doveva parlare a altri, venivano alle celle tranquillamente, o tramite i portantini o tramite quelli della spesa, gli spesini mandavano i biglietti, perché quelli erano comuni sia per l'A sia per il B”. In ogni caso non c'erano problemi perché, spiega il collaboratore ai magistrati, “facevamo moltissima attività in comune tra A e B. Io poi sono stato detenuto sia all'A sia al B, quindi...”. Alla Dozza, come in altre carceri italiane, vigeva una gerarchia precisa che rispondeva alle logiche della ‘ndrangheta. Una gerarchia anche “visibile”, facile da capire per gli uomini delle cosche. Spiega sempre Galdi: “All'interno della cella, anche per attribuzione del posto, del semplice posto dove dormire, chi ha la carica più alta, chi ha la dote più alta, prende il primo letto, e poi, a scalare, c'è prima branda e seconda branda. Quindi quello è già un ordine: da come viene..., da come dormono nei letti, tu ti accorgi chi è quello che ha la carica più alta”. Lo stesso a tavola: “Quando ti siedi al tavolo ti rendi conto chi è a capotavola e come viene disposta la struttura, quindi a destra, “a mano girando” si dice, quindi chi è il capotavola e poi chi sono gli altri: chi è il primo che siede che siede a capotavola è la carica più alta e, a scalare, le altre cariche girando appunto in senso orario”. Regole ferree, messaggi chiari. Perché di deve capire capisca. Leggi di 'ndrangheta. Napoli: la flotta del “Mediterraneo sociale” di Elena Scarici Corriere del Mezzogiorno, 22 gennaio 2018 A Somma Vesuviana i detenuti del carcere hanno costruito un aereo. Una barca ed un aereo per regalare sogni. Fanno parte della flotta di Mediterraneo sociale”, un consorzio di comunità di accoglienza che ha sede a Somma Vesuviana e che affonda le sue radici nella comunità terapeutica “Il Pioppo”, fondata nel 1979. L’aereo si chiama “Le ali della libertà” ed è stato costruito dai detenuti nel carcere a custodia attenuata per il trattamento delle tossicodipendenze di Lauro (Avellino), nell’ambito del progetto Social Flight One. Ha due posti e doppi comandi. È quasi interamente in legno tranne i collegamenti delle strutture e i carrelli che sono in acciaio. È dotato di paracadute e di un motore da 1.200 cc. Come autonomia può arrivare a coprire i 1.400 chilometri. La destinazione d’uso è sociale: per il monitoraggio dei boschi, delle aree archeologiche, delle zone a rischio di incendi, e per regalare qualche ora di serenità e di emozione alle persone, soprattutto ai disabili. Anche la barca è stata pensata per permettere la fruizione del mare a chi non avrebbe mai pensato di poterlo fare. Una modalità innovativa e solidale a favore di chi vive nel disagio. I prigionieri di Plauto e i cattivi senza ergastolo di Francesca de Carolis remocontro.it, 22 gennaio 2018 Inchiodata, l’altra mattina, alle pagine di un libro fotografico, “Captivi”, di Pietro Basoccu (Soter editrice). Racconto di un carcere della Sardegna. Immagini in bianco e nero, che meglio non potrebbero dipingere il grigio soffocante di un’ossessione, fatta di ruggine, ferro e silenzi, che sono urla sussurrate. Guardate questi occhi, guardate queste ombre. ritratte nella quotidianità di dettagli che mai immaginereste, se non per indecenze antiche… Pietro Basoccu, che è medico pediatra fotografo, per questa campagna fotografica del 2010 era allora entrato in carcere per la prima volta. Il suo stupore. “Muri muri, ovunque vedo muri, spessi, di granito, che decorano alcune celle e mi riportano alla memoria luoghi sacri… strutture ipogeiche dell’era neolitica…”. Dai suoi appunti: “Voltaire diceva che la civiltà di un paese si misura osservando la condizione delle nostre carceri. Le sue parole sono per la nostra società una condanna senza appello”. E “cos’è il domani per un fine pena datato 99-99-9999?” Ancora ringrazio Pietro Basoccu per il dono del suo racconto d’immagini e per domande e pensieri che sono anche i miei. Quale società si riflette nelle immagini che arrivano dalle nostre carceri? Cos’è il domani per un ergastolano… Quale dignità, quale legittimità… E se è vero che le parole di Voltaire sono per noi una condanna senza appello, possibile che non importi proprio nulla a chi dovrebbe rappresentarci e in queste settimane, a proposito di giustizia, ci propone l’ennesimo urlo preelettorale che, sfumature e divergenze a parte, tutto si proietta su pene e rigori… Per questo sono rimasta un po’ stupita, e ammirata anche, leggendo di un manifesto elettorale che al punto “Giustizia” propone, a chiare lettere e senza mezzi termini, cose come, pensate un po’, “la modifica della legge contro la tortura (appena