La riforma coraggiosa contro la tolleranza zero di Piergiorgio Morosini Il Dubbio, 20 gennaio 2018 La riforma dell’ordinamento penitenziario del 2017 ha il merito di aver invertito con coraggio la deriva che, a partire dagli anni novanta, aveva registrato il progressivo smantellamento della legge Gozzini. Riportiamo alcuni brani dell’intervento del consigliere del Csm Piergiorgio Morosini al convegno organizzato dall’associazione Vittorio Bachelet dal tema “Giustizia ed esecuzione della pena: luci e ombre di una legislatura”. La svolta della “Torreggiani” - C’è voluta una “scudisciata etica” prima ancora che giuridica, come quella della Cedu con il caso Torreggiani, per aprire gli occhi sulla emergenza carceraria italiana. Per capire la distanza fra il “dire” della legge Gozzini e l’essere del carcere. Per comprendere quanto c’è in noi della ideologia del “buttare le chiavi”; del “punire” uguale “sorvegliare”, o meglio, “neutralizzare”. Dove per “noi” si intende non solo la politica ma anche la magistratura e la società. Dunque, il monito della Cedu richiedeva un intervento strutturale. Compito niente affatto agevole per il Parlamento, date due questione fra loro collegate. Da una parte, l’assetto normativo dell’ordinamento penitenziario nel 2013, che a partire dagli anni novanta aveva registrato il progressivo smantellamento della legge Gozzini. Dall’altra le resistenze culturali a riconoscere alla dignità umana il ruolo di levatrice di un processo di riforma, in grado di tenere insieme un concetto forte di legalità della pena e una visione deideologizzata e laica del reinserimento sociale. Sovraffollamento e “tolleranza zero” - L’idea del carcere come luogo di mera neutralizzazione (non solo per mafiosi ed evasori) ha fatto breccia da tempo. Una idea collegata anche a certe scelte di penalità da “tolleranza zero” come la legge Bossi-Fini sull’immigrazione, la legge Fini- Giovanardi sulle droghe o la legge ex Cirielli sulla recidiva. Scelte che di fatto hanno determinato il sovraffollamento del carcere. Così si sono erosi gli istituti più rilevanti dell’ordinamento penitenziario, dando vita a una miriade di regimi speciali, in ragione del tipo di autore, identificato unicamente sulla base del reato oggetto della condanna e della recidiva. E quella idea progressivamente ha finito per erodere il nostro welfare penale. Meno personale specializzato nella case circondariali, nella polizia penitenziaria, nelle strutture educative e sanitarie. E poi svuotamento degli uffici di esecuzione penale esterna. Tra demagogia e opportunismo - La difficoltà di invertire la rotta con un intervento strutturale aveva anche ragioni più profonde. Demagogie e opportunismi da tempo condizionano il confronto sui temi quali il ruolo delle vittime, le misure cautelari, la penalizzazione e la funzione della pena. E questo rende ancora più ardua quella individuazione di valori condivisi su cui edificare il nuovo e coerente impianto dell’esecuzione penale. Come su altri versanti della giustizia, il contesto sociale pluralistico e multiculturale, unito a un quadro politico frammentario, espone i proponenti di ogni iniziativa di riforma a costi alti in termini di consenso elettorale. Eppure, dopo il caso della sentenza Torreggiani, Parlamento e ministero della Giustizia hanno mostrato di avere coraggio, puntato all’idea del carcere come estrema ratio, nonostante qualche sbavatura (es. con le pene per i furti). Un nuovo approccio - Per la verità la Corte costituzionale, con alcune pronunce in tema di custodia cautelare, e la magistratura di sorveglianza (ordinanze sulla legittimità costituzionale in tema di sospensione della pena per condannati destinati ad istituti sovraffollati), aveva preparato il terreno. Nello stesso orizzonte culturale si collocano gli interventi del legislatore del 2013 e del 2014 sulla liberazione anticipata speciale, sulla detenzione domiciliare e sui rimedi risarcitori (ndr, il rimedio, anche pecuniario, in caso di trattamento disumano o degradante subito dal detenuto). In sostanza da quattro anni si sono dati concreti segnali di volontà di reimpostare il sistema dell’esecuzione penale sui principi di umanità e dignità della persona. Nella convinzione che il carcere che rinuncia ad educare non crea maggiore sicurezza ma alimenta rancori profondi che alla lunga generano devianza e radicalizzazione. La svolta del 2017 - La riforma del 2017 vuole accentuare la possibilità di accedere a pene extra-murarie, anche diminuendo i tempi di decisione della magistratura. Affiancando però a queste misure alternative una maggiore responsabilizzazione del condannato. Sulla riforma approvata dal Consiglio dei ministri del 22 dicembre scorso, il Csm formulerà il suo parere. Con la riforma viene potenziata la discrezionalità della magistratura di sorveglianza che viene portata al centro dal sistema. Ne sono un esempio le scelte sulla revisione dei presupposti di accesso alle misure alternative alla detenzione con riferimento ai limiti di pena ed ai presupposti soggettivi (eliminazione degli automatismi e delle preclusioni per i recidivi o autori di particolari reati secondo la legge ex Cirielli); la semplificazione del- le procedure anche con la previsione del contraddittorio differito ed eventuale, la previsione di attività di giustizia riparativa quale momento qualificante del percorso di recupero sociale che coinvolge anche la vittima del reato; la riforma dell’assistenza sanitaria in ambito penitenziario che ha potenziato l’assistenza psichiatrica; il rafforzamento dei sistemi giurisdizionali di tutela dei diritti dei carcerati in capo al magistrato di sorveglianza. Il nuovo ruolo del Magistrato di Sorveglianza - Le novità introdotte dalla riforma del 2017 aumentano le esigenze di prossimità del magistrato di sorveglianza al carcere. Situazione questa che era stata ridimensionata dall’assetto normativo delineatosi in questi anni, con tutti le preclusioni e gli automatismi in negativo. Anche le semplificazioni previste su alcune autorizzazioni per quanto riguarda le telefonate e le visite mediche, anche specialistiche, presuppongo la conoscenza diretta da parte del magistrato di sorveglianza della condizione di ciascun detenuto. Più aumenta la discrezionalità del magistrato, maggiore è l’esigenza di raccogliere elementi di conoscenza dagli assistenti sociali e dagli educatori operanti in carcere. Sulla necessaria riorganizzazione della magistratura di sorveglianza che ne deriva, sta lavorando apposita “Commissione mista” istituita presso il Csm. Si auspica che la Scuola superiore della magistratura offra una formazione robusta che coinvolga anche i pm che saranno essi stessi maggiormente coinvolti nell’esecuzione penale: si pensa ad iniziative di formazione che coinvolgano assieme giudici e pubblici ministeri sul tema dell’esecuzione della pena. Le novità impongono insomma un impegno di sistema che richiede un approccio di diversi attori istituzionali: strutture pubbliche, polizia penitenziaria, assistenti sociali. In questo quadro è assai importante che da qualche anno si sia superato il divieto per i Mot (magistrati ordinari in tirocinio, gli ex uditori giudiziari, ndr) di ricoprire come primo incarico il ruolo di magistrato di sorveglianza. Si tratta di un imprintig professionale molto formativo, certamente lontano dal modello di magistrato burocratico- aziendalista che rischia di accreditarsi anche per via della miscela esplosiva fra consistenza del carico di lavoro ed un assetto ordinamentale che sta alimentando ossessive forme di carrierismo. Con il rischio di contribuire all’inaridirsi di una professione che deve comunque mantenere una impronta ideale. La giurisdizione di sorveglianza, per le sue caratteristiche, resta un modello da cui ripartire. L’idea di chi crede che il processo non sia mai una pratica burocratica, ma sia il luogo della dignità della persona. Non è un retaggio del passato. È la cifra della nostra civiltà. Soprattutto quando sono in gioco gli ultimi. Il rapporto con l’esterno - Questa riforma dell’esecuzione penale cambia il carcere. Cambia il modo di concepire il carcere con il mondo esterno. Diventano importanti i contatti con il “fuori”. Ma per esserlo davvero dobbiamo cambiare lo sguardo. Dobbiamo entrare in sintonia con l’elaborazione culturale alla base delle novità. Una elaborazione preziosa frutto di un lungo confronto fra giuristi, operatori penitenziari, professori, rappresentanti di associazioni e ministri di culto. Molti di loro sono impegnati quotidianamente nella società per dare corpo all’uguaglianza e per migliorare la qualità della nostra democrazia. Che dimostra come nel nostro Paese, pur tra tanti problemi quotidiano, vi siano ancora tante risorse ideali, istituzionali e professionali su cui contare. Conclusioni - La giustizia è un cantiere aperto a tante istanze che riguardano oltre la mera applicazione delle norme, la dignità della persona, la solidarietà, l’autodeterminazione. Questi elementi vanno continuamente alimentati nell’esercizio della giurisdizione dalla magistratura, nei circuiti della formazione, dell’associazione nazionale e negli organi di governo autonomo e devono avere un ruolo anche nelle scelte organizzative e di allocazione delle risorse. Carceri: protocollo per percorsi di cura per chi soffre di dipendenze Ansa, 20 gennaio 2018 Siglato da Federserd e Conams. 