Riforma penitenziaria. Ci sono più luci che ombre, in un contesto non facile di Renato Balduzzi Avvenire, 18 gennaio 2018 “Giustizia ed esecuzione della pena: luci e ombre di una legislatura” è il tema con il quale l’Associazione Vittorio Bachelet ha dato avvio per il 2018 agli ormai consueti “Martedì” presso il Csm. Il tema del carcere e della funzione della pena è tema sempre attuale. Proprio in questi giorni il Governo ha trasmesso alle Camere, per l’espressione del parere da parte delle Commissioni giustizia e bilancio, lo schema di decreto legislativo attuativo della legge 103 del 2017, recante modifiche all’ordinamento penitenziario. Avendo il ministro della Giustizia richiesto all’organo di governo autonomo della magistratura, ai sensi di legge, di esprimere a sua volta un parere su tali modifiche, il seminario Bachelet è risultato di attualità rafforzata. Il pomeriggio al Csm ha fatto risuonare temi cari a questa rubrica; il collegamento tra politiche penitenziarie e politiche sociali; la pena detentiva come extrema ratio, la giustizia riparativa, la magistratura di sorveglianza come garante della flessibilità e della personalizzazione della pena e del relativo trattamento. Notevole la convergenza, da parte di coloro che hanno preso la parola, sulla valutazione positiva, sia pur con diverse gradazioni, del contenuto delle modifiche e del loro spirito complessivo: ciò vale per i due relatori, i professori Giovanni Maria Flick e Marco Ruotolo, per gli interventi dei consiglieri Csm Paola Balducci e Piergiorgio Morosini come per quelli di Mario D’Onofrio (procuratore della Repubblica presso il tribunale di Alessandria), del Vicepresidente Giovanni Legnini e di Giulio Romano (procura generale Cassazione). Il seminario è stato occasione per riaffermare che le disposizioni costituzionali sulle pene, anche e soprattutto nell’interpretazione che ne ha dato la giurisprudenza costituzionale a partire dalla fondamentale sentenza 313 del 1990 (relatore Ettore Gallo), sono incentrate sulla finalità rieducativa, la quale ha una portata assai ampia ed estesa poiché si impone non solo ai giudici dell’esecuzione e della sorveglianza, oltre che alle autorità penitenziarie, ma altresì al giudice della cognizione, cioè al magistrato che deve deciderle con le note conseguenze in tema di proporzionalità. La portata innovativa del principio si impone anche e soprattutto al legislatore e le norme contenute nello schema di decreto legislativo sono parse andare nel solco della Costituzione. Più luci che ombre, dunque, nonostante il contesto attuale non facile. Anzi, come ha affermato chi scrive, anche le ombre sembrano attenuazioni di luce, quasi anticipazioni ancora incompiute di quella luce che la Costituzione irradia anche su questi temi. Monza e Venezia: dove l’affettività sta per diventare una realtà di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 gennaio 2018 Nell’istituto lombardo è stato inaugurato un monolocale per favorire i rapporti tra detenuti e famiglie. In quello veneziano è stato avviata la ristrutturazione dell’area verde nel chiostro. In attesa che il decreto delegato della riforma penitenziaria arrivi in consiglio dei ministri. Il decreto delegato sull’affettività ancora non è passato al vaglio del Consiglio dei ministri, ma alcune carceri si stanno già attrezzando. In realtà, l’affettività, anche se non è stato ancora approvato definitivamente il nuovo ordinamento penitenziario, è un diritto già garantito. L’ordinamento penitenziario del 1975, nel rispetto dei principi e dei diritti costituzionalmente garantiti, assegna infatti grande rilevanza al mantenimento delle relazioni familiari. La famiglia è presente nell’ordinamento penitenziario soprattutto come “soggetto verso cui il detenuto ha diritto di rapportarsi”, e in questo senso è come risorsa nel percorso di reinserimento sociale del reo, tanto che i rapporti con la famiglia sono uno degli elementi del trattamento individuati dall’art. 15 dell’Ordinamento Penitenziario. Alcune carceri, grazie all’iniziativa di alcuni direttori, cercano di favorire il più possibile questa relazione. Ad esempio lunedì pomeriggio è stato inaugurato al carcere di Monza uno spazio realizzato nella sala colloqui che ha lo scopo di favorire i rapporti tra i detenuti e le loro famiglie e far rivivere la quotidianità. Quello che è stato creato nella casa circondariale per volontà del direttore Maria Pitaniello, il Provveditorato Regionale e il ministero della Giustizia, con il finanziamento di Soroptimist International d’Italia Club di Monza, è un monolocale arredato con tanto di cucina, living, spazi privati, costruito all’interno dello spazio riservato agli incontri di chi è in carcere con i propri figli, moglie o genitori. Chiamato “Spazio famiglia” è in realtà un mini appartamento dove ciascun detenuto potrà cucinare il pranzo, man- giare con la propria compagna e i bimbi, seguirli negli studi, leggere loro favole e libri, giocare e quant’altro. E questo anche nel rispetto dei diritti dei piccoli, i figli, di incontrare il padre in uno spazio più confortevole e più intimo di una normale sala colloqui. I lavori di ristrutturazione e la posa degli impianti sono stati eseguiti dagli stessi detenuti e dagli agenti del nucleo di Polizia penitenziaria che si occupa della manutenzione dell’istituto. In realtà lo “Spazio - famiglia” si affianca alla ludoteca, in funzione all’interno dell’istituto di Monza già dal 1997: un’area gestita in collaborazione con i volontari del Telefono azzurro, dove i detenuti possono giocare con i propri bambini, e dove vengono realizzate feste a tema per i bambini. Altro progetto, appena firmato, è quello