approvata e che molte perplessità ha pure sollevato), il contrasto della libera disponibilità di armi, l’abolizione dell’ergastolo, sia condizionale che ostativo, l’abolizione del 41bis, (riconosciuto quale forma di tortura dall’Onu e da altre istituzioni internazionali), adottando naturalmente al suo posto misure di controllo, per i reati di stampo mafioso, allo stesso tempo efficaci ed umane, che non permettano la continuità di rapporto con l’esterno…” e mi fermo qui, prima di sconvolgervi tutti… I responsabili di questo “folle” programma? “Potere al popolo”, nuova formazione che si presenterà alle prossime elezioni. Davvero “folle”, con questo programma ricco di argomenti certo non buoni a raccattar voti… Una formazione a sinistra della sinistra, per cui, per un motivo o per l’altro, c’è chi grida allo scandalo ( e per questo rimando a tutto ciò che, volendo, potete trovare in rete). E però, però… interessante questa “follia” (sarà un caso che nasce da un movimento che ruota intorno al centro sociale Je so’ pazzo, di Napoli …) che, per quanto riguarda la Giustizia, pure traccia una strada, per combattere criminalità e mafie, che non renda lo Stato peggiore di chi vuole sconfiggere. Ci sarebbe da argomentare punto per punto su queste proposte, ma… non vorrei essere licenziata dal titolare ché, va bene remare contro, ma… qui si tratta di risalire oceani… Ma a proposito, ad esempio, dell’abolizione dell’ergastolo, voglio solo ricordare che insigni giuristi e costituzionalisti considerano illegittimo l’ergastolo. Sarà ‘follià anche quella di Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, per quanto ha da dire su contraddizioni e acrobazie e artifizi dialettici per cui il “fine pena mai” da illecito in teoria diventa legittimo nella sua esecuzione? Rimando al testo che ho appena finito di leggere (ristretti.it/commenti/2018/gennaio/pdf2/articolo_flick.pdf. Leggete, ne vale la pena… per capire cosa rimane, per i “fine pena mai”, del residuo di libertà e dignità di cui pure in un carcere bisogna poter continuare a godere. E a proposito del 4bis e del 41bis, sarà “follia” anche quella di Roberto Pennisi, magistrato, della Direzione Nazionale antimafia, che dice: “il 41bis e il 4bis sono semplicemente la foglia di fico che nasconde le vergogne di una classe politica che, per dissimulare i propri collegamenti con quella criminalità che sconvolge quei territori, oggi tutto il territorio nazionale, per mostrare la sua faccia bella si scatena con questo tipo di istituti”. E non sono pochi, né poco illustri, i “folli” che stanno ragionando su un cambiamento di rotta a proposito di carcerazione ed esecuzione della pena. E che dirvi? Forse anche je so’ pazzo… ché mi piacerebbe davvero che qualcuno con queste idee chiare in testa arrivasse in Parlamento. Sapete, a controllarne lo stato, visite nelle carceri “improvvise e non annunciate” fin nelle sezioni del 41bis (così da non dare modo di velare qualche irregolarità di troppo), possono essere fatte solo da parlamentari, consiglieri regionali e garante. Da sempre presenti nelle carceri i Radicali, ma non avendo più parlamentari, le loro visite non possono essere che annunciate e autorizzate. Quanti parlamentari vi risulta abbiano fatto “improvvisate” nelle prigioni nell’ultimo anno? Io so di Eleonora Forenza (Rifondazione Comunista), accompagnata da rappresentanti dell’associazione Yairaiha, di cui ho letto puntuali relazioni. Avete qualche informazione che mi aiuti ad allungare la lista? Una follia sperare che qualcuno con queste idee chiare in testa vada in parlamento? Fosse anche solo per avere qualcuno in più che avesse voglia di andare a visitare le nostre carceri. E affiancare quanti pure molto cercano di fare, per non farci troppo vergognare della misura della nostra civiltà. Diritti umani senza difesa di Tania Careddu altrenotizie.org, 22 gennaio 2018 Pagano un prezzo altissimo per difendere i diritti umani fondamentali. A volte, con la vita. Nel 2017 ne sono morti trecentododici. Sfidano dittature, regimi oppressivi, multinazionali distruttive e conservatori religiosi. In cambio ricevono diffamazioni, criminalizzazioni e violenza. Con una strategia ben coordinata all’insegna dell’intimidazione e dell’emarginazione. Subiscono attacchi fisici, minacce, molestie giudiziarie da parte di forze governative e non con l’intento di ostacolarne il lavoro pacifico. Nei ventisette paesi - soprattutto in Brasile, Colombia, Messico e Filippine - che li hanno visti morire, il 67 per cento stava difendendo i diritti delle terre, dell’ambiente e delle popolazioni indigene, quasi sempre per tutelarli da mega