30% carcerati tossicodipendenti. Solo il 10% della popolazione carceraria che soffre di tossicodipendenze e alcolismo riesce ad usufruire della concessione dell’affidamento in prova, eppure i costi attuali sarebbero 40 volte minori se chi soffre di dipendenze e si trova in carcere fosse seguito da Sert in grado di lavorare bene. I dati sono stati forniti oggi nel corso di un convegno organizzato da Federserd (Federazione italiana degli operatori dei dipartimenti e dei servizi delle dipendenze) e dal Conams (il coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza) che hanno siglato un protocollo operativo per l’affidamento in prova di persone con problemi di dipendenza in stato di detenzione. “Dobbiamo apprezzare che operatori e magistrati di sorveglianza - ha fatto sapere il ministro della Giustizia Andrea Orlando, in un messaggio scritto inviato al convegno - abbiano firmato un documento comune che esplicita le carenze, le difficoltà, le disomogeneità e allo stesso tempo individua percorsi per portare a migliori soluzioni”. Il protocollo infatti, come è stato sottolineato dal presidente di Federserd Pietro Fausto D’Egidio e dal coordinatore nazionale di Conams, Antonietta Fiorillo - evidenzia come il procedimento propedeutico per la concessione dell’affidamento in prova in casi particolari è, nella prassi, insoddisfacente. L’intero processo di formazione degli elementi di conoscenza da offrire al giudice presenta caratteri di estrema disomogeneità: di qui l’individuazione delle criticità e l’elaborazione di una metodologia che ne consenta il superamento o il significativo contenimento, a quadro normativo invariato. D’Egidio ha illustrato i dati di una recente ricerca Federserd in base ai quali il 30% della popolazione detenuta consuma sostanze stupefacenti o è dipendente da alcol, il 32.8% è affetta da epatite C, il 3.8% da Hiv. “Vogliamo consentire a questi detenuti la possibilità di curarsi, nel rispetto delle leggi e della sicurezza del cittadino”, ha detto. Fiorillo (Conams) ha parlato invece di “normativa non sempre chiara” e di volontà, col protocollo odierno, di “recepire e puntualizzare prassi che da anni si utilizzano a macchia di leopardo sul territorio”. Presenti all’incontro, tra gli altri, anche il senatore Pd Giuseppe Lumia e il presidente del Garante dei detenuti, Mauro Palma. Al pm è precluso l’appello delle sentenze di condanna Italia Oggi, 20 gennaio 2018 Al pubblico ministero è precluso l’appello delle sentenze di condanna, ossia delle sentenze che hanno riconosciuto la fondatezza della pretesa punitiva, salvo alcuni specifici casi (ad esempio, sentenza di condanna che modifica il titolo del reato o che esclude l’esistenza di aggravanti ad effetto speciale); all’imputato, specularmente, è precluso l’appello delle sentenze di proscioglimento pronunciate con le più ampie formule liberatorie, ossia perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso. Il consiglio dei ministri ha approvato ieri, in esame definitivo, un decreto legislativo in materia di giudizi d’impugnazione, finalizzato all’attuazione della delega contenuta nell’articolo 1, commi 82, 83 e 84 lettere f), g), h), i), l), e m) della legge 23 giugno 2017, n. 103, recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario” per la riforma della disciplina processuale penale in materia di giudizi di impugnazione. L’intervento mira alla deflazione del carico giudiziario, mediante la semplificazione dei procedimenti di appello e di cassazione, con l’intento di circoscrivere il potere d’impugnazione nei limiti in cui le pretese delle parti, legate all’esercizio dell’azione penale per il pubblico ministero e al diritto di difesa per l’imputato, risultino soddisfatte. Vengono poi novellate le disposizioni del cpp anche in materia di appello incidentale ed è data attuazione alla riforma della disciplina delle impugnazioni con riferimento ai procedimenti aventi ad oggetto reati di competenza del giudice di pace, tenendo conto, in tale ambito, anche pareri resi dalle competenti Commissioni parlamentari. Vediamo gli altri provvedimenti approvati ieri. Napoli: patto farmacisti-ministero, medicinali gratis ai detenuti Il Mattino, 20 gennaio 2018 Al via il progetto “Un farmaco per i detenuti”: un protocollo d’intesa tra l’Ordine dei Farmacisti della provincia di Napoli, le Asl e il ministero della Giustizia (Dipartimento amministrazione penitenziaria) per fornire gratuitamente farmaci ai detenuti nelle carceri napoletane e campane. L’accordo sarà siglato a fine mese: sarà l’amministrazione penitenziaria ad indicare alle Asl le esigenze mediche dei reclusi e le Asl faranno richiesta all’Ordine dei Farmacisti della provincia di Napoli, già promotore, insieme al cardinale Crescenzio Sepe, del progetto “Un farmaco per tutti”, che riguarda le persone indigenti. Accanto a ciò in programma “Una Visita per tutti” con il “Camper della Salute” itinerante dei farmacisti napoletani per screening gratuiti, che parte a febbraio e che prevede attività di prevenzione in tutta la provincia con medici volontari nell’ambito: cardiovascolare (coordinato da Giovanni Di Minno dell’Università Federico II); pediatrico (coordinato da Annamaria Minicucci, Santobono Pausilipon), del carcinoma colon-retto e seno (coordinato da Franco Corcione, Ospedale Monaldi); del melanoma (coordinato da Paolo Ascierto, Istituto dei Tumori Pascale); del carcinoma alla prostata (coordinato da Vincenzo Mirone, Università Federico II); di igiene del cavo orale (coordinato dal prof. Gianmaria Ferrazzano, Università Federico II). I tre progetti, “Una visita per tutti”, “Un farmaco per tutti” e “Un farmaco per i detenuti”, estendono ed integrano il “Sistema sanitario parallelo” al Servizio sanitario nazionale messo in campo dall’Ordine dei Farmacisti della provincia di Napoli sul territorio. “In Italia - spiega il presidente dell’Ordine dei Farmacisti della provincia di Napoli Vincenzo Santagada - sono 4,7 milioni le persone che versano in condizioni di povertà assoluta tanto che abbiamo ormai imparato a fare i conti con nuove forme di indigenza, molto diverse da quelle tradizionali. Una di queste è la povertà sanitaria, che non consente di accedere a cure adeguate a causa di difficoltà di tipo economico. Il problema della rinuncia alla prevenzione e all’assistenza sanitaria riguarda un numero molto elevato di cittadini (13 milioni). Ma per parlare davvero di povertà occorre guardare a quei 580mila che sono stati costretti lo scorso anno a rivolgersi a opere caritative per ricevere cure. L’Ordine è impegnato da tempo per tutelare la salute dei napoletani e sostenerli con fatti concreti dinanzi alle carenze del Servizio sanitario nazionale impossibilitato ad essere fino in fondo universalista e inclusivo”. Ad oggi il progetto “Un farmaco per tutti” (in proposito a settembre la Camera dei deputati ha approvato all’unanimità una mozione, presentata e discussa dalla deputata Mara Carfagna, come modello per contrastare la povertà sanitaria), coordinato dal cardinale Sepe, ha raccolto, attraverso le 150 farmacie aderenti all’iniziativa, più di 100mila confezioni di farmaci non scaduti e presìdi medico-sanitari per un valore superiore a un milione di euro, oltre ai medicinali donati ai cittadini attraverso i vari enti assistenziali (La Tenda, La casa di Tonia, Emergency, Unitalsi, Croce Rossa, Elemosiniere del Santo Padre, Suore della Carità di Madre Teresa di Calcutta e altre associazioni onlus riconosciute che operano in questo ambito). Avellino: sciopero della fame dei detenuti nel carcere di Bellizzi Irpino di Pierluigi Melillo La Repubblica, 20 gennaio 