Carcere, i diritti umani non possono attendere di Simona Maggiorelli Left, 19 gennaio 2018 La proposta avanzata da Potere al popolo di abolire l’ergastolo e il 41bis è stata accolta con scandalo. Perché, ci siamo chiesti, dal momento che questo tema percorre buona parte della storia della sinistra del Novecento? Una figura cardine dell’antifascismo come Altiero Spinelli, che aveva subito il carcere di Mussolini, era arrivata persino a parlare di abolizione del carcere. Certo, è complessa e spinosa la questione del 41bis (così come rinnovato dopo le stragi mafiose del 1992 con la legge 356) che riguarda gli ergastolani condannati per delitti di mafia. Ma perché questa levata di scudi, prima ancora di cominciare la discussione? A rendere urgente un dibattito pubblico sul tema del carcere è la non rimandabile questione dei diritti umani. L’Italia è stata condannata dalla Cedu anche a questo riguardo. Per le disumane condizioni di sovraffollamento nelle carceri e, nel 2016, per l’ingiusta detenzione di migranti (che non hanno commesso alcun reato!) nei Cie, i Centri di identificazione ed espulsione. Sulle nostre spalle, come cittadini, grava una grande quantità di sentenze della Cedu mai attuate da governi di diverso colore. La civiltà di un Paese si giudica anche dal suo sistema carcerario. E in Italia la situazione è drammatica. Le percentuali parlano chiaro. E raccontano la discriminazione in atto. Il 37 per cento della popolazione carceraria è composta da stranieri per effetto di una legge razzista come la Bossi-Fini. Chi finisce dentro per piccoli reati in genere è indigente e non può permettersi un buon avvocato. Moltissime sono le persone recluse affette da malattie psichiche e tossicodipendenti. Il 2018 si è aperto tragicamente con un suicidio nel carcere di Uta a Cagliari. Un uomo di 46 anni, algerino, con problemi di dipendenza da droghe si è tolto la vita. Nel 2017 sono stati 52 i suicidi su 123 morti in carcere. Molte associazioni, a cominciare da Antigone, denunciano la mancanza di assistenza sanitaria adeguata e la totale assenza di cure psichiatriche: al più vengono somministrati psicofarmaci, ma senza psicoterapia, al più, servono per tenere sotto controllo i sintomi. La domanda allora ritorna: a cosa serve il carcere? Secondo la legge dovrebbe avere come obiettivo la reintegrazione sociale. Il che implica una presa in carico complessiva della persona, considerando anche la sfera dell’affettività, oltre al lavoro, alla salute ecc. Ma a 18 anni di distanza dal primo tentativo di riforma, ancora oggi il regolamento non considera la vita affettiva dei detenuti. Benché sia un diritto inviolabile della persona. Allora viene da chiedersi: quale pensiero è sotteso all’attuale sistema carcerario? C’è l’idea di una condanna eterna? Di una pena da espiare che non ha a che fare con la giustizia ma con la vendetta? Abbiamo rivolto questa e altre domande alle forze politiche che si presentano alle elezioni. Ed è emersa la profonda differenza che separa la sinistra “radicale” dal centrosinistra e dalle destre. Se la demagogia violenta e forcaiola delle destre e dei leghisti è nota (Berlusconi è arrivato perfino a dire che “la colpa dei crimini è dei 476mila clandestini africani”), colpisce la traiettoria sempre più conservatrice del centrosinistra: “ordine”, “sicurezza” sono diventate parole care al Pd, ormai da tempo. Lo notavamo, su Left, già una decina di anni fa. Con il decreto Minniti nel 2017 si è aggiunta la parola “decoro”. E si è fatto di tutto per respingere sempre più ai margini della società migranti, senza tetto e chi è senza mezzi di sussistenza. Arrivando addirittura a realizzare inferriate e panchine per impedire di fermarsi a riposare. Se Casa-Pound brandisce il fantasma della “sostituzione etnica”, la Lega non esita a fare propri temi propri del nazismo come la difesa della razza bianca. Lo fa per voce del suo candidato a governatore della Regione Lombardia, Attilio Fontana. Un lapsus dice lui. Un lapsus che rivela un pensiero condiviso, rilancia Renato Brunetta di Forza Italia, aggiungendo che “il politically correct”, a lui, “fa abbastanza schifo”. Anche il Pd, d’altro canto non si fa mancare nulla. Dopo l’onorevole Pristipino che si è lanciata nella difesa del dipartimento mamme “perché gli italiani rischiano l’estinzione”, ora tocca a Maurizio Sguanci, che da Firenze in nome del più cieco “fare per il fare” si è lanciato in difesa delle riforme di Mussolini. Affidereste a costoro una riforma carceraria e le chiavi del Paese? L’ergastolo? Va contro i principi della Costituzione di Donatella Coccoli Left, 19 gennaio 2018 Giuristi e associazioni che si occupano dei diritti dei detenuti sono d’accordo: “È un trattamento disumano, in un Paese civile non ha senso. Bisogna abolirlo”. Riguardo il 41bis, dicono, è stata travisata la funzione. E in generale, bisogna puntare sulle misure alternative. “Esco proprio ora da un reparto di 41bis”, dice al telefono Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio e dell’Umbria. Il carcere a cui si riferisce è quello di Terni, ma in Italia ci sono 23 case circondariali che ospitano queste sezioni speciali con oltre 700 “ristretti” in regime di carcere duro. Gli ergastolani superano la cifra di 1700, mentre nel 1992 erano 400, racconta Anastasia. La crescita esponenziale va di pari passo con la limitazione alla liberazione condizionale e all’introduzione, nel 1992, dopo le stragi per mafia, del regime di detenzione speciale, il 41bis, appunto. Nelle carceri italiane da allora si è prodotto un fenomeno nuovo, quello dei condannati all’ergastolo ostativo, cioè coloro che sono destinati a non avere alcun beneficio di pena e quindi in sostanza a finire la propria vita in cella. Adesso la proposta di Potere al popolo di abolire sia l’ergastolo che il 41bis riaccende una questione delicata che, ciclicamente, riaffiora. Anastasia ricorda il testo di legge presentato da Ersilia Salvato (Rc) nel 1997 per abolire l’ergastolo sotto il governo Prodi: il Senato riuscì ad approvarlo nell’aprile del ‘98 ma poi nei successivi anni della legislatura non venne mai discusso. Che effetto fa oggi l’idea di intervenire sul carcere duro? “La premessa è che io sono contro l’ergastolo e contro il 41bis”, commenta Anastasia che con Franco Corleone ha scritto Contro l’ergastolo (Ediesse) e insieme a Luigi Manconi, Valentina Calderone e Federica Resta Abolire il carcere (Chiarelettere). Ma sul 41bis bisogna fare un po’ di chiarezza, continua il garante dei detenuti. “Fatto salvo che io sono d’accordo con queste proposte, temo che non abbiano grandi possibilità di successo. Il 41bis poi è stato travisato nelle sue stesse funzioni. Si giustifica come una misura cautelare di prevenzione per evitare che detenuti con ruoli di rilievo nelle cosche criminali abbiano rapporti con l’esterno, ma nell’opinione pubblica è diventato il carcere duro, la pena speciale, ed è per questo che è difficile da abolire, ancora di più dello stesso ergastolo”. Il problema, per chi si occupa della condizione dei detenuti, è a monte. Si tratta di sfatare lo slogan urlato ai quattro venti dalle destre per cui “più carcere” significa “più sicurezza”. Ma allora bisogna comprendere cosa significa sicurezza, se la può garantire il carcere così come è oggi o se occorrano invece altri interventi, oltre la detenzione. Ornella Favero, direttrice del sito di informazione sul carcere Ristretti orizzonti e presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, non ha dubbi: “Io vorrei un programma politico che riduca il carcere veramente a quelle situazioni per le quali fino adesso non siamo riusciti a inventare niente di diverso. Vorrei ragionare sulle carceri normali che non garantiscono a tutti i percorsi di reinserimento e soprattutto vorrei che si avesse il coraggio di dire che in un Paese civile una pena come l’ergastolo non ha senso. Io ho a che fare - continua - con le famiglie dei detenuti di alta sicurezza e vorrei che lo Stato si dimostrasse superiore e diverso da chi condanna, vorrei uno Stato rispettoso dei diritti”. Una lotta seria alla criminalità organizzata si fa anche dal carcere, dice, “facendo vedere alle persone che lo Stato rispetta la legalità”. Il rischio, poi, continua Favero, è che parlando di 41bis e di ergastolo ostativo si isoli il problema, come quando si parla di mafia e di antimafia e che proporre l’abolizione faccia pensare che si voglia favorire la criminalità. “Invece il problema è generale: lo Stato sappia mostrare la sua faccia mite e rispettosa della legge. Sia rispetto al 41bis che rispetto alle condizioni delle carceri”. Quella del 41bis è davvero una faccenda delicata. Valentina Calderone, direttore dell’associazione A buon diritto, per esempio ci tiene a precisare: “Il regime speciale ha un fondamento e dovrebbe avere uno scopo preciso: impedire i contatti tra le persone che vengono condannate e il gruppo criminale di appartenenza. È chiaro, poi, si tratta di un regime estremamente punitivo, ma di qui a metterlo completamente in discussione ce ne corre”. Altra cosa, dice, è l’ergastolo e soprattutto l’ergastolo ostativo. La Costituzione all’articolo 27 esprime chiaramente due concetti: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. I padri costituenti, pur avendo, molti di loro, passato lunghi anni nelle celle fasciste, nella Carta non hanno mai fatto scritto la parola “carcere”, dimostrando lungimiranza e “lasciando campo libero a un legislatore che volesse cambiare radicalmente la fisionomia delle sanzioni penali”, scrivono gli autori di Abolire il carcere. E allora come si concilia la Costituzione e la sua tutela dei diritti con la disumanità dell’ergastolo ostativo? Stefano Anastasia ricorda la motivazione di una sentenza della Corte costituzionale di 40 anni fa: “L’ergastolo è compatibile con la Carta, diceva la Corte, perché può non essere scontato, cioè, ci può essere la liberazione condizionale del detenuto. In sostanza sarebbe legittimo nella misura in cui non è vero ergastolo. Insomma, un sofisma”, conclude. Solo che l’inasprimento delle pene all’indomani delle stragi per mafia del 1992 - la legge 356 che istituisce il 41bis è del 7 agosto, pochi giorni dopo l’attentato di via d’Amelio - ha introdotto dei limiti alle misure alternative e alla liberazione condizionale anche per i condannati all’ergastolo. “C’è una successiva motivazione della Corte costituzionale - continua Anastasia - che io trovo abbastanza tartufesca. L’impedimento all’accesso ai benefici, dice la Corte, può essere superato se il condannato collabora o dimostra se non può collaborare con la giustizia: a me sembra un argomento di tipo inquisitorio. Come nell’Inquisizione, il beneficio dipende da quello che si risponde all’inquisitore. Un pronunciamento assai discutibile”. La sentenza della Corte costituzionale è del 2004 e non è un caso che gli ergastoli ostativi siano aumentati così tanto. La battaglia da intraprendere è ancora una volta di tipo culturale. Perché oggettivamente i reati diminuiscono ogni anno, come certifica l’Istat, ma il clima di tensione rimane, favorito da una comunicazione falsa o monca. “Soltanto all’epoca della sentenza Torreggiani, nel 2013, quando l’Europa condannò l’Italia per la disumanità del trattamento detentivo, si cominciò a parlare un po’ di carcere. Ma in generale non lo si fa, perché è un tema che non porta voti e perché è più facile spiegare che bisogna avere il polso fermo contro il crimine”, dice Calderone. Dall’epoca del ministro Castelli che all’inizio degli anni 2000 parlava degli istituti di pena quasi fossero alberghi di lusso ad oggi non è cambiato molto nell’immaginario pubblico. Per esempio, a proposito della riforma penitenziaria, su cui le associazioni, un po’ scettiche, non si pronunciano, essendo i famosi decreti attuativi ancora sconosciuti, Ornella Favero fa notare un aspetto. Sul “decreto affettività” che è stato stralciato, “i giornali hanno titolato parlando di “celle a luci rosse”, siamo veramente un Paese penoso”. Invece Valentina Calderone ricorda poi la sollevazione generale quando una detenuta nota per un grave episodio di cronaca nera aveva postato su Facebook alcune sue foto al mare. “Ma era un suo diritto andare al mare, aveva ottenuto l’affidamento in prova ai servizi sociali e quella era una misura che rientrava nel concetto di pena”. La direzione quindi è sì, quella di rafforzare da parte delle forze dell’ordine la lotta alla criminalità, con politiche anche di carattere sociale sui territori, ma bisogna soprattutto favorire la conoscenza collettiva su questo tema. Anche per far passare un diverso concetto di pena. Tutti coloro che lavorano per la tutela dei diritti civili sanno che la depenalizzazione di certi reati, come quelli legati allo spaccio di stupefacenti (che produce un terzo dei detenuti) e l’estensione di misure alternative al carcere, servirebbero sia per sfoltire il numero di detenuti, che continua a crescere, che per dare un contributo concreto alla sicurezza. Nel libro Abolire il carcere si dice chiaramente: il carcere non serve a impedire i reati. La prova poi l’ha fornita lo stesso ministero della Giustizia. “Dopo anni che era stata commissionata una ricerca sulla recidiva alla fine abbiamo saputo che il 68 per cento di chi era detenuto tornava in carcere rispetto al 19 per cento di chi aveva usufruito di misure alternative”, sottolinea Calderone. “Il clima attuale è di tipo securitario, nell’ambito penale, ma non ci spaventa nel portare avanti un manifesto di tipo garantista”, dice Patrizio Gonnella, giurista e presidente di Antigone. Gonnella ha partecipato il 12 gennaio al convegno promosso a Roma dalla Società della ragione, in cui esperti di diritto e costituzionalisti si sono ritrovati a dibattere su un modello di giustizia dal volto mite: come riportare nella politica l’indulto e l’amnistia. E magari lasciare la porta aperta per una proposta di riforma da lanciare al nuovo Parlamento. Mentre nella prima Repubblica questi provvedimenti erano quasi un’abitudine, a distanza di pochi anni l’uno dall’altro, dal 1992 la riforma costituzionale dell’articolo 79 di fatto ne ha limitato fortemente la possibilità e a parte l’eccezione del 2006, non si è più sentito parlare né di indulto né di amnistia. “Certo, i tempi sono cambiati e non è facile far passare questi provvedimenti - conclude Gonnella - ma la clemenza rimane qualcosa di importante e straordinario che non deve essere escluso dalla possibilità concreta della politica”. A chi giova il carcere duro? di Leonardo Filippi Left, 19 gennaio 2018 “Il 41bis per noi è tortura”. Con queste parole schiette, dirette, il capo politico di “Potere al popolo” Viola Carofalo entra a gamba tesa nella bagarre scatenata dalla loro proposta di abolire il “carcere duro” previsto per i detenuti considerati maggiormente pericolosi. Una prassi che risale all’ordinamento penitenziario del 1975, poi estesa ai mafiosi nel 1992, come risposta dello Stato alle stragi. La mozione ha subito scoperchiato un vespaio di polemiche. Per Antonio Ingroia, si tratterebbe di un “favore alla mafia”. Ma, persino tra alcuni simpatizzanti della lista di sinistra, ci sono stati dubbi, incertezze, sorpresa. Considerato anche che, oltre al “carcere duro”, Potere al popolo si propone di cestinare l’ergastolo. Ed online la discussione si è presto infiammata. “Sono contenta che si sia sollevato il polverone, perché in questo modo - chiarisce Carofalo - abbiamo la possibilità di spiegarci: il 41bis è una misura pensata in origine come straordinaria e sulla sua efficacia ci sarebbe molto da discutere: non si è dimostrato certo uno strumento in grado di sradicare la mafia