riguardante il carcere veneziano di “Santa Maria Maggiore”. Un progetto che vede il lavoro come aspetto primario, ma che è inquadrato nel rapporto tra padri detenuti e figli. L’iniziativa è dell’associazione “La Gabbianella e altri animali” e il progetto non a caso si chiama “Lavorare per i propri figli” e ha come obiettivo la riattivazione dell’area verde all’interno del chiostro del carcere di Santa Maria Maggiore per farne un luogo adatto agli incontri tra i detenuti e i loro figli. Il lavoro necessario alla riattivazione dovrebbe essere svolto, anche in accordo con chi si occupa della manutenzione ordinaria dell’Istituto, dai detenuti sotto la guida di artigiani dell’associazione Artigiani Venezia - Confartigianato e di un architetto, Athos Calafati, capace di orientare gli stessi sia nel senso della necessaria sicurezza che della ricerca dell’armonia estetica. Un progetto importante, anche perché in quel carcere le famiglie dei detenuti incontrano i loro congiunti in uno spazio ristrettissimo e dove non esiste uno spazio per giocare insieme ai bimbi. Il progetto veneziano ha come peculiarità il binomio lavoro- figli. Sì, perché i detenuti dovranno apprendere dagli artigiani e dall’architetto a fare i lavori a regola d’arte, sia per accogliere i figli in un ambiente favorevole al dialogo, sia per poter ricevere un attestato che certifichi la loro abilità come muratori, pittori, elettricisti e per la capacità di mostrare e smontare le impalcature. Utile quindi a mantenere l’affettività e nello stesso tempo imparare un mestiere che gli servirà per trovare lavoro una volta scontata la pena. Così la recidiva si abbassa e il legame con la famiglia, nel frattempo, non si recide. Ma tutti questi progetti avranno un senso maggiore se verranno approvati i decreti che puntano al rafforzamento dell’effettività, dando più permessi e più giorni di incontro con i famigliari. Anche per fare pressione su quest’ultimo punto, ricordiamo, l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini - ex coordinatrice del tavolo di lavoro sull’affettività promosso dagli scorsi Stati generali per l’esecuzione penale - ha annunciato uno sciopero della fame a partire dalla mezzanotte del 22 gennaio. In cella, ma al telefono. Boom di sequestri di cellulari e schede di Davide Lessi La Stampa, 18 gennaio 2018 Il ministero della Giustizia: nel 2017 trovate 337 sim. La Francia decide di farli installare in ogni cella. In tutto il 2017 è di 337 il numero totale di cellulari e sim ritrovati nei 190 istituti italiani. Quasi due per ogni carcere. Con un aumento del 58,22 per cento rispetto al 2016 (quando i cellulari e/o sim rinvenuti furono 213). Un fenomeno che emerge negli stessi giorni in cui, in Francia, il presidente Macron dà il via libera a quella che Le Monde ha definito una “véritable révolution” (una “vera rivoluzione”): la legge per installare i telefoni fissi nelle 50 mila celle delle 178 prigioni del Paese. La révolution - “Anche i francesi hanno registrato negli ultimi anni un boom di sequestri di cellulari nelle loro carceri”, sottolinea il garante nazionale per i detenuti Mauro Palma commentando l’iniziativa d’oltralpe. E chiarisce: “Guardando a questo fenomeno, però, occorre fare una distinzione: da un lato c’è chi vuole comunicare con l’esterno per continuare a delinquere, dall’altro chi vuole tutelare i propri affetti famigliari”. Per garantire la sicurezza, la nuova normativa francese prevede che ogni detenuto potrà telefonare a un massimo di quattro numeri, intestati ad altrettanti destinatari, dopo l’identificazione degli stessi e il via libera dell’autorità. L’iniziativa, promossa dalla ministra della Giustizia francese Nicole Belloubet, vuole “favorire il mantenimento delle relazioni familiari considerate un fattore essenziale per il reinserimento ed evitare una delle principali fonti di tensioni all’interno delle carceri: il traffico di telefoni cellulari”. La normativa italiana - L’Italia intanto resta ferma a un regolamento di esecuzione datato 1976 (e poi rivisto nel 2000, 18 anni fa): ogni detenuto di media sicurezza ha a disposizione dieci minuti di telefonata a settimana verso un singolo destinatario. Nel testo della riforma dell’ordinamento penitenziario, da oggi all’esame delle Camere, è stata respinta la richiesta di allungare a 20 minuti il colloquio telefonico. “Una bocciatura senza senso e anti-storica”, commenta Rita Bernardini, l’ex deputata radicale che ha già annunciato di voler riprendere l’iniziativa non violenta dello sciopero della fame proprio per la “totale assenza nei decreti delle norme sull’affettività in carcere”. Le associazioni - “Dieci minuti sono una mostruosità: non ci sono giustificazioni né tecniche né di sicurezza per rimanere fermi a questa legge anacronistica”, rincara Alessio Scandurra che guida l’Osservatorio sulle carceri di Antigone, l’associazione per la tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale. “A meno che l’autorità non disponga diversamente - spiega ancora Scandurra - tutti i detenuti hanno il diritto di scrivere lettere a chi vogliono e la loro corrispondenza, in entrata e in uscita, è segreta. Per quale ragione allora, nel 2018, dobbiamo limitare così tanto le chiamate a casa?”