Carcere e dipendenze: al via il protocollo per favorire le misure alternative di Teresa Valiani Redattore Sociale, 21 gennaio 2018 Il documento, firmato da Conams e FeDerSerd, accorcia le distanze tra la magistratura di sorveglianza e i servizi per le dipendenze patologiche. Ancora troppo alto il numero dei detenuti tossicodipendenti: sono il 30% della popolazione ristretta. Bortolato: “Tossicodipendenza e carcere non si coniugano”. Favorire l’accesso dei detenuti tossicodipendenti alle misure di comunità a scopo terapeutico attraverso un “ponte di mediazione culturale che contribuisca ad avvicinare i linguaggi, i mezzi, i metodi e la formazione professionale”. È quanto si propone il protocollo operativo nazionale firmato questa mattina a Palazzo Giustiniani da FeDerSerd (Federazione italiana operatori dei dipartimenti e dei servizi delle dipendenze) e Conams (Coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza) “Per l’applicazione dell’affidamento in prova in casi particolari”. Un documento che accorcia le distanze tra i servizi per le dipendenze patologiche e la magistratura di sorveglianza chiamata a valutare le richieste di misure alternative. Il protocollo ha cercato di individuare canoni più appropriati e standardizzati per ridurre la disparità dei criteri e delle modalità con cui è predisposta la documentazione relativa ai singoli casi e, quindi, favorire l’accesso all’affidamento terapeutico ogni volta che ne sussistono i presupposti. “Un obiettivo che può sembrare scontato ma che nella realtà non trova sempre riscontro - è stato sottolineato nella presentazione del documento. Nonostante le leggi siano a favore della cura piuttosto che della restrizione della libertà personale, resta significativo il numero dei tossicodipendenti condannati a pena definitiva e che non usufruisce della misura alternativa a scopo terapeutico, nonostante in possesso dei requisiti previsti”. Le persone con dipendenza rappresentano circa il 30 per cento della popolazione ristretta. Mentre “molti altri soggetti non detenuti e in carico ai servizi si trovano nella condizione di dover scontare una pena definitiva. Si tratta di persone portatrici di una condizione patologica complessa, spesso determinante nell’indurre la commissione di reati, nella quale confluiscono dipendenza fisica, problematiche psicologiche, frequenti patologie correlate e che può risolversi, con buona probabilità, solo a fronte di un trattamento terapeutico-riabilitativo personalizzato”. “Da un’analisi dell’attività dei SerD e della giurisprudenza della magistratura di sorveglianza - ha spiegato Gianna Sacchini (direttivo nazionale FeDerSerD,) presentando il protocollo - non era difficile rendersi conto di una estrema difformità applicativa nei diversi contesti territoriali: a parità di situazione soggettiva del richiedente, infatti, l’esito del giudizio variava sensibilmente. La documentazione predisposta dai Servizi risultava troppe volte del tutto disallineata rispetto alle esigenze cognitive del magistrato. Il procedimento per la concessione dell’affidamento terapeutico finiva spesso per assomigliare ad una giacca non abbottonata in corrispondenza delle asole. I Servizi avevano un approccio concentrato sui bisogni di cura del soggetto, ma presumibilmente disattento alla funzione strumentale della loro opera a fini di giustizia. Accadeva così che pur a fronte di programmi trattamentali apprezzabili dal punto di vista clinico e terapeutico, le asole giurisdizionali predisposte dal legislatore erano invece in attesa di altri bottoni”. “Il punto di partenza - ha spiegato il segretario del Conams, Marcello Bortolato (Presidente del tribunale di sorveglianza di Firenze) - anche in questa materia è una cultura politica, che si spera si possa superare con l’effettiva attuazione della riforma penitenziaria oggi all’esame delle Camere per il parere, fondata sulla convinzione che i problemi che la società non riesce a risolvere possono essere scaricati sul carcere. Anche in tema di tossicodipendenza sembra che il carcere rappresenti la modalità con cui il nostro Paese intenda rispondere al problema della tossicodipendenza non in un’ottica di ricerca dell’inclusione di chi, con la dipendenza, manifesta un disagio, ma con la carcerizzazione del problema. È noto purtroppo che la sola legge antidroga contribuisce al 28,3 per cento degli ingressi in carcere, e al 33,5 per cento delle presenze. Si tratta di numeri imponenti che chiamano innanzitutto a un intervento sulla legge antidroga come priorità e poi sulla predisposizione di idonei programmi terapeutici alternativi al carcere ed è questo l’argomento affrontato con il protocollo”. Cinque, gli interventi migliorativi al centro del documento e che riguardano: la modalità di certificazione dello stato di tossico/alcoldipendenza (tra i punti più critici nei rapporti tra magistratura di sorveglianza e servizi), la verifica dell’attualità della dipendenza, la valutazione del presupposto della “non strumentalità” della richiesta da parte del detenuto/paziente, la formulazione del programma terapeutico (ambulatoriale, semiresidenziale, residenziale) e il monitoraggio dell’attuazione del programma terapeutico. “Tossicodipendenza e carcere non si coniugano - ha sottolineato Marcello Bortolato - ed è un dato inconfutabile che il carcere acuisca in modo esponenziale le problematiche dell’individuo e che, soprattutto, abbia scarsi effetti deterrenti per chi assume sostanze stupefacenti. L’aspirazione che ha mosso il Conams alla firma del protocollo è quella di arrivare a formulare programmi di tendenziale accoglimento da parte della Magistratura di sorveglianza e di pressoché automatica tenuta in fase esecutiva. Si tratta di trovare, mai come in questo settore, un metodo di lavoro che deve incentrarsi su una condivisione delle finalità dell’esecuzione penale nei confronti dei soggetti tossicodipendenti che non deve perdere anche la sua valenza intrinsecamente rieducativa”. “Il nostro obiettivo - ha concluso il presidente di FeDerSerd, Fausto D’Egidio - è che sia quanto più possibile garantita la possibilità di cura ai pazienti tossicodipendenti che, spesso, sono ristretti per reati commessi sotto l’effetto o per il bisogno di procurarsi la droga. La legislazione c’è, ma i protocolli devono servire per garantire quanto più possibile cure sicure ai pazienti”. Papa Francesco ancora contro la “pena di morte viva” di Carmelo Musumeci mauroleonardi.it, 21 gennaio 2018 Nel corso del viaggio apostolico in Cile, il 16 gennaio 2018, durante una visita in un carcere femminile, Papa Francesco ha pronunciato queste importanti parole: “Una pena senza futuro, una condanna senza futuro non è una condanna umana: è una tortura. Ogni pena che una persona si trova a scontare per pagare un debito con la società, deve avere un orizzonte, l’orizzonte di reinserirmi di nuovo e quindi di prepararmi al reinserimento. Questo esigetelo, da voi stesse e dalla società. Guardate sempre l’orizzonte, guardate sempre avanti verso il reinserimento nella vita ordinaria della società”. Caro Francesco, grazie delle tue parole. Con l’associazione Liberarsi, che ha sempre sostenuto la campagna contro il carcere a vita, e altri stiamo organizzando il secondo giorno di digiuno nazionale, per venerdì 30 marzo 2018, contro la pena dell’ergastolo. Cercheremo di coinvolgere anche questa volta il massimo delle persone interessate, le associazioni di volontariato, i nuovi parlamentari, i centri sociali, esponenti della magistratura, dell’università, delle camere penali, uomini e donne di tutte le chiese, fedi religiose e movimenti spirituali, intellettuali, e personaggi del mondo dello spettacolo e dell’informazione. Tutte le persone del mondo libero che vorranno aderire alla giornata di digiuno del 30 marzo 2018 potranno farlo dal sito compilando l’apposito modulo, nella sezione in home dal titolo “Aderisci allo sciopero della fame del 30 marzo per l’abolizione dell’ergastolo”. Caro Francesco, contiamo sul tuo sostegno pubblico: ti confidiamo che ci sono delle sere in cui il pensiero che noi possiamo rimanere in carcere per tutta la vita non ci fa dormire. E la disperazione è un’arma pericolosa. Se però avessimo un fine pena. Se sapessimo il giorno, il mese e l’anno in cui potremmo uscire. Forse riusciremmo a essere delle persone migliori. Forse riusciremmo a essere delle persone più umane. Forse riusciremmo a non essere più cattivi. L’ergastolano è un morto vivente, perché respira senza vivere, in attesa d’invecchiare e di morire. Negare ad una persona la certezza di un fine pena è un crimine grande come quello che si vuole punire. “Nessuno di noi è una cosa: siamo tutti persone, e come persone abbiamo questa dimensione della speranza. Non lasciamoci “cosificare”. Non sono un numero, non sono il detenuto numero tale, sono Tizio o Caio che porta dentro di sé la speranza e vuole dare alla luce speranza”. Caro Francesco, devi sapere che gli “uomini ombra” (così gli ergastolani si chiamano fra di loro) non hanno più niente in comune con gli altri prigionieri, perché vivono in un mondo completamente diverso. Tutti gli altri prigionieri, infatti, hanno delle speranze, dei sogni. Noi invece non abbiamo più nulla. La cosa più brutta per l’uomo ombra è che il suo futuro non dipende più da lui, perché con la pena dell’ergastolo egli diventa solo uno spettatore della propria vita. “Tutti sappiamo che molte volte, purtroppo, la pena del carcere si riduce soprattutto a un castigo, senza offrire strumenti adeguati per attivare processi. È quello che dicevo della speranza: guardare avanti, generare processi di reinserimento. Questo dev’essere il vostro sogno: il reinserimento. E se è lungo portare avanti questo cammino, fare il meglio possibile perché sia più breve. Ma sempre reinserimento. La società ha l’obbligo - l’obbligo - di reinserire tutte voi”. Caro Papa Francesco, noi uomini ombra non possiamo avere nessun