in questi 26 anni, senza considerare poi che anche Amnesty International, allora, dovrebbe essere accusata di collusione mafiosa”. Già, perché la misura - che prevede l’isolamento assoluto, il divieto di possesso di oggetti personali, una sorveglianza 24 ore su 24 e contatti ridotti al minimo persino con la polizia penitenziaria - ha destato in passato l’attenzione della Ong internazionale. E il Comitato dell’Onu contro la tortura, in un report di dicembre, ha ribadito le sue perplessità nei confronti del 41bis, invitando l’Italia a rivedere la norma per riportarla nei cardini del rispetto dei diritti umani. “Certo, sicuramente bisogna impedire ai boss di avere contatti dall’esterno e di impartire ordini dal carcere - spiega meglio l’esponente di Potere al popolo - ma non vedo il nesso tra questa esigenza e l’impedire a una persona in fin di vita di vedere i suoi parenti (come nel caso di Toto Riina, ndr), oppure il negare la possibilità di tenere in cella un poster o un libro. Mi sembrano solo inutili elementi di vessazione”. In pochi però, nell’agone politico, osano denunciarlo. “Non si ha il coraggio di farlo per timore di perdere consensi, noi però siamo popolari ma non populisti, perciò dobbiamo evitare di parlare alla pancia del Paese”. Facile a dirsi, più complesso a farsi, in un’Italia dove la retorica giustizialista e vendicativa satura il discorso pubblico e dilaga in tv. “Questa poca sensibilità - prosegue Carofalo - è dovuta in parte ad una cultura del terrore e della sicurezza sociale divenuta dominante: basta leggere il decreto Minniti- Orlando che impone a dei poveracci di stare lontani dai centri urbani, distanti dallo sguardo dei cittadini, senza premurarsi di risolvere piuttosto le loro condizioni di vita. Ma il “Paese reale”, quello fatto da associazioni che operano in contesti di marginalità, per il recupero dalle tossicodipendenze, o anche nelle carceri, ha una visione diversa, molto più consapevole e solidale”. Una visione condivisa anche dalla radicale Rita Bernardini, che alla difesa dei diritti dei carcerati si sta dedicando da decenni. “Il primo referendum di abolizione dell’ergastolo lo proponemmo a fine anni 70 - ricorda Bernardini - e da tempo ci battiamo per l’abolizione del 41bis. Il punto, difficile da far comprendere, è che più il carcere è rieducativo, più garantisce sicurezza. Mentre quello odierno è deresponsabilizzante e infantilizzante”. Il 22 dicembre scorso, il Consiglio dei ministri ha licenziato i decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario, su pressing del ministro Orlando. “Dopo più di 20 giorni - denuncia però Bernardini - i testi non sono ancora arrivati nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato che devono esprimere un parere per poi rimandare il testo all’esecutivo, al quale spetta l’ok definitivo (mentre andiamo in stampa alcune fonti indicano questo passaggio come imminente, ndr). Il timore è che il governo abbia fatto tutta questa scena ma poi rimandi alla prossima legislatura l’esercizio della delega”. Per questo motivo, l’esponente dei radicali ha annunciato la ripresa dello sciopero della fame dal 23 gennaio. Il contenuto preciso della riforma, tuttavia, è ancora incerto. Si parla di interventi che favoriranno la “giustizia riparativa”, ampliamento dei permessi per colloqui da tenere via Skype, aumento degli anni di detenzione scontabili con misure alternative (da tre a quattro), un sistema di accesso alle cure mediche più rapido ed efficace. Ma alcuni temi, al momento, pare siano stati cestinati. Agli Stati generali sull’esecuzione della pena, istituiti nel 2015 per formulare le proposte su cui basare la riforma, Bernardini ha partecipato al tavolo dedicato all’affettività in carcere, e le idee frutto di quel lavoro non sono pervenute: “È gravissimo. Purtroppo in Italia abbiamo un problema serio con il sesso, ancora inteso come qualcosa che “si fa ma non si dice”. Quando si discusse delle “stanze della affettività” per i detenuti - ricorda - il sindacato Sappe si è sollevato, affermando di non voler far passare i secondini “guardoni di Stato”. Mentre per noi l’affettività è un diritto umano fondamentale”. Non pervenuti sono anche i decreti legati al reinserimento lavorativo dei carcerati. Una rivoluzione incompiuta, insomma. E criticata anche dal Movimento 5stelle. Ma in modo ben più feroce, e con argomenti di tutt’altro segno. “La delega al governo per questa riforma era una delega in bianco, e le voci che arrivano sono allarmanti”, denuncia Vittorio Ferraresi, membro pentastellato della commissione Giustizia alla Camera. “Se il limite per la sospensione condizionale sarà davvero elevato a 4 anni, si tratterebbe dell’ennesimo attacco alla certezza della pena. Il messaggio che il Partito democratico sta dando è che chi sbaglia non paga, ma noi siamo pronti a dar battaglia”. Sulle carceri, il movimento di Grillo propone insomma il pugno duro e agita le manette. I posti nelle carceri sono pochi? “Bisogna ristrutturare quelle esistenti che hanno padiglioni chiusi, e costruirne almeno due nuove”, spiega pragmaticamente Ferraresi. Oltre a questo, la proposta programmatica M5s prevede un piano di assunzioni di personale - dagli agenti di polizia penitenziaria, agli psicologi, agli amministrativi. E poi: ripensare il reinserimento lavorativo per i detenuti, con rigorosi controlli e di concerto con gli enti locali; stipulare trattati internazionali perché i condannati stranieri in via definitiva possano scontare la pena nel proprio Paese di origine, avviare un processo di depenalizzazione per i reati legati alla cannabis, che ancora ingolfano le aule dei tribunali. E sul 41bis, naturalmente, nessuna apertura. “È una sciocchezza pericolosa - sentenzia Ferraresi - una provocazione voluta da chi vuole smantellare il sistema ottenuto da magistrati importanti come Falcone e Borsellino. Mentre, a fronte di una criminalità sempre più viva, bisogna tenere fermo il punto”. Contrarietà alla abrogazione del 41bis arriva anche dal Partito democratico: “È uno strumento efficace ed è utile mantenerlo come strumento di prevenzione e di lotta alle mafie, casomai si possono alleggerire alcuni aspetti”, spiega a Left Walter Verini, capogruppo del Pd in commissione Giustizia della Camera. Che difende a spada tratta la riforma sostenuta dal ministro della Giustizia Orlando: “Si tratta di una svolta importante, che immagina il penitenziario non più come luogo di afflizione o vendetta, ma come spazio dove ricevere una pena che sia certa, ma tesa al reinserimento”. Anche riguardo ai temi “scartati” dai decreti licenziati dal governo, lavoro e affettività, il capogruppo Pd è fiducioso. “Per i decreti sul reinserimento lavorativo mancavano le coperture, che ora la legge di Bilancio ha fornito, perciò in commissione Giustizia proporrò di segnalare le parti mancanti della riforma”. La proposta di Potere al popolo sulle carceri, però, non si limita alla abolizione di 41bis ed ergastolo. Nel programma si rivendica anche la volontà di chiudere “tutte le forme di detenzione amministrativa” per migranti. Quelle strutture confermate dal decreto Minniti sull’immigrazione, che peraltro elimina un grado di giudizio per i richiedenti asilo (come abbiamo rivelato su Left dell’11 novembre 2017). Per Verini però “il problema dei Cie (ora Cpr, ndr) non è tanto quello della gestione di quelle strutture, ma casomai il loro sovraffollamento”. Nessuna intenzione di chiuderli, insomma. E sul trattamento giuridico differenziale per i migranti, il capogruppo dem difende l’operato di Minniti: “Velocizzare l’iter giuridico per il migrante significa evadere il prima possibile una sua richiesta, e non la ritengo sbagliata”. Mentre per la leader di Potere al popolo il decreto “è una di quelle leggi che se tu le guardi senza sapere quando e da chi sia stata fatta sembra subito una legge risalente al fascismo”. Superare, ma non abolire immediatamente le strutture detentive per i migranti irregolari, è invece la proposta di Liberi e uguali, come ci spiega il deputato Alfredo D’Attorre. “È necessario definire un percorso che parta dalla salvaguardia dei diritti umani all’interno di questi centri, per arrivare rapidamente al loro superamento futuro”, chiarisce. Ma, sul 41bis, le posizioni si uniformano presto a quelle del Partito democratico. “Per noi la lotta alla mafia è un punto centrale, e il 41bis si è rivelato indispensabile per controllare i grandi boss”. E nessuna amnistia, diversamente da quanto propone Potere al popolo per snellire rapidamente la popolazione carceraria. Che ad oggi conta circa 7mila persone in più rispetto alla capienza totale. E, mentre la politica manca di coraggio e di umanità, l’emergenza continua. Carceri senza giustizia di Domenico Fargnoli (Psichiatra) Left, 19 gennaio 2018 Nessuna riforma penitenziaria risulterà efficace se prima non si abolisce del tutto la mentalità che fa leva sul concetto di pena. Occorre una visione dell’uomo che esca completamente dall’ideologia religiosa, dal concetto di peccato e di male e di espiazione attraverso la sofferenza. La giustizia non può essere confusa con la vendetta e la disumanizzazione. Abolire il carcere ma garantire ugualmente la giustizia in una società come la nostra ossessionata dalla sicurezza per la presenza della mafia e del pericolo del terrorismo e di una criminalità spesso impunita, può sembrare un’utopia. Visto dall’esterno il carcere sembra l’unico baluardo a difesa della legalità, un deterrente peraltro inefficace per frenare una violenza diffusa rivolta contro una popolazione inerme. Se cambiamo prospettiva e analizziamo le statistiche il quadro si presenta in modo differente. Chiediamoci a cosa serve il carcere: a riabilitare il reo come vorrebbe la nostra Costituzione, ad aiutarlo ad inserirsi con un nuovo atteggiamento nel tessuto sociale o invece serve ad esercitare tutt’al più una vendetta contro chi si è trovato dalla parte sbagliata? Oggi è abbastanza chiaro che il sistema penitenziario non riesce ad assolvere, nella stragrande maggioranza dei casi, ad alcuna funzione positiva se non quella di impedire la reiterazione temporanea di delitti gravissimi: esso è divenuto il contenitore amorfo, oltre che della criminalità, della devianza, della povertà, della malattia mentale o della vecchiaia con costi sociali elevatissimi. In quest’ottica la proposta degli abolizionisti potrebbe avere un senso. I resoconti di coloro che conoscono i numeri relativi alla realtà carceraria e, in qualunque modo, ne abbiano avuto esperienza diretta, dipingono uno scenario allucinante e disumanizzante ai limiti dell’incredibile, soprattutto perché esso si delinea all’interno di una società che pretende di essere civile e che sbandiera il vessillo della democrazia e dello stato di diritto. Al 31 dicembre 2017 secondo i dati diffusi dal ministero di Giustizia, i carcerati italiani erano 57.608 dei quali 19.745 stranieri cioè il 37,2%. Rispetto alle possibilità recettive degli istituti il tasso di sovraffollamento è del 113,2% con punte che sfiorano in alcune situazioni il 180%. La percentuale delle recidive è del 68%. Il carcere quindi non riduce il tasso di criminalità ma consegue il risultato contrario, affinando la capacità di delinquere, rafforzando il tessuto dell’illegalità attraverso la negazione di ogni alternativa di vita: i detenuti sperimentano il dramma di una disperazione che appare senza uscita e che li spinge spessissimo, se non a reiterare le loro condotte criminali, al suicidio. Il sovraffollamento lascia a ciascuno 4 metri di spazio vitale, una condizione al di sotto della quale si ha una vera e propria tortura. La media nell’ultimo decennio è di un suicidio alla settimana. Anche le guardie carcerarie hanno un tasso estremamente elevato di suicidi. L’uso quasi generalizzato degli psicofarmaci, in assenza quasi totale di un supporto psicologico, solo in parte tampona una situazione di vita nella quale il soggetto appare spogliato della sua umanità, dagli esiti devastanti. I reclusi, inoltre, frequentemente subiscono abusi da parte di altri reclusi se non dalle guardie carcerarie che, in alcuni casi documentati e riportati dalla cronaca, hanno agito una violenza cieca, addirittura con esiti omicidi. Gli individui in regime di carcerazione preventiva in Italia sono il 34,6%, in larga misura stranieri che hanno violato la legge Bossi-Fini. Nelle prigioni si evidenzia l’effetto di un razzismo istituzionale, tradotto in provvedimenti legislativi che colpiscono gli “irregolari” senza fissa dimora. Inoltre in anni recenti gli istituti penitenziari hanno visto l’emergere di un fenomeno nuovo, “la radicalizzazione” che è stata alla base del reclutamento del terrorismo dell’Isis. I mussulmani hanno costituito nella reclusione comunità chiuse e subito un doppio processo di segregazione che ha rafforzato il radicalismo e la ricerca di un’identità legata al fondamentalismo religioso. Dato che gli effetti negativi del carcere sono ampiamente dimostrati mentre quelli positivi, a parte il contenimento della criminalità violenta, a tutt’oggi sono da dimostrare, la prospettiva abolizionista cercherebbe di risolvere alla radice un problema che ha una sua evidenza basandosi su dati certi e verificabili. Sorgono inevitabilmente domande alle quali si deve rispondere. Abolire il carcere vorrebbe dire abolire del tutto la pena in quanto inutilmente afflittiva senza nessun vantaggio secondario? Di questa opinione mi pare fossero Vittorio Foa e Altiero Spinelli, entrambi carcerati durante il fascismo. L’abolizionismo penale, per coloro che lo professano, prevede la sostituzione della sanzione punitiva, ritenuta inutilmente afflittiva, con strumenti pedagogici e di controllo rivolti a modificare il comportamento e l’ideazione del reo. E qui, verrebbe da dire, insorge la vera difficoltà. Bisogna infatti ricordare come il carcere, come il suo parente più prossimo il manicomio, nasce nel contesto di una pedagogia e di un filantropismo di stampo illuministico. Il trattamento morale, (morale nel senso di mentale) di Pinel e Esquirol di fatto scaturiva da un’intenzionalità pedagogica solo in parte mascherata da altre forme di intervento che agivano sulle emozioni, nella quale l’allontanamento dal contesto sociale e la segregazione giocavano un ruolo di primo piano. La solitudine nelle celle di isolamento, la scansione ritmata del tempo e della socialità come in un regime monacale, avrebbe avuto il compito di risvegliare la coscienza morale attraverso un percorso di inevitabile sofferenza. Il manicomio, ma anche il carcere, si proponeva come città ideale all’interno delle quali anche attraverso apposite forme architettoniche, sarebbe dovuto nascere un “uomo nuovo”. Si pensava che in questo modo si sarebbero potute costruire vere e proprie “macchine per guarire” come diceva Jean-Etienne Dominique Esquirol. Quest’ultimo progettò, quando ne assunse la direzione negli anni Trenta dell’Ottocento, la ristrutturazione dell’Asilo di Charenton, creando uno stile rigorosamente neoclassico, insieme all’architetto Emile-Jacques Gilbert. I malati contenuti prima con delle sbarre sostituite poi con invisibili “salti di lupo” venivano immersi lungo tutto l’arco della giornata, in un’atmosfera di razionalità grandiosa che avrebbe dovuto assoggettare la loro parte malata. Jeremy Bentham, filosofo e giurista inglese, ideò una nuova struttura penitenziaria chiamata Panoptique: egli presentò il suo progetto all’Assemblea francese nel 1791. Il vantaggio fondamentale del panottico, che per la sua particolare forma, consentiva un controllo visivo continuo e anonimo dei detenuti, avrebbe dovuto risultare evidente: “Essere