progetti posti in essere da grandi imprese e dalla macchina dell’estrattivismo. Una scia di minacce, il più delle volte impunita, precede, quasi sempre, l’uccisione: l’84 per cento degli attivisti uccisi ha ricevuto almeno una minaccia di morte mirata. Agita, poi, a causa di una totale mancanza di protezione: “in tutto il mondo - si legge nel Rapporto annuale sui difensori dei diritti umani a rischio 2017, redatto da Front Line Defenders, i difensori continuano a dirci che i funzionari della polizia e del governo si rifiutano di rispondere alle richieste di protezione, in seguito alle minacce di morte” e che se intraprendessero azioni preventive e le minacce venissero preso sul serio dalle autorità, le uccisioni potrebbero essere drasticamente ridotte. Invece, solo il 12 per cento degli assassini è stato arrestato. Mentre, certamente più frequenti sono gli arresti degli attivisti, giustificati da accuse infondate, sottoposti a processi legali lunghi, costosi e ingiusti e condannati a lunghe pene detentive. Accusati di “condurre una guerra contro lo Stato”, la condanna è la pena di morte: in Medio Oriente e Nord Africa, sono accusati principalmente di terrorismo, di attentare alla sicurezza dello Stato e di spionaggio; in Sudan, processati per “cospirazione” per aver condotto attività di spionaggio e di intelligence a favore delle ambasciate straniere, tre difensori sono stati detenuti e tre torturati. In Europa, sono nel mirino i difensori dei diritti dei migranti, prova ne sia l’attacco alle ONG italiane, da parte di politici e stampa, per i loro interventi di salvataggio nel Mediterraneo, accusati di favoreggiare il traffico di esseri umani. E pensare che il Belpaese, circa un anno fa, ha approvato la Risoluzione sui difensori dei diritti umani per la loro protezione nel mondo. “Le conquiste fatte in questi ultimi venti anni nel campo dei diritti umani - denuncia il Rapporto - non vanno di pari passo con l’azione dei governi. Molti di questi, infatti, continuano a richiedere l’impegno nel supportare i difensori a livello internazionale ma, nello stesso tempo, internamente, li minacciano tutte le volte che possono”. Tanti governi, quello turco è uno, si trincerano dietro lo “stato di emergenza” che diventa permanente, autorizzando così misure che continuano a legittimare l’incarcerazione di centinaia di difensori dei diritti umani. Se li difendi, rischi ovunque. Razzismo, i veri non integrati di Stefano Allievi Corriere di Verona, 22 gennaio 2018 Due storie per capire chi siamo. O meglio, chi non siamo ancora: chi non riusciamo ad essere. Storia numero uno. Bologna. Una praticante avvocato dell’università di Modena e Reggio, Asmae Belfakir, 25 anni, viene invitata da un giudice, Giancarlo Mozzarelli, a togliersi il foulard che indossa, e al suo rifiuto è costretta ad allontanarsi dall’aula in cui si svolge un’udienza al Tar. Asmae è nata in Marocco, ma è arrivata in Italia quando aveva solo tre mesi: ciclo scolastico completo - dalle elementari al diploma col massimo dei voti fino alla laurea con 110 e lode - svolto in Italia, ingresso al praticantato per selezione, padre operaio e madre casalinga, quella di Asmae dovrebbe essere considerata una storia di integrazione riuscita addirittura esemplare. E invece no: per alcuni proprio no. A causa di un foulard: un pezzo di stoffa più discreto di quello di una suora glielo impedisce. Per alcuni, abbiamo detto: infatti un fatto del genere non le era mai successo in nessun tribunale. Ma la cosa che sconcerta è che un giudice, presidente di sezione, si sia permesso di cacciare una persona perché, testuale, “bisogna rispettare la nostra cultura e la nostra tradizione” - non, cioè, in nome della legge, che è quanto un giudice sarebbe chiamato a far rispettare. Storia numero due. Padova. Qualche giorno fa Larissa Iapichino, 15 anni, italiana figlia di genitori entrambi italiani (anche se la madre è originaria della Gran Bretagna) ha battuto il record under 18 nel pentathlon. E si avvia a una promettente carriera atletica, che all’Italia potrebbe portare record e medaglie. Bene: dov’è la notizia? Anche qui, nei commenti di alcune persone: perché il colore della pelle di Larissa non è esattamente bianco (neanche quello mio e della maggior parte di voi che leggete, peraltro: che semmai, come diceva Steve Biko al giudice che lo stava processando in Sudafrica ai tempi dell’apartheid, tende piuttosto al rosa…), essendo lei figlia di Gianni Iapichino, ex campione italiano di salto con l’asta, e di Fiona May, campionessa mondiale e olimpionica italiana. Lei, direbbe chi non la considera abbastanza