futuro migliore perché non abbiamo più alcun futuro. Per lo Stato noi non esistiamo. Siamo come morti. Siamo solo carne viva immagazzinata in una cella a morire. Eppure a volte, quando ci dimentichiamo di essere dei morti che camminano, ci sentiamo ancora vivi. E questo è il dolore più grande per un uomo condannato a essere morto. A che serve vivere se non hai nessuna possibilità di vivere? Se non sai quando finisce la tua pena? Se sei destinato a essere colpevole e cattivo per sempre? “Essere privato della libertà non è la stessa cosa che essere privo di dignità, no, non è la stessa cosa. La dignità non si tocca, a nessuno. Si cura, si custodisce, si accarezza. Nessuno può essere privato della dignità. Dignità che genera dignità. La dignità si contagia, si contagia più dell’influenza; la dignità si contagia. La dignità genera dignità”. Caro Francesco, tutti dovrebbero avere il diritto di sperare, perché senza speranza è più facile morire che vivere tutta la vita chiusi in una cella. Vivere in carcere senza avere la speranza di uscire è aberrante. La pena dell’ergastolo è un insulto alla ragione, al diritto, alla giustizia e, penso, anche a Dio. Baby gang, 12 anni e la severità perduta di Adolfo Scotto di Luzio Il Mattino, 21 gennaio 2018 Se il ministro dell’Interno, Marco Minniti, viene a Napoli e dice che, di fronte alla violenza dei minori, intervenire sul codice abbassando l’età imputabile non è la risposta giusta, questo può voler dire due cose. O che, effettivamente, il ministro Minniti la pensa così - e d’altronde non è il solo su questa strada; oppure che il ministro Minniti non ha la forza politica per imporre al governo e all’opinione pubblica il principio per il quale a dodici anni si possa essere chiamati a rispondere penalmente di comportamenti molto gravi, come aggredire, ferire, attentare alla vita di qualcuno, uccidere. Sarebbe questa una risposta politica, esercitata nel nome dell’autorità dello Stato, ai ripetuti atti di violenza minorile che hanno agitato Napoli in queste ultime settimane. Siccome non siamo nella testa del ministro e ogni ipotesi al riguardo sarebbe puramente speculativa, vale la pena chiedersi non quali siano i suoi pensieri sull’argomento ma che cosa voglia dire fornire una risposta politica alla crisi napoletana. Le pagine dei giornali sono piene di riflessioni sociologiche sulla violenza, sui bambini, sull’educazione e così via. Tutta la discussione pubblica sui casi napoletani di queste settimane è costruita sull’esplicito rifiuto di parlare di quello che pure tutti hanno visto (e che solo le madri delle vittime sono in grado di sentire in termini autentici). Il meccanismo dell’opinione pubblica, i giornali, i dotti commenti che hanno ospitato, le dichiarazioni dei magistrati, dei politici, degli educatori, insomma l’intero apparato addetto alla rappresentazione della realtà agisce invece nel senso di impedire di riconoscere quello che pure ad un occhio spassionato è del tutto evidente: la confusione tra un mero dato anagrafico e un concetto culturale, quale quello di infanzia. Avere dodici anni non significa per forza essere dei bambini. Mentre l’ età della vita è largamente un costrutto della cultura, un’ invenzione che ogni epoca coltiva caricandola di significati destinati a trasformarsi, la condizione per la quale essendo nato in un certo punto della catena del tempo nel momento attuale ho un certo numero di anni, questo è un mero dato. Potenzialmente significativo ma vuoto fino a quando, appunto, non viene riempito di immagini, di valori, in una parola di cultura. Noi abbiamo definito la nostra idea di infanzia sulla base di presupposti che quasi mai sono realizzati nei contesti in cui maturano le scelte criminali oggi agli onori delle cronache. Questi presupposti sono tre: l’aristocrazia (il bambino in quanto soggetto storicamente riconoscibile è innanzitutto il figlio del principe, l’ingenuus, il nato libero), la cultura umanistica che si incarica della formazione di quel fanciullo in quanto uomo, lo sviluppo della democrazia come diffusione a livello di massa degli ideali educativi storicamente propri delle élite sociali. Fuori da questa successione storica, quella che prevale è una concezione dell’”infanzia” come difetto, il bambino è un non ancora uomo. Come tale dunque non ha una sua posizione autonoma nel sistema della vita. Aspetta di crescere. Nei quartieri sottoproletari della città e della sua periferia è una concezione largamente diffusa. Che vuol dire allora, in questo quadro, una risposta politica alla crisi napoletana? La qualificazione politica di un ragionamento è, innanzitutto, la possibilità di rispondere alla domanda: chi è il soggetto? Lo Stato? A Napoli, la risposta pressoché unanime è la comunità, la rete associativa. Il Soggetto non esiste, semmai i soggetti, doverosamente al plurale. Eppure a Napoli, per molteplici ragioni, questi soggetti sono clamorosamente inadempienti. I quartieri a rischio pullulano di iniziative cosiddette sociali, nessuna di queste ha mai scalfito di un millimetro l’ adamantina realtà della dispersione scolastica, della devianza giovanile, della diffusione della droga, della presenza pervasiva, opprimente, militare, della criminalità. Allora, tanto per fare un esempio, la scelta napoletana è tra una scuola pubblica che funzioni e le vaghissime comunità educanti. Vale a dire, tra un intervento diretto dello Stato e il volontarismo caotico e inefficiente dei privati, siano essi preti, maestri di strada o chi altro vi pare. A Scampia la scuola c’è e funziona. Abbiamo letto ieri l’intervista alla professoressa Rosalba Rotondo, preside dell’ istituto “Ilaria Alpi - Carlo Levi”. In quella scuola migliaia di ragazzi vengono quotidianamente muniti di strumenti culturali per costruirsi una vita degna. Badate, non si dà loro questa vita ma si mettono i ragazzi nelle condizioni di potersela procurare. Nessun don Milani ha mai fatto quello che ha fatto la scuola pubblica per milioni di bambini poveri nel nostro paese. Siamo passati da contadini analfabeti a italiani esclusivamente per l’impegno quotidiano di maestri e professori reclutati per il servizio scolastico nazionale. L’ attuale sfiducia di sinistra nei confronti dell’autorità della scuola pubblica, della sua severità e selettività, è una forma inspiegabile, almeno per me, di oscurantismo culturale. Alla stessa maniera bisogna interrogarsi sulla imputabilità dei dodicenni. Non per sbatterli in galera ma per avere uno strumento efficiente e rapido di intervento. Per poter segnare nello spazio sociale la linea netta della responsabilità in modo che risulti chiaro che a certi comportamenti corrispondono certe conseguenze. E sulla base di queste conseguenze poter reagire per mezzo della legge. L’alternativa sono i centri polifunzionali, strutture con progetti di impegno e di educazione del ministro Orlando. Qualcuno ci crede? Ma, soprattutto, qualcuno ha un’ idea di cosa debbano essere in concreto o come debbano conseguire i loro risultati? Il dannoso folklore sugli scugnizzi di Giovanna Borrello La Repubblica, 21 gennaio 2018 Mentre infuria la polemica contro le baby gang e ci si divide tra chi sostiene che questo è un fenomeno comune a tutte le metropoli italiane e chi dice che è un dato peculiare di Napoli, il mio pensiero è andato alla scugnizzo napoletano. Ho constatato che non ne incontro uno da tempo, uno verace con gli stracci e il cappello sgualcito, con la faccia un po’ triste e po’ sorridente, come viene romanzato da letteratura e cinema. Ma forse così non ne ho mai incontrati. Sono nata a metà del ‘900 nel “Nuovo Quartiere Materdei” che si erige al di sopra della Cava delle Fontanelle da cui è separato ma anche collegato da due scalinate. Allora non c’era la metrò collinare ma da queste scale era facile che ragazzini della Sanità salissero sul nuovo quartiere, dove noi bambini borghesi eravamo soliti giocare per la strada, spinti fuori da appartamenti affollati da più famiglie per le persistenti condizioni di povertà del dopoguerra. Spesso venivamo alle mani e ci sfidavamo a pietrate (battaglia con le pietre) in un campo neutrale ma minato - ogni tanto era inagibile per scoperta di qualche mina - e se non proprio il morto ci scappava sempre qualche ferito tra le file di entrambi i battaglioni. Per mia nonna anch’io ero una scugnizza, c’è stata nella cultura napoletana sempre una ambiguità su questa figura, un po’ delinquente e un po’ monello. Il primo ad usare la parola fu Ferdinando Russo, chiarì che era un termine usato nella malavita napoletana: “In gergo, questi ragazzi, che si avviano spensieratamente per la strada delle carceri e del domicilio coatto, vengono denominati scugnizzi”. Li ritroviamo dopo l’Unità d’Italia in concomitanza con il brigantaggio. Quindi altro che simpatico monello. Lo scugnizzo è un piccolo malavitoso. Come ogni cosa negativa che succede a Napoli è diventato un simbolo, un protagonista di tanti ritratti, canzoni, poesie e film. Chi è che non si ricorda di Ninnille di De Filippo? Giocava allo strummolo, altro simbolo della scugnizzeria, che portava sempre in tasca insieme ai soldi derubati a suo zio di cui si vendette anche le scarpe mentre era a letto per l’influenza. Era un delinquente ma la madre diceva: è nu’ criature. Queste baby gang sono un fatto peculiare di Napoli perché hanno come antenato lo scugnizzo e lo scenario di una città dove, ancora oggi, la munnezza, l’atto malavitoso, ogni cosa negativa diventa folklore. Bisogna, quindi, stare attenti a non “ammiccare” verso di loro come si faceva con gli scugnizzi. Umberto Minopoli forse di questo ci voleva avvertire sul Foglio di ieri sostenendo che queste baby-gang non hanno nulla a che vedere con gli scugnizzi napoletani. Credo che si rivolga soprattutto alla figura idealizzata dello “scugnizzo”, ma non a come storicamente si sia determinata. Io penso, invece, che le bande di oggi sono l’evoluzione di questa