continuamente sotto gli occhi di un ispettore - diceva Bentham, avrebbe significato in effetti perdere il potere di fare il male e quasi il pensiero di volerlo fare”. Un Panottico fu costruito intorno al 1870 nel ex ospedale psichiatrico di Siena a testimonianza di quel processo di ibridazione fra manicomio e carcere che porterà all’istituzione sotto l’influenza della antropologia criminale di Lombroso, al manicomio giudiziario destinato ai delinquenti nati, soggetti che sarebbero stati caratterizzati da una pericolosità sociale. Recentemente gli ospedali psichiatrici giudiziari, divenuti nel corso del tempo veri e propri lager sono stati aboliti dalla legge 81 che ha istituito delle piccole strutture chiamate Rems, adibite alla cura e alla sorveglianza. Di fatto, gran parte della popolazione degli ex ospedali giudiziari è stata spalmata sul territorio e messa a carico del servizi psichiatrici. Questi ultimi si trovano a dover fronteggiare complesse situazioni giuridiche e psicopatologiche senza i mezzi idonei per poter intervenire adeguatamente. L’abolizione di una struttura carceraria o simil-carceraria di fatto lascia aperti dei problemi che vengono semplicemente delocalizzati e apparentemente occultati per l’effetto della loro dispersione. Qualcosa di analogo è accaduto con la legge 180 e la chiusura dei manicomi che ha ingenerato una serie di difficoltà delle quali non si è mai venuti a capo (cfr. Left del 28 ottobre 2017): l’abbattimento delle mura considerata una vera e propria rivoluzione, ha spostato in altra sede l’onere della cura della malattia mentale, che continua a esistere al di fuori di quelle che venivano chiamate “istituzioni totali”. È la logica di nascondere la polvere sotto il tappeto. La situazione attuale delle carceri, come lo era stata prima quella dei manicomi e degli ospedali psichiatrici giudiziari, deriva dal fallimento catastrofico, consumatasi in due secoli, della pedagogia di stampo illuministico, di un’illusione di una terapia razionale che ha dato forza alle teorie genetiche ed innatiste dell’organicismo imperante sia nel campo della criminologia, che della psichiatria. Che senso dobbiamo dare allora all’idea di “abolire il carcere”? Il carcere va ridotto alla sua struttura essenziale attraverso un’incisiva depenalizzazione di molti reati minori, la riduzione drastica dell’ambito di applicazione della carcerazione preventiva, la limitazione della libertà personale attraverso misure non carcerarie, l’utilizzazione di pene alternative. Data la massiccia presenza di stranieri, fondamentali appaiono nuove politiche adottate nei confronti dei fenomeni migratori ai quali non si può far fronte con strategie poliziesche e securitarie. Qualunque riforma carceraria risulterà inefficace se non si abolisce del tutto, quella sì, la mentalità penitenziaria che fa leva sul concetto di “pena”. Quest’ultima ha un’accezione religiosa, penitenziale ed afflittiva ed una razionale. Cesare Beccaria sosteneva che la pena, in una logica retributiva va commisurata al delitto: quante volte sarebbe dovuto morire Eichmann a Gerusalemme per soddisfare questo criterio? Per realizzare un diverso approccio alla criminalità nel suo intreccio con la malattia mentale è evidente che sia necessario far riferimento ad una nuova antropologia. Bisogna far sì che il carcere funzioni sullo sfondo di una visione dell’uomo, della politica e della giustizia che esca completamente dall’ideologia religiosa, dal concetto di peccato e di male e di espiazione attraverso la sofferenza: la giustizia non può essere confusa con la vendetta, la tortura e la disumanizzazione. “Per scontare una pena non c’è solo il carcere” di Giorgio Saracino Left, 19 gennaio 2018 La direttrice della Casa circondariale femminile di Rebibbia, Ida Del Grosso: “È necessario aumentare le opportunità di misure alternative per reinserire i detenuti nella società. In Italia si è convinti che la detenzione sia l’unica e la sola possibilità”. Quello di Rebibbia è il carcere femminile più grande d’Italia. Di donne detenute generalmente si parla poco perché sono soltanto il 4,6 per cento della popolazione generale. La Casa circondariale femminile di Rebibbia è composta sia da detenute del circuito di media sicurezza, sia da quello di alta sicurezza - attualmente sono sedici. Il 50 per cento è costituito da donne italiane, per il resto sono straniere. Tra queste, la maggioranza sono donne rom e donne dell’est. Poi, subito dopo, ci sono le detenute che provengono dal Centro Africa e quelle che vengono dal Sud America. Di come vivono e delle prospettive future Left ne ha parlato con la direttrice Ida Del Grosso. C’è correlazione tra il Paese di origine e il reato? In generale c’è una certa correlazione tra reato e nazionalità: le donne rom sono quasi sempre arrestate per furto e sono molto recidive. La fascia delle donne africane spesso è in carcere per sfruttamento della prostituzione: sono donne che si sono prostituite a loro volta, vittime della tratta con storie personali molto dolorose. La maggioranza delle donne del Sud America e del Centro America viene invece arrestata per reati connessi alla droga, sono corrieri che credono di poter cambiare le condizioni di vita dei familiari, utilizzando lo strumento dell’illegalità. E poi c’è un altro 50 per cento di donne italiane: anche qui molti dei reati sono legati al traffico di droga, ma ci sono anche reati contro la persona, come l’omicidio. A tutte bisogna offrire delle risorse nuove per impedire che si esca peggiori di come si è entrati, tramite il lavoro ad esempio. In media quante detenute riescono a lavorare? All’interno lavorano un centinaio di donne su 330. In cucina, per preparare il pasto per tutte le detenute e anche in lavanderia, dove sono occupate una ventina di donne. Alcune fanno le pulizie nei locali e nelle parti comuni di tutte le sezioni detentive. Abbiamo anche un’azienda agricola con due ettari di terra dove sono impegnate un’altra ventina di detenute. E ancora: un negozietto all’interno e uno all’esterno dove vendono prodotti realizzati in carcere. E poi abbiamo due detenute semilibere e dodici lavoranti all’esterno. Il lavoro è ovviamente ciò a cui loro più ambiscono. Per un senso di dignità - perché il lavoro dà dignità anche dentro al carcere - e poi perché così possono guadagnare qualcosa da mandare alle proprie famiglie. E per quanto riguarda le altre attività? Innanzitutto le stanze detentive sono aperte dalle 8 alle 20 da più di vent’anni, quindi molto prima che lo sancisse la Corte europea. Le detenute possono decidere di aderire alle attività che noi offriamo: la scuola, primaria (per donne straniere) e secondaria (liceo artistico, istituto tecnico industriale e istituto agrario); l’attività teatrale che va avanti da molti anni. Questa attività, in particolare, permette loro di togliersi la maschera del detenuto per mettersene una nuova. Poi c’è la biblioteca: abbiamo 8mila volumi del circuito del comune di Roma. Abbiamo anche da tanti anni un corso di yoga. E ricordo che ci sono i ministri di culto cattolico, ortodosso e buddista. L’incontro tra diverse culture genera attriti o sviluppa una crescita culturale? Di attriti ce ne sono. È un luogo difficile, la convivenza è difficile. In stanza si cerca di mettere persone della stessa cultura ed etnia. Però negli spazi comuni si incontrano donne italiane con donne straniere. In più, abbiamo anche detenute - spesso straniere - con problematiche psichiatriche gravi che sono fonti di disagio per tutte le altre. In molti casi ci sono però anche donne che a posteriori ammettono: “Non avrei mai immaginato di avere solidarietà da loro”. Quindi, si riescono a creare anche degli esempi belli di convivenza. Come viene affrontata la maternità in carcere? Noi abbiamo la sezione nido che ospita attualmente 14 mamme e 14 bambini da 0 a 3 anni. Quasi tutte sono donne rom, perché le italiane spesso riescono a gestirsi diversamente - con misure alternative che sono nate nel tempo a tutela delle madri con bambini che permettono di uscire e scontare la pena fuori se non c’è il rischio di recidiva e se non c’è il rischio che si commetta un altro reato. In questo senso è nata una casa famiglia protetta all’Eur (la Casa di Leda) che funziona bene e presto sarà aperto subito fuori dal carcere un Icam (Istituto a custodia attenuata per madri con bambini). Il senso è quello di ridurre l’aspetto del sistema di sicurezza rispetto a quello del “trattamento”, considerato che si tratta di mamme con bambini. Cerchiamo di attenuare il più possibile il disagio che un bambino da 0 a 3 anni può provare stando in un carcere. I nostri spazi hanno una realtà più da nido che da sezione detentiva perché le celle sono grandi, colorate, hanno letti e lettini, con alle pareti disegni delle favole; e poi ci sono una ludoteca, una cucina per bambini, un giardino enorme in cui possono stare e giocare. In più, i nostri bimbi possono frequentare gli asili nido del municipio. Ovviamente, poi, le misure alternative ci sono e possono essere applicate. Cosa si può fare per applicare di più le misure alternative? Quelli che pensano che il carcere debba essere chiuso e basta, perché la pena deve essere pena, non capiscono che si rischia di peggiorare le persone e quindi di aumentare il rischio di recidiva. Si possono prevedere più misure alternative. Anche se la gente pensa che il carcere sia l’unica pena, la nostra Costituzione dice: “Le pene devono rispondere, le pene possono...”. Le pene non sono solo il carcere, ma anche gli arresti domiciliari, l’affidamento in prova se hai un lavoro, ad esempio. Il carcere deve continuare a rimanere l’extrema ratio. Anche se, in alcuni casi, è utile: quando, per esempio, gli operatori riescono a costruire un rapporto vero con le singole persone. Aumentare le misure alternative, il lavoro intramurario e non, aumentare la conoscenza del sistema carcerario all’esterno, darebbe più possibilità di reinserimento ai detenuti. Questa rete va costruita anche con la società, non può fare tutto il carcere. Dovrebbe essere un carcere a misura d’uomo e di donna, che consideri veramente le persone per quello che possono dare. Nessuna persona è assolutamente negativa. Il carcere può diventare un luogo di opportunità, se si lavora per questo. Ora è in atto una riforma dell’ordinamento penitenziario: abbiamo molte speranze. Penso che ci sia necessità di aumentare le opportunità di misure alternative perché in Italia si è un po’ convinti che il carcere sia l’unica e la sola strada. Invece no. Bisogna dare altre possibilità. Più condanne per i minorenni? Giusto il no di Orlando: ecco perché di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 gennaio 2018 Lettera del Guardasigilli al Sindaco di Napoli e al governatore della Campania per fissare un incontro. Si fa sempre più acceso il dibattito sul tema delle baby gang che stanno mettendo a dura prova Napoli e non solo. Ieri è intervenuto il ministro della Giustizia Andrea Orlando dai microfoni di Radio Capital, spiegando che “per allontanare i bambini dai contesti più difficili servono misure di prevenzione diverse rispetto alla condanna”. Orlando ha specificato che “il tema c’è e non riguarda solo Napoli. C’è una crisi delle famiglie, dei quartieri, dei corpi intermedi. Quel che si può fare è l’estensione del tempo pieno a scuola a tutte le aree degradate, per questo io farò una proposta per costituire dei pre-riformatori”. Il conduttore Massimo Giannini gli ha chiesto se non fosse il caso di pensare a un abbassamento dell’età minima di punibilità. Il ministro Orlando è stato categorico spiegando che la giustizia minorile funziona, tanto da determinare un calo della recidiva e che sarebbe assurdo fare una proposta del genere, perché non vorrebbe che tra qualche anno “ci trovassimo a discutere se un bambino di 8 anni sia in grado di intendere e volere: ovviamente la risposta sarebbe negativa”. Il ministro Orlando ha inviato una lettera al Presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, e al Sindaco, di Napoli Luigi De Magistris, per un incontro urgente che “possa determinare - si legge nella lettera, sollecitamente la stipula di un Protocollo congiunto che, preveda un vostro diretto coinvolgimento nel reperimento di idonei spazi da mettere a disposizione e la individuazione puntuale delle azioni condivise per la più rapida realizzazione” di Centri diurni polifunzionali. Orlando scrive: “I recenti e gravi fatti accaduti a Napoli e in Campania impongono più che mai una azione concreta e congiunta di tutte le Istituzioni che fornisca risposte immediate ed efficaci. È noto che la violenza, ed ancor più la reiterazione di condotte antisociali gravi, specie se agita da giovanissimi, trae origine, molto spesso, da un tessuto sociale connotato da disgregazione familiare, assenza di modelli educativi, di agenzie di avviamento all’istruzione ed al lavoro e da contesti di particolare deprivazione economica”. Il ministro sottolinea il ruolo dei Centri diurni polifunzionali “nell’ottica della prevenzione e della agevolazione dell’inclusione sociale, ne abbiamo già pienamente operativi due: Nisida, e Santa Maria Capua Vetere, entrambi attivi dal 2016. È inoltre in programma la realizzazione di un terzo centro nella città di Salerno, dove, con l’ausilio degli enti locali territoriali, siamo in attesa di reperire idonea struttura. I Centri Diurni Polifunzionali, come noto, sono strutture minorili non residenziali per l’accoglienza diurna di minori e giovani adulti sottoposti a misure penali nonché di giovani in situazioni di disagio sociale o comunque a rischio di devianza, anche se non sottoposti a procedimento penale”. Il ministro degli Interni Marco Minniti, nel frattempo, ha fatto sapere che aumenterà la sorveglianza del territorio napoletano con l’arrivo 100 unità di forza della polizia: si tratta di un piano chiamato “Sicurezza giovani”. Ma a livello nazionale è davvero in aumento il fenomeno del cosiddetto “baby gang”? In realtà no, ma c’è qualcos’altro. Leggendo la cronaca pare che il fenomeno sia in aumento per quantità delle sue manifestazioni, ma basta consultare i dati del Dipartimento Giustizia Minorile per rendersi conto che il fenomeno baby gang in Italia non aumenta tanto nel numero - anzi diminuisce, ma si modifica per “qualità”. I minori in carico ai servizi residenziali, al 15 dicembre scorso, erano 1.459. Nell’analogo periodo del 2016 erano 1.364. Di questi 1.459, 437 si trovano presso gli istituti penali e 990 presso comunità del privato sociale. Ci sono poi quasi 6.300 minori in carico ai servizi sociali. Di questi, 1.700 si trovano in regime di messa alla prova, che è uno degli strumenti normativi più importanti del diritto penale minorile (esteso anche agli adulti). I soggetti presi in carico per la prima volta dalla giustizia minorile, invece, sono diminuiti dai 5.607 del 2016 ai 5.148 di quest’anno. Cos’è cambiato quindi? La “qualità”. Se i delitti commessi dai minorenni sono complessivamente diminuiti, al loro interno sono aumentati, tra gli altri, proprio gli omicidi: sia tentati (208 contro 191 del 2016), sia consumati (117 contro 96). In crescita anche le violenze sessuali e lo stalking. Il reintegro della baby gang nella società - I dati, quindi, dimostrano che il recupero funziona. La peculiarità del sistema giudiziario minorile è che non si basa sulla mera punizione. Il principio del diritto penale minorile italiano si basa perseguendo sempre il recupero del minore sia con lo strumento della sanzione che con la rinuncia ad essa. Dopo l’arresto in flagranza o il fermo di polizia, inizia a carico del baby gangster il provvedimento giuridico. Durante le indagini