2018 La protesta da lunedì, in una lettera ai politici si chiede l’approvazione dei decreti per la riforma Orlando. Denunciati casi di malasanità dietro le sbarre. Scatta lo sciopero della fame dei detenuti rinchiusi nel penitenziario di Bellizzi Irpino. In una lettera inviata alla direzione del carcere si annuncia la protesta a partire da lunedì. “Si tratta - spiegano i reclusi di Avellino - di un forma di lotta non violenta che si rende improrogabile affinché il governo senta la responsabilità di completare l’iter di approvazione dei decreti legge della cosiddetta “riforma Orlando” che modificherebbero in più parti l’attuale ordinamento penitenziario. Chiediamo - scrivono i detenuti - ai nostri governanti che, per l’ennesima volta, non lascino morire la speranza che un domani si possano avere forme di detenzione più giuste, più umane e soprattutto, meno degradanti”. La mobilitazione si riferisce soprattutto alle misure alternative al carcere per ridurre il sovraffollamento ma viene sollecitato anche un miglioramento dei servizi sanitari dietro le sbarre. Nel carcere di Bellizzi Irpino si sono registrati casi che hanno fatto parlare di malasanità: un 30enne avellinese morto in cella dopo l’arresto avvenuto alla vigilia di Natale, e un 68enne di Taurano deceduto per un tumore che a detta della famiglia non è stato curato in carcere, una storia, quest’ultima, del tutto simile a quello di Biagio Cava, il boss di Quindici morto per un cancro al cervello che gli sarebbe stato diagnosticato con un anno di ritardo. Roma: “niente controlli” sul detenuto 21enne suicida in cella, guardie indagate di Francesco Salvatore La Repubblica, 20 gennaio 2018 È morto in carcere nonostante ci fosse un provvedimento di scarcerazione del giudice e sebbene fosse sottoposto ad una costante sorveglianza. L’inchiesta sulla morte di Valerio Guerrieri, detenuto di 21 anni, suicidatosi a Regina Coeli il 24 febbraio 2017, arriva a una svolta. La consulenza della procura ha portato alla luce delle responsabilità, in termini di omissioni, da parte del personale sanitario del carcere, oltre che delle guardie giurate. Che ben presto potrebbero tradursi in altre tre iscrizioni sul registro degli indagati per omicidio colposo, oltre a quella già fatta per un secondino che era in servizio nel giorno della morte di Guerrieri, e che non avrebbe controllato la cella mentre il giovane si uccideva. Stando alle ipotesi del pm Attilio Pisani, Guerrieri andava sottoposto alla sorveglianza a vista: una misura di controllo costante che si usa per detenuti a rischio di suicidio. In realtà, ed è questo il motivo perché il medico del carcere sarà indagato, il giovane era stato inserito tra i detenuti da sottoporre alla “grande sorveglianza”, e quindi con un controllo ogni 15 minuti. Tali ispezioni, però, non sarebbero state fatte dal giorno precedente al suicidio: la corda che aveva preparato con le lenzuola era già in cella 24 ore prima, e nessuno se ne è accorto. Trani (Bat): detenuto morto, possibile patologia cardiaca concausa del decesso traniviva.it, 20 gennaio 2018 Ci sarebbe una terza causa nella morte di Gregorio Durante, il 33enne salentino deceduto nell’infermeria del carcere di Trani il 31 dicembre 2011. L’ha sostenuto davanti alla Corte d’Appello di Bari il prof. Francesco Introna, consulente dei 3 medici imputati: Francesco Monterisi, Michele De Pinto e Gioacchino Soldano. Il consulente della difesa pur condividendo le causa della morte ravvisata dai consulenti della Procura di Trani che eseguirono l’autopsia, e cioè un’acuta intossicazione da fenobarbitol (medicinale assunto dal detenuto per una patologia neurologica emersa nel 2011) ed una broncopolmonite, ha puntualizzato che può aver costituito concausa una patologia cardiaca mai rilevata prima ma evidenziata dall’esame dei vetrini dei reperti istologici: accertamento compiuto dopo la deposizione resa in appello proprio dai consulenti della Procura Biagio Solarino, Roberto Catanesi e Roberto Gagliano Candela. “L’una e l’altra situazione - evidenzia l’avvocato Carmine Di Paola, difensore dei medici - escluderebbero qualsivoglia responsabilità dei medici che operavano nel carcere di Trani”. Per la morte di Durante il 14 novembre 2014 il Gup del Tribunale di Trani, Luca Buonvino, condannò solo uno dei 5 imputati: 4 mesi di reclusione col beneficio della pena sospesa per il medico tranese Francesco Monterisi. Furono, invece, assolti tutti gli altri colleghi che operavano in carcere per cui il pubblico ministero Luigi Scimè chiese il rinvio a giudizio: i medici biscegliesi Michele De Pinto e Giuseppe Storelli ed i colleghi tranesi Gioacchino Soldano e Francesco Russo. La sentenza di primo grado fu impugnata dal dottor Monterisi, dalla Procura Generale presso la Corte d’Appello di Bari e dalla parte civile nei confronti dei medici assolti De Pinto e Soldano, che, dunque, sono ancora sotto processo insieme a Monterisi: tutti respingono le accuse. La difesa ha lanciato anche un’inquietante interrogativo sulle modalità, che sarebbero rimaste ignote, con cui Durante, a fine dicembre 2011, avrebbe avuto a disposizione un quantitativo non consentito del medicinale che causò, o concausò, la morte. Differente il tenore delle testimonianze acquisite al processo sulle condizioni di salute di Durante, ovvero se fossero compatibili, o meno, col regime carcerario. La sentenza della Corte d’Appello di Bari potrebbe giungere il 7 febbraio. Milano: se un ospedale supplisce alle magagne della politica di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 20 gennaio 2018 Le Rems dovrebbero ospitare gli incapaci di intendere e volere, ma non hanno posti. La domanda, adesso che solo la supplenza di un ospedale ha sciolto in lieto fine l’ansia di tre mesi di surreale impasse, è: ma affinché lo Stato affronti finalmente la carenza di posti nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) aperte dopo la (sacrosanta) chiusura dei vecchi Ospedali psichiatrici giudiziari, bisognerà proprio aspettare che una persona “socialmente pericolosa”, ma “non imputabile per incapacità di intendere e volere” al momento del reato commesso (e dunque per legge incompatibile con il carcere), faccia del male a qualcuno? Il 20 settembre 2017 i militari in Stazione Centrale di Milano fermano un giovane nigeriano mentre con una spranga in mano sfascia senza motivo automobili in sosta. Il Tribunale, che convalida l’arresto per danneggiamento aggravato, nel processo per “direttissima” prende atto che la perizia psichiatrica certifica la totale incapacità di intendere e di volere, e nel contempo la pericolosità sociale. Perciò l’8 novembre lo dichiara non imputabile e come misura di sicurezza provvisoria ne ordina il ricovero in Rems, cioè in una delle strutture regionali sanitarie di cura. Ma la Rems lombarda di Castiglione delle Stiviere, come altre volte e come altre Rems in Italia (dove la lista d’attesa è di 200 persone), risponde di non avere posto per i successivi tre mesi; il Dipartimento penitenziario del ministero spiega di non avere più competenza; l’uomo, però, deve intanto essere comunque rimesso in libertà perché incompatibile con il carcere; e il pm mette per iscritto il corto circuito, “affinché ciascuna Amministrazione si assuma le proprie responsabilità”. A salvare un po’ tutti, in questo specifico caso, arrivano i sanitari del Niguarda, che, pur senza essere tenuti a un “ricovero improprio”, da novembre si assumono il rischio di tenere in un reparto di degenza l’uomo (che, se volesse, potrebbe però alzarsi e andarsene). Fino a tre giorni fa. Quando per fortuna si libera il posto nella Rems. Napoli: baby gang, l’insegnante del carcere minorile “si sentono invisibili” Redattore Sociale, 20 gennaio 2018 Maria Franco, che da oltre 30 anni insegna a Nisida, non nasconde la sua preoccupazione: “Per questi adolescenti è insopportabile sostenere uno sguardo. Lo percepiscono come una provocazione che giustifica le coltellate. La reazione di chi si sente, in realtà, invisibile e ha come unico valore il potere”. “Sono ragazzi senza punti di riferimento, il loro unico valore è il potere, ossia essere ritenuto il più forte dagli amici e dalle ragazze”. Maria Franco da oltre trent’anni insegna italiano, storia, educazione civica e geografia all’istituto penale per minori di Nisida. Nel 2017 ha vinto l’Italian Teacher Prize, il Premio Nazionale degli Insegnanti riconosciuto dal Ministero dell’Istruzione. Ha conosciuto decine di ragazzi finiti in carcere ancora minorenni