figura storica-sociale, ne hanno però sviluppato solo il lato delinquenziale, perdendo con l’attualità il romanticismo degli stracci e l’eroicità di una partecipazione alla rivolta di Masaniello e alle Quattro giornate. Il baby della gang attuale è uno scugnizzo moderno che si veste come i ragazzi perbene, non indirizza ad uno scopo la sua violenza ed è per questo anche un po’ apparentato con il terrorismo. Questi bambini emulano Gomorra o/e atti terroristici che vedono in tv? I media sono dei riproduttori di modelli, non sono i modelli in carne ed ossa di ragazzini che sono cresciuti a pane e violenza con il sottofondo delle canzoni neomelodiche, molto prima di Gomorra. Questo è un alibi troppo facile per chi ha responsabilità precise in questa città e non combatte abbastanza abusivismo, microcriminalità camorra. Proprio a Materdei a metà del 900 nacque la Casa dello Scugnizzo, ente di beneficenza per bambini che i genitori non erano in grado di educare, ma ora si occupa anche di donne e anziani. Ne servirebbero di queste case ma con la loro peculiarità originaria, perché non possiamo consentire che bambini abbandonati a se stessi incontrino la normalità direttamente in carcere. Il ministro Minniti è venuto a Napoli. Ha parlato di patria potestà, di educatori di strada e di obbligo scolastico, di presidii territoriali. Non ha disgiunto i due termini della questione che sono prevenzione e repressione. È venuto perché questo è il suo compito, ma anche invocato dai cittadini che hanno però un atteggiamento contraddittorio: mentre invocano lo Stato spesso rifiutano il suo aiuto. Aspiranti magistrati, attenti agli inganni delle scuole private di Carlo Rimini* La Stampa, 21 gennaio 2018 L’organo di autogoverno della magistratura amministrativa ha destituito il dottor Bellomo, il giudice direttore della scuola “Diritto e scienza” che prepara al concorso gli aspiranti magistrati. Si è accertato che egli imponeva ai partecipanti al corso regole di comportamento umilianti (come la lunghezza massima della gonna indossata dalle signore). È comprensibile la soddisfazione manifestata su “La Stampa” dal presidente del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno, per la rapidità con cui il procedimento disciplinare si è svolto e per il suo esito. Vi è però una domanda che attende risposta. Il corso organizzato dal dottor Bellomo non è affatto obbligatorio per partecipare al concorso per l’accesso alla magistratura. È una scuola privata che non ha alcun valore formale. Perché allora le aspiranti magistrato accettavano senza ribellarsi gli ordini del direttore del corso? Per avere una risposta può essere utile leggere quanto è scritto sul sito della scuola: fra gli iscritti al corso “Diritto e scienza” il 40% dei partecipanti effettivi al concorso per l’accesso alla magistratura risulta vincitore. È una percentuale altissima perché complessivamente solo il 12% dei partecipanti effettivi diviene magistrato. Questo spiega perché gli allievi della scuola dimostrassero una sorta di fedeltà assoluta all’organizzatore. Sul sito della scuola è descritto il programma e il metodo: molte parole, quasi filosofiche, sulla superiorità della scienza applicata al diritto. Non è ben chiaro che cosa significhi e non è chiaro che relazione ci sia fra questo metodo e la lunghezza della gonna delle aspiranti magistrato e altre amenità. Ma ai concorrenti la filosofia importa poco; contano i risultati e questi sono indubbiamente eccellenti anche se è difficile capire l’alchimia che permette di raggiungerli. Questa vicenda deve indurre a una riflessione che prescinde dallo scandalo che ha suscitato. Si deve riflettere sulle scuole private che preparano i giovani laureati al concorso per l’accesso alla magistratura e, come ha detto il presidente Pajno, sulle autorizzazioni concesse ai magistrati che le dirigono. Ma non è solo questo il punto. L’intero percorso di formazione e di selezione degli aspiranti magistrati deve essere ripensato. Oggi il concorso è una prova mostruosa. Si svolge (con cadenza annuale) in tre giorni a Roma; partecipano circa 6000 candidati per poco più di 300 posti. Ai partecipanti è richiesto di conoscere una quantità enorme di nozioni. Uno sforzo che richiede, dopo la laurea, una dedizione totale per un tempo indefinito. I concorrenti devono scrivere tre elaborati teorici su temi, spesso molto specifici e settoriali, scelti dal Ministero. Chi, dopo avere investito almeno due anni di vita, non è fra i vincitori, riprova l’anno successivo. Occorre avere alle spalle una famiglia che può permettersi di mantenere un giovane dopo la laurea per un tempo molto lungo senza alcuna garanzia di successo. Occorre una grande forza di volontà ed una grande capacità di memorizzare nozioni. Anche l’intuito o la buona sorte aiutano perché il concorrente, nel mare infinito del diritto, deve scegliere quali temi approfondire e su quali possibili tracce d’esame esercitarsi. Questo metodo di selezione non sembra essere il migliore per scegliere chi svolgerà la delicatissima funzione di magistrato. Sarebbe molto meglio prevedere un percorso affidato alle scuole di formazione gestite dalle università già presenti e diffuse sul territorio. Il concorso nazionale dovrebbe essere solo l’ultimo atto, riservato a pochi candidati già selezionati sulla base della loro conoscenza generale del diritto e della capacità di applicare la loro intelligenza alla soluzione di problemi pratici, doti da verificare attraverso il confronto quotidiano in aula, invece che attraverso un’unica prova d’esame. *Ordinario di diritto privato nell’Università di Milano Sulmona (Aq): ci sono solo cinque medici per 400 detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 gennaio 2018 “Degli otto medici necessari e previsti dal protocollo d’intesa, attualmente ve ne sono solo 5”. Nel carcere di Sulmona l’assistenza sanitaria sta diventando un problema a causa della carenza dei medici. A denunciare questo problema è Mauro Nardella, segretario generale territoriale Uil Pa Polizia penitenziaria. “Degli otto medici necessari e previsti dal protocollo d’intesa, attualmente ve ne sono solo 5. Questo sta comportando inevitabilmente una riduzione delle turnazioni mattinali che non consente, da quel che ci è dato sapere, il soddisfacimento di tutte le richieste avanzate dai detenuti seppur in un contesto fatto di forte abnegazione ed innato spirito di sacrificio da parte dei pochi medici attualmente all’opera”, denuncia Nardella. E aggiunge: “La Asl non può far finta di niente e, soprattutto, non può stare a guardare. Deve immediatamente metterci mano se non vuole che la situazione imploda”. Il sindacalista lancia l’allarme affinché arrivi un immediato intervento da parte dell’azienda sanitaria locale, prima che la situazione imploda. Nardella spiega che nel carcere ci sono 400 detenuti e i medici non bastano, anche, perché “gli attuali medici, già fortemente ‘ maltrattati’ da contratti per nulla gratificanti, non possono e non devono arrivare a dover vestire i panni di schiavi per far si che la situazioni non deflagri definitivamente”. Aggiunge Marcello Ferretti della Uil Fpl: “Il penitenziario di Sulmona non può essere mantenuto ai margini del sistema solo perché carcere. Le istituzioni tutte devono concorrere al soddisfacimento delle giuste richieste provenienti da questo luogo di penitenza. Lo richiede la Costituzione e cioè la madre di tutte le leggi. Investire di più e meglio nell’ambito del penitenziario di piazzale vittime del dovere si deve. Il tutto alla luce anche dell’ampliamento del carcere che porterà inesorabilmente all’aumento di detenuti e, quindi, di ulteriori soggetti da attenzionare dal punto di vista sanitario. Se servirà unire le forze con gli amici del penitenziario per ottenere ciò che spetta di diritto siamo pronti a farlo”. Ricordiamo che l’assistenza sanitaria alla popolazione detenuta è di competenza del Servizio sanitario nazionale e dei Servizi sanitari regionali. Il trasferimento delle compete tenze sanitarie dal ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale e ai Servizi sanitari regionali è stato definito con il decreto del presidente del Consiglio dei ministri dell’ 1 aprile 2008. Con esso, assieme alle funzioni, sono state trasferite al Fondo sanitario nazionale e ai Fondi sanitari regionali le risorse, le attrezzature, il personale, gli arredi e i beni strumentali afferenti alle attività sanitarie nelle carceri. Il problema del diritto alla salute dei detenuti rimane critico sia dal punto di vista dell’accertamento della compatibilità o meno con il carcere da parte della magistratura di competenza, sia dalle criticità interne. La risposta su quest’ultimo punto è il miglioramento della qualità del servizio che purtroppo non è annoverato tra i decreti delega della riforma dell’ordinamento penitenziario, perché la riforma deve essere “a costo zero”, punto che è stato specificamente sottolineato e che era poi stato confermato dalle previsioni di spesa ( riguardanti la sola questione del lavoro intramurario). Parma: Raffaele Cutolo sta morendo? 