preliminari, il Pubblico Ministero decide se il minore debba essere rimesso subito in libertà oppure condotto in un Centro di Prima Accoglienza in cui rimane per il tempo necessario all’autorità giudiziaria per decidere della sua sorte. In caso di imputazioni lievi il minore può anche essere accompagnato presso la propria abitazione o presso Comunità pubbliche, private, associazioni o cooperative riconosciute, che lo ospitano fino all’udienza di convalida. Trascorso questo periodo preliminare, il giudice stabilisce il provvedimento da adottare che può essere: la custodia cautelare (carcerazione), ossia il trasferimento del minore in un Istituto Penale minorile prevista per i reati con pene superiori a 9 anni, giustificata dal pericolo di inquinamento delle prove, di fuga, di reiterazione del reato; il collocamento in Comunità, ovvero l’ affidamento a una comunità pubblica o autorizzata, imponendo eventuali prescrizioni sull’attività di studio o di lavoro per la sua educazione; permanenza in casa, ovvero l’obbligo di rimanere presso l’abitazione familiare o altro luogo di privata dimora con limitazioni o divieti alle facoltà del minore di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono, salvo eccezioni come le esigenze di studio o di lavoro o altre attività educative; sospensione del processo e messa alla prova, ovvero quando il giudice richiede al servizio sociale un progetto di intervento alla fine del quale sarà tratto un bilancio. Se il Tribunale ravvisa un’evoluzione della personalità dell’imputato, dichiara con sentenza l’estinzione del reato. In sostituzione delle pene detentive non superiori ai due anni possono, tuttavia, essere applicate misure di semidetenzione o libertà controllata (liberazione condizionale) o il perdono giudiziale. La proposta di Antigone - La riforma in merito all’esecuzione penale minorile rientra nel testo dei decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario ancora non passati al vaglio del consiglio dei ministri. Una prima parte della riforma dell’ordinamento penitenziario è giunta al parere delle commissioni Giustizia della Camera e a seguire del Senato. Un iter ancora tortuoso e rischia di non rispettare i tempi, per questo, ricordiamo ancora una volta, l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini ha annunciato il suo sciopero della fame a partire dalla mezzanotte del 22 gennaio. L’associazione Antigone ha inviato le sue proposte ai parlamentari, chiedendo al governo e alle Commissioni parlamentari di colmare le parti di legge delega non attuate, quali ad esempio quelle sul diritto alla sessualità e alla affettività, sui diritti delle donne detenute, sui diritti degli stranieri, sul riconoscimento pieno della libertà di culto, sulla eliminazione di pene accessorie vessatorie e stigmatizzanti. “Inoltre - spiega il presidente di Antigone Patrizio Gonnella - è altrettanto importante che sia approvato il decreto legislativo che introduca un nuovo ordinamento penitenziario per i minori”. Proprio su quest’ultimo punto, Antigone, ha recentemente presentato un dossier dove fa emergere che la giustizia minorile italiana è un sistema che funziona e del quale dobbiamo essere fieri in Europa. Riesce realmente, come già spiegato, a residualizzare il carcere e relegarlo a numeri minimi. Tuttavia, il dossier di Antigone sottolinea che in questi numeri ci sono sempre le stesse persone: gli stranieri, i ragazzi più marginali del sud Italia, tutti coloro per i quali la fragilità sociale e l’assenza di legami sul territorio rende difficile trovare percorsi alternativi alla detenzione. “La speranza - aveva spiegato Alessio Scandurra, durante la presentazione del rapporto - è quella che finalmente si scriva un ordinamento penitenziario organico specifico per i minori detenuti, nuove regole che mettano al centro in maniera radicale un progetto educativo e non repressivo e l’apertura al territorio. I ragazzi in carcere non possono essere gestiti con le stesse regole degli adulti”. Baby gang. Il piano di Orlando: “Centri diurni di accoglienza” di Gigi Di Fiore Il Mattino, 19 gennaio 2018 Anche lui crede molto nell’efficacia delle risposte educative. Più maestri di strada, più centri di aggregazione nei singoli quartieri e in più aree di Napoli, in aggiunta alla maggiore efficacia delle repressione. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, dice la sua sull’allarme per l’azione ripetuta di violente bande giovanili. Parla a Radio Capital ed esordisce: “Bisogna trovare strumenti di carattere alternativo e correttivo”. Il ministro pensa ad interventi sul codice per i minori, magari con l’abbassamento dell’età imputabile a sotto i 14 anni? No, anche Andrea Orlando, così come il ministro dell’Interno, Marco Minniti, e il procuratore capo presso il tribunale per i minori di Napoli, Maria De Luzenberger, non pensa sia questo un rimedio efficace e praticabile. E ne spiega la ragione, dal suo punto di vista, con un’immagine-paradosso: “Non vorrei che poi, tra qualche anno, ci si trovasse a discutere se un bambino di otto anni sia capace di intendere e di volere, anche perché la risposta sarebbe ovviamente negativa”. Il sistema di norme della giustizia minorile viene quindi difeso dal ministro Orlando, che punta invece il dito sulle responsabilità delle famiglie. E aggiunge: “Bisognerà trovare il modo di allontanare dalle famiglie i minori che crescono in contesti più difficili”. Questo significa non solo la possibilità, sostenuta dal ministro Minniti, che con regole precise inserite in un protocollo formale si possa togliere la potestà genitoriale a padri e madri coinvolti in inchieste di camorra, ma anche la possibilità di trovare il modo di sottrarre alla strada e alle famiglie i ragazzi a rischio, offrendo loro ipotesi di strutture e progetti educativi. “Servono misure di prevenzione diverse rispetto alla condanna” dice Orlando. E ipotizza sempre più centri polifunzionali, strutture con progetti di impegno ed educazione, dove possono essere indirizzati gli adolescenti. Meno strada e più attività, meno perdita di tempo vuoto da riempire invece con piani che tengano occupati i ragazzi. Aggiunge Orlando: “Il solo eventuale inasprimento della fase repressiva non è sufficiente”. Ed è per questo che il ministro Orlando annuncia che presto chiederà un incontro al sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, e al presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca. L’obiettivo è trovare punti comuni sul tema delle nuove strutture polifunzionali da aprire e avviare sul territorio metropolitano napoletano. Modelli di socialità attiva, che hanno bisogno di figure come educatori, assistenti sociali, maestri. Ma, precisa di nuovo Orlando: “Il problema non riguarda solo Napoli, perché c’è una crisi delle famiglie, dei quartieri, dei corpi intermedi”. E ancora: “Si può pensare all’estensione del tempo pieno a scuola in tutte le aree degradate, con centri che, in un’ottica di prevenzione sociale, possano fare da strutture di formazione preventiva”. Il tema nuovo, stavolta, confermato in più interventi degli ultimi giorni, è un’azione di intervento sociale in aggiunta alla repressione. E non si parla solo, genericamente, di impegno della scuola, ma si va oltre. Anche nella consapevolezza che la scuola, soprattutto in alcune aree difficili, non può più esercitare potere totale di supplenza assegnato a docenti che dovrebbero, insieme, fare da pedagoghi, assistenti sociali, genitori, carabinieri. Ci vuole di più, con differenti figure professionali. Anche il questore di Napoli, Antonio De Iesu, ritorna su questo aspetto. E dice: “Si è firmato a Roma, nelle ultime ore, un progetto del Pon sicurezza al ministero dell’Interno che riguarda il quartiere Sanità di Napoli. Questo progetto consentirà di sperimentare un percorso virtuoso che individua 400 ragazzi più a rischio e accompagnarli, con maestri di strada, fino alla maggiore età, insegnando loro anche un mestiere”. E si tratta della vera novità negli interventi predisposti negli ultimi mesi. Il ministero dell’Interno non si è preoccupato solo di pensare a come potenziare la repressione e la prevenzione affidata alle forze dell’ordine sul territorio ma, di fronte alle baby gang violente, si sta impegnando direttamente ad avviare progetti socio-educativi. Aggiunge, su questo, ancora il questore De Iesu: “Il progetto firmato al ministero è in grado di fornire anche delle competenze professionali ai ragazzi, educandoli al rispetto della legalità. È un piano anche di recupero della dispersione scolastica, che coinvolge circa 160 maestri di strada. Credo sia la via giusta da intraprendere”. La repressione non ha mai fermato la violenza delle bande giovanili di Alberto Abruzzese Il Dubbio, 19 gennaio 2018 Si può chiedere di catturare e incarcerare in una nazione che da sempre ha lasciata irrisolta la condizione disumana in cui vivono la carceri? “Cuore di mamma”: questo il modo di dire che dice tutto quando in campo ci sono i “ragazzini”, siano essi diventati criminali oppure vittime innocenti. L’espressione mi è venuta in mente in questi giorni, quando si sono visti i media martellare sulle baby gang a Napoli e insieme diffondere quel misto di reazioni spontanee e dichiarazioni mirate o posizioni strumentali che continuiamo “chiudere” nel termine sempre più vuoto di “opinione pubblica”. A questi rumors ho sentito partecipare amici che appartengono a quella che si suole chiamare “parte sana” della società, professionisti civilissimi, di ferme convinzioni democratiche e liberali, persone colte e non direttamente implicate in ruoli politici o amministrativi, ma neppure coinvolte in quel genere di responsabilità da opinion leader che sacrifica anche i migliori - poiché il meccanismo è oggettivo, automatico - alle leggi del mercato e alle lobby del potere. Dei pareri di questi amici, pur espressi con autentica passione, sono restato deluso e persino irritato. Mi è parso che essi non riescano a distinguersi, sollevarsi, dal genere di indignazione che, nel passato, ha sempre caratterizzato i “ben pensanti”: cioè i portatori “sani” di una cultura istituzionale (nazione e famiglia) immersa nei valori - seppure dialetticamente, sostanzialmente condivisi - scaturiti dal rapporto storico tra capitalismo e democrazia. La materia delle baby gang è delicatissima, traumatica, ma proprio per questo necessita una riflessione all’altezza dei tempi: ora che alla democrazia dello Stato si sta sostituendo un genere di sovranità mascherata da popolo. Badate bene: siamo costernati dalla barbarie di bande appartenenti a quella che è stata chiamata “età dell’innocenza”. Urta con la nostra coscienza di civilizzati anche se di civilizzati in progressiva regressione, quale ad esempio risulta il nostro investimento emotivo sulla sfera genitoriale piuttosto che nazionale e civile. Civilizzati convinti della nostra civiltà senza pensare che essa è stata ed è tale - cioè civilizzazione - solo grazie al fatto che scarica violenza e morte prevalentemente lontano dai nostri occhi e soprattutto dalla nostra carne: nel tempo (cosa abbiamo fatto) e nello spazio (cosa stiamo facendo). Sino ad oggi, qualunque tesi che giustifica questo nostro rigoroso apparato di rimozioni in nome di una qualche necessità di sopravvivenza locale o episodica, manca di ammettere che l’eccezione coincide con la regola stessa dei processi di socializzazione. Questa è la ragione per cui da qualche tempo ho cominciato a credere che i portatori di forme di sdegno - pur diversamente articolate, come ora è questa indirizzata contro la criminalità infantile - dovrebbero fare “un passo indietro”. Piuttosto che gridare cosa - per arginare il male più male di prima - si debba fare di immediato sul piano poliziesco-istituzionale-giuridico-culturale o che sia, dovrebbero rendersi davvero conto di ciò che dicono. Riflettere nel senso di guardarsi allo specchio. Si tratta - prima ammissione ineludibile - di risanare una ferita sempre esistita tra strati sociali in condizioni di disagio d’ogni tipo, materiale e immateriale, quindi incluse famiglie povere e famiglie ricche, dominate e dominanti, cresciute fuori di ogni controllo civile per la potenza dei propri vari ambienti criminosi, ambienti che non insegnano le mezze o false misure ma l’immediato. E allora proprio chi è così sensibile al disastro dovrebbe pensare a come formare - innanzi tutto dentro se stesso - una consapevolezza radicalmente diversa da quella alla quale noi occidentali siamo stati allevati e cresciuti. Date le oggettive condizioni di disperazione della vita in comune dei popoli, ogni nostra intenzione educativa (siamo, ripeto, ceti colti intermedi tra “plebaglia” e sistema nazionale/globale) dovrebbe sapere immaginarsi che proporre l’emancipazione di esseri umani allo stato brado significa comunque - per quanto azione ritenuta necessaria alla nostra stessa sopravvivenza civile - avviarli ad un regime di vita che sino ad oggi, nella sua lunga durata, ha prodotto l’orrore che ci ripugna e al tempo stesso ha mascherato sapientemente il proprio stesso orrore. Intorno alle baby gang s’è alzato un coro di veementi lamentazioni sulla inefficienza di procedure politiche in grado di sorvegliare e punire: catturare e incarcerare. È questo un buon esempio della contraddizione di pensiero in cui cadono i miei amici di ceto, rinunciando così alla loro prerogativa, che è appunto quella di pensare senza essere immediatamente vincolati a ruoli troppo strumentali. Si può chiedere impunemente che tali misure vengano prese da una nazione che da sempre ha lasciata irrisolta la condizione disumana in cui vivono la carceri? Cinema e serie americane sono da molti anni alla portata di chiunque vi cerchi una evasione dalla propria realtà, dalla propria condizione identitaria, e insieme - oppure di contro - voglia conoscere il mondo “di fuori”. E dunque a quasi tutti, indipendentemente dal ceto socioculturale di appartenenza, dalla nicchia di vita quotidiana che è toccata loro, hanno avuto la costante prova che dovunque - metropoli o periferie o campagne americane, quartieri parigini o londinesi, bidonville brasiliane o africane - la violenza di bande giovanili che infieriscono sul proprio territorio non è mai cessata ad onta di qualsiasi sistema di contenimento o repressione. Ora tuttavia, laddove l’età del criminale si abbassa vertiginosamente, si capisce che aumenti di molto lo scandalo per l’inadempienza e impotenza della legge e dell’educazione. I criteri di valutazione della differenza tra colpa e innocenza arrivano a toccare una soglia inattesa, traumatica (un poco come toccò a Mosè invitato da Dio a sacrificare Isacco). Quegli abissi di solitudine dietro la violenza del branco di Aldo Masullo Il Mattino, 19 gennaio 2018 Il formarsi di bande di ragazzi violenti è, in I tutti i tempi, tipico dei grandi aggregati urbani. In particolare il fenomeno si presenta drammaticamente nelle metropoli moderne. Ma il progressivo sviluppo delle istituzioni liberali prima e liberal-democratiche poi ha sempre più ridotto questa gravissima patologia sociale. A Napoli nelle ultime settimane si sono verificati l’un dopo l’altro episodi molto gravi, che sembrano per la loro frequenza denunciare la comparsa del fenomeno nella sua pienezza. A questo, fino a qualche giorno fa, non si era dato gran peso né dai cittadini, infastiditi piuttosto dalle movide notturne, né dalle pubbliche istituzioni. I cittadini erano finora apparsi indifferenti e le istituzioni disorientate. A un certo punto è scattato l’allarme. Qualche illustre magistrato ha invocato: “Salvate Napoli”. Qualche autorevole esponente della società civile a sua volta ha