italiana, è nera: anzi, tende al marrone, come direbbe ancora Steve Biko. Nel primo caso, una differenza religiosa, nel secondo, una differenza razziale, sono sufficienti a scatenare, in una parte della pubblica opinione, una reazione di rifiuto, di estraneità, addirittura di repulsione. Asmae non può lavorare perché indossa un foulard (la parola velo dà un’idea sbagliata, perché non copre per nulla il volto e non impedisce in nulla la riconoscibilità della persona): o per essere precisi, perché quel foulard è il simbolo di una religione che a molti non piace, l’islam. Larissa non viene accettata perché la sua pelle non sarebbe “italiana”: se Fiona May fosse stata ugualmente inglese d’origine, ma bianca (o rosa), nessuno avrebbe avuto alcunché da ridire. Sono segni inquietanti della difficoltà di definirsi in positivo, da parte di molti: che porta a definirsi in negativo, contro qualcuno e in opposizione ad essi. Un limite, come si vede bene, di chi manifesta questo tipo di opinioni, non di chi non le condivide: la difficoltà di dirsi e di darsi un’identità - parola con cui si riempiono la bocca ma che mostrano difficoltà ad articolare - senza contrapporsi ad altre presunte identità. Che tali non sono, nel senso così totalizzante che si attribuisce ad esse: Asmae si identificherà tanto con il suo essere marocchina di origine quanto con l’essere italiana di formazione, musulmana di religione e avvocato di professione (e altro); così come Larissa sarà tante cose - ragazza, adolescente, studentessa, italiana, atleta (e altro), oltre che avere un colore della pelle meno diffuso di altri in queste lande. Ecco: le reazioni viste sono la testimonianza che i processi di integrazione (parola problematicissima, in questo caso: in cosa Asmae e Larissa avrebbero bisogno di essere ulteriormente integrate, visto che lo sono perfettamente?) non sono sulle spalle dei nuovi (e spesso neanche tanto nuovi) arrivati, ma precisamente su quelle dei vecchi autoctoni: sono loro ad avere dei problemi. Ed è questa - e sta su questo lato della barricata - una delle sfide più importanti della convivenza in una società plurale. Il mercato del falso online vale 1.700 miliardi l’anno: che impatto ha su ognuno di noi? di Milena Gabanelli Corriere della Sera, 22 gennaio 2018 Comprare online è molto comodo, ma soprattutto possiamo cercare, di qualunque prodotto, quello che costa meno, certi di trovarlo. Spesso è un prodotto contraffatto made in China, venduto sulle piattaforme Alibaba, il gigante dell’e-commerce con quasi 60.000 impiegati e che in borsa vale 450 miliardi di dollari. Ogni giorno, e solo in Cina, consegna 30 milioni di pacchi e processa 832 milioni di ordini. Sulla sua piattaforma si compra tutto: dall’abbigliamento all’agroalimentare, ai pezzi di ricambio, agli articoli per la casa, ai farmaci, all’elettronica. Su Internet la Cina è il mondo perché, con Dhl, spedisce i prodotti, uno per uno, ovunque nel mondo. Le dogane raramente controllano il singolo pacchetto con un paio di scarpe, un farmaco, un frullatore, o un auricolare; in molti Paesi le regole non impongono il controllo o sequestro di un pacco su cui c’è scritto “per uso personale”. Questo vuol dire che se il fenomeno non lo fermi in Cina, non lo fermi più. Come se ne esce? Come si difendono le imprese dalla contraffazione? Oggi funziona così: sulle piattaforme, dove ogni giorno approdano migliaia di nuovi venditori, nessuno è obbligato a mostrare la licenza per vendere un certo prodotto. E allora come si difende, per esempio, l’imprenditore veneto, quando si accorge che qualcuno sta vendendo le sue scarpe a un prezzo stracciato? Può lamentarsi con Alibaba, e, se è in grado di indicare lo specifico venditore, magari quell’offerta viene tolta dalla piattaforma, per ricomparire probabilmente dopo due settimane. Oppure può rivolgersi all’autorità cinese (Amministrazione per l’Industria e il Commercio), che di solito risponde: “Cercati un investigatore e trova la fabbrica dove producono le scarpe contraffatte; dopo noi interveniamo”. In pratica, se quel marchio non lo hai registrato in Cina, è impossibile far rimuovere la pubblicità dalle piattaforme, mentre è probabile che lo stesso marchio lo abbia registrato qualcun altro, visto che i cinesi conoscono in tempo reale ogni brand esistente sul mercato internazionale. Solo ai titolari degli shop online sulla piattaforma Alibaba è richiesta la registrazione in Cina, con una burocrazia che richiede quasi 2 anni. Perché i pirati la fanno franca? La legge non è chiara, nemmeno per gli avvocati, e alla fine ai proprietari dei marchi non conviene fare causa per