41bis vietato al Partito Radicale, è polemica vocedinapoli.it, 21 gennaio 2018 Raffaele Cutolo sta morendo? Non è dato sapersi. Da una parte l’avvocato Gaetano Aufiero che non ha più sue notizie da mesi “perché non ci sono procedimenti giudiziari in corso”. Dall’altra la famiglia che lo vede sempre meno, sia perché il regime di 41 bis (il carcere duro) prevede un incontro della durata di un’ora solo una volta al mese, sia perché ormai ‘o Professore è “seppellito” in carcere da oltre mezzo secolo. Dei suoi problemi di salute ne aveva parlato la moglie, Immacolata Iacone, in una recente intervista, datata 31 luglio 2017, rilasciata al sito Stylo24: “Assume 14 pillole al giorno, ha problemi di diabete, la sua vista è seriamente minata, è affetto da una seria prostatite e l’artrite non gli dà quasi più la possibilità di muovere le mani”. Cutolo è detenuto nel carcere di massima sicurezza di Parma dove giovedì c’è stata una visita ispettiva da parte del Partito Radicale, i cui esponenti sono potuti accedere in tutti i reparti tranne che in quello dove ci sono i detenuti in regime di 41 bis. Una decisione questa che ha sollevato non poche polemiche con la successiva richiesta dei Radicali, quella di verificare le condizioni di detenzione in regime di 41 bis, accolta solo parzialmente e con una serie di paletti che vietavano qualsiasi tipo di confronto con i carcerati. Contatta da vocedinapoli.it, la coordinatrice del Partito Radicale, Rita Bernardini ha definito “inqualificabili” le motivazione relative alla decisione del Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. “Intanto, consentivano solo a me di entrare al 41bis e ciò è inaccettabile nei confronti degli altri della delegazione del Partito Radicale. La mia richiesta era di poter verificare le condizioni di detenzione e non, come scrivono loro, “finalizzata esclusivamente a una visita conoscitiva sulle condizioni logistiche e organizzative”. Il divieto di poter parlare con i detenuti, mi avrebbe portato esclusivamente ad andare a vedere esseri umani in gabbia: per questo ho rinunciato alla visita”. Questa la nota, datata 16 gennaio 2018, del Dap che accoglieva solo parzialmente le richieste del Partito Radicale: “Preso atto delle rinnovata richiesta, avanzata per le vie brevi dall’On. Rita Bernardini, del Coordinamento Presidenza Partito Radicale, ad accedere presso il reparto 41bis, nel corso della visita odierna; viste le motivazioni addotte circa l’accesso presso il reparto 41bis, finalizzato esclusivamente a una visita conoscitiva sulle condizioni logistiche e organizzative; tenuto conto che l’accesso presso la predetta sezione deve necessariamente tenere conto del divieto di interloquire con le persone detenute; al fine di consentire, nello spirito di collaborazione istituzionale, le attività svolte dalla delegazione in visita, in data odierna, presso codesto Istituto, si autorizza quanto segue. L’On. Rita Bernardini, accompagnata dal Direttore o da funzionario delegato, è autorizzata ad accedere presso il predetto reparto. All’On. Bernardini saranno fornite tutte le informazioni utili circa gli aspetti organizzativi e gestionali connessi al regime detentivo ex 41 bis. Si raccomanda l’adozione delle cautele del caso e la consueta cortesia nei riguardi dei soggetti autorizzati alla visita”. Fermo (Ap): il vescovo Pennacchio incontra per la prima volta i detenuti informazione.tv, 21 gennaio 2018 I cantanti del coro “Quelli che...non solo gospel” di Montegranaro, guidati dal tenore Massimiliano Luciani, hanno regalato un momento di spensieratezza ai detenuti della casa di reclusione di Fermo: un incontro fortemente voluto dalla direttrice Eleonora Consoli, con l’area trattamentale diretta da Nicola Arbusti e il supporto della Polizia penitenziaria, guidata dal comandante Loredana Napoli. Fermo. Ospite d’onore il vescovo, Rocco Pennacchio, per la prima volta in visita al carcere cittadino insieme con don Michele Rogante, i volontari della Caritas e tutte quelle persone che si adoperano per riempire di dignità il tempo dei detenuti. Davvero emozionante l’esibizione del coro, tra sacro e profano, con il vescovo, grande appassionato ed esperto di musica, che cantava sottovoce e apprezzava visibilmente. “Dovevo venire in visita prima di Natale ma ho preso una sbandata, come spesso succede nella vita, e sono uscito di strada, ma a questo punto sono contento di aver potuto avere l’occasione di partecipare ad un evento come questo - le parole di Monsignor Pennacchio -. Mi piace molto sentirvi, la musica di per sé ha l’effetto di elevare l’anima, ovunque porti la sensibilità di ciascuno. Ci migliora, ci aiuta, c’è poi l’esperienza del cantare insieme. Per cantare insieme bisogna mettersi d’accordo ed è un esercizio che richiede un allenamento allo stare uniti. È sicuramente un’esperienza anche questa formativa e di accrescimento. Si può incrociare la fede alla condizione di vita in cui ci si trova, anche nella sofferenza, come può essere in una casa di reclusione. E allora bisogna pensare alla libertà: mi carico sulle spalle il peso di questo mio momento di pena ma la libertà deve essere quella del cuore, nel saper accettare anche questa situazione, guardare al futuro con ottimismo”. Presenti anche il sindaco Paolo Calcinaro e l’assessore all’ambiente Alessandro Ciarrocchi. Il primo cittadino ha ricordato l’impegno costante, al fianco della direzione dell’area trattamentale, nel rendere la permanenza nell’istituto meno dolorosa: “Abbiamo collaborato nel creare occasioni di impegno fuori da queste mura per due persone che gratuitamente si sono messe a disposizione del quartiere intorno all’ospedale e si sono fatte apprezzare per impegno e serietà. Andremo avanti su questa strada, perché crediamo fortemente nella necessità di costruire la migliore vita possibile qui dentro e poi nella possibilità di uscire e tornare in maniera positiva nella nostra comunità”. Sassari: al carcere di Bancali il reinserimento passa anche dalla musica sassarinotizie.com, 21 gennaio 2018 Un concerto, tra musica sacra e folk sassarese, dove i detenuti che seguono da un anno il laboratorio musicale hanno potuto esprimere il proprio talento davanti a un centinaio di spettatori. Nei giorni scorsi, la performance al teatro della Casa circondariale di Bancali ha segnato il debutto degli allievi più esperti del progetto che coinvolge più di venti persone tra uomini e donne e le richieste di partecipazione sono in continuo aumento. Si tratta di un percorso educativo e didattico, capace di mettere in luce talenti nascosti da valorizzare, anche in una prospettiva di reinserimento nella società, e allo stesso tempo crea momenti di socializzazione. L’evento, promosso dalla direttrice Patrizia Incollu, curato dall’educatrice Rosanna Roggio e dal garante dei diritti delle persone private della libertà personale Mario Dossoni, e coordinato dai docenti di musica della sezione femminile, Alessandra Lutzu, e della sezione maschile, Antonio Deiara, ha potuto contare sulla partecipazione straordinaria della cantante Maria Giovanna Cherchi e del musicista Federico Fresi. Gli allievi, due chitarre, cinque voci e un organetto sardo, hanno spaziato dal “Deus ti salvet, Maria”, nella versione di Fabrizio De Andrè, a brani proposti dalla stessa Maria Giovanna Cherchi, dal “Procura d’e moderare” fino alle canzoni della tradizione sassarese. Don Gaetano Galia, cappellano di Bancali, è stato il presentatore dell’esibizione. Il concerto è soltanto il primo di una serie di eventi che saranno programmati nei prossimi mesi e che vedranno protagonisti le allieve e gli allievi dei laboratori musicali, che possono contare anche sull’aiuto dell’associazione “Aut Aut” che ha donato gli strumenti per il progetto. L’obiettivo è stabilizzare i corsi già iniziati e crearne di nuovi, nel quadro del Protocollo d’Intesa tra i Ministeri della Giustizia e dell’Istruzione, anche tenuto conto del grande numero di richieste e adesioni. “Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione”, di Donatella Di Cesare recensione di Francesca Rigotti Il Sole 24 Ore, 21 gennaio 2018 C’è da chiedersi come mai la filosofia politica, nel suo costante richiamarsi alla cultura classica greca e latina, non abbia mai ripreso il “discorso di Nausicaa”. Si tratta delle parole che nel libro VI dell’Odissea la giovanissima principessa dei Feaci rivolge alle sue ancelle, fuggite per lo spavento alla vista del profugo proveniente dal mare e che si rivelerà essere Ulisse: “Olà, disse, fermatevi. In qual parte/ Fuggite voi, perché v’apparve un uomo?/ Mirar credeste d’un nemico il volto? […] Un misero è costui, che a queste piagge/ capitò errando, e a cui pensar or vuolsi. / Gli stranieri, vedete, ed i mendichi/ Vengon da Giove tutti, e non v’ha dono/ Picciolo sì, che a lor non torni caro” (tr. di I. Pindemonte). Conosciamo a memoria il discorso di Pericle con l’elogio della democrazia ma queste parole che invitano all’accoglienza dello straniero ci sono ignote. Perché provengono da voce di donna? Perché una filosofia della migrazione in grado di riprenderle ed elaborarle non è mai stata scritta, che è l’argomento sostenuto in questo saggio poderoso e coraggioso da Donatella Di Cesare nel momento in cui ne propone a sua volta una? Certo, ci sono i pensieri nomadici di Deleuze e quelli nomadico-femministi di Braidotti; c’è la filosofia dell’esilio di Maria Zambrano e c’è un accenno di filosofia dei migranti in Vilèm Flusser (tutti, eccetto Deleuze, migranti, esuli, emigrati tornati e no, come Di Cesare, come me). Eppure la filosofia politica tradizionale ha dimenticato i profughi e aggirato l’accoglienza. Mancano, scrive Di Cesare, “sia una riflessione sul migrare sia un pensiero intorno al migrante”, e persino le idee acute e feconde di una rifugiata e apolide d’eccezione, Hannah Arendt, non vennero né da lei né da altri elaborate in una complessiva filosofia della migrazione. Perché di questo qui ci si occupa, non di trovare soluzioni politiche per regolare i flussi o integrare i migranti, temi che ricadono nella logica immunitaria che si comporta come la ferita che si chiude sui suoi bordi per difendersi dal corpo estraneo, e che tratta il migrante come un criminale recludendolo in campi di internamento. Qui si va alla ricerca di motivazioni e argomentazioni a favore sia di un pensiero dell’accoglienza che dia luogo - faccia posto come in uno scompartimento ferroviario, spiega la bella analogia dell’autrice - a chi arriva spinto dalle persecuzioni belliche come da quelle economiche; sia dell’elaborazione di uno ius migrandi che protegga la libertà di movimento e soprattutto promuova una redistribuzione egualitaria dei beni oltre che la condivisione della terra. Le domande filosofiche ci interrogano dunque intorno