diffidato: “Il tema della sicurezza urbana non è secondario; magistrati e rappresentanti delle forze dell’ordine ci devono dire come intendono affrontare questa emergenza”. Il Ministro dell’Interno, accorso a Napoli, ha qualificato il fenomeno come “violenza nichilistica, caratterizzata da modalità terroristiche, in quanto colpisce in modo casuale”, e ha annunciato alcune misure urgenti di polizia. Gli interventi giornalistici hanno oscillato tra le consuete spiegazioni sociologiche, ovviamente centrate su camorra, mancanza di lavoro, diserzione scolastica, e i banali richiami alla forza repressiva. Nel giro di pochi giorni, questa scenografia di maniera ha iniziato a frantumarsi. Sono cominciati ad emergere segnali interessanti. La madre, professoressa universitaria, di un tranquillo ragazzo aggredito in pieno centro da una banda di ragazzini, ha sottolineato la responsabilità dei genitori, perché “non capiscono la gravità di certe azioni”, e si è impegnata per un movimento civico di mamme: “Ci salveranno le mamme, quelle buone e pure quelle cattive”. Assieme alle numerose testimonianze apparse sul “Mattino”, anche “Repubblica” è tornata ieri sull’argomento intervistando un “giovane boss”. Qui si tratta non di rimettere in campo generiche conoscenze sociologiche o psicologiche, ma di ascoltare e cercare di capire questi adolescenti che non in genere ma oggi qui, a Napoli, fanno qual che fanno. Mai come in questo caso cade a proposito il celebre ammonimento, caro a Marco Pannella: “conoscere per deliberare”. L’intervista è rivolta non ad un ragazzino, ma ad uno, che solo qualche anno fa lo è stato, ed è ben presto finito rapinatore, condannato e ancora sotto vari processi. Da ciò che, con la calma della nuova consapevolezza, egli risponde emergono con limpidezza alcuni elementi assai istruttivi. Primo. Lino, come è chiamato il diciannovenne, non è figlio di boss camorrista, ma di modesti e onesti commercianti. Il che contraddice la banalità socio-deterministica dell’ambiente familiare. A quanto si è appurato, molti di questi ragazzini terribili sono figli di famiglie borghesi. Certo ognuna di queste famiglie avrà una sua storia, in cui magari potrebbe ritrovarsi qualche situazione che ha favorito lo sbandamento. Ma resta in ogni modo esclusa la facile spiegazione dell’ambiente socio-familiare criminale o miserabile. Secondo. S’impone la noia del non far nulla, dopo non aver combinato nulla a scuola. Sul piano soggettivo, l’invenzione della violenza senza alcun fine predatorio è la risposta al vuoto. In gruppo, tutti di 14 o 15 anni, ci si diverte a dare fastidio, sicuri dell’impunità, perché si tratta solo di “bravate”. Sul piano oggettivo, è evidente l’inadeguatezza della scuola, incapace a coinvolgere i ragazzi in avvincenti percorsi di apprendimento e di responsabilizzazione innanzitutto verso se stessi. Sicché i giovanissimi finiscono per né imparare né lavorare, ma stare tutto il giorno “in mezzo alla strada”. E se “si sta in mezzo alla strada”, dice Lino, non si capisce più quando si è varcato il limite tra la bravata e l’azione criminale. Si fuma, ci si droga, si è tentati dal denaro, si diventa rapaci. Terzo. Alla domanda finale sul perché facesse quel che faceva, la risposta di Lino è impressionante: “Ero il più piccolo di tre fratelli e i miei genitori già facevano sacrifici per tutti”. Cioè non si curavano particolarmente di lui. “Mi sentivo poco considerato, un dimenticato”. Qui irrompe un segnale fortissimo: la solitudine. Questo è il peccato mortale della nostra società. Qui non si fa differenza tra le classi. In basso, nel mezzo, in alto, si è tutti soli, perché ognuno avverte che di lui a nessuno importa. Si è tutti, ad ogni età, esposti all’indifferenza pubblica, perché ad ogni tua sofferta richiesta risponde una voce meccanica, quando risponde, e quasi mai al tuo tono. Ma si è anche esposti all’indifferenza privata, perché perfino un padre o una madre o sono impigliati nei cento quotidiani problemi da risolvere o si sono votati con ammirevole intransigenza all’esclusiva cura di se stessi, motu proprio esonerati da qualsiasi responsabilità. Di qui occorre ripartire. Ci s’impegni innanzitutto nella cura delle persone. Se si vuole arginare un fenomeno come quello delle bande di ragazzini, si cominci con l’interrogare questi giovanissimi, conoscerne le difficoltà, comprenderne i bisogni profondi. La stessa repressione pur è necessaria, ma nei limiti in cui vale a mostrare all’individuo deviante l’interesse per la sua sorte e ad insegnargli che ogni desiderio ha un inevitabile limite, non solo e non tanto nella legge, quanto nella ben più dura realtà delle cose. Si tratta di un’occasione esemplare forse per promuovere la riduzione dell’indifferenza, di cui nella nostra società si nutrono tutte le solitudini. Napoli appare spesso come la città in cui si sta tutti insieme, stretti in folla. Ma si tratta in fondo di una maschera, sotto cui si nascondono indifferenza e solitudine vere. Le bande di ragazzini ne sono un drammatico sintomo. Sulla strage di Ustica ancora troppi misteri di Daria Bonfietti Il Manifesto, 19 gennaio 2018 Facciamo il punto. L’anno si è chiuso con un servizio televisivo sulla Strage di Ustica e martedì le Associazioni delle Vittime del Terrorismo hanno denunciato i limiti dell’attuazione della Direttiva Renzi che doveva rendere pubblica tutta la documentazione sui terribili avvenimenti della nostra storia più recente. I due “episodi” hanno un clamoroso punto in comune: il programma televisivo mette in risalto un’intensa attività aerea supportata da una grande presenza di navi nel Tirreno. Segnalo che di presenza di navi si è ampiamente avuto sentore nel corso delle indagini. Invece nella documentazione “offerta” dalla Marina Militare c’è un clamoroso buco proprio nel periodo che più attiene alla Strage di Ustica. Possiamo dire che se nell’immediatezza dell’evento si era fatto credere il cielo completamento vuoto, oggi, per la documentazione che sono tenuti a tenere i Militari, anche il mare è vuoto! Nei fatti abbiamo avuto alla fine del 2017 con il programma televisivo su La 7 di Andrea Purgatori una testimonianza che ci dà una versione dell’ultimo atto della tragedia di Ustica: aerei americani che si alzano dalla portaerei Saratoga contro voli di aerei libici, particolarmente nemici in quel periodo, che si trovavano sul Tirreno. Intanto questa ricostruzione ha il merito di riportare l’attenzione sulla Strage di Ustica - e non dobbiamo mai smettere di ringraziare Andrea Purgatori e con lui la stampa e l’informazione tutta per questo impegno indefesso per la verità, anche quando attorno alla vicenda si perde un poco di mordente. Poi bisogna tener presente che la ricostruzione che il testimone americano ci offre è ben inseribile in un quadro generale conosciuto, ma forse non chiarito fino in fondo: nella notte della tragedia gli avieri in servizio hanno parlato di aerei americani attorno al DC9, di una presenza di una portaerei. Abbiamo avuto notizia di telefonate concitate e fuori di ogni consuetudine all’ambasciata americana, fino ad una riunione d’emergenza, inspiegabile, sempre nella notte della tragedia, proprio all’ambasciata americana, (ricordiamo sempre che si trattava di un volo di linea interna italiana e senza nessun cittadino americano a bordo). Poi hanno sempre destato perplessità i movimenti mai chiariti della Saratoga nel porto di Napoli e nemmeno la sua copertura radar nella notte. Abbandonata a radar spenti nella notte per non turbare le trasmissione televisive dei napoletani!? Questo dissero al magistrato! Il teste ci parla di due aerei libici abbattuti. Ben sappiamo che i Mig passavano sui nostri cieli “indisturbati” con l’assenso italiano per recarsi in Jugoslavia e ricordiamo che quando Jalloud viene in Italia ufficialmente, come ministro degli esteri libico denuncerà proprio l’abbattimento di due Mig nella notte della tragedia e recentemente, un ricercatore dell’Associazione, ha trovato una annotazione sull’ abbattimento di due Mig in documentazione legata al Quirinale. Mentre ricordiamo che la “vulgata” ha sempre parlato per lo più di un solo Mig, pensando poi a quello ritrovato sulla Sila. Dunque il Servizio televisivo di fine anno, al di là della sua completa veridicità, deve proporci un ulteriore impegno per la verità nel nuovo anno. Bisogna che la magistratura, che è proprio impegnata a mettere a fuoco, disveli la totale verità sugli ultimi attimi della tragedia, ritorni con ulteriori approfondimenti sul panorama indicato e si sforzi di superare le ombre che sono già emerse in passato. È chiaro che il grande ostacolo che si oppone alla completa verità viene, come sempre in questa vicenda dalla mancanza di documentazione militare. Ma più nello specifico ora, dopo le distruzioni nazionali, la documentazione è in possesso anche di apparati militari di altri Stati. È dunque la volontà politica che deve diventare protagonista: è l’esecutivo - questo e il prossimo governo - che deve intraprendere una convinta e incisiva azione diplomatica con Paesi amici ed alleati per una piena e leale collaborazione con la nostra magistratura che al momento ha avuto risposte alle rogatorie evasive, o completamente nulle. Ma anche sul piano nazionale, nei riguardi delle varie amministrazioni si deve porre in atto un’azione determinata per la totale messa a disposizione di ogni tipo di documentazione. E gli esiti della applicazione della Direttiva Renzi, come ho già segnalato, dimostrano quanto lavoro deve ancora essere fatto proprio nel nostro Paese. Guerra tra pm. E Marcello Dell’Utri resta dentro Il Tempo, 19 gennaio 2018 Palermo solleva il conflitto di attribuzione con Caltanissetta. Il giudice rinvia tutto all’8 marzo. E le condizioni del fondatore di FI peggiorano. Marcello Dell’Utri resta in carcere. Almeno per ora. Stavolta, però, a “fermare” la possibile scarcerazione dell’ex senatore, detenuto nel carcere di Rebibbia nonostante le sue gravissime condizioni di salute, è stata la decisione della Procura generale di Palermo che ieri, prima che la Corte d’Appello di Caltanissetta si pronunciasse sulla sospensione della pena chiesta il 22 dicembre scorso dalla procura generale nissena, ha sollevato un conflitto di attribuzione che ha indotto il giudice a non decidere e rinviare il tutto all’8 marzo. Un tempo comunque lunghissimo per un uomo con un tumore non curato e gravi patologie cardiache. L’obiezione della procura generale palermitana retta da Roberto Scarpinato si basa sul presupposto che ci sia un conflitto fra l’istanza di revisione del processo a Dell’Utri (quella sulla quale la procura generale nissena si è espressa chiedendo la sospensione della pena) e l’incidente di esecuzione che pende davanti alla Corte d’Appello di Palermo con il quale gli avvocati difensori dell’ex senatore hanno chiesto l’applicazione anche al loro assistito del verdetto della Corte Europea dei diritti dell’uomo sull’ex superpoliziotto Bruno Contrada. La conseguenza è stata che la Corte d’appello di Palermo, di fronte al conflitto denunciato dalla procura generale, ha trasmesso gli atti alla Corte di Cassazione, che adesso si dovrà pronunciare sul fatto che a decidere su Dell’Utri debba essere la Corte d’Appello di Palermo stessa, esprimendosi sull’incidente di esecuzione, o quella di Caltanissetta, che deve decidere sulla revisione del processo. Sulla tenuità il Gip può sollecitare la verifica del Pm di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 gennaio 2018 Corte di cassazione, informazione provvisoria 18 gennaio 2018, n. 2. Niente ricorso in Cassazione, contro il provvedimento, non abnorme, con il quale il Gip restituisce gli atti con la richiesta di condanna, affinché il Pm valuti la possibilità di archiviare per la particolare tenuità del fatto. Le Sezioni unite, affidano ad un’informazione provvisoria, diffusa ieri, la decisione adottata in merito alla abnormità o meno dell’iniziativa del Gip. Il chiarimento era stato sollecitato dalla quarta sezione penale con un’ordinanza (n.55020) del 23 novembre scorso, in presenza di un contrasto sul punto. La sezione remittente si era trovata a decidere sul ricorso del Pubblico ministero contro la decisione del Gip di rimettere la palla nel suo campo, per valutare la non punibilità prevista dall’articolo 131-bis del Codice penale. Secondo la pubblica accusa l’atto del Gip era abnorme, perché aveva oltrepassato i limiti entro i quali è consentito all’organo giudicante di “rigettare” la richiesta del decreto penale di condanna, invadendo, indebitamente, la sfera di autonomia del Pm in tema di esercizio dell’azione penale. Una tesi che aveva trovato concorde il Pg della Cassazione. Sulla stessa linea si era mossa la Cassazione con la sentenza 15272 del 2017. Secondo l’indirizzo più restrittivo le sole ipotesi in cui l’ordinamento prevede espressamente la possibilità di restituire gli atti al Pm in seguito a richiesta di decreto penale di condanna (articolo 459, comma 3 del Codice di procedura penale) sono relative ai profili di legittimità del rito, alla qualificazione giuridica del fatto o all’idoneità e all’adeguatezza della pena con riferimento al caso concreto. Ma a fronte dell’indirizzo “negazionista”, c’è anche una scuola di pensiero opposta, alla quale hanno aderito le Sezioni unite con la decisione di ieri, e che ha avuto il supporto anche della sezione remittente. Per i giudici “possibilisti” il provvedimento del Gip può essere considerato abnorme solo se è fondato esclusivamente su ragioni di opportunità. Secondo questo orientamento il rigetto della richiesta di condanna è un atto previsto dal codice di rito e dunque corretto, dal punto di vista strutturale, visto che trova un riscontro proprio nell’articolo 459, comma 3. Né si può dire che l’atto crei una situazione di stallo del processo, perché l’organo inquirente può rinnovare la richiesta, dopo la verifica “suggerita”, o comunque promuovere l’azione penale con un decreto di citazione. In particolare, per quanto riguarda la valutazione della sussistenza o meno della causa di non punibilità, non si può parlare di provvedimento fondato solo su ragioni di opportunità. Il Gip si limita, infatti, a sollecitare il Pm sulla possibilità di archiviare in relazione ad un reato per il quale la causa di non punibilità è ipotizzabile, almeno in astratto. Per conoscere le motivazioni delle Sezioni unite sarà necessario attendere il deposito della sentenza. Antiriciclaggio, dai giudici il principio del favor rei di Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 19 gennaio 2018 A distanza di quasi sei mesi dall’entrata in vigore del Dlgs 90/2017 che recepisce delle IV Direttiva antiriciclaggio, si cominciano a definire i primi orientamenti giurisprudenziali in ordine alla portata applicativa delle nuove norme. Sono infatti state emesse alcune sentenze di primo grado che applicano le sanzioni più favorevoli ai soggetti vigilati, in particolare alle banche ed ai loro dirigenti e dipendenti. In questo contesto si inserisce il recente provvedimento, ottenuto dallo studio Ristuccia Tufarelli, con il quale il Tribunale di Roma il 6 gennaio 2018 ha sospeso l’efficacia esecutiva di un decreto con il quale il Mef irrogava a una banca una pesante sanzione per violazione della normativa antiriciclaggio. Nel motivare il provvedimento di sospensione, il giudice si richiama alla norma del nuovo testo antiriciclaggio (articolo 69) che, nel disciplinare la successione di leggi nel tempo, espressamente prevede l’applicazione del principio del favor rei in base al quale, per le violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore del nuovo decreto, sanzionate