. Ma non è solo una questione di telefoni. Nelle 78 visite ai penitenziari effettuate da Antigone nel corso del 2017 è emerso che non sempre i colloqui con i famigliari sono facili e garantiti: “Spesso sono ammessi solo al mattino e in alcuni istituti neppure nel weekend. Così - conclude - si tranciano i legami essenziali dei detenuti”. Noi che siamo cresciuti da soli di Stella Pende Grazia, 18 gennaio 2018 Li chiamano orfani di femminicidio. Sono i ragazzi che sopravvivono quando una madre viene uccisa dal compagno e che restano senza nulla. Ora che una legge promette di aiutarli, la giornalista Stella Pende ha dedicato loro un’inchiesta tv. E qui racconta. Nel parco una ragazza ancora un po’ bambina guarda la giostra dei cavallini che gira triste e vuota come la sua vita. “Quell’uomo non ha ucciso solo mia madre, ma anche la mia infanzia e le illusioni che ogni bambino ha il diritto di avere”. Ha 17 anni, oggi, Florencia Belén, ma da quando Carmine Buono ha colpito a morte il cuore di sua madre Antonia, per lei la vita ha avuto solo il tempo del dolore. “La mamma mi ha telefonato quella sera dicendomi: “Flo’, oggi arrivo più tardi, devo incontrare prima il padre di tuo fratello”. Non è più tornata”. Florencia si copre gli occhi e mi stringe. “In principio tutti credevano che avesse avuto un infarto durante quella discussione troppo violenta. Ma io non l’ho mai creduto. Dopo, infatti, si è scoperto che era stato lui a ucciderla con un’arma appuntita”. Femminicidio. Antonia Bianco è morta il 13 febbraio del 2012, come le 100 donne e madri morte ammazzate ogni anno in Italia da mariti, compagni e fidanzati. Ma se, per paradosso, gli assassini e i loro rituali catturano spesso le luci del palcoscenico, pochi si sono interrogati, finora, sul destino dei bambini che restano. Quei figli orfani due volte, perché la madre è stata uccisa e il loro padre starà in carcere. Così è stato fino al 21 dicembre scorso. Quando il Senato, superando le troppe polemiche, ha finalmente approvato il disegno di legge che prevede per i figli del femminicidio aiuti economici, assistenza legale, il divieto per gli assassini alla pensione di reversibilità della compagna e quella, surreale, di poter ereditare da lei. Questa nuova legge ha un’anima sarda. Sardi sono i primi firmatari, il deputato Roberto Capelli e il senatore Luciano Uras, e sarda è Anna Maria Busia, la deputata che l’ha redatta. “L’ho scritta pensando a Vanessa Mele, una bambina che a 6 anni ha visto uccisa la madre. Non solo: la legge aveva assegnato al padre la pensione della donna uccisa, unico sostentamento della piccola”, mi dice Anna Maria. “Per troppi anni questi bambini sono stati ombre sole, oggi una speranza per loro si apre”. Per questo ho creduto importante dedicare la prima puntata di Confessione Reporter (che sarà intitolata proprio Il silenzio degli innocenti. Il programma va in onda da venerdì 19 gennaio, in seconda serata, su Rete 4) a questi orfani speciali che da sempre soffrono soli e in silenzio la loro disgrazia. Ma anche a tutti coloro, nonni, zii, e famiglie, che da un giorno all’altro si ritrovano tutori, dunque praticamente e sentimentalmente nuovi genitori, di questi figli che portano dentro un dolore infinito. Il primo incontro con Florencia mi ha aperto storie di bambini affondati in un dolore che li fa solo sopravvivere alla morte della madre. Nicola, 6 anni, non parla più da quando la sua mamma è stata uccisa nell’auto davanti a lui. Flaminia, 14, entra ed esce da cliniche psichiatriche perché vittima di fobie e di paranoie che la fanno balbettare e stentare a scuola. “Mia nipote vive nell’ossessione di quella notte in cui il padre ha picchiato la sua mamma a morte”, racconta Eva, la sorella della vittima. “Zia, è colpa mia”, mi dice piangendo. “Potevo entrare, urlare e salvarla, invece ho aspettato vigliaccamente che arrivasse il silenzio”. Renzo ha appena compiuto 6 anni. Una sola certezza lo calma dall’angoscia. Lui vuole essere portato sempre davanti al carcere del padre, dove implora la sua nonna: “Dimmi che lui sta chiuso lì e che non potrà mai uscire per farci del male”. Figli straziati dai ricordi e dalla violenza più dissacrante. “Si tratta di bambini che hanno subìto l’orrore più snaturato”, spiega Anna Costanza Baldry, psicologa e autrice del libro Orfani speciali (Franco Angeli), “figli che hanno perduto la madre uccisa proprio dal padre, da colui che avrebbe dovuto proteggerla e proteggerli. Un trauma infinito che ha bisogno di amore infinito”. La sorte di questi figli soli ha commosso anche Patrizia Schiarizza, giovane e combattente avvocato del foro di Roma, che ha fondato la prima associazione che tutela gli orfani e tutti coloro con cui vivono. “Il Giardino Segreto offre a questi piccoli e alle loro famiglie aiuti legali e psicologici gratuiti”, dice Patrizia, mentre culla la sua ultima nata. “Ho cercato per l’Italia intera nonni, zii, parenti che, abbandonati a se stessi, hanno potuto finalmente incontrare famiglie con cui dividere dolore e speranze. Aiutarli con ogni mezzo va oltre il femminicidio: è un obbligo morale”. Ma in questo viaggio ho incontrato anche adolescenti che, toccati dallo stesso destino, oggi lottano con coraggio perché i figli come loro possano avere aiuti e diritti veri. Come Nancy Mensa, ragazza dagli occhi turchini che, con Emanuele Tringali, coraggioso avvocato siciliano, considera la nuova legge fragile soprattutto riguardo agli aiuti economici concessi agli orfani. “Ci siamo sentiti per anni vittime dello Stato che ci ha lasciati soli”, mi ha raccontato Nancy: suo padre ha ucciso la moglie, e poi si è suicidato. “Noi figli del femminicidio ci ritroviamo da un giorno all’altro abbandonati a noi stessi. Non sappiamo con chi staremo, dove ci porteranno le nostre vite. Nessuno può capire che cosa prova un bambino che perde i genitori a causa della violenza. Oggi questa nuova legge ci assegna un indennizzo ridicolo e borse di studio che chissà quando arriveranno”, spiega. Effettivamente, se la cifra stanziata corrisponde a circa 6 milioni di euro e se i dati raccolti dal libro della psicologa