all’autoproclamato diritto dei primi arrivati in un territorio e degli stati costituitisi intorno ad essi, di impedire o limitare a discrezione l’ingresso nel “proprio” territorio, ammettere ed escludere secondo il criterio dell’avvantaggiare i nostri, il nostro prossimo: “prima noi, prima i nostri, America ( o altro stato a piacere) first”. Ma anche, e a monte di questo, sul diritto di garantire giustizia sociale soltanto al vicino, al prossimo, al concittadino. È un grande tema su cui si sono interrogati Cicerone come pure Martha Nussbaum, e che val la pena di riprendere: dove Cicerone con cautela afferma che dovremmo preferire, nell’assegnare assistenza e aiuto, il vicino e l’amico, ed estendere l’aiuto e l’assistenza a chi è lontano o viene da lontano solamente se ciò può essere fatto senza sacrifici e dispendi per noi, Martha Nussbaum pensa e dice esattamente il contrario. Per motivare l’affermazione che abbiamo doveri verso persone in stato di bisogno che vengono da altre nazioni, Nussbaum sostiene che è incombente per noi abitanti dei paesi opulenti il dovere di salvare dalla fame, dalla povertà e dalla guerra abitanti di nazioni povere, affamate e in guerra. I doveri legati al senso di giustizia non si devono limitare a concedere beni non materiali (e non costosi) come rispetto e dignità, ma anche a distribuire aiuto materiale (che incide innegabilmente sulla tassazione). Per parte sua Di Cesare analizza con acribia gli argomenti di coloro che sostengono il respingimento dei profughi in base alla priorità dei cittadini sugli immigrati, all’integrità nazionale e alla proprietà del territorio, tutte asserzioni che non hanno fondamento filosofico. E questo, anche se poi il migrante ben sa che la cesura dell’emigrazione non potrà mai essere saldata e riparata perché è un’esperienza che marchia a fuoco e che rende impossibile il ritorno all’innocenza. Alla pars destruens del testo, che va a criticare la giustizia locale di Rawls e varie posizioni nazionaliste, liberali e cosmopolitiche, ma soprattutto il comunitarismo di Michael Walzer, nel cui stato-club l’appartenenza alla comunità è condizione di distribuzione di beni, segue la pars construens, che discute tre modelli dell’abitare la terra. Il modello dell’autoctonia ateniese, con la sua omogeneità garantita dalla purezza del ghénos e legata all’identità dell’origine; il modello aperto della civitas romana dove la cittadinanza è inclusiva e dinamica e infine il modello del paesaggio ebraico dove abitano gli “stranieri residenti” del titolo. La fonte della sovranità ebraica è l’estraneità, la condizione dello straniero da rispettare, “perché anche voi foste stranieri in Egitto”. Nella proposta di Di Cesare ospitalità e cittadinanza coincidono, nell’orizzonte di una comunità dissociata dalla nazione, dalla nascita e dalla filiazione, aperta all’accoglienza - come quella esercitata da Nausicaa con le parole e con le sue azioni - nonché capace di dar luogo a forme politiche dove l’immune lascia la precedenza al comune. Donatella Di Cesare, “Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione”, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 280. € 19. In Italia tra le donne vincono paura e solitudine. Solo il 4% delle vittime denuncia di Flavia Amabile La Stampa, 21 gennaio 2018 Calano le segnalazioni di stalking e di maltrattamenti domestici. I centri antiviolenza: colpa di alcune sentenze e del clima culturale. Negli Stati Uniti le denunce delle donne di molestie e violenze sono ormai una valanga. In Italia tutto tace. Negli Stati Uniti la valanga sta travolgendo uomini ad ogni livello mostrando sempre meno timori di ritorsioni. In Italia gli uomini oggetto delle denunce hanno spesso trovato il sostegno anche pubblico di altri uomini, le donne che hanno denunciato sono state attaccate, oppure su tutto è caduto un triste silenzio. “In Italia i segnali non sono per nulla positivi - racconta Lella Palladino, presidente dell’associazione Dire-Donne in rete contro la violenza, che riunisce 77 associazioni che nel 2016 gestivano 83 centri antiviolenza presenti in tutta Italia. “Di sicuro possiamo dire che se ne parla, che c’è stata una rottura del silenzio su questo argomento. Manca tutto il resto. Bisognerebbe intervenire sulle serie tv che continuano a rappresentare le donne che subiscono violenze come se fosse normale. Di sicuro hanno avuto un’incidenza molto negativa le numerose sentenze pronunciate negli ultimi tempi dai tribunali che danno il via libera ai maltrattamenti da parte degli uomini. In questo modo vanificano gli sforzi delle donne che hanno trovato la forza di denunciare e scoraggiano quelle che potrebbero farlo”. L’ultima sentenza in ordine di tempo ad aver provocato profondo disagio nel mondo delle donne è stata pronunciata dal tribunale di Torino e riguarda una donna che si è presentata in pronto soccorso nove volte in otto anni: una volta con una costola rotta, un’altra con il setto nasale fratturato. “Non tutti gli episodi sono riconducibili ad aggressioni da parte dell’imputato”, è stato il giudizio del tribunale che ha assolto il compagno perché se le aggressioni non sono frequenti e continue non c’è il reato di maltrattamenti in famiglia. Ma in primavera, sempre a Torino, era stato assolto un altro uomo dall’accusa di violenza sessuale perché la vittima ha solo detto “basta” al suo aggressore senza urlare. “C’è un problema che riguarda i tribunali ma anche le stesse denunce - prosegue Lella Palladino - Molte donne arrivano da noi raccontandoci la loro frustrazione. I loro racconti non vengono presi in considerazione, la gravità di quello che stanno denunciando non viene compresa perché a volte le forze dell’ordine non pongono le domande che permettono di comprendere la reiterazione del reato e le donne non riescono a ricostruire quello che hanno dovuto subire in modo tale da farlo comprendere. Accade così che le denunce vengano archiviate. Quello che proviamo a fare quando invece si rivolgono a noi è ascoltarle, accoglierle, sostenerle e accompagnarle nelle loro richieste”. I dati sui reati di stalking, maltrattamenti in famiglia e violenze sessuali sono in calo. Le denunce per stalking sono state 8480 tra gennaio e settembre 2017, il 15,76% in meno rispetto alle 10.067 nello stesso periodo del 2016; i maltrattamenti in famiglia sono stati 9818, circa duecento in meno, e le violenze sessuali (di cui oltre il 90% su donne) sono calate dell’1,16%. Eppure non c’è da rallegrarsi. A dirlo è proprio la Polizia. Sono “indici importanti di un rapporto uomo-donna malato, che può pericolosamente degenerare”, avverte. E “la riduzione delle denunce, può nascondere un sommerso di paura e solitudine”. Un sommerso che nemmeno l’ondata di denunce in arrivo dagli Stati Uniti finora sembra essere riuscita a scalfire. “Quello che viene denunciato è il 4% di quanto effettivamente avviene. È necessaria un’operazione culturale”, sottolinea Oria Gargano, presidente della cooperativa Be Free che si occupa di violenze e discriminazioni contro le donne. Nel mondo del lavoro, in particolare, secondo dati Istat solo una donna su 5, tra quelle che hanno subito un ricatto, ha raccontato la propria esperienza. Lo 0,7% ha denunciato la violenza alle Forze dell’ordine. “In Italia stiamo assistendo all’opposto di quanto accade negli Stati Uniti - conferma Simona Annerata del centro antiviolenza Lucha y Siesta - Il blocco culturale contro le donne da parte del mondo del potere e delle istituzioni si fa ancora più forte per respingere ogni tentativo da parte delle donne di metterlo in discussione. Le donne che provano a scalfire questo potere vengono ridicolizzate e attaccate in modo scomposto. La battaglia in Italia per chi è dalla parte delle donne è diventata ancora più dura”. E di sicuro non aiutano nemmeno gli annunci di voler chiudere luoghi di riferimento come la Casa Internazionale delle donne o proprio Lucha y Siesta a Roma. “Esiste un evidente collegamento tra l’aumento delle difficoltà incontrate dalle donne italiane e le minacce di sgombero a cui vengono sottoposti i luoghi storici della lotta alla violenza contro le donne - spiega Serena Fiorletta del movimento Non una di meno - La politica è lontana ma la società sta cambiando anche in Italia. Esiste un’onda femminista che prima non era così numerosa. Non dimentichiamo che il 25 novembre con il nostro movimento in piazza c’erano oltre 150 mila donne. Ci sono molte giovani che si sono avvicinate alle lotte femministe. Non c’è solo il silenzio, qualcosa sta lentamente cambiando anche in Italia”. Migranti. La nuova Lampedusa è sulle montagne piemontesi di Rita Rapisardi L’Espresso, 21 gennaio 2018 Per passare dall’Italia alla Francia attraversano le Alpi. Con il rischio di congelamento e valanghe. La polizia francese rispedisce quanti trova al di là del confine. Ma la valle risponde: “In montagna non importa la nazionalità, nessuno va abbandonato”. I confini disegnati sulle mappe per un migrante restano sulla carta. Come in mare ha attraversato una distesa di onde senza interessarsi se fossero dal lato africano o da quello europeo, ma sperando solo di non morire, lo stesso è sulla neve: il nuovo confine che deve superare per passare in Francia. La rotta che dall’Italia porta oltralpe è in Val Susa, nelle Alpi piemontesi. Solo un piccolo cartello con la scritta Francia indica il passaggio tra i due Paesi e la vecchia frontiera ormai in disuso è in decadimento. Di giorno la temperatura raggiunge anche meno cinque e di notte può scendere fino a meno dodici. Claviere, l’ultimo paese italiano prima della frontiera, e Monginevro, il primo al di là, sono le nuove Libia e Lampedusa, di nuovo una partenza e un arrivo per i tanti che per essere qui hanno macinato migliaia di chilometri. I due comuni montani non raggiungono insieme i mille abitanti e le presenze si limitano per lo più agli amanti degli sport invernali e ai tanti che lavorano