almeno 3 motivi: 1) i risarcimenti sono bassi; 2) Alibaba ha enormi risorse e grandi avvocati, che hanno una grossa influenza sui Tribunali locali; 3) di solito le aziende stesse vogliono fare affari attraverso il gruppo Alibaba e, se lo denunci, diventa più difficile. Lo scorso giugno, a Detroit, alla presenza di centinaia di imprenditori, il capo di Alibaba, Jack Ma, ha ammesso: “La contraffazione è il nostro cancro”. Ogni tanto annuncia la chiusura di qualche migliaio di negozi virtuali, estromette qualche centinaio di operatori, e chiede ai grandi marchi: “Sbarcate qui, perché io voglio un mercato pulito”! Ad agosto ha siglato un accordo con il colosso del lusso Kering, fondato dall’imprenditore francese François-Henry Pinault. Da parte sua il gruppo, proprietario di marchi del lusso come Gucci, Saint Laurent e Bottega Veneta, ha ritirato le accuse contro Alibaba presentate presso la corte di New York. Apprezzabile buona volontà, che non sposta il problema di un millimetro, perché chi deve intervenire è il Governo cinese, che da una parte dichiara a gran voce di voler proteggere le imprese straniere, ma in anticamera dice: “Non diamo troppa protezione ai brand, altrimenti salta tutta l’industria del falso e Alibaba porta 12 milioni di posti di lavoro”. Ne è la prova il fatto che, da 5 anni, in Cina stanno elaborando una legge sull’e-commerce, e nell’ultima bozza c’è scritto: “Di fronte a una segnalazione di contraffazione, se il venditore garantisce che non è vero e ne produce documentazione (a sua volta falsa, ndr), nessuno va in tribunale”. Una norma che, per le piattaforme, non prevede alcuna responsabilità, né l’obbligo di approfondire le prove. E il problema non è solo Alibaba: mentre navighi su internet ti compare la pubblicità di un prodotto, cliccando finisci in un sito, una e-mail, un social media o WhatsApp, dove puoi acquistare quello stesso prodotto (falso). Quanto vale il mercato del falso? Il valore del falso ammontava nel 2016 a 1,7 trilioni di dollari, e nei prossimi 5 anni è stimata una crescita del 70%. Diventa sempre più normale il pagamento in bitcoin, anche se Alibaba oggi non li accetta... non ancora. Si dice: “Segui i soldi, e arriverai al ladro”. Ma, con i bitcoin cosa segui? Ricadute sociali - Il consumatore, cercando per ogni prodotto il prezzo più basso, alimenta di fatto la produzione parallela del falso: dalle medicine ai ricambi delle automobili, fino all’elettronica. Il 99% dei ricambi e adattatori per iPhone non è sicuro. Le piccole e medie imprese italiane trovano i loro marchi dappertutto, da 1688.com (la piattaforma che vende all’ingrosso, ma dove possono comprare anche i consumatori retail) a Taobao o altre piattaforme Alibaba. Ci sono i grandi produttori che da anni vendono per esempio zaini per i millennial, dichiarano anche il fatturato, ed è tutta roba contraffatta. Nessuno alza un dito, proprio perché c’è la percezione che sia inutile, complicato e costoso. E allora come fanno a sopravvivere le nostre piccole e medie aziende, se devono competere con la contraffazione, il mercato nero e i software delle piattaforme che danno la priorità agli articoli che costano meno? Hanno una sola strada: quella di abbassare a loro volta i prezzi. Il che significa abbassare gli stipendi, e ridurre al minimo i contributi e i diritti, quelli a fatica conquistati: le ferie, la malattia, la maternità. Si esce dal territorio sano della libera concorrenza, per entrare in quello malato del dumping sociale. Responsabilità del Governo cinese - Se i controlli non partono dalla Cina, non c’è speranza di arrestare la contraffazione globale e la più alta responsabilità è proprio del Governo cinese, che dovrebbe introdurre norme chiare ed efficaci per la protezione di tutti i brand e la sicurezza del consumatore, e anche tassare i profitti delle vendite online. Chi ha la forza di imporre un cambio di rotta sono anche i titolari dei grandi marchi mondiali e le associazioni di categoria, che invece di pensare ognuno per sé (nel timore di ritorsioni o di cattiva pubblicità), dovrebbero investire in una ricerca seria sull’impatto economico e sociale; e poi fare attività di lobbying sui propri governi, spingendoli a fare pressioni sul governo cinese. In tutto il mondo occidentale chiudono i centri commerciali, chiudono i negozi e i governi puntano allo sviluppo dell’e-commerce, dove naturalmente non si vende solo il falso, ma salta ogni intermediazione, per favorire la semplificazione. E a furia di semplificare… abbiamo semplificato! Nessuno paga le tasse doganali. Quelle restano in capo alle aziende locali, che investono in