in via amministrativa, si applica la legge vigente all’epoca della commessa violazione, se più favorevole. Ne risulta confermata l’operatività del principio della retroattività della legge più favorevole al sanzionato (lex mitior). Tale principio era stato richiamato prima nella relazione illustrativa del Governo al decreto, poi dalla circolare applicativa della Guardia di finanza e anche da quella del Mef sul regime e le procedure sanzionatorie. In questo senso anche la dottrina si era già espressa. L’applicazione di tale principio presuppone che una medesima condotta sia prevista come illecita e sia sanzionata sia dalla legge in vigore al momento del fatto, sia dalla successiva ma con un regime sanzionatorio differente. Condizioni, queste, presenti nel caso sottoposto alla cognizione del giudice capitolino e che potrebbero portare ad un dimezzamento della sanzione irrogata. C’è da attendersi che questo provvedimento giudiziario sia destinato a costituire un importante precedente soprattutto in considerazione del fatto che anche dopo la riforma i giudizi di opposizione al decreto sanzionatorio adottato dal Mef restano assoggettati alla giurisdizione del giudice ordinario individuato in via esclusiva proprio nel Tribunale di Roma. Sarà interessante seguire gli ulteriori sviluppi in considerazione della difesa ministeriale, che invece sostiene la non applicabilità della sanzione più favorevole ai procedimenti definiti con decreto di condanna. Tale tesi si giustifica, secondo il ministero, in quanto, essendo il decreto di condanna immediatamente esecutivo, il sanzionato normalmente procede al pagamento e quindi il ministero sarebbe costretto a restituire quanto incassato in violazione del principio di invarianza finanziaria. Probabilmente la questione è tutt’altro che risolta ed assisteremo a impugnazioni di queste decisioni e provvedimenti da parte del Mef, anche se il principio generale è chiaro: si applica sempre il principio della legge più favorevole quando un u decreto o un’ordinanza di condanna sono impugnati poiché sono considerati provvedimenti non definitivi. Lettera a un giovane detenuto di Giancarlo Capozzoli (Regista teatrale e scrittore) huffingtonpost.it, 19 gennaio 2018 Tutte le volte che vado via dopo aver incontrare le persone recluse, ho un senso di smarrimento. Ogni volta che vado via dopo aver visto uno spettacolo all’interno dell’istituto allo smarrimento si aggiunge una certa malinconia. Io torno alla vita, quella vera, il traffico del rientro dopo una giornata di lavoro, gli squilli del telefono lasciato spento fuori, i messaggi, l’agenda che si riempie d’impegni e nuovi appuntamenti, i progetti che crescono, le aspettative. La voglia e la possibilità immediata di sentire la mia famiglia. Il desiderio di un po’ di tranquilla solitudine a casa per raccogliere le idee e ricominciare. Preparare una cena semplice e buona. La scelta delle cose da fare e non fare. Un po’ di solita routine. Nel teatro interno del carcere di Rebibbia è andato in scena uno spettacolo semplice. Uno spettacolo scritto diretto e interpretato da Luigi Giannelli. Io lo chiamo ispettore, perché non conosco troppo bene i gradi delle gerarchie militari della polizia penitenziaria. Uno spettacolo messo in scena da lui assieme al suo piccolo gruppo di detenuti-attori-amici. Amici tra di loro e con lui anche. Pochi attori cinque in tutto, in scena. A leggere bene tra le righe e con attenzione si scopre già una novità importante. E la semplicità si fa complessità. Detenuti e guardie assieme in scena che giocano a fare teatro. Detenuti e un ispettore addirittura. Assieme. Assieme. È una bella parola, che abbatte i muri. Tempo fa avevo fatto una chiacchierata con un direttore di carcere, che per primo aveva tentato questo esperimento di far lavorare assieme a teatro detenuti e guardie, assistenti, proprio con lo scopo di abbattere questo muro di diffidenza. E in parte gli è riuscito. Ma appunto era una novità. Determinante. Questo lavorare assieme non è scontato, anzi è frutto di quella riforma (mai del tutto attuata concretamente) del sistema penitenziario che è stato un primo passo fondamentale nella direzione dell’abbattimento della diffidenza, quella diffidenza che resiste al e resiste ancora tra gli uni e gli altri. Guardie e ladri. Lo spettacolo è stata un’esperienza semplice come la semplicità del suo curatore. Niente di troppo intellettualisticamente complicato, complesso. Eppure non c’è nulla di semplice nel mettere in scena la propria semplicità, l’immediatezza dei rapporti umani, soprattutto in un contesto come questo, dove i ruoli non si possono e non si devono confondere. Le divise da una parte, i reati dall’altra. Ma il teatro li ha confusi e li ha avvicinati. Il teatro dell’ispettore Giannelli voglio dire. Il suo merito è proprio questo. Oltre alla sua straordinaria sensibilità umana e la sua apertura verso questo mondo. Il merito umano politico culturale allora è questo tentativo reale concreto fattivo di realizzare quel principio semplice e fondamentale sancito dalla Costituzione nell’Art. 27: le pene devono tendere alla rieducazione. E l’ispettore ci crede e ci ha creduto in questo compito rieducativo, anche con la divisa addosso. Lo dice, lo legge, lo recita (in scena) in queste parole dette ad un giovane detenuto. Lettera a un giovane detenuto, appunto. Mi trovo a riflettere che sarebbe più semplice da parte sua (dell’ispettore intendo) svolgere questo suo compito senza il coinvolgimento emotivo che invece lo spinge a cercare di migliorare la condizione di vita dei detenuti stessi, e a cercare di fargli prendere consapevolezza della loro condizione esistenziale. Lo spettacolo inizia con l’arresto di un ragazzo. Uno vestito da guardia cammina strattonando un altro fermato con degli schiavettoni, con le manette ai polsi. Sembra una scena già vista in tanti film. Ma la verità si disvela immeritamente. Il ragazzo è un ragazzo, semplicemente. In questa semplicità c’è una rivoluzione di pensiero. Un ribaltamento di senso. Il ragazzo è un ragazzo, non un criminale. Non troppo tempo fa, a un convegno nel mio paese di origine, nel Salernitano, a Teggiano, a un convegno sul carcere, un uomo che ha dedicato la sua vita alla amministrazione della giustizia tra le altre cose ha parlato ad un certo punto, di “essenza del criminale”. Filosoficamente parlando è una banalità, ma tant’è. È in questo contesto che opera la rivoluzione silenziosa dell’ispettore in questione. L’uomo ragazzo inscenato è posto di fronte a un bivio fondamentale della sua esistenza, della sua vita. Lo aspettano anni giorni mesi di condivisione forzata con altri che come lui hanno commesso altri reati. Lo aspetta un periodo di privazione della libertà. Degli affetti, della sessualità. Di una vita semplicemente libera. Di lontananza. Di solitudini. Di assenze. Di attese. Di lacrime. Il ragazzo inscenato è un nuovo Pinocchio. Ha la semplicità della fiaba di Pinocchio. Si lascia illudere, si è lasciato illudere dai balocchi immediati di una società che lo vuole costantemente avido dei suoi beni esposti in vetrine. Si lascia tentare, mente sapendo di mentire. Mente a se stesso. Diventa inautentico. A sé, ai principi, a quei valori essenziali con cui ogni uomo in quanto uomo viene al mondo, a quei valori che ci co-appartengono in quanto uomini. Le parole che l’uomo ispettore gli getta addosso lo mettono di fronte alla responsabilità di ciò che ha fatto, ma anche di fronte alla inautenticità del suo vissuto e del vivere recluso che gli si apre davanti. Questo piccolo spettacolo ci conduce all’interno di questo mondo, come con una piccola lampada a olio ci svela gli angoli più bui e nascosti non solo dell’animo, ma del carcere e della vita stessa all’interno del carcere. E pone inevitabilmente una questione sulla utilità stessa di un istituto come il carcere. Se non è rieducativo perde di conseguenza, la sua stessa natura, perde cioè, quella essenza che i padri costituenti hanno immaginato nel redigere la legge fondamentale del nostro Stato democratico, la Costituzione. I tanti Pinocchi in scena si confondono. Lucifero stesso sembra un pinocchio sbagliato. Detenuti e personaggi si confondono, diventano, sono la stessa cosa. Si confondono e ci confondono, mentre su un grande schermo alle loro spalle vengono proiettate immagini in bianco e nero della vita detentiva. Uomini che salutano dietro alle sbarre, in tuta, trasandati, con sorrisi forzati, intenti a svolgere qualche cosa. Preparano il caffè, il pranzo, mentre si intravede la cella squallida, le brande miserevoli. Il carcere nella sua essenza più intima. Mi ha colpito l’alternanza con queste immagini in bianco e nero del carcere e quelle a colori di panorami esotici, di paradisi reali, di mari al tramonto. Di cieli e nuvole. Mi ha colpito ben oltre la retorica stessa della libertà. Mi ha colpito perché ho pensato al ragazzino del film di Truffaut, I 400 colpi, quando, dopo essere scappato dall’istituto, nella carrellata del finale, corre corre corre fino a bagnarsi i piedi in quel mare che non avevo mai visto, mai sentito prima. Il mare si sente con tutti i sensi. Ha un profumo, ha una voce delle onde, ha un sapore, ha un’estensione. La privazione della libertà è anche privazione di questi sensi. Prima di parlare retoricamente di carcere e detenuti bisognerebbe riflettere su questo ogni volta, sempre e di nuovo. Sono questi nuovi Pinocchi che ognuno di noi, spettatori ignari, si porterà dietro, dentro, quando, varcata la porta carraia del carcere, torna alla vita quotidiana. “Meglio qui che in cella”, è il regalo che la semplicità di questo ispettore ha regalato ai suoi ragazzi. Campania: 4 milioni di euro per la formazione professionale dei detenuti rtalive.it, 19 gennaio 2018 Sul Burc è stato pubblicato l’avviso pubblico per il finanziamento di corsi di formazione destinati ai detenuti, adulti e minori della Regione Campania. “L’avviso - annuncia l’Assessore Regionale alla Formazione ed alle Pari Opportunità Chiara Marciani- con una dotazione di 4 milioni, prevede percorsi orientati al conseguimento delle qualifiche professionali, con la possibilità di certificare le competenze. Un utile strumento di inclusione e riqualificazione”. In linea con le strategie europee e nazionali in materia di apprendimento permanente, la Regione Campania intende realizzare percorsi formativi per l’inclusione sociale e lavorativa dei detenuti. L’obiettivo è, dunque, favorire il riconoscimento, l’acquisizione e l’implementazione delle competenze dei destinatari, al fine di rafforzarne le condizioni di occupabilità futura. Il processo formativo, in linea con la D.G.R. n. 314/2016, è basato sull’individuazione, validazione e riconoscimento delle esperienze pregresse nei contesti di apprendimento formali, non formali ed informali, nonché sulla certificazione delle competenze acquisite. L’impianto metodologico nasce in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - Provveditorato Regionale della Campania ed il Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità - Centro per la Giustizia Minorile per la Campania, anche nell’ottica di utilizzare il tempo della pena come un investimento sociale. L’attività è realizzata attraverso lo strumento di un “Catalogo di percorsi formativi per l’inclusione socio-lavorativa dei detenuti”, articolato in due sezioni, una contenente i percorsi rivolti a detenuti in carico presso gli Istituti minorili e l’altra contenente percorsi rivolti a detenuti in carico presso gli Istituti penitenziari per adulti. Le risorse finanziarie disponibili per la realizzazione dei percorsi formativi sono pari complessivamente ad €. 4.000.000,00, a valere sul Por Campania Fse 2014-2020, Asse II, Obiettivo Specifico 7, Azione 9.2.2, di cui €. 2.000.000,00 destinati ai detenuti minori e €.2.000.000,00 destinati ai detenuti adulti. Marche: detenuti impegnati nell’agricoltura, cresce l’esperienza dell’orto sociale in carcere cronachefermane.it, 19 gennaio 2018 È stato firmato oggi dalla vicepresidente della Giunta regionale il protocollo d’intesa tra la Regione Marche e il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria Emilia Romagna - Marche, presente il Provveditore Enrico Sbriglia, relativo alla formazione e all’inserimento lavorativo di detenuti o ex detenuti nel settore agricolo. L’intesa rientra nell’ambito delle attività di agricoltura sociale che promuove la multifunzionalità dell’azienda agricola e coinvolge le attività svolte con gli orti scolastici, la longevità attiva e gli istituti penitenziari. Regione e Provveditorato collaboreranno a un percorso riabilitativo, di inclusione e assistenza, realizzato attraverso l’apprendimento professionale delle pratiche agro forestali con il supporto tecnico dell’Assam e il tutoraggio di Coldiretti. Viene triplicata l’esperienza “Orto sociale in carcere” avviata nel 2014 presso la Casa di reclusione di Ancona Barcaglione estesa, ora, alle carceri di Ancona Montacuto e Ascoli Piceno. La Regione organizzerà le attività di formazione, garantendo l’assistenza tecnica e il supporto didattico, in collaborazione con l’Assam (Agenzia regionale per i servizi agricoli). Il Provveditorato individuerà i beneficiari del programma di qualificazione professionale e metterà a disposizione le strutture necessarie. Ad Ancona “Barcaglione” si privilegeranno le attività legate all’olivicoltura, al vivaismo e alla produzione di birra artigianale; ad Ancona “Montacuto” si curerà un indirizzo didattico rivolto alla viticoltura; ad Ascoli Piceno si valorizzerà la frutticoltura e l’olivicoltura. Calabria: il Consiglio regionale approva legge sul Garante dei diritti dei detenuti lametino.it, 19 gennaio 2018 La Regione Calabria si dota della figura del Garante regionale per i diritti delle persone detenute o private della libertà personale. La relativa legge, frutto della sintesi di due distinte proposte di legge presentate rispettivamente, dal Presidente del Consiglio, Nicola Irto (Pd), e da Franco Sergio (Oliverio Presidente), è stata approvata all’unanimità dall’Assemblea di Palazzo Campanella con l’autorizzazione al coordinamento formale). “Una legge - ha spiegato Sergio - che è il risultato di un approfondito e proficuo lavoro svolto dalla prima Commissione. Quella del Garante è una figura di mediazione, dotata di autorevolezza istituzionale volta a migliorare le condizioni di detenzione dei detenuti. La Calabria era tra le poche Regioni italiane a non essersi ancora dotata di una legge e di questa figura istituzionale, che nei suoi 13 articoli si presenta perfettamente aderente con il dettato Costituzionale”. Valutazioni positive e soddisfazione sono state espresse dai rappresentati di tutti i gruppi politici. Wanda Ferro (Misto) ha evidenziato “l’atto di sensibilità del Consiglio sull’istituzione del Garante, nonostante si arrivi in ritardo rispetto alle altre regioni”. La Ferro ha, però, proposto di inserire nella legge uno specifico richiamo ed attenzione anche per i minori “che sono presi in carico dal sistema penitenziario minorile”. Dionisio Gallo (Cdl) ha auspicato un’immediata operatività di questa figura, “tanto necessaria - ha detto - per la realtà delle condizioni in cui sono ristretti i detenuti in diversi istituti penitenziari della Calabria, dove sarebbe necessario prevedere anche il Garante per gli operatori e gli agenti della Polizia penitenziaria, che vivono spesse le stesse difficoltà e gli stessi disagi delle persone recluse”. Nel ricordare che “le situazioni di vivibilità delle carceri devono essere ispirate al valore etico della stessa vita” e “le situazioni igienico-sanitarie che hanno portato in qualche caso a