con il turismo in comprensori, ristoranti e hotel. Arrivando da Torino si impiega poco più di un’ora per raggiungere Claviere. L’ultima indicazione dice Claviere 6 chilometri, Francia 7. La pista di fondo, in estate un campo da golf, che costeggia la strada asfaltata che unisce i due paesini, è lunga circa tre chilometri. Con passo spedito e per chi ha le scarpe adeguate si impiega poco a percorrerla. Ma uscendo dal tratto abbattuto si sprofonda nella neve fresca per un metro e muoversi è impossibile. I migranti non hanno attrezzatura né per la neve né per il freddo, il massimo sono jeans e scarpe di tela. Sono quasi tutti ragazzi provenienti dell’Africa subsahariana. Dopo aver attraversato il deserto e essere arrivati di fronte al Mediterraneo, molti sono stati trattenuti nei centri libici dove hanno subito soprusi e torture. Poi sui barconi fino a Lampedusa. Giungono in queste montagne dai centri di accoglienza sparsi sul territorio, molti con il treno che ferma nelle vicine stazioni di Oulx e Bardonecchia, le cui sale di attesa sono ormai colme. La maggior parte abita in Italia da mesi, ma per mancanza di lavoro o perché la domanda da rifugiato non va a buon fine decidono di puntare alla Francia. Parlano lingue francofone per quello mirano al paese d’oltralpe, quello che più di un secolo fa colonizzò i loro paesi d’origine: Niger, Mali, Costa d’Avorio, Senegal. La traversata dal colle del Monginevro è in piano anche se siamo tra 1700 e 1800 metri. Motivo per cui sta diventando la preferita rispetto a quella che da Bardonecchia, importante centro sciistico in alta Val Susa, arriva a Névache e poi a Briançon, il primo centro dove si può presentare domanda per il permesso. Da lì si passa per il colle della Scala e il versante è ripido. Quest’inverno la neve è scesa in abbondanza e il tempo non è stato clemente. L’elicottero dei vigili del fuoco sorvola costantemente queste montagne, nelle ultime settimane l’allerta valanghe ha raggiunto il livello più alto. Non è impossibile che i migranti, in particolare quelli che passano dal colle della Scala, taglino la neve provocando dei distacchi. I passaggi non mai stati così tanti come quest’anno, si parla di 10-20 persone al giorno. Complice l’impossibilità di attraversare altrove, prima infatti Ventimiglia era il passaggio prediletto. Tentano a ogni ora del giorno e della notte, con la luce o senza, singolarmente o in piccoli gruppi. Per il soccorso alpino, che non dispone di molte persone e la maggior parte sono volontari abitanti della valle, è difficile capire se c’è qualcuno in pericolo. Non si esclude che con il disgelo qualche cadavere emerga dalla neve. A passare per queste vie sono soprattutto giovani uomini. Ma non mancano le donne. Una di queste qualche settimana fa, racconta un abitante, è stata trovata a Monginevro dalla gendarmerie, la polizia francese, rifugiata in un bagno per stare al caldo. È stata caricata a forza su una volante e nonostante fosse infreddolita e non in buone condizioni di salute è stata riportata oltre il confine. È ormai consuetudine, denunciano i volontari che la “Paf”, la polizia di frontiera, agisca anche su territorio italiano: “Arrivano nelle stazioni di Bardonecchia e Oulx e attuano una specie di blocco, spaventano i migranti con la loro presenza e non li fanno salire sui treni. Non controllano neanche i documenti, è sufficiente avere la pelle non bianca. Li riportano indietro senza preoccuparsi, anche abbandonandoli in strada”. Ormai la gendarmerie fa’ da spola tra territorio francese e italiano, come racconta un volontario dei vigili del fuoco di Monginevro: “Ne soccorriamo decine ormai, entriamo in azione quando la polizia ci chiama perché qualcuno sta male. L’ospedale più vicino è Briançon, sono curati e quando stanno meglio il medico firma e la polizia li riporta in auto in Italia”. Come gli abitanti di Lampedusa anche la valle porta aiuto. Perché la cosa più importante, dicono, è rispettare la regola principale della montagna, chi è in pericolo va aiutato sempre, non interessa la nazionalità. Anche per questo è nata la rete solidale “Briser les Frontières”, abbattere le frontiere, composta da cittadini italiani e francesi. Sostengono la libera circolazione delle persone che vogliono migliorare la propria condizione di vita. Hanno messo in piedi una raccolta di indumenti pesanti e creato una rete di persone per ospitare i migranti per qualche notte. Portano pasti caldi ai tanti che arrivano qui. Hanno anche organizzato una marcia percorrendo lo stesso tratto che i migranti affrontano ogni giorno. Accanto alla solidarietà viaggia l’attacco al governo. Accusano il ministro dell’Interno Marco Minniti di aver permesso con il decreto da lui firmato la creazione in Libia di quelli che definiscono campi di concentramento. “Quando andavo a scuola e si studiava la cartina politica e quella fisica, da un lato i capoluoghi di provincia e regione, dall’altro i nomi di montagne e fiumi”, racconta Daniele membro della rete, “Noi non siamo politici, guardiamo alla seconda mappa. Non facciamo passare la gente, ma li aiutiamo a non morire”. Per questi attivisti che da sempre si battono per le loro montagne con il movimento NoTav, il treno ad alta velocità, sostenere la libera circolazione è fondamentale. “Paradossalmente una scatoletta di tonno ci mette mezzora ad attraversare decine di chilometri con un treno merci che devasta le montagne e costa milioni, mentre una persona è bloccata solo perché è nata in un paese povero”, racconta un altro attivista. Ma non a tutti interessa questa storia. Sul versante francese molti sono stufi di avere a che fare con questa emergenza. “Ormai siamo invasi”, si sente dire in giro. Nei bar ai piedi delle piste sciatori stanchi trovano ristoro in una cioccolata calda, guardano il cielo scongiurando le nuvole. Le vite dei migranti sono solo una chiacchiera da bar, poi si passa in fretta a parlar d’altro, sugli smartphone si consulta il meteo sperando nel bel tempo per il mattino dopo. Afghanistan. L’economia si regge sul traffico di uomini e di oppio di Homa Saadat L’Espresso, 21 gennaio 2018 Il paese asiatico esporta la quasi totalità del materiale che serve per produrre eroina e morfina. E la situazione non fa che peggiorare. Khalil, 41 anni, uno dei quattro milioni di afghani irregolarmente in Iran, ha impiegato 12 giorni per arrivare a Teheran. Seduto sul retro del “cavallo della morte”, Khalil e altri 500 immigrati sapevano che in ogni momento la loro vita poteva finire. A Kabul, il gruppo iniziale era composto da 15-20 persone. A ogni tappa verso la provincia di Nimruz, sul confine tra l’Iran e il Pakistan, il loro numero aumentava. “A ogni fermata, il trafficante cambiava”, racconta Khalil. Nonostante il rischio della vita, il numero di clandestini afghani non sta diminuendo. Nel 2015, Mohammad Reza Esmaeili, capo dell’Associazione Amicizia Iran-Afghanistan, ha dichiarato che ogni giorno entrano in Iran illegalmente da 1.500 a 4.500 afghani. Per Khalil, questa era la terza volta che tornava in Iran, perché ogni tanto visita la sua famiglia. Da un semplice calcolo, questo si traduce in un reddito annuo che va dai di 220 ai 660 milioni d’euro per i trafficanti. Il governo iraniano rimpatria ogni mese 25 mila clandestini afgani. “Ci vogliono pochi giorni per tornare a casa con gli autobus statali che fino ad Herat sono dei diretti - dice Ahmad, 38 anni - da Herat, verso Helmand, sono poi cinque ore di macchina e da entrambi i lati della strada, fino a dove puoi vedere, hai sempre le terre del papavero da oppio”. Ed è la fotografia di quello che è diventato il “vecchio” Afghanistan, quello vero: traffico di uomini ed esplosione del traffico di oppio che diventa eroina. Un’economia della morte. Secondo l’Unodc, l’85 per cento dell’eroina e della morfina prodotte nel mondo, è estratto dall’oppio afghano; circa 380 tonnellate. Di queste, circa 5 tonnellate vengono consumate o sequestrate in Afghanistan, il resto viene trafficato in tutto il mondo attraverso i paesi confinanti, principalmente dall’Iran. “I contrabbandieri guidano sulla stessa strada dei trafficanti di uomini - continua Ahmad - ma loro sono davvero pericolosi”. Le loro fuoristrada sono dotate di mitragliatrici. I rapporti della polizia iraniana parlano frequentemente di soldati uccisi in conflitti armati con i trafficanti di droga. La coltivazione del papavero da oppio si sta espandendo rapidamente in tutto l’Afghanistan. La regione meridionale è la zona più produttiva, rappresentando il 54 per cento dell’intera produzione nazionale di oppio. Secondo il Fondo monetario internazionale la coltivazione del papavero nel 2016 ha fornito 400 mila posti di lavoro, un numero superiore a quello dell’organico delle forze di sicurezza nazionali afghane. Ahmad e Khalil sono d’accordo nel dire che “quasi tutti coltivano i papaveri. Quando guidi verso Helmand, la regione più produttiva, passi per diverse stazioni di polizia. Le eradicazioni praticamente non si fanno… Quelle che vedi sono solo per la televisione!”