per reati gravi. Non nasconde la sua preoccupazione per come stanno andando le cose a Napoli. “I mass media si sono accorti ora che esistono episodi di violenza gratuita, ma i ragazzi mi raccontano che ogni giorno ci sono giovanissimi che si accoltellano. E che molti non denunciano”. Nei giorni scorsi, Maria Franco ha pubblicato, sul suo blog Conchigliette, un post in cui racconta come per questi adolescenti sia insopportabile sostenere uno sguardo. Lo percepiscono “come un’insostenibile provocazione: qualcosa che giustifica non solo la reazione verbale, la lite, ma, appena possibile, la coltellata: anzi, le coltellate: un’offesa da lavare (e levare) col sangue”. Da cosa nasce questo atteggiamento violento? “Mi sembra la reazione di chi si sente, in realtà, invisibile e ha il terrore che qualcuno penetri la sua nudità, di chi non ha una pelle che lo difenda dal mondo. Una pelle fatta da un ambiente mediamente sano e, soprattutto, da una famiglia, per parafrasare Winnicott, sufficientemente buona. Chi non si sente amorevolmente visto, chi non ha reti che lo sostengano e punti di riferimento cui ancorarsi, risponde (può rispondere) cercando un’identità nella violenza, considerata come la propria forza: così tutti potranno vedere quanto è potente, quanto è grande”. “Spesso i ragazzi mi dicono che ciò che conta è avere i soldi, la Porsche - racconta a Redattore sociale -. Non riconoscono nessuna autorità, non solo lo Stato ma neanche la camorra. C’è uno stile di vita quasi anarcoide. Ciò che conta è farsi vedere. La scuola per loro è qualcosa di cui non capiscono il senso, perché non dà denaro né potere. E qui a Nisida arrivano ragazzini che hanno assorbito il clima di violenza e di frantumazione dell’ambiente in cui sono cresciuti”. Sono ragazzi senza vincoli. “Non si sentono né italiani e neanche napoletani anche se le loro famigli risiedono a Napoli da generazioni - aggiunge Maria Franco. Si identificano solo con il rione e con il loro gruppo di amici”. Il problema è quindi l’ambiente in cui crescono. “Hanno alle spalle famiglie disastrate, anche se non necessariamente delinquenziali. Hanno genitori incapaci di svolgere il loro ruolo e questi ragazzi crescono in strada”. Che cosa si può fare per fermare il clima di violenza e aiutare questi ragazzini? “A Napoli ci sono tantissime realtà di volontariato che fanno cose egregie e bellissime - sottolinea Maria Franco. Manca però la capacità di fare sistema. Scuole, parrocchie e istituzioni devono lavorare insieme per supportare queste famiglie. Ci vuole un progetto politico e sociale forte, che arrivi a intercettare anche quelle famiglie e quei ragazzi che altrimenti mai verranno a chiedere aiuto”. Foggia: il carcere di San Severo si “apre” agli abbracci dei figli dei detenuti Ristretti Orizzonti, 20 gennaio 2018 Il 24 gennaio “partita con papà”. In campo sport e sentimenti, con banchetto e consegna di doni ai bambini, grazie a Luigi Talienti e al Cpia1. L’iniziativa è stata fortemente voluta dal Direttore Patrizia Andrianello e dal Commissario Giovanni Serrano. Il Carcere di San Severo si apre, ancora una volta, all’esterno. Questa volta protagonisti saranno i figli di 10 detenuti, che potranno vedere il proprio padre in un contesto diverso e trascorrere una giornata “speciale”, anche se dietro le sbarre. Mercoledì 24 gennaio, a partire dalle 10.30, nell’Istituto Penitenziario scenderanno in campo sport e sentimento, grazie alla “partita con papà”. L’iniziativa, fortemente voluta dal Direttore Patrizia Andrianello e dal Commissario Giovanni Serrano, sottolinea come la finalità del recupero sociale necessiti della partecipazione attiva dei soggetti detenuti e come possa essere meglio raggiunta grazie alla cura dei contatti umani e affettivi. L’organizzazione dell’evento solidale ha visto la collaborazione attiva del volontario Luigi Talienti, che ha curato l’aspetto sportivo insieme all’Acsi e del Cpia1, l’Istituto Provinciale di Istruzione per gli Adulti, nelle persone del Dirigente Scolastico, Antonia Cavallone e della Referente della Funzione Strumentale, Maria Soccorsa de Litteriis, che doneranno alcuni giochi alle famiglie coinvolte. “Con questa iniziativa - sottolinea Talienti - si completa il quadro delle iniziative di solidarietà, realizzate già a Foggia e Lucera, sempre con l’obiettivo di curare l’aspetto delle genitorialità. Non bisogna mai dimenticare il diritto, valido anche per i figli di detenuti, di mantenere un legame affettivo e di non essere colpiti da una sentenza di cui non hanno alcuna colpa”. A tale scopo, alla fine della partita e dopo la distribuzione dei doni, è previsto un banchetto che consentirà ai detenuti di trascorrere un momento di condivisione importante con le proprie famiglie. “Non perdere i propri rapporti familiari è fondamentale per il recluso - sottolineano dall’Istituto Penitenziario - e sostenere questi legami è vantaggioso per il reo, per il figlio, ma anche per la società. In questi casi gli episodi di violenza e di insubordinazione diminuiscono rispetto a quelli dei detenuti che hanno cessato ogni rapporto familiare”. Il Csv Foggia sostiene l’iniziativa con la collaborazione dell’Area Comunicazione. Agrigento: “Non lasciamoli soli”, la solidarietà del Lions Club Host al carcere scrivolibero.it, 20 gennaio 2018 Si è conclusa nella mattinata di venerdì 19 gennaio la prima tappa del progetto di solidarietà che i Lions del Club Agrigento Host stanno realizzando con i detenuti della Casa circondariale di Agrigento. Una rappresentanza dei soci di tale Club, guidata dal suo Presidente Antonio Calamita, come si può vedere nella foto n. 1, ha infatti proceduto alla consegna di quanto il responsabile dell’area trattamentale della struttura Giovanni Giordano aveva suggerito di rendere disponibile ai detenuti che quotidianamente debbono combattere contro il loro principale nemico: l’ozio. E così, dopo che i Lions, nello scorso dicembre, avevano proceduto, presso il centro commerciale, a raccogliere delle offerte, in cambio della cessione di oggetti resi disponibili dalle famiglie degli stessi soci, è stato possibile acquistare un grande televisore, un lettore di dvd, tre cyclette, due calcio balilla e 10 poltroncine che saranno messi a disposizione di particolari categorie di detenuti nell’area appositamente realizzata. Anche un certo numero di palloni sono stati donati per essere utilizzati durante le ore d’aria previste. Ad accogliere i Lions sono stati, per come si può vedere nella foto n. 2, il direttore della Casa circondariale Aldo Tiralongo ed il funzionario pedagogico giuridico Maria Clotilde Faro. Per l’occasione sono stati discussi anche altri momenti di intervento solidale che il club service agrigentino intende portare avanti, tra cui un cineforum, con interventi di alcuni Lions, finalizzato ad approfondire con la discussione tra i detenuti alcune tematiche proposte da particolari film. Siena: il teatro e il carcere, #Apritisesamo con detenuti da Mille e una notte sienanews.it, 20 gennaio 2018 “Colui che apre la porta di una scuola, chiude una prigione” (Victor Hugo). È su queste parole che si fonda l’attività di laboratorio teatrale che da anni va avanti con successo all’interno del carcere di Santo Spirito. Anche per il 2018, con inizio venerdì 26 gennaio alle 17, i detenuti della casa circondariale di Siena daranno inizio agli spettacoli che sono frutto del lungo lavoro di mesi nell’ambito delle attività didattiche e culturali della struttura. #Apritisesamo è il titolo del nuovo spettacolo dei detenuti attori che sotto la regia di Altero Borghi dell’associazione culturale Sobborghi Onlus rappresenteranno una originale e simpatica rivisitazione della fiaba di Ali Babà e i quaranta ladroni, ricreando le magiche atmosfere de Le mille e una notte. Una rilettura che vedrà i detenuti del carcere di Santo Spirito pronunciare la frase “Apriti Sesamo”, a simboleggiare l’apertura di una porta dietro alla quale si nasconde un tesoro. Sul palco, insieme agli attori-detenuti, Serena Cesarini Sforza e Federica Barrasso. L’iniziativa è inserita anche quest’anno nel cartellone del festival “Siena, città aperta” che l’Assessorato alla cultura del Comune di Siena, l’Università degli Studi di Siena, Fondazione Monte dei Paschi di Siena e Vernice Progetti Culturali hanno organizzato per offrire alla città un programma di eventi il cui comune denominatore è la cultura come strumento di benessere e di pace. È proprio con l’obiettivo di fare del carcere non solo un