riscontrare la presenza di gravi patologie tra i detenuti”, il capogruppo di Forza Italia, Alessandro Nicolò, ha parlato del Garante come “una figura di alto profilo, che possa garantire non solo i detenuti, ma anche gli operatori che a vario titolo lavorano nelle carceri”. Arturo Bova (Democratici Progressisti) ha parlato di “questione di civiltà. Credo - ha affermato Bova - che la situazione degli operatori e degli agenti della Polizia penitenziaria si potrà migliorare se miglioreranno le condizioni di accoglienza dei detenuti. É questa una finalità di questa legge, che dà piena attuazione all’art. 27 della Costituzione”. Nell’esprimere “assoluta soddisfazione” per l’approvazione della legge, Francesco Cannizzaro (Cdl) l’ha definita “la vittoria di una battaglia di civiltà che da oggi la Regione Calabria potrà sventolare con orgoglio. Auspico - ha concluso Cannizzaro - che ci sia speditezza nella pubblicazione del Bando per la scelta di chi dovrà ricoprire questo delicato ed importante incarico”. Considerazioni simili hanno espresso anche Domenico Bevacqua e Seby Romeo, entrambi del Pd. Il primo ha evidenziato “l’unità di vedute dell’intero Consiglio regionale. É giusto che la nostra istituzione si doti di una figura così importante per un contesto difficile come quello delle carceri”. Romeo, da parte sua, ha assicurato che il Garante “sarà sicuramente una figura di assoluto livello istituzionale e sensibilità personale”, ed ha invitato l’Aula ad accogliere l’appello di Wanda Ferro “per una migliore specificazione riguardante anche i detenuti minori”. Avellino: sciopero della fame dei detenuti del carcere di Bellizzi di Andrea Fantucchio ottopagine.it, 19 gennaio 2018 Chiedono che sia accelerato l’iter previsto nella “Riforma Orlando” per i provvedimenti che riguardano i penitenziari. Sciopero della fame e della spesa da parte dei detenuti del carcere di Bellizzi. Hanno deciso di protestare per spingere il Governo ad accelerare l’iter previsto nella “Riforma Orlando” destinata ai penitenziari. La mobilitazione si riferisce soprattutto alle misure alternative al carcere per ridurre il sovraffollamento. Per quanto riguarda il potenziamento delle cure e del trattamento dedicato ai detenuti. Chiedono inoltre che sia data maggiore attenzione all’iter relativo al reinserimento sociale del detenuto così da arginare il fenomeno della recidiva. Pongono l’attenzione anche sulle misure sanitarie che riguardano la detenzione in carcere. Troppi i casi di malasanità segnalati dietro le sbarre in tutta Italia. Non fa eccezione l’Irpinia dove alcuni episodi hanno fatto discutere e tanto sulla qualità del trattamento riservato ai detenuti. Casi come quello del 30enne morto in carcere dopo l’arresto avvenuto alla vigilia di Natale, passando per il 68enne di Taurano deceduto per un tumore che a detta della famiglia non è stato curato dietro le sbarre. Un caso, quest’ultimo, del tutto simile a quello di Biagio Cava, il boss di Quindici morto perché un cancro al cervello gli sarebbe stato diagnosticato con un anno di ritardo. Una protesta che fa inevitabilmente scalpore e che tanto farà discutere. Una manifestazione che si somma alle altre che a periodi alterni hanno mobilitato le carceri di tutta Italia. “Chiediamo quindi ai nostri governanti e alle nostre istituzioni tutte che, per l’ennesima volta, non lascino morire la speranza che un domani si possano avere forme di detenzione più giuste, più umane e soprattutto meno degradanti”, questa parte di una nota dei detenuti che sarà presto inviata alla direzione del carcere. Aversa (Ce): il Garante dei detenuti visita l’ex Opg “presto nuovi corsi di formazione” Il Mattino, 19 gennaio 2018 Il Garante Regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, ieri si è recato presso la Casa di Reclusione di Aversa, dove insieme alla direttrice Carlotta Giaquinto ha visitato l’istituto, incontrando i reclusi e consegnando loro la guida sui: “Diritti e Doveri dei detenuti”, promossa dal Garante in collaborazione con la Camera Penale di Napoli. Dalla visita è emerso che la maggior parte dei detenuti lamenta la poca presenza della magistratura di sorveglianza. Attualmente sono ristretti nell’istituto 210 persone, con possibilità complessiva di circa 270 detenuti. Sono in corso lavori di ristrutturazione per l’apertura di altri reparti. La struttura, ha riferito il Garante, ha un ampio spazio da poter utilizzare per svolgere diverse attività socio-ricreative, ludico e lavorative da aggiungere a quelle già presenti in struttura come: l’orto, dal quale derivano diversi prodotti quali fave, verza, broccoli, finocchi, cavoli e fragole, ed il percorso scolastico di scuola secondaria. Ciambriello ha dichiarato: “Io credo realmente che l’istituto abbia grandi potenzialità per poter mettere in campo attività per una “giusta detenzione”, per la media sicurezza, offrendo così ai detenuti un reale percorso rieducativo e di reinserimento lavorativo. Ho comunicato ai detenuti la possibilità di ricevere dal garante un’implementazione ludico-sportiva nelle aree di socialità e che a breve partiranno dei corsi di formazione professionale promossi dalla Regione Campania”. Monza: inaugurato uno spazio famiglia nell’area colloqui del carcere di Rosella Redaelli Corriere della Sera, 19 gennaio 2018 Un appartamento con l’angolo cottura, un tavolo per mangiare, un piccolo soggiorno con il divano, uno scaffale pieno di giochi e un bagno privato. L’obiettivo: offrire ai padri detenuti un luogo accogliente e intimo dove incontrare i figli e ritrovare la quotidianità. C’è l’angolo cottura, un bel tavolo per mangiare in famiglia, un piccolo soggiorno con il divano, uno scaffale pieno di giochi, un bagno privato. Il nuovo “spazio famiglia”, inaugurato all’interno dell’area colloqui del carcere di Monza, ha tutto l’aspetto di una vera casa, se non fosse per le sbarre alle finestre, mascherate da tende bianche. Il progetto è stato ideato e finanziato dal Club Soroptimist International di Monza con l’obiettivo di offrire ai padri detenuti un luogo accogliente e intimo dove incontrare i figli e ritrovare la quotidianità dei gesti familiari. “Il nostro Club - spiega la presidente Tiziana Fedeli - ha tra gli obiettivi la tutela dei diritti umani e dei minori e vorremmo che questo progetto aiutasse proprio i minori a liberarsi da quel disagio e da quella sofferenza che la visita ad un genitore in carcere può causare. Allo stesso modo vuole essere un aiuto ai padri per ritrovare l’intimità degli affetti e la possibilità di cucinare un pasto con i propri cari, in un ambiente pensato per loro”. La ristrutturazione - Gli stessi detenuti hanno partecipato attivamente alla ristrutturazione dei trenta metri quadri: “Abbiamo demolito, imbiancato - spiega kadri che prima dell’arresto lavorava in un’impresa di costruzioni - poi abbiamo montato i mobili e reso più bello l’ambiente anche con i quadri dei nostri laboratori artistici”. Tra i primi che potranno utilizzare lo spazio famiglia c’è Ersi, 30 anni, albanese: “Sono stato arrestato quando mia figlia aveva 45 giorni - dice - ora ha tre anni e non vedo l’ora di giocare con le e mangiare qui insieme a lei e mia moglie. Sto seguendo anche un corso sulla genitorialità perché voglio imparare ad essere un buon padre”. Per l’uso del nuovo ambiente sarà anche necessaria qualche modifica al regolamento: “La legge prevede 6 ore di colloqui al mese - spiega la direttrice Maria Pittaniello - oltre a due ore extra per chi ha figli minori. Faremo in modo che i colloqui non siano più solo di un’ora per permettere di poter vivere al meglio questo ambiente che volutamente non ha la televisione perché vorremmo che qui i detenuti riscoprissero il mestiere di padre, giocassero con i figli e li aiutassero anche nei compiti”. Catania: carcere e società, un’occasione di confronto e dialogo globusmagazine.it, 19 gennaio 2018 Firmata una convenzione tra Rotary Club “Catania Etna Centenario” e il carcere di Bicocca. Professionisti e imprenditori incontreranno i detenuti in regime di alta sicurezza per mettere in relazione le rispettive esperienze. Professionisti e imprenditori incontreranno detenuti in regime di alta sicurezza per mettere in relazione le rispettive esperienze. È questo il cuore del “Progetto carcere”, una convenzione stipulata tra il Rotary Club “Catania Etna Centenario” e l’istituto penitenziario di Bicocca. L’obiettivo finale è quello di non considerare il carcere come un luogo lontano dalla città e avviare percorsi di riavvicinamento e continuo dialogo. “Crediamo che questa, grazie al contributo della società, sia una via per la riabilitazione dei detenuti”, afferma Yolanda Medina Diaz, presidente del “Catania Etna Centenario”. A lei fa eco Giovanni Rizza, direttore dal 1997 del penitenziario etneo. “Spesso si avverte una condizione di distacco, di distanza dal resto della città. Bicocca viene considerata l’estrema periferia di Catania - continua - Pensare al carcere è considerato quasi inutile. In realtà così non è”. La Casa circondariale di Bicocca ospita in media 240 tra imputati e condannati per reati gravi. Il “Progetto carcere” ha preso il via a novembre e prevede due incontri al mese con medici, avvocati, docenti, imprenditori. “Questi professionisti parlano della propria esperienza e si confrontano con i detenuti - descrive Giovanni Rizza - Nascono dei dialoghi interessanti, non necessariamente legati a temi come quello della giustizia e c’è un forte interesse da parte dei partecipanti”. Secondo il dirigente, “l’iniziativa del Rotary, con persone che si mettono in gioco in prima persona, ha un impatto molto forte”. Alla base della convenzione c’è la volontà di ampliare quella rete che dovrebbe circondare e sostenere il mondo carcerario. Un reticolo formato sì da forze dell’ordine e servizi sociali, ma anche da elementi che possano diventare un’opportunità di crescita e reintegro per le persone che poi terminano il percorso detentivo. “La riabilitazione e la rieducazione sono delle cose complesse”, riflette Rizza. “L’esperienza ci ha fatto capire che la formazione lavorativa concreta su certuni ha creato delle opportunità una volta fuori”. Si tratta di casi numericamente ridotti, riconosce il dirigente, “ma esistono. Si possono creare delle opzioni, si possono ottenere dei risultati”. Torino: convegno su misure di sicurezza e disagio psichiatrico in carcere torinoggi.it, 19 gennaio 2018 “Nel mezzo di una riforma possibile - Il nuovo ruolo delle Amministrazioni sanitaria e penitenziaria e della società civile all’avanguardia in Europa” è il titolo del convegno che si è svolto il 18 gennaio all’Auditorium Vivaldi della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino. All’incontro - organizzato con il contributo del Consiglio e della Giunta regionale del Piemonte e moderato dal Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale - sono intervenuti l’ordinario di diritto penale dell’Università di Torino Marco Pelissero, presidente della Commissione ministeriale incaricata di redigere lo schema di decreto legislativo sulle modifiche alla disciplina delle misure di sicurezza e assistenza sanitaria, il coordinatore nazionale dei garanti regionali e territoriali Franco Corleone, la componente del Comitato nazionale di Bioetica Grazia Zuffa e il presidente del Comitato nazionale StopOpg Stefano Cecconi. Un’occasione per riflettere pubblicamente su una riforma che, dopo anni di attesa che hanno visto gli Stati generali sull’esecuzione della pena, può portare l’Italia all’avanguardia in Europa. Un percorso partito oltre dieci anni fa con la Commissione d’indagine del Senato sugli Ospedali psichiatrici giudiziari e sull’esecuzione penale per le persone malate, e quindi riconosciute non responsabili, ma colpevoli di reato. La costruzione delle Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza (Rems) e delle articolazioni psichiatriche dentro le carceri - è stata opinione comune dei relatori - rappresentano senza dubbio un’opportunità e una sfida da cogliere che richiedono un’attenzione nuova alla società e agli enti locali per dare corpo e gambe a una riforma che sarebbe un passo indietro di civiltà non realizzare. Il convegno ha anche rappresentato l’occasione, per il direttore della Biblioteca Guglielmo Bartoletti, per annunciare la proroga dell’esposizione, fino a mercoledì 31 gennaio, delle mostre di disegni “I volti dell’alienazione” di Roberto Sambonet e di fotografie “Nocchier che non seconda vento” di Max Ferrero, incentrate entrambe sul tema del disagio psichiatrico dietro le sbarre, visitabili in Sala Classica dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 18 e il sabato dalle 10 alle 13. Teramo: carcere e repressione, se ne parla in un incontro pubblico certastampa.it, 19 gennaio 2018 Sabato 20 gennaio presso il Laboratorio Politico Gagarin 61, in via Nazario Sauro n.52, si svolgerà dalle 18 in poi un importante incontro pubblico per parlare di carcere e repressione. “Avremo il piacere di ospitare dalla Val Susa Nicoletta Dosio, attivista politica e volto della lotta No Tav, destinataria di una serie di provvedimenti e simbolo della lotta contro le ingiustizie. Da Torino ci raggiungerà Angela Giordano, autrice del libro “Non ho visto niente”, che ci racconterà come l’esser No Tav comporti il licenziamento dal posto di lavoro. Davide Rosci, ex detenuto e compagno teramano, coinvolto nel processo per gli scontri di piazza del 15 ottobre 2011 di Roma per la prima volta parlerà in pubblico della sua esperienza detentiva; infine l’avvocato penalista viterbese Leonardo Pompili illustrerà alcuni aspetti del Decreto Minniti. Questa giornata vuole aprire una breccia nelle menti di coloro che parteciperanno e mettere alla luce le contraddizioni che esistono attorno al tema carcerario, in primis. Se è vero infatti che da una parte i reati diminuiscono, è altrettanto vero che il senso di insicurezza aumenta. Ad arte si sta alimentando un clima di paura che spesso non ha senso di essere. Non sarà tuttavia nostra prerogativa restare sul generico, vogliamo al contrario far parlare i protagonisti delle storie di ordinaria repressione e aprire con loro un dibattito su come contrastare e combattere lo Stato di Polizia con cui sempre più spesso ci troviamo a fare i conti. Marco Cappato: nella mia mail una richiesta al giorno per morire con dignità di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 19 gennaio 2018 Il leader dell’Associazione Luca Coscioni, sotto processo per il suicidio assistito in Svizzera al Dj Fabo, parla del suo rapporto con i malati terminali. Marco Cappato, come mai non si è candidato alle elezioni? “Per il processo che ho in corso”. Non poteva candidarsi? “Non mi sono informato se potevo o no. Ho ritenuto opportuno non farlo. Non è un processo di disobbedienza civile sulle droghe. Qui c’è di mezzo la morte di una persona. Mi impegnerò comunque nella campagna elettorale per la lista “+Europa” di Emma Bonino”. Il processo di cui parla è quello per il suicidio assistito in Svizzera a Dj Fabo. Mercoledì la requisitoria del pm è stata molto favorevole a lei... “Aspettiamo la sentenza, non è soltanto una questione di assoluzione. Vediamo se la sentenza accoglie la ragione costituzionale posta dal pm. Sarebbe molto importante per l’Italia”. E lei che ragioni ha avuto nell’aiutare Dj Fabo a morire? “Le ragioni che ho ad occuparmi ogni giorno di gente che desidera morire”. Ogni giorno? “Negli ultimi due anni, da quando ho pubblicizzato la mia disobbedienza civile, ogni giorno ho ricevuto almeno una mail da persone che mi chiedono come possono morire con dignità”. Praticamente un lavoro? “Il mio impegno come leader dell’Associazione