prodotti e creano posti di lavoro, ma che poi vengono lasciate sole e inermi di fronte ai pirati. Come e dove si espande Alibaba - Le previsioni di crescita di Alibaba sono enormi: conta di capitalizzare 1.000 miliardi di dollari entro il 2020, battendo Apple, Alphabet, Amazon, Facebook, Tencent. Il suo fondatore Jack Ma ha dichiarato a Newsweek : “La Cina è cambiata grazie a noi negli ultimi 15 anni. Ora speriamo che il mondo cambi grazie a noi nei prossimi 15”. Il colosso sta facendo acquisizioni e investimenti in tutti i settori e in tutto il mondo: dalle società che si occupano di distribuzione a catene di negozi e supermercati, dalla stampa ai media, dalle lotterie, allo sport, ai servizi sanitari. Se riuscirà a comprare anche una compagnia di servizi di pagamento (come la Western Union per esempio), sarà più facile costruire una piattaforma fuori dalla Cina, aprendo così le porte ad una ben maggior vendita internazionale di prodotti contraffatti. Da un giorno all’altro le cose potrebbero andare 10 volte peggio. Il Governo americano ha appena rifiutato la richiesta di Alibaba di comprare MoneyGram. Grazie a Trump, onestamente. Cosa restituisce Alibaba alla società? - Secondo Jack Ma, l’evasione fiscale non solo è illegale, ma soprattutto immorale ed ha dichiarato che ogni impresa deve pagare la sua parte attraverso le tasse, visto che le aziende possono lavorare solo grazie all’infrastruttura pagata dai cittadini. Quindi, quanto paga questo colosso in tasse? Secondo il South China Morning Post, giornale posseduto da Alibaba, il gigante di e-commerce e la sua affiliata finanziaria Ant Financial hanno pagato, nel 2016, un totale di 3,5 miliardi di dollari di tasse, continuando ad essere il maggior contribuente della Cina. C’è però un “ma” (inteso come congiunzione avversativa): tutti i rami dell’ecosistema Alibaba sono attaccati al tronco della società madre, l’Alibaba Group Holding Limited, che ha sede nelle Cayman Islands. E quanto paga di tasse? Zero, perché alle Cayman non è previsto nessun tipo di tassazione per le società. Ai ricchi sempre di più: l'1% di Paperoni ha come il restante 99% La Repubblica, 22 gennaio 2018 La denuncia di Oxfam: le nuove risorse create si indirizzano tutte verso chi ha già molto. Il dato italiano: il 20% più ricco detiene oltre il 66% del patrimonio nazionale. Il World Economic Forum di Davos ha sul tavolo il tema “Creare un futuro condiviso in un mondo frammentato” e sul vertice che riunisce la crema della finanza mondiale piombano i numeri dell'Ong britannica Oxfam, una delle più autorevoli, sulle permanenti fratture tra ricchi e poveri. Sempre più ricchi i primi, sempre più poveri i secondi. Un trend che riguarda il mondo intero come l'Italia, seppure in proporzioni meno clamorose. Mentre i giovani socialisti preparano le proteste contro Donald Trump, Oxfam ci ricorda alla vigilia del Forum che l'1% più ricco della popolazione mondiale continua a possedere quando il restante 99%. Ma si arricchisce sempre di più: l'82% dell'incremento di ricchezza netta registrato nel mondo tra marzo 2016 e marzo 2017 è andato in tasca a questi Paperoni. Nemmeno un centesimo, invece, è finito alla metà più povera del pianeta, che conta 3,7 miliardi di persone. Il contrasto è evidente visto che, conti alla mano, ogni due giorni si registra l'arrivo di un nuovo miliardario. “Ricompensare il lavoro, non la ricchezza”, è il titolo del report che utilizza i dati elaborati dal Credit Suisse tenendo conto di nuove informazioni che arrivano sui nuovi ricchi di Russia, Cina e India. L'Italia è parte integrante della fotografia mondiale che vede contrasti. La ricchezza è sempre più concentrata in poche mani. A metà 2017 il 20% più ricco degli italiani deteneva oltre il 66% della ricchezza nazionale netta, il successivo 20% ne controllava il 18,8%, lasciando al 60% più povero appena il 14,8% della ricchezza nazionale. La sezione italiana dell'organizzazione, in vista delle elezioni politiche italiane, ha inviato una lettera ai candidati premier: un'indagine realizzata da Demopolis per l'organizzazione indica che il 61% degli italiani percepisce una crescita della disuguaglianza nel Paese. Per questo la lettera propone interventi su fisco, lavoro, spesa pubblica. In Italia - è un altro dei dati allarmanti - la quota di ricchezza dell'1% più ricco degli italiani supera di 240 volte quella detenuta complessivamente dal 20% più povero della popolazione. Il divario, poi, cresce. Nel periodo 2006-2016 la quota di reddito nazionale disponibile lordo del 10% più povero degli italiani è diminuita del 28%, mentre oltre il 40% dell'incremento