istituto di pena ma anche un luogo di cultura che il laboratorio teatrale della Casa Circondariale gestito dalla Sobborghi Onlus allestisce da diversi anni spettacoli che vedono come protagonisti i detenuti che portano in scena pieces composte da essi stessi. Una pièce che è “un momento social che coinvolgerà anche il pubblico - racconta il regista Altero Borghi: a tutti chiederemo cosa vuol dire per loro Apriti Sesamo e quale tesoro si aspettano di trovare dietro la porta”. Ad aprire lo spettacolo, poche ma importanti domande: “Dovrete scegliere da quale porta passare? Quale sarà quella giusta? Quale quella sbagliata? Non sarà possibile tornare indietro e cambiare. Per scegliere dovrete scrivere, per passare dovrete esprimere una parola, un pensiero: Apriti Sesamo”. Una storia dove si alterneranno momenti divertenti a scene più intense e retrospettive che vedranno una sorpresa finale nel desiderio che sarà realizzato dal Genio della lampada. Il teatro diventa in questo modo uno strumento per la riscoperta delle capacità e delle sensibilità personali, una modalità di espressione positiva di drammi e di angosce: l’esperienza della compagnia teatrale consente infatti di sperimentare modelli comportamentali e dinamiche che non sono quelle della detenzione, facendo emergere meccanismi di interrelazione fondati sulla condivisione, sull’intesa, sulla solidarietà. E il pubblico che si reca nel piccolo teatrino della Casa Circondariale per assistere agli spettacoli concorre con la sua presenza appassionata a valorizzare questo percorso esperienziale attraverso il quale i detenuti attori ritrovano energie perdute ed acquisiscono abilità artistiche. #ApritiSesamo andrà in scena il 26 gennaio alle ore 17 (repliche 16 febbraio, 9 marzo e 27marzo alle ore 16) ed è a ingresso libero ma per partecipare è necessario inviare copia del documento d’identità al seguente indirizzo di posta elettronica: apritisesamosiena@gmail.it assolutamente entro e non oltre una settimana prima della data dello spettacolo prescelto. Per poter assistere alla prima è dunque necessario inviare la mail entro oggi, 19 gennaio. (Al termine di ogni spettacolo, per consolidare quel legame profondo che si è creato tra palcoscenico e platea, tra il mondo di dentro e quello di fuori, attori e spettatori si ritroveranno a consumare insieme un ricco rinfresco offerto da Conad e preparato dai detenuti masterchef del carcere). Torino: “Evasioni - 47 storie”, in mostra le opere dei detenuti torinoggi.it, 20 gennaio 2018 Si tratta dei carcerati che hanno preso parte ai tre laboratori di scrittura creativa svoltisi nel casa circondariale “Rodolfo Morandi” di Saluzzo. “Evasioni - 47 storie” è il titolo della mostra che s’inaugura lunedì 22 gennaio alle 17 all’Urp del Consiglio regionale del Piemonte di via Arsenale 14/G, a Torino. Curata dall’Associazione Assistenti volontari penitenziari “Liberi dentro” Onlus di Saluzzo (Cn) in collaborazione con gli uffici del Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, propone una ventina di pannelli fotografici che raccolgono le autobiografie dei detenuti che hanno preso parte ai tre laboratori di scrittura creativa svoltisi nel carcere “Rodolfo Morandi” di Saluzzo. Le storie - raccontate in prima persona dai detenuti e messe nero su bianco con l’aiuto dei coordinatori del progetto, la giornalista Emanuela Savio e il fotografo Davide Dutto, fondatore dell’Associazione Sapori reclusi e autore di diversi reportage sul mondo carcerario - hanno anche dato vita all’omonimo volume, pubblicato dall’editrice Cibale e in consultazione nei locali della mostra. Con il garante e i coordinatori del progetto intervengono la presidente dell’Associazione “Liberi dentro” Giuseppina Bonardi e il responsabile del Coordinamento regionale dei volontari penitenziari Giorgio Borge. La mostra è visitabile fino al 21 febbraio dal lunedì al giovedì dalle 9 alle 12.30 e dalle 14 alle 15.30 e il venerdì dalle 9 alle 12.30. Libia: i profughi africani pagano il pizzo anche per il rimpatrio di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 20 gennaio 2018 Chi non ne può più di restare bloccato cerca di tornare a casa. Ma l’agenzia dell’Onu Oim non basta a evitare il racket. “Vuoi salire a bordo dell’aereo che ti riporterà nel tuo Paese? Nessun problema, ma per entrare nella lista, possibilmente in buona posizione, dovresti darci qualcosa”. Succede anche questo in Libia, a Tripoli e dintorni: “Un funzionario dell’ambasciata mi ha chiesto soldi per inserire il mio nome nella lista del volo per il rimpatrio”. Ibrahim ha 32 anni e proviene da uno degli Stati del cosiddetto G5 Saheliano con cui l’Europa ha preso accordi per sviluppare strategie condivise su immigrazione e terrorismo. A dicembre ha cercato di prendere informazioni sul progetto di ritorno volontario umanitario gestito dall’Oim, l’agenzia dell’Onu che si occupa di migrazioni, e garante della trasparenza in Libia. Il cortocircuito avviene lontano dalla competenza dell’organizzazione: “È più di un anno che sono arrivato e da allora ho cercato di lavorare per trovare i soldi necessari per l’imbarco - aggiunge - ma me ne sono successe di tutti i colori. Andare avanti costa, restare in Libia non è più sicuro, c’è troppo caos e così quando ho saputo dei ritorni volontari sono andato alla mia ambasciata. Il viaggio in aereo dovrebbe essere gratuito, ma ci sono strani personaggi che girano attorno all’amba sciata che chiedono soldi per essere messi in quella lista. Dai 150 ai 300 dinari (tra i 100 e circa 200 euro, ndr). È tutto sottobanco, molti hanno paura di denunciare pubblicamente questa cosa, temono di avere problemi e di restare a terra. Io ci sto pensando, non so cosa sia meglio fare”. Ibrahim è soltanto uno dei migranti intrappolati in Libia venuto a conoscenza di questo malaffare. Trafficanti di persone in entrata, uscita e in transito, merce che ha un prezzo: “Siamo molto attenti e fiscali sul fronte delle frodi legate non solo ai ritorni volontari umanitari. Noi andiamo nei centri di detenzione e raccogliamo lì le adesioni” afferma Flavio Di Giacomo, portavoce di Oim. I ritorni volontari dalla Libia sono gestiti proprio dall’agenzia Onu: “Nei primi giorni del 2018 i rimpatri sono stati 805 - aggiunge Di Giacomo - ma a causa dell’attacco all’aeroporto Mittiga di Tripoli, l’ultimo volo con 132 passeggeri risale a lunedì scorso. Nel 2017 sono stati complessivamente 19.370 le persone rimpatriate e dal 28 novembre abbiamo aumentato il processo, riportandone a casa oltre 7.000”. L’Organizzazione tra Maghreb e Sahel, è il terminale del processo; prima ci sono vari passaggi: “L’Oim è un ente credibile e non chiede soldi per questi rimpatri, ci mancherebbe - afferma Gino Barsella, responsabile del Cir in Nord Africa, un’esperienza in Libia dal 2009 - sulle ambasciate preferisco non pronunciarmi, ma conoscendo bene quel territorio posso dire che sui flussi di migranti ci guadagnano in tanti. In Libia c’è di tutto, gente che se ne approfitta. Oim è una grande organizzazione che lavora in maniera limpida, poi magari sul concetto di ritorni volontari si può non essere d’accordo. Secondo me Oim è troppo accondiscendente sui rimpatri. L’idea di rientro in patria volontario è abbastanza forzato, chi decide di tornare è perché non ne può più. Per molti migranti è una sconfitta. Di storie drammatiche ne ho viste e sentite tante. Altra cosa sono i rimpatri assistiti, attraverso cui si da al migrante non una ‘mancettà, ma la possibilità di avviare un’attività e un progetto di vita futuro”. Intanto tardano a prendere il via i progetti di aiuto delle otto Ong italiane finanziate dall’Aics, l’agenzia ministeriale per lo sviluppo e la cooperazione. Missioni brevi, quattro mesi appena, in tre aree alla periferia di Tripoli, a favore dei migranti rinchiusi nei centri di detenzione. Ci sono problemi burocratici e di sicurezza. I contratti per avviare le attività dovevano essere firmati entro l’8 gennaio scorso: “A giorni arriverà la firma, siamo pronti a partire” sostiene una portavoce del Cesvi, mentre Help-code sostiene di aver “rimandato la missione a causa dell’attacco all’aeroporto di Tripoli. La nostra delegata è rimasta bloccata a Tunisi, vediamo cosa accadrà nei prossimi giorni”. Tra le associazioni capofila c’è anche il Cefa: “Sarebbe tutto pronto, ma ci sono degli obblighi burocratici da soddisfare, tra fideiussioni bancarie, norme su trasparenza e antimafia” ammette Andrea Tolomelli. Rimpatri assistiti, ritorni volontari, corridoi