Baldry sono completi (gli orfani del femminicidio sarebbero più di 1.500), come faranno questi bambini e adolescenti ad affrontare con poche migliaia di euro a testa una vita tanto difficile? Matteo Morlino, nonno di due bambini orfani, di 6 e 4 anni, cerca, dopo tanto buio, di trovare una piccola luce. “I miei nipotini hanno visto la loro mamma morire nel sangue e sono vivi per miracolo”, dice. “Anche noi nonni, che abbiamo perso una figlia così bella e buona, viviamo per miracolo. Questa legge è imperfetta ma, finalmente, dopo tanta solitudine diventa la prima speranza. Accettiamola tutti insieme”. Stretta sulle impugnazioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 gennaio 2018 Potrebbe approdare già domani al Consiglio dei ministri la riforma delle impugnazioni. Il decreto legislativo, adottato in esecuzione della delega inserita nella legge di riforma del processo penale, la n. 103 del 2017, è ormai pronto, dopo i pareri del Parlamento, le cui osservazioni dovrebbero essere state accolte, e il via libera sarà definitivo. In generale, le novità introdotte, oltre a delimitare circoscrivere l’area delle impugnazioni, intendono valorizzare il ruolo del pubblico ministero come parte pubblica contrapposta all’imputato. Sostanzialmente il pm è competente a impugnare solo quando c’è un interesse reale da contrapporre a quello dell’imputato. In questa prospettiva allora, il pm può proporre appello contro le sentenze di proscioglimento, perché smentiscono la pretesa punitiva concretizzata dalla decisione di esercitare l’azione penale, ma non può in linea di massima contestare le condanne perché queste in ogni caso riconoscono la fondatezza dell’azione stessa. La possibilità resta solo quando le sentenze di condanna: • modificano il titolo del reato; • escludono l’esistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale; • stabiliscono una pena diversa da quella ordinaria del reato. Si tratta di casi in cui le decisioni assunte dal giudice con la sentenza, in particolare, incidono in misura significativa sulla quantificazione della pena; tale circostanza giustifica, quindi, l’esistenza dell’interesse del pm all’impugnazione. Diventeranno poi inappellabili le sentenze di proscioglimento per contravvenzioni per le quali è prevista la sola pena dell’ammenda o una pena alternativa; analogamente scatterà l’inappellabilità delle sentenze di non luogo a procedere emesse in udienza preliminare, relative a contravvenzioni per le quali è stata inflitta la pena dell’ammenda o una pena alternativa. A fare da contrappunto il divieto per l’imputato di appellare le sentenze di proscioglimento emesse al termine del dibattimento se emesse con la motivazione il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso. Rimangono inappellabili le sentenze di proscioglimento emesse prima del dibattimento (perché l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita o se il reato è estinto e se per accertarlo non è necessario procedere al dibattimento). Limitati alla violazione di legge i ricorsi in Cassazione contro le sentenze di appello e quelle inappellabili pronunciate per reati di competenza del giudice di pace. In materia di appello incidentale, si limita al solo imputato (decaduto) la possibilità di proporlo entro 15 giorni da quello in cui ha ricevuto la notificazione dell’atto di impugnazione di altra parte. Dj Fabo, l’accusa difende Cappato: “E ora assolvetelo” di Simona Musco Il Dubbio, 18 gennaio 2018 La pm Arduini: “non ha partecipato al suicidio”. Marco Cappato non ha aiutato nessuno a suicidarsi, ma soltanto ad esercitare il proprio “diritto alla dignità”. Per questo i pm che rappresentano l’accusa nel processo che vede il radicale imputato per aver aiutato Dj Fabo a morire in Svizzera con il suicidio assistito hanno chiesto l’assoluzione “perché il fatto non sussiste” e, in subordine, l’invio degli atti alla Corte costituzionale per valutare la legittimità dell’articolo 580 del codice penale, che prevede, appunto l’istigazione o aiuto al suicidio. Parole forti quelle delle procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e del sostituto Sara Arduini, che hanno ripercorso la sofferenza del 40enne milanese Fabiano Antoniani, rimasto tetraplegico e cieco per due anni e 9 mesi dopo un grave incidente d’auto prima di prendere l’irremovibile decisione di ricorrere al suicidio assistito in Svizzera, rifiutando l’alternativa italiana, la sospensione delle cure. Alternativa che Cappato aveva pure prospettato ad Antoniani, chiedendo fino all’ultimo se fosse convinto della sua decisione. Durante la requisitoria Siciliano ha di fatto esortato la politica ad agire, richiamando la necessità di un intervento legislativo in grado di chiarire i limiti dell’articolo 580 del codice penale. “Sarebbe meglio se una certezza venisse data da un intervento legislativo che fissasse i limiti per accedere al suicidio assistito, come succede in Svizzera, dove c’è una straordinaria serietà nel farlo”, ha evidenziato la pm. Che ha sottolineato il rischio che Cappato possa diventare il nuovo Tommaso Moro, che nell’Utopia, nel 1516 diceva “che c’è nella sofferenza umana un diritto a scegliere la fine ma sotto il prudente controllo di un sacerdote o di un magistrato - ha affermato dopo aver letto un brano dell’opera. Moro per le sue idee è stato condannato a morte e giustiziato ma poi è stato fatto santo”, ha ricordato, ipotizzando, con una battuta, un’eventuale “santificazione” di Cappato, per il quale la sentenza è attesa il 14 febbraio. Ad evidenziare le contraddizioni di diritto è stata la pm Arduini, che ha ricordato come nel momento esecutivo del suicidio Cappato fosse fuori dalla