. Le stime indicano che nel 2017 328 mila ettari sono stati dedicati alla coltivazione del papavero, mentre erano solo 71 mila nel 2004. Quanto invece alle eradicazioni, nel 2016 solo 355 ettari di papaveri sono stati sradicati dalle autorità provinciali - un calo di oltre il 90 per cento rispetto ai quasi 4.000 ettari bonificati nel 2015. Nel 2000, il leader dei talebani, Mullah Mohammed Omar, collaborando con le Nazioni Unite, dichiarò che la coltivazione di papaveri era non-islamica. Il risultato di questa campagna antidroga fu la riduzione del 99 per cento della coltivazione di papavero da oppio nelle zone controllate dai talebani, all’epoca circa i tre quarti dell’offerta mondiale di eroina. Ma durò poco, fino alla deposizione dei talebani nel 2002. Nel 2001 i prezzi aumentarono di dieci volte. Questo ha rafforzato il sospetto che il divieto di coltivazione imposto dai talebani avesse principalmente lo scopo di aumentare i prezzi globali. Da allora, e dopo che l’esercito americano attaccò l’Afghanistan nel 2001, la coltivazione del papavero è proseguita con una tendenza sempre crescente. Le ultime tecnologie hanno migliorato la resa per ettaro. Nel 2015 l’introduzione dalla Cina dei nuovi semi di papavero geneticamente modificati ha aumentato la produzione di oppio del 43 per cento in solo un anno. Si stima che la produzione di oppio nel 2017 possa raggiungere le 9 mila tonnellate, con un incremento dell’87 per cento rispetto al 2016 (4.800 tonnellate). Ogni chilogrammo di oppio viene acquistato dagli agricoltori al prezzo di 28 mila afghani (circa 341 euro). Il settore produce oltre 3 miliardi di euro, pari al 15 per cento del Pil del paese. Gli agricoltori ricavano circa il 20 per cento del valore di oppio consegnato ai laboratori di eroina dei trafficanti. Ciò significa che il commercio illecito dell’oppio, prima di essere trasformato nel prodotto finale, è di circa 15 miliardi di euro. La cifra complessiva è quasi pari all’intero Pil dell’Afghanistan, che nel 2016 è stato di 19,7 miliardi di dollari. Poi i prodotti finali, cioè l’eroina e la morfina, sono la parte più preziosa del business, che normalmente si svolge lontano e non alla portata degli afghani. Ogni chilo di eroina in Italia costa 80 mila euro, il che significa che gli agricoltori afghani incassano non più dello 0,4 per cento del suo valore. L’oppio non segue le regole del mercato, sebbene sia considerato una merce. Dal 2007, la produzione di oppio è costantemente rimasta superiore alla domanda globale e in media aumenta ogni anno. La domanda globale di eroina e morfina è di circa 450 tonnellate - il che richiede la produzione di 4.500 tonnellate di oppio. L’attuale produzione di oppio è il doppio della domanda. Ma i prezzi non sono diminuiti. Questo strano andamento potrebbe essere spiegato da una caratteristica dell’oppio. A differenza di altri prodotti, l’oppio può essere conservato senza attrezzature refrigeranti e può sopravvivere a noi. Ma potrebbe esserci anche un altro motivo: forse i trafficanti di droga prevedono un futuro calo della coltivazione del papavero in Afghanistan? E stanno ora usando al massimo la loro capacità totale di produzione Essere un coltivatore di oppio a basso reddito non è nei sogni dei giovani afghani. Sahel. Una polveriera che rischia di diventare il nuovo Afghanistan di Francesca Caruso L’Espresso, 21 gennaio 2018 Un territorio immenso diviso tra 8 Stati, dove la povertà gioca un ruolo cruciale. Insieme al controllo di trafficanti e terroristi. Un fronte caldo per l’Europa. “Il mondo occidentale non aveva nessuna idea di che cos’è il Sahel, perché la Storia ha focalizzato l’attenzione sulla Nato e i Paesi occidentali, sull’Iraq e l’Afghanistan; ma il Sahel è potenzialmente ancora più pericoloso”. Quando Romano Prodi pronunciò questa frase lavorava come segretario generale per il Sahel alle Nazioni Unite ed era il 2012, l’anno in cui in Mali ci fu un colpo di Stato condotto dai ribelli del Nord contro il governo di Bamako. Prodi probabilmente sapeva che la destabilizzazione di una zona immensa come quella del Sahel - che comprende Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Chad, Nigeria e Camerun - avrebbe avuto delle conseguenze disastrose a livello regionale e internazionale. Ma non poteva prevedere che dalla crisi del Mali la situazione implodesse in maniera così rapida da rendere la regione una vera e propria polveriera. Che rischia di diventare il nuovo Afghanistan, con centinaia di milioni di euro spesi in operazioni militari per un nulla di fatto. Il 13 dicembre il premier Gentiloni ha annunciato che, “per contrastare il traffico di esseri umani e il terrorismo”, l’Italia schiererà una nuova missione militare in Niger dove, una volta ottenuta l’approvazione del Parlamento, saranno inviati 470 soldati e 130 veicoli. I primi a partire saranno i reparti del genio militare e i paracadutisti della Folgore per un totale di 120 unità, accompagnati da due velivoli e due squadre di protezione, con il compito di addestrare le forze locali e fornire mezzi tecnologici. I costi della missione sono ancora da quantificare ma dovrebbero essere compensati dalla riduzione delle forze in Iraq (missione costata quest’anno 301 milioni di euro) e da quella più limitata delle truppe in Afghanistan (quest’anno ha avuto uno stanziamento per 174,4 milioni di euro). Nel Sahel la sicurezza è da tempo un pozzo di San Patrizio. Dal 2014, la Francia spende all’incirca 500 milioni l’anno con l’operazione “Barkhane” che prevede il dispiegamento di 4000 uomini su un territorio che va dalla Mauritania al Chad. L’Onu invece è in Mali dal 2013 con 13 mila caschi blu nell’ambito dell’operazione “Minusma”, che oltre a essere considerata tra le operazioni di peacekeeping col più alto numero di vittime, ha un costo annuo di un miliardo di dollari. Poi da febbraio la Mauritania, il Mali, il Niger, il Chad e il Burkina-Faso hanno lanciato l’operazione G5, una forza militare congiunta di 5 mila soldati che si dividono il territorio per un costo annuo di 420 milioni di dollari. A questo si aggiungono tre progetti dell’Unione europea lanciati in questi ultimi anni per sostenere le forze armate dei singoli Paesi dell’aerea e le operazioni Usa, in gran parte segrete, che impiegano aerei spia, droni, forze speciali e contractors basati in Burkina Faso e Niger. Ancora oggi però in Sahel non esiste più un luogo sicuro. I ministeri degli esteri europei sconsigliano di viaggiare in quasi tutti i Paesi: Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad, Nigeria e Camerun. E l’indice di rischio di attentati cresce. Un rapporto dello scorso settembre delle Nazioni Unite documenta che in Mali, tra giugno e settembre, gli attacchi terroristici sono aumentati del 102 per cento rispetto al trimestre precedente. I bersagli preferiti dei terroristi sono l’esercito nazionale - uno degli ultimi simboli dell’esistenza dello Stato - o i caschi blu dell’Onu che in soli tre mesi hanno subito 77 attacchi. C’è un motivo. La porosità delle frontiere consente ai jihadisti di controllare vasti territori a cavallo tra le linee di confine e a governare i traffici di droga, il contrabbando di sigarette, di armi, petrolio e la tratta dei migranti. I gruppi terroristici infatti non hanno una base fissa. Se Boko Haram è riuscito a superare il nord est della Nigeria entrando in Ciad e in Niger, i due gruppi affiliati ad al Qaeda e all’Isis si dividono il controllo del resto della regione. “Oggi - dice all’Espresso Djallil Lounas, professore all’università al Akhawayn del Marocco - i principali gruppi jihadisti del Sahel sono due. Il primo e, di gran lunga, il più importante è il Gruppo di Sostegno all’Islam e ai Musulmani (Gsim) governato da Ayad Ag Ghali. È il risultato di una fusione, avvenuta lo scorso marzo, tra Al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi) e i gruppi terroristi Ansar al Dine, al Mourabitoun e Amadou Koufa. Probabilmente dopo l’annuncio del dispiegamento della nuova operazione militare G5. Questo gruppo ha giurato fedeltà ad Al Qaeda, al Zawahiri e l’emiro dei talebani ma ha un forte radicamento locale e agisce soprattutto nel nord e nel centro del Mali. L’altro gruppo jihadista si chiama lo Stato Islamico del Gran Sahara (Sigs) e ha giurato fedeltà nel 2015 allo Stato Islamico. Per ora si tratta di un gruppetto piccolo che avrà una decina di adepti e che si muove tra l’est del Mali e le frontiere con il Burkina Faso e il Niger. Ma si tratta di una spartizione approssimativa. I confini sono fragili e loro agiscono dove vogliono”. Il Sahel non ha mai davvero conosciuto la pace. Dopo l’indipendenza, la sovranità dei singoli governi è stata ciclicamente minacciata da colpi di Stato, conflitti regionali, spinte indipendentiste anche di segno religioso. Lo stesso Kapuscinski, giornalista e scrittore polacco, in “Ebano” racconta di essere andato a Bamako, negli anni Sessanta, per raccontare la guerra contro i tuareg, un popolo che da sempre disprezza le frontiere post-coloniali e quindi gli Stati nazionali. La patria dei tuareg sono le migliaia e migliaia di chilometri di sabbie che si estendono dal Mali al Niger, dalla Nigeria al Ciad. Ma la caduta del regime di Gheddafi nel 2011 ha riacceso antiche tensioni, consegnato migliaia di armi leggere provenienti dagli arsenali libici e spinto il ritorno dei mercenari tuareg dell’esercito libico in Mali per unirsi a una ribellione che era in corso nel nord del Paese. Nel gennaio 2012, dopo un’inedita alleanza tra i jihadisti Ansar al Dine e i ribelli tuareg, il nord del Paese è stato conquistato e il governo dell’ex presidente Touré rovesciato da una giunta militare. Nel 2013 la conseguenza è stata che l’Aqmi e i suoi affiliati hanno conquistato due terzi del Mali. Per nove mesi sono stati i padroni del deserto. Hanno distrutto le tradizioni locali - vietata la musica - e hanno terrorizzato i più deboli. Il nuovo presidente Traoré ha chiesto l’intervento di Parigi, che con il suo esercito ha riconquistato città chiave come Gao, Timbuctu e Kidal. E tuttavia, cinque anni dopo, il Mali non è ancora uno Stato o comunque gli somiglia poco. Secondo i dati più recenti delle Nazioni Unite, solo il 30 per cento dei funzionari pubblici ha ricominciato a lavorare e in alcune zone l’80 per cento delle scuole sono ancora chiuse. Intanto i jihadisti si rafforzano dove lo Stato non c’è. Tessono alleanze liquide, che nascono e muoiono per convenienza con i capi tribù. “Per capire la formazione dei gruppi jihadisti”, dice all’Espresso Aurélien Tobie, esperto di Mali e ricercatore all’istituto di ricerca internazionale per la pace (Sipri) di Stoccolma, “bisogna pensare a due cerchi - possiamo utilizzare la griglia analitica dei due cerchi. Il primo è un cerchio ristrettissimo di adepti che credono profondamente nel progetto