umanitari, missioni-lampo di supporto. L’Italia si danna l’anima per risolvere il problema-migranti e sgomita come se non ci fosse un domani in mezzo al bailamme libico. Al centro dell’attenzione ci sono le centinaia di migliaia di saheliani intrappolati da anni nell’ex “scatolone di sabbia”, dalla primavera del 2011 un “non Stato”. Dopo la seconda metà del 2017 in cui il Piano Minniti sembrava aver funzionato, con una fortissima riduzione degli sbarchi sulle coste italiane rispetto alla prima parte dell’anno, il 2018 non è iniziato come il Viminale si attendeva. Il numero degli arrivi è tornato a salire e stando alle cifre diffuse dall’Oim (liberata lunedì la cooperante spagnola di origini palestinesi rapita tre giorni prima in Libia) si contano già oltre 200 migranti morti o dispersi nel Mediterraneo nei primi dieci giorni del 2018. Con l’avvicinarsi della primavera, i viaggi della speranza potrebbero ripartire in maniera massiccia. È di ieri l’arrivo nel porto di Pozzallo della nave Open Arms della Ong spagnola Proactiva con 315 migranti salvati al largo della Libia; a bordo anche cadaveri, tra cui quello di Haid, un neonato di tre mesi. Libia. Il Consiglio italiano rifugiati: “così aiutiamo i migranti detenuti a Tarek al Matar” di Francesco Martina Dire, 20 gennaio 2018 “C’è l’aiuto ai migranti del centro di detenzione ma anche il sostegno alle comunità locali, tra l’altro con la consegna di apparecchiature diagnostiche per il reparto ginecologia”: così alla Dire Roberto Zaccaria, presidente del Consiglio italiano rifugiati (Cir), sul progetto della Onlus al via nella località libica di Tarek al Matar. L’intervento, che comincia in questi giorni, di una durata prevista di quattro mesi, sarà realizzato nel quadro del Programma di emergenza della Cooperazione italiana. Con i suoi dieci operatori libici, il Cir lavorerà in alleanza con il Comitato europeo per la formazione e l’agricoltura (Cefa) e la fondazione Albero della vita. Nel centro di Tarek al Matar, alle porte di Tripoli, si trovano circa mille migranti. “Durante il sopralluogo di novembre - precisa Zaccaria - abbiamo censito 215 uomini, 400 donne e 75 minorenni, provenienti perlopiù da Sudan, Ghana, Sierra Leone, Mali e Costa d’Avorio”. Secondo il presidente del Cir, il primo impegno sarà “garantire sostegno psico-sociale e identificare le situazioni di maggior vulnerabilità”. Il progetto prevede poi “formazione tecnico-operativa al fine di avviare un processo di allineamento agli standard internazionali e promuovere il rispetto dei diritti umani”. In questa prospettiva vanno letti anche altri interventi nella struttura. “Faremo manutenzione dei bagni e delle caldaie elettriche e porteremo kit igienici, coperte e alimenti per bambini e neonati” sottolinea il presidente del Cir. Convinto dell’importanza della parte del progetto centrata sulle comunità locali: “Forniremo apparecchiature d’avanguardia al Tripoli Medical Center, l’ospedale di riferimento dell’area, restando comunque pronti a valutare nuove esigenze”. Il Cir è in Libia dal 2009, con un ufficio a Tripoli. La Onlus ha mantenuto il suo staff internazionale anche nei momenti più critici dal punto di vista della sicurezza, prima e dopo l’inizio del conflitto civile e la caduta del colonnello Muammar Gheddafi. “Il progetto - dice Zaccaria - nasce da un’approfondita analisi del contesto e dei bisogni”. Iran. Amputata la mano a un ladro: nel 2017 altre decine di esecuzioni identiche La Repubblica, 20 gennaio 2018 La condanna di Amnesty International. L’amputazione è stata eseguita nella prigione centrale di Mashhad, nel Nord-Est del Paese. La vittima è un uomo di 34 anni - A.Kh. - che è stato subito trasferito in una struttura sanitaria. Era stato condannato sei anni prima per il furto di bestiame e altri beni di valore da alcuni villaggi della zona. Mercoledì scorso, 17 gennaio, In Iran è stata amputata la mano, con la ghigliottina, a un uomo condannato per furto. Secondo quanto riferito dal quotidiano filo-governativo Khorasan News, l’amputazione è stata eseguita nella prigione centrale di Mashhad, nel Nord-Est del Paese. La vittima dell’amputazione, un uomo di 34 anni, di cui sono state riportate le iniziali A.Kh., è stato subito trasferito in una struttura sanitaria. Era stato condannato sei anni prima per il furto di bestiame e altri beni di valore da alcuni villaggi della zona. “Eseguire queste pene indicibilmente crudeli - ha detto Maghdalena Mughrabi, vicedirettrice per l’Africa del Nord e il Medio Oriente di Amnesty International - non ha niente a che fare con la giustizia e serve solo a mostrare il completo disprezzo delle autorità iraniane per la dignità umana. In un sistema giudiziario forte non c’è posto per sanzioni del genere. L’amputazione di un arto - ha aggiunto - è pura e semplice tortura, e compiere atti di tortura è un crimine di diritto internazionale”. È ancora considerato il migliore strumento di deterrenza. Le autorità iraniane si ostinano a difendere le amputazioni come il migliore strumento di deterrenza nei confronti del furto e a rammaricarsi per il fatto che non possano essere eseguite in pubblico su vasta scala senza incorrere nella condanna internazionale. In una dichiarazione rilasciata nel 2010 di fronte al Consiglio Onu dei diritti umani, l’allora capo del Consiglio iraniano dei diritti umani, Mohammad Javad Larjiani, negò che le amputazioni fossero una forma di tortura sostenendo che erano “giustificate sul piano religioso e culturale”. In Iran esiste un movimento di semplici cittadini e anche di esperti di religione che chiede l’abolizione delle pene crudeli, inumane e degradanti e che per questo motivo viene spesso perseguitato. Amnesty International trova aberrante che le autorità iraniane continuino a emettere ed eseguire condanne all’amputazione e giustifichino tale brutalità in nome della religione, della cultura e della prevenzione dei reati. “Le autorità iraniane devono abolire urgentemente ogni forma di punizione corporale e puntare su un sistema giudiziario fondato sulla riabilitazione e il trattamento umano dei detenuti”, ha concluso Mughrabi. Altre decine di esecuzioni. Nel 2017 decine di condanne all’amputazione sono state emesse dai tribunali inferiori e poi confermate dalla Corte suprema. Ad aprile nella città di Shiraz, Hamid Moinee, condannato per rapina e omicidio, si è visto amputare una mano e poi, 10 giorni dopo, è stato messo a morte. Le autorità iraniane continuano a imporre altre pene crudeli e inumane equivalenti a tortura, come le frustate e l’accecamento. Nel gennaio 2017 il giornalista Hossein Movahedi è stato frustato 40 volte nella provincia di Esfahan per aver sbagliato nel riferire il numero di motociclette sequestrate dalla polizia nella città di Najaf Abad. Ad agosto, nella provincia di Markazi, il sindacalista Shapour Ehsanirad è stato condannato a 30 frustate e sei mesi di carcere per aver partecipato a una protesta contro le condizioni di lavoro. Ad una donna adultera 74 frustate. A febbraio la Corte suprema ha confermato una condanna all’accecamento emessa nei confronti di una donna che aveva accecato un’altra donna. A maggio una donna arrestata per aver intrattenuto una relazione extra-matrimoniale è stata condannata a due anni di purificazione del corpo tramite lavaggio e a 74 frustate. Il suo amante è stato condannato a 99 frustate.La procedura per l’esecuzione delle pene corporali come l’amputazione richiede la presenza di un medico, in evidente violazione dell’etica medica e del diritto internazionale, che vietano il coinvolgimento del personale medico nella tortura. Congo. Il putiferio delle bande armate e adesso anche il colera che si diffonde La Repubblica, 20 gennaio 2018 I gruppi di mercenari che attaccano la popolazione per cacciarla via dai luoghi dello sfruttamento delle risorse del sottosuolo. L’ennesima condanna delle Nazioni Unite. La mediazione della nunziatura apostolica. L’inferno quotidiano della gente nella provincia del Kasai, una delle 26 province della Repubblica Democratica del Congo, è fatto di centinaia le vittime provocati dai gruppi armati che attaccano la popolazione civile oppure che ingaggiano violenti scontri a fuoco con l’esercito di Kinshasa. Sono mercenari, cioè nulla di più lontano dalla figura del “ribelle” che si batte per qualche ideale. Mercenari con gli abiti delle milizie etniche o da formazioni armate rivoluzionarie, che hanno il solo scopo di cacciare via la gente da dove sta, terrorizzandola, per garantire il