clinica. Non può essere considerata un aiuto al suicidio, dunque, la sua presenza a fianco di Antoniani nelle fasi pregresse. Cappato si trova a processo su decisione del gip Luigi Gargiulo, che dopo aver respinto la richiesta di archiviazione avanzato dalla Procura, ha disposto l’imputazione coatta. Ma, ha spiega- to Arduini in aula, tutte le testimonianze hanno evidenziato come la decisione fosse stata presa autonomamente da Dj Fabo prima dell’incontro con il radicale. “Già a primavera 2016 la fidanzata di Fabiano aveva preso contatto con la clinica svizzera Dignitas, provvedendo al pagamento della quota associativa. Fabiano era così determinato nella sua scelta - ha spiegato il magistrato - da intraprendere uno sciopero della fame e della parola. La sua decisione irreversibile è stata presa prima di conoscere Cappato”. In altre parole, il radicale “non ha rafforzato il proposito suicidario di Fabiano, ha semplicemente rispettato la sua volontà e non c’è nessun dubbio sulla piena capacità di intendere e di volere di Fabiano”. La pm ha escluso che la scelta di interrompere le cure potesse rappresentare una valida alternativa al suicidio assistito, che avrebbe costretto la madre e la fidanzata ad assistere “alla sua lenta e rantolante agonia”. “Un conto è parlare in astratto di sedazione profonda, un conto è pensare a cosa voglia dire l’agonia a cui assistono impotenti quelli che ti amano”. Dj Fabo aveva diritto ad una morte dignitosa, ha quindi ribadito l’accusa. Dignità che “è qualcosa di squisitamente soggettivo - ha spiegato Siciliano. Noi non possiamo permetterci di decidere cosa può essere degno per un’altra persona, questa è una violazione delle libertà personali più basilari. Questa deve essere la nostra base di partenza”. Siciliano ha aperto la sua requisitoria ricordando il suo compito e quello della collega, cioè “rappresentare lo Stato” e non fare gli avvocati difensori dell’accusa. Uno Stato, ha spiegato, rappresentato anche da Cappato. Dj Fabo non aveva nemmeno 30 secondi a disposizione per muoversi liberamente. Perché se li avesse avuti, ha aggiunto il magistrato, “avrebbe messo fine alle sue sofferenza da solo”. “Il suicidio è una vittoria per me”, aveva spiegato durante un’intervista alle Iene, proiettata in aula. Era dunque autonomo e consapevole, fattori valutati dai sanitari svizzeri nel corso di due visite. La sua “è stata una volontà piena”, ha spiegato Arduini. Il radicale “lo ha semplicemente rispettato”, ha aggiunto la pm, tentando anzi “di rallentare” la sua decisione “coinvolgendolo nella lotta politica” e rimanendo fuori dalla stanza quando Fabo ha ingerito il veleno. Cappato, dunque, “non ha avuto nessun ruolo”. Misure antiriciclaggio con applicazione ad ampio raggio di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 18 gennaio 2018 Corte Ue -Sentenza causa C-676/16. Misure antiriciclaggio targate Ue con applicazione ad ampio raggio. La Corte di giustizia Ue con la sentenza depositata ieri (causa C-676/16) ha respinto interpretazioni restrittive sui soggetti obbligati a identificazioni e segnalazioni previsti nella direttiva 2005/60 sulla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo (sostituita dalla 2015/849, recepita in Italia con Dlgs 90/17) e ha stabilito che anche una società che ha come oggetto sociale la vendita di aziende già iscritte nel registro delle imprese deve essere inclusa tra i soggetti obbligati all’identificazione del cliente e alle segnalazioni sospette. A rivolgersi agli euro-giudici è stata la Corte suprema amministrativa della Repubblica ceca. Al centro della vicenda nazionale, una persona giuridica che aveva come oggetto sociale la vendita di società cosiddette “ready-made”, già iscritte nel registro delle imprese. In pratica, la società trasferiva ai clienti le proprie quote delle società già registrate. Il ministero delle Finanze sosteneva che la società era un “soggetto obbligato” secondo la direttiva Ue e, quindi, tenuto alle segnalazioni per la prevenzione del riciclaggio di denaro. Prima di tutto, la Corte di giustizia ha tracciato il perimetro della direttiva Ue che, secondo l’articolo 2, si applica anche ai prestatori di servizi relativi a società o trust (formulazione analoga a quella della nuova direttiva). È evidente - osservano gli euro-giudici - che ogni persona fisica o giuridica che fornisce un determinato servizio, inclusa la costituzione di altre società, è sottoposta al regime della direttiva. E questo sia quando un terzo affida alla società il compito di costituirne un’altra a suo nome, sia quando una società è già costituita con il solo scopo di procedere alla vendita. Questo perché è irrilevante l’oggetto della richiesta di costituzione da parte di un cliente. L’esclusione delle società, che svolgono le attività commerciali oggetto della controversia, dall’elenco dei soggetti obbligati indicati nella direttiva non è, infatti, espressamente prevista e, d’altra parte, se così fosse si andrebbe contro l’obiettivo dell’atto Ue. Che è quello di “prevenire l’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose” per garantire il buon funzionamento del mercato unico. La finalità preventiva insita nello strumento Ue porta la Corte a sostenere che, proprio tenendo conto che le società possono essere strutture “idonee al riciclaggio di proventi di attività criminose”, gli obblighi di identificazione non possono escludere società cosiddette “ready-made”. No al sequestro conservativo sull’immobile destinato al disabile di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 17 gennaio 2018. Il tribunale del riesame non può considerare legittimo il sequestro conservativo su un bene oggetto di