di reddito complessivo registrato nello stesso periodo è andato al 20% dei percettori di reddito più elevato. Così nel 2016 - gli ultimi dati confrontabili disponibili - l'Italia occupava la ventesima posizione su 28 paesi Ue per la disuguaglianza di reddito disponibile. L'indice di Oxfam, in quest'ultimo rapporto, è puntato sul lavoro, sempre più sotto-retribuito e precario, pieno di abusi e rischi. Un dato rende bene il paradosso di un lavoro meno pagato della ricchezza. Nel settore dell'abbigliamento gli azionisti dei cinque principali “marchi” hanno riscosso nel 2016 dividendi per 2,2 miliardi di dollari: basterebbe un terzo di questa cifra per garantire un salario dignitoso a 2,5 milioni di vietnamiti che lavorano nello stesso settore, producendo un capo che magari ora stiamo indossando. Ma il divario è anche tra lavoro e lavoro: basta un giorno da amministratore delegato in Usa per guadagnare quanto un lavoratore della stessa compagnia in un solo anno. Proprio per questo, tra le proposte di Oxfam, c'è quella di porre un tetto ai super-stipendi dei top manager per impedire che il divario superi il rapporto 20 a 1. Altra frattura, che rilancia il recente allarme dell'Onu, tra uomini e donne: le donne subiscono in media un divario retributivo del 23%, e questo vale per tutte le fasce di ricchezza se si pensa che 9 miliardari su 10 sono uomini. Inoltre sono loro a subire le maggiori vessazioni. Francia. Protesta degli agenti per la difficile gestione dei detenuti jihadisti di Anais Ginori La Repubblica, 22 gennaio 2018 Si allarga la protesta degli agenti penitenziari dopo l’aggressione di tre guardie qualche giorno fa nel nord del Paese da parte di un detenuto islamista. Le carceri francesi non sanno più come fare con i jihadisti, molti dei quali accusati di violenza, proselitismo. Il numero è esploso negli ultimi due anni, almeno 1.500 detenuti considerati radicalizzati sono presenti nel sistema penitenziario, creando spesso incidenti di cui l’ultimo ha provocato un movimento di rivendicazione che non sembra fermarsi. Dalla settimana scorsa gli agenti hanno bloccato diverse prigioni e condotto una manifestazione davanti a Fleury-Merogis, banlieue di Parigi, il più grande carcere d’Europa, dove sono detenuti molti terroristi, tra cui anche Salah Abdeslam, l’unico sopravvissuto dei commando che hanno organizzato gli attacchi del 13 novembre. La ministra della Giustizia che era andata per dialogare con i manifestanti è stata contestata. I tentativi di mediazione per adesso sono tutti falliti. Il governo ha promesso l’assunzione di altri 1.100 agenti entro quattro anni, ma secondo i sindacati non è sufficiente. Un nuovo appello allo sciopero generale. Già due carceri, in Corsica e a Bordeaux, sono bloccate da giorni. In altre ci sono alcuni disservizi, sospese le visite nei parlatori. Ieri un gruppo di detenuti si è rifiutato di tornare nelle celle dopo l’ora d’aria e alla fine sono dovute intervenire delle squadre speciali. Una protesta che, se dovesse continuare ed estendersi, potrebbe portare il governo a chiedere l’intervento dell’esercito per garantire la sicurezza dei centri penitenziari. Con 118 carceri e 28mila detenuti, la Francia ha uno dei record di sovraffollamento ed è regolarmente criticata dalle organizzazioni per i diritti umani. Filippini ridotti in schiavitù: “Stop agli espatri in Kuwait” di giordano stabile La Stampa, 22 gennaio 2018 Troppi maltrattamenti. In pochi giorni morte quattro domestiche. E il presidente Duterte proibisce di emigrare: condizioni inumane. L’ultimo caso, una domestica che si è buttata giù dal terrazzo della casa dove lavorava a Kuwait City, ha spazzato via quel poco di diplomazia che caratterizza il presidente filippino Rodrigo Duterte. “Abbiamo perso quattro donne in pochi giorni, adesso basta, chiamateli e ditegli che non è più accettabile”. Non era una decisione facile, perché i lavoratori all’estero rappresentano per le Filippine una delle maggiori risorse, e fonti di valuta pregiata, ma il ministro del Lavoro Silvestre Belo ha avvertito il governo del Kuwait e bloccato gli espatri, finché non saranno risolti “i casi che riguardano la morte delle nostre lavoratrici”. I filippini in Kuwait sono 250 mila, su una popolazione di 4,2 milioni. Sono soprattutto domestici, donne. I suicidi nelle ultime settimane hanno portato alla luce una condizione durissima, al limite della schiavitù. Le domestiche sono ingaggiate, in Kuwait come in gran parte dei Paesi arabi, con il sistema della “kafala”. Il datore di lavoro paga una cauzione, che può arrivare a quattromila dollari, come garanzia in caso di