vero e proprio assalto alle immense ricchezze del sottosuolo. I numeri del saccheggio. Oro, legami, minerali, carbone, avorio, E poi il coltan, risorsa fondamentale per l’industria elettronica. Secondo calcoli sommari tutto questo produrrebbe oltre 1 miliardo e 200 mila dollari di valore all’anno (722-862 milioni se si esclude il traffico dei diamanti), vengono contrabbandati illegalmente fuori dalla zona di conflitto nelle zone circostanti all’interno del Paese e anche al di fuori di esso nei paesi confinanti della martoriata regione dei Grandi Laghi. Dall’oro si otterrebbero fino a 120 milioni di dollari all’anno, dal legno tra i 16 e i 48, dal carbone tra i 12 e i 35 e dai minerali tra i 7,5 e i 22,6 (sempre con l’esclusione dei diamanti che hanno varie provenienze, non solo dall’est della Rdc) e poi bracconaggio, tassazioni illegali e altre risorse, che assieme fanno un profitto che varia dai 14,3 ai 28 milioni. E adesso l’allarme colera. Il colera che si diffonde sta mobilitando il governo di Kinshasa. L’epidemia sembra concentrata in particolare in una zona della capitale, una megalopoli di circa 11 milioni di abitanti, vicina al campo Luka, l’epicentro, dove ci sono gravi problemi di distribuzione e drenaggio dell’acqua. In totale, “803 casi sospetti e 32 decessi sono stati registrati dal 25 novembre scorso”. “La tendenza è ridurre il numero di casi quotidiani”. Il maggior numero di casi è stato registrato dove si concentrano tutti questi problemi: alta densità di popolazione, strade non asfaltate e pianure alluvionali, mancanza di servizi igienico-sanitari. All’ingresso del distretto, non lontano da un cimitero invaso dalle erbacce, è stato aperto un centro di cura gestito dal Ministero della salute e dall’Ong Medici senza frontiere (MSF). Le colpe del regime di Kabila. Il regime congolese rivela ogni giorno più il suo vero volto: - si leggeva su Nigrizia qualche giorno fa - ha paura dei propri cittadini. La prova? La brutale repressione di ogni manifestazione anche la più pacifica, come avvenuto il giorno dell’ultimo dell’anno, all’uscita da una messa. Ma la cosa non è passata inosservata, anzi. È così che il capo delle operazioni di mantenimento della pace dell’Onu, Jean-Pierre Lacroix, martedì 9 gennaio, di fronte al Consiglio di sicurezza, ha accusato le forze di polizia congolesi di aver impedito agli uomini della Monusco (la forza Onu in Rd Congo composta da 20mila soldati) di effettuare il pattugliamento delle manifestazioni dei civili del 31 dicembre, contro cui si sono scagliate, con violenza, le forze di sicurezza del regime di Kabila. Per l’Onu è essenziale che le autorità congolesi favoriscano le inchieste in corso, così da colpire i responsabili e portare in tribunale gli autori delle violazioni dei diritti dell’uomo. La nunziatura apostolica mediatrice della crisi. Secondo l’Onu e il nunzio apostolico a Kinshasa, almeno 5 persone sono morte dopo che le forze dell’ordine hanno disperso le manifestazioni organizzate il 31 dicembre, in seguito all’appello dei laici cattolici che chiedevano al presidente Joseph Kabila di dichiarare pubblicamente che lascerebbe il potere e non si ripresenterebbe come candidato. Secondo la nunziatura, 134 delle 150 parrocchie della capitale Kinshasa sono state accerchiate dalle forze di sicurezza e 5 messe sono state interrotte, domenica 31 dicembre. Anche l’ambasciatore di Francia all’Onu, François Delattre, ha “con fermezza condannato le violenze” perpetrate dalle forze di sicurezza e ha lanciato un appello a “un’applicazione effettiva” del calendario elettorale che fissa a fine anno le elezioni. I vescovi cattolici della Rd Congo, mediatori ufficiali nella crisi politica, sono pure loro al lavoro. Martedì 9 gennaio, una loro delegazione ha attraversato il fiume Congo per incontrare a Brazzaville, il presidente Denis Sassou-Nguesso, alla testa della Cirgl (Conferenza internazionale della regione dei Grandi Laghi) e responsabile dell’applicazione dell’accordo quadro per la pace e la sicurezza in Rd Congo. La critica ai vescovi. I vescovi, criticati dal governo per il loro sostegno ai manifestanti, prendono molto seriamente la situazione che sta vivendo il paese. È la terza volta che i vescovi congolesi incontrano il presidente del vicino Congo-Brazza e questa volta su loro esplicita richiesta. Il loro portavoce, don Donatien Nshole, al termine dell’incontro ha detto che la situazione è seria e che in questo contesto di crisi, i vicini della Rd Congo hanno un ruolo da svolgere per “soddisfare le aspirazioni del popolo congolese” ed evitare, così, il peggio: “Se non si fa attenzione, se si prende la situazione alla leggera - ha detto don Nshole, si rischia di andare incontro al peggio”. Il calendario elettorale. Secondo i vescovi, il nuovo calendario elettorale che prevede il voto nel dicembre 2018, è “sostenibile”. Da parte sua, il presidente Sassous-Nguesso si dice pronto a fare quello che potrà per il bene del popolo della Rd Congo. Perché sia Brazza (che Luanda, il vicino del sud), temono le conseguenze che avrebbe in casa loro la destabilizzazione dell’immenso vicino congolese. Si apprende, intanto, che la manifestazione organizzata a Kinshasa il 31 dicembre ha avuto degli emuli in altre parti del paese. E che di fronte alle violenze gratuite della sicurezza nazionale, la gente non si è data per vinta. Ed ecco allora gruppi di cittadini sporgere querela contro agenti dello stato e della polizia per tortura, sequestro e crimini contro l’umanità in diverse città della Rd Congo: Beni nel Nord Kivu, Bukavu nel Sud Kivu e Kananga nel Kasai centrale. La violazione sistematica dei diritti. Questi gruppi ritengono che i loro diritti fondamentali di cittadini sono stati violati durante la repressione delle recenti manifestazioni e hanno deciso di fare appello alla giustizia. Denunciano spesso il non funzionamento della giustizia, ma questa volta intendono dimostrare che “credono alla Costituzione” e “ai diritti che garantisce loro”. Con filmati alla mano, il movimento civile Lucha, per non portare che un esempio, accusa ufficiali della polizia a Beni di aver torturato il 31 dicembre una quindicina di suoi militanti. Paraguay. Gli attivisti in carcere si considerano prigionieri politici di Amanda Mazzinghi pressenza.com, 20 gennaio 2018 C’è un luogo ad Asunción, la capitale del Paraguay, dove 4.000 uomini vivono in uno spazio che non ne potrebbe contenere più di 1.300. È un luogo costituito da una serie di umidi padiglioni che ospitano uomini accusati di stupro, rapina, omicidio e traffico di droga, ma anche pazienti psichiatrici e tossicodipendenti. È un luogo dove mancanza di cibo, acqua ed elettricità sono all’ordine del giorno. Stiamo parlando del carcere di Tacumbú, dove il destino di circa l’80% dei detenuti è ignoto perché non sono ancora stati processati né condannati a causa della lentezza pachidermica del sistema giudiziario paraguayano. Tra queste mura, ci sono anche dieci uomini che invece sono stati condannati: sono i campesinos di Tacumbú. Questi uomini si considerano prigionieri politici e sono stati condannati alla massima pena prevista dalla legge paraguayana. I loro processi però sono stati irregolari e alquanto discutibili. Oltre alla severa condanna, questi campesinos (contadini) hanno in comune anche altre cose: la loro condotta è esemplare, sono molto rispettati dagli altri prigionieri, aiutano i prigionieri più poveri e si occupano di varie attività, come fare il pane, cucinare o fare dei lavoretti di falegnameria. Tuttavia, ciò che li lega veramente tra di loro è il passato comune. Prima di essere imprigionati, erano piccoli agricoltori delle comunità agricole di San Pedro, Canindeyú e Caaguazú, dove avevano organizzato e diretto gruppi per difendere l’accesso alla terra e il lavoro in nome delle comunità rurali in un Paese, come il Paraguay, dove la distribuzione della terra è tra le meno eque del mondo [es, come tutti i link seguenti, salva diversa indicazione]. Dalla fine della dittatura di Alfredo Stroessner nel 1989 ad oggi, in Paraguay sono stati uccisi 115 capi di comunità rurali senza che nessuno sia mai stato condannato per i loro omicidi. Il Paese ha conquistato la democrazia, ma lo squilibrio tra i poteri è rimasto invariato. Gli anni della dittatura hanno favorito l’attuale disuguaglianza con politiche che favorivano la macchina del regime e i suoi alleati. Di conseguenza, le disuguaglianze tra contadini e proprietari terrieri sono abissali. È stato infatti calcolato