un atto di destinazione in favore di una persona affetta da grave disabilità. La Cassazione, sul punto, accoglie la tesi della ricorrente condannata in primo grado per bancarotta fraudolenta, che contestava la possibilità di sottoporre alla misura un immobile destinato alla figlia che aveva un riscontrato grado di disabilità dell’80 per cento. Il Tribunale, pur ammettendo che il sequestro ottenuto dalla curatela non era opponibile al beneficiario dell’atto di destinazione (articolo 2645-ter del Codice di procedura penale) perché la trascrizione era avvenuta prima della concessione della misura, considerava legittimo l’interesse della curatela a mantenere il sequestro. Secondo il giudice del riesame, infatti, si trattava di una “prenotazione cronologica” giustificata da un’esigenza di garanzia rispetto ad un credito riconosciuto, nell’eventualità che la ricorrente rientrata in possesso del bene decidesse di alienarlo. Per la ricorrente il tribunale aveva trascurato lo stretto legame tra sequestro conservativo e pignoramento, che è il primo atto della procedura esecutiva. Ad avviso della difesa dal momento che finché permane il vincolo di destinazione sul bene, questo non può essere pignorato, di conseguenza non è neppure sequestrabile. Per la Suprema corte la censura è fondata. Il ragionamento del giudice del riesame - che considera la portata della misura cautelare reale in termini di “prenotazione cronologica” a garanzia del credito vantato dalla curatela, pur essendo a questa preclusa la possibilità di agire in via esecutiva a causa del vincolo previsto dall’articolo 2645-ter del codice civile - svilisce la natura del sequestro conservativo di “pignoramento anticipato” ed elude la questione della pignorabilità dell’immobile oggetto della misura prevista dall’articolo 316 del codice di procedura penale. La Cassazione annulla dunque l’ordinanza impugnata, respingendo però il secondo motivo del ricorso. Questa volta, sbaglia, infatti, il ricorrente a sostenere l’impignorabilità in termini assoluti di un immobile sottoposto al vincolo di destinazione, in base all’articolo 2645-ter del codice di rito penale. I giudici fanno un’attenta ricostruzione delle ipotesi di inefficacia degli atti a titolo gratuito compiuti dall’imputato debitore dopo il reato (articolo 192 del codice penale), soggetti alla cosiddetta revocatoria penale. Argomenti con i quali si dovrà confrontare, sul caso specifico, il giudice del rinvio con riguardo, in particolare, alla gratuità dell’atto di destinazione. Vilipendio per manifesto che “spazza” via la bandiera di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 18 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 17 gennaio 2018 n. 1903. Rischiano una condanna per vilipendio alla bandiera tre dirigenti del movimento della “Sudtiroler Freiheit” che hanno prima ideato e poi promosso l’affissione, nella provincia di Bolzano, di 800 manifesti raffiguranti, oltre al simbolo del partito, una scopa che spazza via la bandiera italiana, “degradandola a “Dreck bzw. Schmutz” (“sudiciume o sporcizia”), per far posto alla bandiera sudtirolese”. La Corte di cassazione, sentenza 1903 del 17 gennaio, ha accolto con rinvio il ricorso promosso dal Procuratore generale contro la decisione della Corte di appello di Trento che, rovesciando la decisione di primo grado, aveva invece assolto gli imputati perché il fatto non costituisce reato rientrando nel diritto di manifestare le proprie idee politiche. Ci sarà dunque un nuovo giudizio di merito. Per il giudice territoriale l’immagine era riconducibile ad una “mera visione politica” peraltro “non attuabile dai rappresentanti del movimento”, e all’idea di una “migliore amministrazione provinciale”. In questa chiave, la rappresentazione della scopa, “senza integrare vilipendio della bandiera nazionale, rappresentava metaforicamente il concetto di “Kehraus”, sconosciuto alla lingua italiana, intraducibile e non conosciuto neppure dalla popolazione di lingua tedesca della provincia di Bolzano, e da intendere nel senso di “fine” o “conclusione” di un evento, ovvero del potere statale nella provincia di Bolzano”. La Cassazione ricorda che “il prestigio dello Stato, dei suoi emblemi e delle sue istituzioni rientra tra i beni costituzionalmente garantiti, per cui si pone come limite ad altri diritti costituzionalmente protetti e la sua tutela non è in contrasto con gli art. 9 e 10 della Cedu”. E che l’elemento soggettivo del delitto di vilipendio “consiste nel dolo generico, e quindi nella coscienza e volontà di esprimere offensivi e aggressivi giudizi nei confronti delle istituzioni tutelate”. In questo senso “la bandiera nazionale è penalmente tutelata dall’art. 292 cod. pen. non come oggetto in sé, ma unicamente per il suo valore simbolico”. Così ricostruito il quadro, la Suprema corte richiama il giudizio del Tribunale che oltre all’elemento oggettivo del reato, “la bandiera era stata disprezzata e degradata”, aveva ritenuto ricorresse “anche l’elemento soggettivo del dolo generico, risultante dal contenuto del manifesto raffigurante una immagine oggettivamente ingiuriosa”. Il giudice di secondo grado, dunque, per sovvertire il verdetto avrebbe dovuto specificamente motivare sul punto cosa che invece non ha fatto, per cui la Cassazione ha annullato la decisione con rinvio alla corte di appello che dovrà procedere ad un nuovo giudizio “ma con motivazione immune da vizi logici e giuridici”. Vigili possono multare automobilisti con cui sono in causa di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 18 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 17 gennaio 2018 n. 1929. Non scatta il reato di abuso d’ufficio per il vigile che multi un cittadino con il quale ha in piedi un contenzioso civile. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 1929 del 17 gennaio, affermando che l’esistenza di una controversia non integra un conflitto di interessi tale da costringere il pubblico ufficiale ad astenersi. Tuttavia la Suprema corte ha confermato la condanna per falso ideologico dell’imputato per aver consapevolmente attestato in uno dei verbali di contravvenzione elementi non veri. La Cassazione ricorda che l’articolo 323 del codice penale ha introdotto nell’ordinamento, in via diretta e generale, un dovere di astensione per i pubblici agenti che si trovino in una situazione di conflitto di interessi, “con la conseguenza che l’inosservanza del dovere di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto integra il reato anche se manchi, per il procedimento ove l’agente è chiamato ad operare, una specifica disciplina dell’astensione, o ve ne sia una che riguardi un numero più ridotto di ipotesi o che sia priva di carattere cogente”. Ciò posto, prosegue la sentenza, “risulta evidente come non possa certo parlarsi di una situazione di “conflitto di interessi” dell’agente di polizia municipale, nell’azione amministrativa svolta (che si è concretizzata nella elevazione di una serie di contravvenzioni amministrative per violazioni al codice delle strada), atteso che, per un verso, si trattava di un’azione necessitata e doverosa per il pubblico ufficiale dinanzi all’accertamento di una violazione di norme amministrative da parte della odierna parte offesa e che, per altro verso, la semplice esistenza di una controversia giudiziaria tra il pubblico ufficiale ed il cittadino sanzionato non può certo ingenerare una situazione di conflitto di interessi nell’espletamento dell’azione amministrativa (peraltro doverosa, come detto sopra), come tale implicante un obbligo di astensione da parte del pubblico ufficiale”. Palermo: i detenuti con le mani in pasta, nel carcere dell’Ucciardone si producono rigatoni La Repubblica, 18 gennaio 2018 Nasce un pastificio all’interno della quinta sezione del carcere Ucciardone di Palermo. L’iniziativa, finanziata dal governo nazionale, si inserisce nel quadro delle attività per fornire occasioni di lavoro per chi si trova dietro le sbarre. Infatti a preparare la pasta saranno gli stessi detenuti che hanno seguito un corso di formazione tenuto da Mimmo e Giuseppe Giglio, padre e figlio titolari dell’omonimo pastificio palermitano. Che hanno spiegato a dieci detenuti i segreti dell’impasto perfetto e come realizzare rigatoni e penne. Perché per il momento la pasta prodotta, che nemmeno a dirlo si chiamerà “Ucciardone” avrà solo formati corti. L’impianto è nuovo e moderno e potrà produrre 400 chili di pasta all’ora. “Per noi è anche un motivo di orgoglio: condurre una missione dal forte valore sociale in una città come Palermo che è la culla della pasta di grano duro - dicono i due Giglio. Tutto è nato qui, come è documentato dagli storici, e quindi è il momento di farlo sapere al mondo con un marchio come quello dell’Ucciardone che fino ad oggi ha evocato ben altro”. I due imprenditori si sono impegnati anche a commercializzare la pasta. La farina utilizzata per fare la pasta sarà solo quella del tipo Perciasacchi, per il momento, quindi un grano tipicamente siciliano, coltivato in un campo sperimentale di alcune decine di ettari. Ma ci sarà spazio per altri grani siciliani non appena il progetto prenderà forma. Il logo per la pasta è quasi pronto e raffigura una sorta di sole con alcuni raggi. Che è poi l’Ucciardone visto dall’alto. Vasto (Ch): i detenuti studiano per diventare sarti Il Messaggero, 18 gennaio 2018 Dopo anni di gestazione (l’iter è iniziato nel 2013), apre i battenti la sartoria della casa-lavoro di Torre Sinello. Il progetto finanziato dal ministero della Giustizia - costato intorno al mezzo milione di euro tra struttura antisismica e macchinari - occuperà 20 internati che in questo modo potranno acquisire una competenza da spendere all’esterno una volta terminato il periodo di detenzione. Ieri mattina la sartoria è stata inaugurata dalla direttrice Giuseppina Ruggero alla presenza del sottosegretario Chiavaroli e del procuratore della Repubblica Di Florio. Cucitrici e stiratrici sono pronte per essere usate dai detenuti che avranno a disposizione anche degli spogliatoi nuovi di zecca. In questo modo gli oltre 160 internati lavoreranno tutti, a parte i malati psichici. Le idee non si fermano qui. “È un sogno che si realizza - dice la Ruggero - In cantiere c’è anche un birrificio autonomo, a partire dalla produzione del malto”. A proposito di detenuti con problemi psichici, suscita preoccupazione il caso di un 24enne affetto da epilessia cronica e da una gravissima schizofrenia paranoide e disturbi di personalità. Solleva il caso Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone: “Il ragazzo ha subito un tracollo psichico sviluppando una gravissima depressione, con una totale dissociazione dalla realtà, con un quadro delirante e tendenze suicide”. Dopo le istanze degli psichiatri di Torre Sinello e del legale della famiglia, il magistrato di Sorveglianza di Pescara ha riconosciuto l’assoluta incompatibilità con il regime penitenziario, ma ad oggi il provvedimento non è stato eseguito perché non ci sarebbe posto in nessuna struttura idonea in Italia. “L’attesa di un posto libero - conclude Gonnella - deve avvenire in libertà con la persona presa in carico dal dipartimento di Salute mentale. Bisogna salvare una vita e tutti i soggetti che hanno una responsabilità devono dialogare fra loro per risolverlo prima che si arrivi ad una