rimpatrio forzato. In cambio ottiene un potere quasi assoluto: sequestra il passaporto e impone ritmi massacranti, “fino a 20 ore al giorno”, hanno documentato ong indipendenti come Kafa. Nelle situazioni peggiori si arriva alle violenze, anche sessuali. E le donne più fragili, umiliate, di fatto prigioniere in un Paese straniero, arrivano a suicidarsi. Nel marzo scorso aveva fatto scandalo un filmato postato su Facebook dalla padrona di casa: mostrava la sua cameriera etiope, aggrappata alla ringhiera del balcone dopo aver tentato di buttarsi giù. Nel video si sente la padrona che le grida “pazza, che hai fatto” mentre continua a filmare senza soccorrerla, finché la donna perde la presa e cade dal settimo piano. Incredibilmente, si è salvata. Il video ha aperto un dibattito in tutto il mondo arabo, c’è stato un processo, ma nella sostanza nulla è cambiato. Anzi, le condizioni continuano a peggiorare perché a causa della crisi economica indotta dal calo del prezzo del petrolio, decine di migliaia di domestiche sono state licenziate. Il viceministro degli Esteri kuwaitiano Khaled al-Jarallah si è mostrato “sorpreso e dispiaciuto” per le parole del presidente filippino e ha promesso che ci sarà un’ “inchiesta giudiziaria”. Ma il clima è sempre più ostile. Due deputati, Khalil Abdullah e Abdullah Al-Tamimi, hanno presentato un progetto di legge per “ridurre la popolazione degli espatriati di 1,4 milioni” entro il 2020. Il fatto che oggi gli stranieri rappresentino oltre i due terzi della popolazione “è pericoloso per la sicurezza dello Stato”, hanno spiegato. Il rapporto anomalo fra stranieri e cittadini locali spiega la durezza delle politiche sull’immigrazione nel Golfo. La percentuale di stranieri oscilla fra il 32% in Arabia Saudita all’89 negli Emirati. Gli immigrati non hanno nessuna chance di ottenere la cittadinanza. Sono tutti “temporanei”, con diritti minimi. Di integrazione non se ne parla neanche. In un altro Paese arabo con forte presenza di immigrati, il Libano, non soltanto non è immaginabile lo Ius soli, ma persino lo Ius sanguinis subisce limitazioni: i figli di una donna libanese e di un uomo straniero non ottengono automaticamente la cittadinanza. Nel Golfo la chiusura si spiega con un’esplosione demografica che non ha eguali al mondo. Gli Emirati, in un secolo, sono passati da 90 mila abitanti a 9,6 milioni. I locali sono meno di un milione, mentre gli immigrati filippini sono arrivati a 680 mila, per poi calare dopo una serie di campagne contro l’immigrazione irregolare. Fra il 2007 e il 2008 trecentomila lavoratori asiatici, compresi ventimila filippini, sono stati costretti a lasciare il Paese per le nuove regole sui visti, e oltre mille sono finiti alla deriva nel Golfo, spiaggiati sull’isola iraniana di Kish e in quella omanita di Al-Buraimi. Gli “infiltrati” rischiavano fino a dieci anni di galera, ma la maggior parte non aveva i soldi per pagarsi il viaggio di ritorno. Norme simili sono state approvate anche in Oman, Bahrein, Arabia Saudita e Qatar, accanto a piccole aperture. In Qatar, nel 2008 l’ex emiro Hamad bin Khalifa al-Thani, ha permesso l’apertura di chiese, una con un sacerdote filippino. Aperture simili sono state promesse dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Ma sono gocce nel mare. Sulle spalle dei 10,8 milioni di migranti filippini nel mondo c’è gran parte della sopravvivenza delle loro famiglie e della madrepatria, che non possono fare a meno dei 5 miliardi di dollari di rimesse all’anno. Iraq. Una tedesca al patibolo Corriere della Sera, 22 gennaio 2018 Una cittadina tedesca è stata condannata a morte in Iraq per adesione al gruppo terrorista dello Stato islamico. È la prima volta che la giustizia irachena decide la pena di morte per una donna europea. A pronunciare la sentenza la Corte penale centrale di Bagdad. La 30enne, di origine marocchina, è stata ritenuta colpevole di “sostegno logistico e aiuto a un’organizzazione terrorista per commettere crimini”, ha riferito una portavoce del tribunale. La donna ha 30 giorni per presentare ricorso, dopo questo periodo potrà essere giustiziata. “L’accusata ha ammesso negli interrogatori di aver lasciato la Germania per la Siria e poi l’Iraq per unirsi all’Isis, con le due figlie che hanno sposato membri dell’organizzazione terrorista”, ha aggiunto la portavoce del tribunale. I servizi tedeschi stimano che 910 persone abbiano lasciato la Germania per unirsi all’Isis in Iraq o Siria, circa un terzo dei quali è rientrato in Germania, fra cui 70 persone considerate combattenti. Altri 145 sono stati uccisi, 190 tedeschi erano partiti con i figli.