ideologico e politico di Al Qaeda e dell’Isis. Il secondo gruppo invece è molto più ampio, fornisce il supporto logistico e militare al primo cerchio ed è composto da gente che agisce soprattutto per motivi comunitari”. L’immagine di Tobie spiega come il terrorismo del Sahel sia legato ad un’ideologia globale ma si nutre di rivalità locali, etniche, sociali ed economiche. “In parte il successo dei jihadisti dipende dalla debolezza delle popolazioni locali di fronte alle loro armi”, prosegue Tobie. “Ma non dobbiamo dimenticarci che spesso hanno un sostegno della popolazione locale. Quella jihadista è un’ideologia paritaria che rappresenta una possibilità di riscatto in una società che invece è profondamente gerarchica e con poche prospettive. In Mali infatti quando chiedi a qualcuno cosa vuol dire “sicurezza” ti risponde “andare al pozzo per prendere l’acqua”, “poter partorire”, “andare a scuola”. Ma il governo locale e la comunità internazionale non l’hanno capito. La gente chiede semplicemente una vita più decente”. Nella crisi del Sahel gioca infatti un ruolo cruciale anche la povertà. La regione è l’unica a non aver conosciuto una transizione demografica. Secondo la Banca mondiale, la sua popolazione continua ad aumentare del 3 per cento l’anno. Il Niger è passato da 3 milioni di abitanti nel 1960 a più di 20 milioni oggi, su un territorio di cui solo l’8 per cento è coltivabile. A conferma di un sillogismo della scienza politica secondo cui non c’è sicurezza senza sviluppo e sviluppo senza sicurezza, più aumentano gli attentati e più i governi locali spendono soldi nella sicurezza riducendo le spese a settori chiave come quello dell’educazione, sanità, sviluppo. “Se le persone raggiungono i jihadisti”, conclude Tobie”, è anche perché vogliono avere dei cambiamenti nella governance locale. Ma la risposta che la comunità internazionale sta dando sono bombardamenti aerei e arresti. Ma questa risposta non va da nessuna parte”. Israele. L’appello di Amnesty: rilasciate la 16enne palestinese Ahed Tamimi di Riccardo Noury Corriere della Sera, 21 gennaio 2018 Amnesty International ha lanciato un appello alle autorità israeliane per chiedere il rilascio della 16enne palestinese Ahed Tamimi, cui nei giorni scorsi è stata negata la scarcerazione su cauzione. La ragazza sarà processata dal tribunale militare di Ofer per 12 capi d’accusa, tra i quali aggressione aggravata e incitamento alla violenza. Rischia fino a 10 anni di carcere. Come è noto, il 15 dicembre scorso Ahed Tamimi aveva spintonato, schiaffeggiato e colpito a calci un soldato israeliano che, insieme a un altro militare, era entrato nel cortile della sua abitazione nel villaggio palestinese di Nabi Saleh in occasione di una manifestazione contro la decisione del presidente statunitense Trump di riconoscere Gerusalemme capitale d’Israele. Poco prima un cugino della ragazza, il 15enne Mohammed Tamimi, era stato colpito alla testa da un proiettile di gomma sparato da corta distanza da un soldato. Si era reso necessario un intervento chirurgico che aveva dovuto rimuovere parte del cranio sinistro. L’azione giudiziaria è iniziata dopo la diffusione su Facebook di un video della scena. Il 19 dicembre Ahed Tamimi è stata arrestata insieme alla madre Nariman (che aveva pubblicato il video) e alla 21enne cugina Nour. Le immagini di una ragazza disarmata che aggredisce due soldati armati di fucili d’assalto e dotati di equipaggiamento protettivo mostrano che la sua azione non costituiva alcuna minaccia significativa - tant’è che i militari hanno gestito tranquillamente la situazione. Il video ha provocato l’indignazione di molti israeliani e il ministro dell’Istruzione Naftali Bennett è arrivato a dichiarare alla radio militare che le tre donne avrebbero dovuto “trascorrere la loro vita in prigione”. Paradossalmente, anche i due soldati sono stati criticati per non aver reagito. L’arresto e il processo in corte marziale di Ahed Tamimi sono provvedimenti palesemente eccessivi e sproporzionati. Per non parlare della possibile condanna. Secondo la Convenzione sui diritti dell’infanzia, di cui Israele è Stato parte, l’arresto, la detenzione o l’imprigionamento di un minore devono essere considerati come l’ultima misura a disposizione e devono durare il minor tempo possibile. Filippine. Duterte, l’uomo che volle farsi dittatore a colpi di legge marziale di Antonio Carlucci Il Fatto Quotidiano, 21 gennaio 2018 Rodrigo Duterte, presidente delle Filippine, ha vinto facilmente la partita sulla legge marziale. Il parlamento lo ha seguito docilmente e nell’isola di Mindanao, sud del paese, varrà fino a tutto il 2018 e ogni garanzia giuridica sarà sospesa in nome della lotta al terrorismo. Ma quello che Duterte sogna, e ha minacciato in modo aperto alla televisione di stato il 15 ottobre dell’anno scorso, è la proclamazione della legge marziale in tutte le Filippine. Sarebbe la pietra tombale su ogni dissenso, e il ritorno verso una situazione analoga a quella creata nel 1972 dal dittatore Ferdinand Marcos che con la legge marziale si impadronì per 20 anni del paese e lo saccheggiò a favore suo e della sua famiglia. Il presidente delle Filippine si è presentato sulla scena a giugno del 2016 mostrando due tratti che non lo iscrivevano tra i democratici sinceri. Il primo, legato a un carattere esuberante al momento di dichiarazioni pubbliche. Se l’è presa con il Papa per aver congestionato il traffico della capitale Manila, con l’ambasciatore americano considerato più cattivo del diavolo, ha osannato l’industria che ha creato il Viagra, ha esibito le sue performance di Dongiovanni. Caccia ai narcos indiscriminata Meno rassicurante l’altra faccia. Appena insediato al palazzo Malacanang, Duterte ha dato il via a una caccia all’uomo in nome della lotta al traffico di stupefacenti. Risultato? Da giugno 2016 a fine novembre 2017 si sono contati 3.967 morti ammazzati dalla polizia in operazioni anti droga e altri 16.355 morti in conflitti armati tra veri o presunti trafficanti e squadre armate di sconosciuta provenienza. Lui si vanta di questo risultato e minaccia chiunque cerchi di ostacolare la sua reazione (una senatrice che lo combatteva in nome dei diritti umani è oggi in carcere accusata di essere a sua volta nel giro della droga). Intorno al presidente si è coagulato un mondo che ha sempre visto nel capo assoluto della nazione un modello da perseguire a ogni costo. E infatti Duterte giorno dopo giorno ha mostrato quanto gli piacesse il sistema dittatoriale che è stato protagonista di oltre 20 anni della vita del paese: quello legato alla stagione di Ferdinand Marcos. Duterte ha un debole per l’ex dittatore e non fa nulla per nasconderlo. Anzi, man mano che rafforzava il potere di presidente ha reso sempre più evidenti le sue pulsioni da caudillo del sud est asiatico. È oltre un anno che il presidente sostiene apertamente la necessità che i resti mortali dell’ex dittatore, messo alla porta da una sollevazione popolare pacifica e poi morto in esilio alle isole Hawaii, siano sepolti nel cimitero di Manila dedicato agli eroi della nazione. Il legame con la famiglia Marcos non si ferma a questo. Duterte è un aperto sostenitore di Ferdinand junior, il secondogenito del dittatore, detto Bongbong, sulla scena politica da quando era giovane. Un figlioccio di nome Bongbong Esordì come governatore di una provincia del nord negli anni Ottanta e dopo il ritorno dall’esilio, è stato prima deputato, poi senatore e nelle elezioni del 2016 che hanno vinto il trionfo di Duterte lui cercò di farsi eleggere vice presidente, ma perse per una manciata di voti. Il presidente filippino ha preso sotto la sua ala protettiva Bongbong e i suoi interessi tanto da includere una trattativa per salvaguardare il bottino di famiglia che ammonta a miliardi di dollari e che nessuno, è l’idea di Duterte, confischerà se i Marcos ne restituiranno una parte allo stato. La protezione è totale: Duterte ha detto pubblicamente che sarà felice se spunterà il suo ricorso per le elezioni da vice presidente, che lo vedrebbe bene come ministro e, intanto, se lo tira dietro nei viaggi ufficiali più impegnativi. Marcos junior fece parte della delegazione del primo viaggio a Pechino quando il presidente filippino si inchinò davanti al presidente della Cina e fece marcia indietro rispetto alla decisione del tribunale internazionale del mare che dava ragione alle Filippine, e torto alla Cina, nella disputa sulle acque circostanti un arcipelago del mar cinese meridionale. Duterte ha mostrato la sua inclinazione autoritaria ogni qualvolta è stato criticato. Ha minacciato manette a chi si dichiarava in disaccordo, ha licenziato decine di funzionari che non eseguivano a bacchetta i suoi ordini, spesso in nome di una lotta alla corruzione. Oggi si ritrova con un governo dove molti posti chiave sono stati dati a militari ancora in carriera o appena usciti dai ranghi (il consigliere per la sicurezza nazionale, il ministro dell’ambiente, quello dell’interno, quello della difesa), incluso un generale che era finito in disgrazia perché aveva creato un reparto completamente finanziato dall’associazione degli industriali delle miniere. Cia, Isis o comunisti: un nemico vale l’altro Adesso Duterte minaccia di “formare un governo rivoluzionario” per fermare i complotti contro la sua persona che a giorni alterni hanno come punta di diamante i comunisti (esiste ancora una formazione marxista che non ha deposto le armi), i terroristi islamici che si richiamano all’Isis oppure la Cia americana. Allo stesso tempo preme perché le Filippine si trasformino in una repubblica federale. Una idea democratica in un mare di azioni di segno opposto? I dubbi sono molti. Se passasse questa riforma, sarebbe di fatto abolita la costituzione vigente che obbliga il presidente eletto a un solo mandato di 6 anni e poi a casa. Che sia questo l’obiettivo finale di tutte le mosse da dittatore nascente.