che solo il 2% della popolazione possieda l’85% della terra. Una di queste lotte tra contadini e proprietari terrieri è sfociata nel cosiddetto massacro di Curuguaty agli inizi del 2012, causato da uno scontro per i diritti fondiari nella regione di Curuguaty [it]. Questo evento ha lasciato un’impronta indelebile nel Paese, oltre a essere stata la causa della destituzione del Presidente Fernando Lugo. I dettagli dell’incidente non sono tuttora stati chiariti e il caso si trascina da anni nei tribunali paraguayani. Lo scontro, durante il quale furono uccisi 11 contadini e 6 poliziotti, rimane un esempio emblematico della disuguaglianza della distribuzione della terra e delle violenze di cui sono vittime i contadini in tutta il Paese. L’episodio ha portato però alla luce qualcos’altro: a Curuguaty era nata una nuova forma di repressione. In Paraguay, gli attivisti che difendono i diritti fondiari dei contadini o vengono uccisi o messi a tacere grazie al sistema giudiziario corrotto. Tra il 2013 e 2015, 460 persone sono state condannate e altre 273 incarcerate per il semplice fatto di essere battuti per il rispetto delle leggi fondiarie. In tutti questi casi, non sono state rispettate le norme processuali di base, come la conservazione delle prove e il diritto degli imputati ad avere un difensore. I processi dei campesinos di Tacumbú sono stati denunciati come irregolari dal Parlamento Europeo, dalle Nazioni Unite, Amnesty International, Oxfam e da associazioni paraguayane come il Consiglio delle Donne e dei Contadini Indigeni (Conamuri) oltre che dalla Chiesa Cattolica. La definizione di prigioniero politico è sottile e controversa. Secondo il Consiglio Europeo, per prigioniero politico si intende una persona detenuta per “motivi politici e la cui durata o condizioni di detenzione sono sproporzionate rispetto al reato, reale o presunto, commesso”. Secondo Amnesty International, i prigionieri per motivi di coscienza sono coloro che “pur non avendo fatto ricorso alla violenza o averla istigata, vengono incarcerati… a causa delle loro opinioni, la loro etnia, il loro sesso, il colore della loro pelle o la loro lingua”. Nei casi in cui i prigionieri hanno realmente commesso reati violenti, l’organizzazione richiede che siano comunque sottoposti a un processo equo. A Tacumbú, Arístides Vera dà lezioni di Guarani. Il suo processo si è tenuto integralmente in spagnolo, che non è la sua lingua madre. L’avvocato e il segretario generale del Consiglio Paraguayano per i Diritti Umani (Codehupy), Óscar Ayala Amarilla, afferma che molti dei prigionieri sono stati condannati sulla base della testimonianza di una persona che ha rilasciato dichiarazioni contraddittorie. “Sono stati condannati sulla base di una sola testimonianza, che rappresenta una prova minima senza altra documentazione”, afferma. “La procedura è controversa perché non soddisfa gli standard di prove richiesti per condannare un imputato in un normale procedimento giudiziario”. Nel caso del massacro di Curuguaty, la pubblica accusa non ha dimostrato che i colpi di arma da fuoco che hanno ucciso i poliziotti fossero stati sparati dagli imputati o che gli stessi avessero armi a disposizione. Inoltre, non sono mai state svolte indagini sulle morti dei contadini uccisi durante lo scontro. Rubén Villalba, condannato a 35 anni di carcere per il massacro, ritiene che non ci fossero prove per condannare i campesinos di Tacumbú e critica il fatto che non siano state svolte indagini sulle morti dei contadini. “È stata la politica dell’oligarchia e delle multinazionali: sono loro ad averci ucciso”. Alcuni dei campesinos incarcerati sono stati condannati per il rapimento e l’omicidio di Cecilia Cubas nel 2006. Questo caso scosse il Paese perché Cubas era la figlia dell’ex presidente Raúl Cubas e il suo rapimento fu imputato al gruppo ribelle noto con il nome Esercito Popolare Paraguayano (EPP in spagnolo). Tuttavia, secondo gli imputati attualmente in carcere, il loro processo è stato iniquo e fortemente incentrato sulle loro azioni politiche. “Sono un contadino e un lavoratore”, afferma Rubén Villalba. Prima di essere imprigionato, viveva a tierras malhabidas, una proprietà oggetto di controversie che avrebbe dovuto essere inclusa nel progetto di riforma fondiaria. È stato condannato a 35 anni di carcere nell’ambito del processo di Curuguaty. Óscar Ayala, l’avvocato difensore dei diritti umani, concorda che i contadini incarcerati non possono essere considerati normali prigionieri. “Stiamo parlando di persone che hanno avuto e continuano ad avere un ruolo chiave nell’ambito dell’attivismo fondiario e della giustizia sociale, e questo li distingue dagli altri prigionieri”. Margarita Durán Estragó, una storica, ricercatrice e attivista ha seguito praticamente tutte le udienze del processo di Curuguaty, salvo due, documentando le lacune processuali nel suo blocco note. Ritiene che la pubblica accusa abbia fabbricato prove e occultato informazioni allo scopo di incriminare i contadini. “Hanno messo sotto accusa i civili, ma non hanno condotto alcuna indagine sui poliziotti. Hanno perfino sospeso le autopsie”. Per questi prigionieri di Tacumbú, i giorni passano e si accumulano lentamente. Trascorrono il loro tempo nei corridoi, giocando a pallone o svolgendo qualche lavoretto. Attendono che la giustizia faccia lentamente il suo corso e rivivono il loro passato quando attivisti e giornalisti stranieri vanno a fare loro visita per ascoltare la loro storia. Dopo dieci anni di carcere, i sei prigionieri condannati per aver rapito Cecilia Cubas hanno pubblicato un’autobiografia di gruppo. In questo libro, Aristídes Vera racconta del suo sogno, di un sogno che lo ha portato in carcere come altri campesinos di Tacumbú. “Le mie origini sono contadine”, scrive. “La libertà che sogno è che tutti i contadini possano avere delle terra, una casa, un’educazione e l’accesso a buone strade che consentano loro di far arrivare i loro prodotti al mercato. Per me la libertà significa dare a tutti gli uomini e le donne la possibilità di vivere dignitosamente. Ho lottato per questo tutta la mia vita e mi hanno incarcerato. Per questo mi ritengo un prigioniero politico”. Marocco. Repressione nelle carceri contro gli studenti saharawi wesatimes.com, 20 gennaio 2018 La Commissione nazionale Saharawi per i diritti umani (Conasadh) ha denunciato la repressione nelle carceri marocchine contro gli studenti saharawi, afferma l’agenzia di stampa Saharawi Sps. In una dichiarazione rilasciata dopo il rinvio del processo agli studenti in detenzione, Conasadh ha reso omaggio agli studenti saharawi per la loro resistenza e il loro coraggio di fronte all’occupazione marocchina e ha salutato la grande solidarietà con le famiglie dei simpatizzanti saharawi, in particolare gli studenti e attivisti per i diritti umani, riferisce SPS. Il tribunale di occupazione marocchino di Marrakech ha deciso martedì di rinviare il processo agli studenti saharawi svoltosi il 13 febbraio, giustificando la sua decisione per l’assenza di quattro detenuti. Nello stesso contesto, il Conasadh ha denunciato il brutale e violento intervento delle forze d’occupazione marocchine il 12 gennaio contro un gruppo di cittadini saharawi che stavano organizzando un ricevimento per il detenuto politico liberato Saharawi, Belaid Babit, nella città occupata di Boujdour.. Il Conasadh ha espresso, a questo riguardo, “la sua assoluta solidarietà con tutti i prigionieri politici saharawi e le loro famiglie di fronte a pratiche marocchine morose, contrariamente alle consuetudini, alle usanze e alle carte internazionali”. Invitando tutte le forze che amano la pace e la giustizia, nonché i media e le figure influenti a “fare pressione sul Marocco affinché rilasci tutti i prigionieri politici saharawi nelle prigioni marocchine”, il Conasadh ha denunciato “tutte le forme di umiliazione e violazione contro tutti gli attivisti e i difensori dei diritti umani”. Il Conasadh ha invitato il governo di occupazione marocchino a “rilasciare immediatamente e incondizionatamente tutti i difensori saharawi, attivisti e detenuti politici e annullare tutte le sentenze ingiuste e arbitrarie nei loro confronti”. Ha anche chiesto di “far luce sul destino di tutti i Sahrawi scomparsi e di dare ai media, osservatori internazionali, personalità, delegazioni parlamentari internazionali l’accesso ai territori occupati della Rasd per rilevare le violazioni commesse dallo stato marocchino”, aggiunge la stessa fonte.