Luca Coscioni”. Che è cominciato quando? “La prima persona che ho aiutato a morire è stato Piero Welby, nel 2006. Lui voleva l’eutanasia, noi l’abbiamo convinto a percorrere la via del diritto”. E della morte di Michele Gesualdi, cosa pensa? “Il suo intervento sul bio-testamento è stato molto importante per smontare quella finta contrapposizione tra laici e cattolici sul fine vita che a qualcuno piace poter coltivare”. Diceva che Welby invece avrebbe voluto l’eutanasia... “A casa di Welby erano pronti due medici del Belgio con una pozione eutanasica. E avremmo seguito le leggi del Belgio a casa Welby se Mario Riccio non fosse riuscito a trovargli la vena per la sedazione profonda. Le sue vene erano tutte sfilacciate. Ce lo aveva chiesto Piero, che era deciso. E non solo”. Cos’altro? “Piero Welby era molto ironico. Avevo un senso dell’umorismo spiccato, che ho ritrovato sempre nelle persone che ho accompagnato in una morte dignitosa”. Ironia? Umorismo? “Sì. Il giorno che gli è stata fatta la sedazione profonda, Piero Welby mi ha detto: “Sono un po’ nervoso oggi, è la prima volta che muoio”. Non è stato l’unico”. Che vuol dire che non è stato l’unico? “Beh, c’è anche Walter Piludu, il suo caso è famoso perché sono stati i giudici ad imporre alla Asl di sospendergli le terapie. Era allettato, ma quando l’ho chiamato per chiedergli se avessi potuto fargli visita, lui mi ha risposto: “Guarda Marco a parte il tennis e una partitina a golf”. Anche Dj Fabo è stato ironico fino all’ultimo? “Beh, sì. Era programmato che sarebbe morto dopo una mezz’oretta, e si stava mangiando uno yogurt. Mi ha detto: “Ehi Marco questo yogurt svizzero è proprio buono, se non muoio me lo porto a Milano”. Ma perché quest’ironia? “Credo derivi da una consapevolezza e da una determinazione piena. Per me è diventata un criterio per decidere se aiutare le persone”. Un criterio? “Si, quando mi cercano persone particolarmente afflitte che vogliono morire perché sono sole e disperate, io consiglio di rivolgersi a uno psichiatra. Non mi do da fare per una morte dignitosa. Ecco a cosa servirebbe la legalizzazione dell’eutanasia”. A cosa? “A prevenire tanti suicidi come quelli che ho appena descritto, di malati terminali o di depressi”. Human Rights Watch: resistere al populismo è efficace di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 19 gennaio 2018 Rapporto annuale presentato a Parigi. Un invito a resistere contro la derive xenofobe e razziste. Allarme sugli accordi con la Libia. “I diritti umani possono essere protetti di fronte alla sfida del populismo”, gli avvenimenti del 2017 “hanno mostrato quanto sia importante reagire contro la minaccia rappresentata dai demagoghi” e quando i movimenti cittadini scendono in campo si puo’ creare un argine e invertire la deriva. Inaspettatamente, proprio quando quest’anno si celebra il 70esimo anniversario della Dichiarazione dei diritti umani, l’organizzazione Human Rights Watch (Hrw) diffonde un messaggio di speranza: si può e di deve “resistere”, ha affermato il presidente Kenneth Roth, che ieri ha presentato a Parigi il 28esimo Rapporto annuale sulla situazione dei diritti umani (sono esaminati 90 paesi). Negli Usa, “la politica di Donald Trump ha suscitato una forte reazione di resistenza da parte di organizzazioni popolari, di gruppi di difesa dei diritti civili, di giornalisti, avvocati, giudici e persino di politici dello stesso partito di Trump”. Invece, dove c’è stata una forte repressione o dove “l’inquietudine internazionale non si è manifestata vigorosamente”, come in Turchia, in Egitto o in Cina, “le forze ostili ai diritti umani sono prosperate”. In occidente in particolare, “i demagoghi si sono serviti degli sconvolgimenti e delle ineguaglianze economiche causate dalla mondializzazione e dai progressi tecnologici, della paura del cambiamento culturale in un mondo sempre più in movimento e della minaccia di attacchi terroristici, per alimentare xenofobia e islamofobia”, ha spiegato Roth. Hrw quest’anno ha scelto Parigi per presentare il Rapporto annuale per rendere omaggio alla campagna elettorale di Emmanuel Macron, che ha affrontato l’estrema destra senza cedere, mentre in altri paesi - Hrw per l’Europa cita l’Austria e l’Olanda - “i dirigenti di partiti di centro-destra hanno fatto campagna su posizioni xenofobe”. Hrw non è accecata da Macron, anzi, l’organizzazione è all’origine della denuncia contro il comportamento della polizia a Calais, che ha messo in luce la distruzione dei pochi averi dei migranti (coperte, tende): “adesso la sfida è che Emmanuel Macron governi in conformità con i principi che ha difeso”, ha avvertito Roth. Ma Hrw individua nella politica di Macron di aprire dei canali per l’asilo dai paesi africani, un tentativo di evitare di seguire la scelta dell’Italia, poi seguita dalla Ue, di scaricare sulla Libia la responsabilità di tenere sotto controllo i flussi migratori, “esponendo così le persone a violazioni dei diritti umani”. Per Hrw, “l’Ue ha proseguito nella strategia del contenimento in cooperazione con le autorità libiche, malgrado le prove schiaccianti di brutalità regolari e diffuse contro i richiedenti asilo e altri migranti”. Hrw ricorda che la Libia non ha firmato la Convenzione sui rifugiati e non riconosce il diritto d’asilo. Hrw sottolinea anche che l’Italia, “appoggiata dalle istituzioni europee”, ha imposto alle Ong un codice di condotta che mira a delegittimare il loro lavoro, addirittura a “criminalizzarlo”. Il parlamento norvegese vuole rimandare i richiedenti asilo afgani in mezzo alla guerra di Riccardo Noury Corriere della Sera, 19 gennaio 2018 Ieri è stato un giorno triste per i richiedenti asilo afgani che vivono in Norvegia e per i difensori dei diritti umani: i parlamentari di uno dei paesi più ricchi al mondo hanno mostrato di aver perso compassione. Il parlamento di Oslo ha infatti respinto una proposta di sospensione temporanea dei rimpatri dei richiedenti asilo afgani e un’altra, persino più modesta, che aumentava il numero dei criteri da soddisfare prima di decidere di rinviare una persona nel paese dal quale era fuggita. Se approvata, questa proposta avrebbe avvicinato la procedura norvegese agli standard internazionali. Invece, siano nel pieno di una clamorosa violazione dei diritti umani. L’Afghanistan rimane un paese estremamente pericoloso. Il numero delle vittime civili ha raggiunto livelli record nel 2017. Neanche un mese fa una bomba nel centro di Kabul ha ucciso almeno 40 persone in quello che è apparso un attacco deliberato contro gli studenti. Nonostante gli attentati, i rapimenti e le varie persecuzioni, la Norvegia, sia in rapporto alla sua popolazione che in termini assoluti, rimpatria più afgani di ogni altro paese europeo. Secondo le autorità di Kabul, il 32 per cento (97 su 304) degli afgani rimpatriati nei primi quattro mesi del 2017 proveniva dalla Norvegia. Secondo Eurostat, la Norvegia ha rimpatriato in Afghanistan 760 persone nel 2016 e 172 nei primi sei mesi del 2017. In un rapporto dello scorso anno Amnesty International ha denunciato casi di afgani rimpatriati dai paesi europei, Norvegia compresa, che sono stati uccisi o feriti in attentati o che vivono nel costante timore di subire persecuzioni. Tra gli afgani su cui la decisione del Parlamento rischia di produrre conseguenze c’è Taibeh Abbasi (in primo piano nella foto), una ragazza di 18 anni residente nella città di Trondheim, il cui caso ha dato vita a grandi proteste studentesche. Taibeh è nata in Iran e non ha mai visto l’Afghanistan, dove ora ha il terrore di essere rinviata. Lo scorso ottobre, durante una manifestazione in suo favore, ha preso la parola per la prima volta in pubblico: “Non c’è un futuro per me e i miei fratelli in Afghanistan. Subiremo discriminazione e proveremo sulla nostra pelle cosa vuol dire essere una minoranza a rischio, soprattutto io che sono una donna. I miei sogni di terminare gli studi e avere una professione saranno distrutti. Droghe. La cannabis della discordia sta trainando l’economia Usa di Marzio G. Mian Il Giornale, 19 gennaio 2018 Una nuvola di fumo s’aggira su Washington, il “fattore marijuana” potrebbe sballare gli equilibri nell’Amministrazione, negli schieramenti e nel rapporto tra governo federale e stati, soprattutto quegli otto che hanno legalizzato l’erba a uso ricreativo, ultimo arrivato la California, che oltre a essere il più esteso degli Stati Uniti è il paradiso artificiale mondiale, giro d’affari sui 10 miliardi di dollari l’anno. Dollari appunto, e come da tradizione non puzzano. In questi giorni è uscita una ricerca di una prestigiosa agenzia indipendente, New Frontier Data, secondo cui la legalizzazione della cannabis in tutti gli stati porterebbe entrate fiscali per 132 miliardi di dollari e oltre un milione di posti di lavoro nei prossimi dieci anni. Viceversa, secondo una recente proiezione del Bureau of Labour Statistics, entro il 2024 l’industria americana è destinata a perdere 814 mila posti di lavoro, il terziario circa 50mila e il settore pubblico altri 380 mila. “In sostanza quello della marijuana al momento è l’unico driver economico, un’irrinunciabile risorsa di capitali e occupazione”, dice al Giornale Giadha Aguirre De Carcer, fondatore di New Frontier Data. Sono già 29 gli stati che hanno legalizzato la cannabis per uso medico o ricreativo, proliferano le aziende che la coltivano, la lavorano, la smerciano, è in pieno sviluppo un indotto che va dall’università, all’industria meccanica, al marketing, alla finanza. Per il Colorado, ad esempio, quella della canna è ormai un’economia consolidata e cruciale quanto il mais nell’Iowa. Resta tuttavia ancora un mondo semiclandestino, nel senso che è un mercato schizofrenico: anche se legale in molti stati, deve però sottostare alle leggi federali di segno opposto, dalle norme antidroga a quelle dell’antiriciclaggio, basti pensare che un simile giro di miliardi è quasi tutto cash, perché il sistema bancario vieta l’apertura di conti legati al business dell’erba. In questo contesto è quindi arrivato come una bomba politica il contrordine del ministro della Giustizia Jeff Sessions: con un colpo di spugna ha cancellato le garanzie legislative dell’Amministrazione Obama un accordo di “non interferenza” che ha favorito la legalizzazione della cannabis in molti stati - e ha invece fornito un nuovo quadro giuridico ai procuratori per consentire loro di applicare la legge federale ovunque, magari nell’ambito della lotta al crimine organizzato. “Rifiuto l’idea che l’America possa diventare un posto migliore se si vende marijuana in ogni angolo del Paese. A me fa schifo quasi quanto l’eroina”, ha detto quando ha diffuso il provvedimento. In teoria l’erba potrebbe tornare fuorilegge anche in quegli stati dove è ormai un asset economico e dove, anzi, stanno progettando un maggiore sviluppo e una totale regolamentazione. Sembrerebbe una decisione ultraconservatrice, presa per compiacere la linea del presidente. Invece le cose sono più complicate. Intanto i rapporti tra Trump e Sessions sono ai minimi da quando il ministro aveva deciso di astenersi dalle indagini sul Russiagate dopo il licenziamento di James Comey, scelta che ha di fatto imposto il procuratore speciale Mueller a capo dell’inchiesta. Molti repubblicani fedeli a Trump spingono perché Sessions lasci l’incarico, soprattutto ora che il Russiagate si sta pericolosamente avvicinando alla famiglia presidenziale, sperando che a sostituirlo venga chiamato il fidato Rudolph Giuliani. Infatti i maggiori sostenitori di Sessions (sul fronte giudiziario) sono paradossalmente i democratici e il ministro è stato l’unico escluso dal vertice ristretto convocato da Trump a Camp David per decidere le strategie per le elezioni di medio termine di quest’anno. Ecco che allora l’offensiva proibizionista del General Attorney sulla marijuana viene letta come una manovra per mettere ulteriormente in difficoltà Trump, il quale in campagna elettorale aveva giudicato la questione “di esclusiva pertinenza degli Stati”, che è poi una dottrina decentralista tradizionalmente repubblicana. “Difficilmente i procuratori approfitteranno del via libera di Sessions”, dice Lewis Kosti, consulente di molte aziende legate alla cannabis economy in Colorado, “perché se vogliono essere rieletti non si metteranno contro il vasto consenso bipartisan che la liberalizzazione incontra in stati come il mio”. Tuttavia le ripercussioni saranno enormi: “Verranno bloccati gli investimenti e tutto il settore sarà paralizzato da questa scelta scellerata in attesa di sviluppi. Si teme il crackdown alla prima inchiesta federale della Dea”. In Colorado i numeri sono da grande industria. Quasi un miliardo e mezzo di dollari di entrate fiscali l’anno, di cui 617 milioni rimangono nelle casse dello Stato che reinveste le tasse prodotte dall’erba in nuove scuole, nuove assunzioni nelle forze dell’ordine e case popolari. Sono circa 50mila le aziende legate al business della cannabis e potrebbero vedere andare in malora anni di lavoro e centinaia di milioni di investimenti per stare nelle regole. “Aziende consolidate e quotate come la mia, una delle più importanti a livello nazionale nella produzione di marijuana per uso medico, rischia la chiusura o la clandestinità”, dice Andy Williams amministratore delegato di Medicine Man Denver, che il giorno dell’annuncio di Sessions ha perso quasi il 50 per cento in borsa. Williams offre tuttavia anche altri scenari: “In un certo senso siamo più forti dell’industria delle armi, perché il sostegno politico è trasversale e nessun presidente può accettare di perdere entrate che possono contribuire massicciamente a sanare il deficit federale. La decisione di Sessions avrà una ripercussione enorme nelle elezioni di medio termine, ecco perché Trump lo caccerà molto presto”. E ci sarà un benefico effetto-Sessions che, secondo Williams, potrebbe addirittura portare a un confronto nel Congresso e a una totale legalizzazione in tutti gli Stati: “Bisogna tener presente che non è più questione ideologica, ma solo economica. Tra i maggiori investitori del settore ci sono molti sostenitori di Trump, come Todd Mitchem oppure Morgan Paxhie della Poseidon Asset Management, la più grande compagnia di consulenza nella cannabis economy”. Non si tratta di figli dei figli dei fiori, di reduci hippie dalle comuni, ma di una nuova generazione di coltivatori professionisti, concentrati in distretti industriali, come accade alla periferia nord di Denver, detta anche “weed valley”, controllata da una selva di telecamere a circuito chiuso. Qui si accumulano letteralmente montagne di dollari, che però le banche rifiutano per non correre rischi poiché le transazioni di denaro prodotto dalla marijuana, esattamente come quello derivato dallo spaccio della cocaina, sono soggette alle leggi federali antiriciclaggio anche negli stati cannabis-free. Costringendo così gli imprenditori a stivare sacchi di denaro nelle loro aziende, oppure a circolare con borsoni in cuoio gonfi di verdoni e fabbricati ad hoc in Messico, dove hanno esperienza in questo genere di necessità. Un’eccezione che sta facendo scuola è una piccola banca fuorilegge proprio nel distretto a Nord di Denver, la Safe Harbor Private Banking, “porto sicuro” appunto per i paperoni della “maria”, terrorizzati dai rapinatori: un miliardo di dollari di depositi solo nel 2017, per ogni centomila dollari circa 500 di commissioni per la banca. Siccome l’erba del vicino fa sempre gola, stavano per aprire una filiale anche nella confinante California appena entrata nel club degli Stati “liberati”, poi è arrivato Torquemada Sessions e il piano è andato in fumo.