tragedia”. Cosenza: il direttore chiede lavoro per i detenuti “non devono essere seppelliti in cella” di Maria Teresa Improta quicosenza.it, 18 gennaio 2018 Dalla Casa circondariale di via Popilia una richiesta chiara: “Serve lavoro per il recupero dei detenuti. A volte siamo noi a comprare loro le medicine”. Filiberto Benevento si confronta con l’amministrazione comunale di Cosenza. Per la prima volta dopo trenta anni il direttore del carcere di via Popilia è stato invitato dal Comune ad esporre i problemi del penitenziario bruzio. Convocato dalla presidente della commissione consiliare sanità e servizi sociali Maria Teresa De Marco, il dirigente ha espresso la netta volontà di voler collaborare con Palazzo dei Bruzi. “Lavoro, studio e religione. Questi - spiega Filiberto Benevento - sono i tre punti su cui possiamo far leva per il recupero dei detenuti. In primo luogo il lavoro. Perché l’ozio, si sa, è il padre dei vizi. Per quanto mi riguarda credo che i detenuti debbano stare in cella solo la notte, il resto della giornata devono essere impegnati a fare qualcosa. Non si può lasciarli ‘seppelliti’ nelle proprie stanze. Su circa 240 ospiti che abbiamo nella casa circondariale di via Popilia riesco a farne lavorare contemporaneamente 40, a rotazione. Si occupano della cucina, della manutenzione del penitenziario, ma non basta. Per questo motivo sono andato da diversi enti per trovare un impiego ai miei detenuti. Credo che collaborando con il Comune di Cosenza sia possibile fare molto, magari insieme alle cooperative sociali, e che questa interlocuzione porti a risultati concreti. Siamo alla continua ricerca di un ponte con l’esterno perché spesso l’aver scontato una pena detentiva diventa un marchio indelebile per chi vuole reinserirsi nel mercato del lavoro. Eppure tra i nostri detenuti ci sono anche laureati che potrebbero tranquillamente trovare occupazione. L’ambiente dentro è difficile. Spesso ci troviamo di fronte a persone senza nessun tipo di sostegno finanziario o familiare. A volte provvediamo personalmente, di tasca nostra, a comprare loro le medicine senza alcun tipo di rimborso. Lo facciamo con piacere è una questione di umanità. Esiste chi gode di permessi premio, ma non sa da chi andare. Ciò dispiace e preoccupa perché un ‘cane sciolto’ è più avvezzo a tornare a compiere reati. Per chi appartiene alla criminalità organizzata non è facile scardinare mentalità radicate e cambiare vita. Per i detenuti comuni il discorso è diverso. Quello che noi tentiamo di fare è educare alla convivenza e al rispetto della persona. Bisogna dialogare, la forza bruta non serve a nulla. Con la conversione religiosa, due/tre persone l’anno decidono di modificare il proprio stile di vita, ma il punto focale resta quello della disoccupazione. Il Comune di Cosenza, ripeto, può fare davvero tanto. Non solo a livello occupazionale. Bisogna ricordarsi che parliamo di persone che, come tutti, devono assolvere a compiti burocratici pur non potendo recarsi in uffici pubblici. Il municipio in questi casi può sopperire alleggerendo le loro difficoltà. Quando un padre di famiglia entra in carcere è un problema per tutti: moglie, figli e parenti. Qui dovrebbe intervenire il welfare. Volontari e associazioni come Bethel, Liberamente, Confagricoltura ci aiutano molto, ma con le istituzioni potremmo fare ancora di più. Ci sono diversi bandi per la questione carceraria a cui attingere. Incontriamoci con i nostri operatori, psicologi, assistenti sociali e mettiamo in campo le risorse che abbiamo. Vi invito intanto a venire a trovarci. È importante anche un saluto così che i detenuti non si sentano abbandonati”. Nel corso dell’incontro ad intervenire con una proposta incisiva è stata la consigliera del Pd Bianca Rende che ha chiesto di verificare se sia possibile inserire nelle clausole degli appalti comunali l’obbligo di assumere per l’esecuzione dei lavori uno/due detenuti. Sulmona (Aq): 5 medici per 400 detenuti, il carcere di a rischio sanitario Il Capoluogo, 18 gennaio 2018 “Non è la potenziale bomba biologica dettata dalla promiscuità di luoghi o etnie diverse presenti nelle carceri italiane a far paura gli addetti ai lavori presso la Casa di Reclusione di Sulmona. Quello che più tiene sulle spine è la lenta, costante e pericolosa diminuzione di medici chiamati a soddisfare le esigenze di 400 detenuti”. Ad affermarlo è Mauro Nardella segretario generale territoriale Uil Pa Polizia penitenziaria. “In luogo degli 8 medici necessari e previsti dal protocollo d’intesa attualmente ve ne sono solo 5. Questo sta comportando inevitabilmente una riduzione delle turnazioni mattinali che non consente, da quel che ci è dato sapere, il soddisfacimento di tutte le richieste avanzate dai detenuti seppur in un contesto fatto di forte abnegazione ed innato spirito di sacrificio da parte dei pochi medici attualmente all’opera. La Asl non può far finta di niente e, soprattutto, non può stare a guardare. Deve immediatamente metterci mano se non vuole che la situazione imploda. L’attuale situazione richiede una grossa attenzione anche in considerazione del fatto che gli attuali medici, già fortemente “maltrattati” da contratti per nulla gratificanti, non possono e non devono arrivare a dover vestire i panni di schiavi per far si che la situazioni non deflagri definitivamente. A tutto c’è un limite e soprattutto quello rientrante nella pertinenza di un carcere non va assolutamente (per ovvi motivi) superato - continua Nardella. Chiederemo un immediato intervento affinché non succeda l’irreparabile”. Aggiunge Marcello Ferretti della Uil-Fpl: “Il penitenziario di Sulmona non può essere mantenuto ai margini del sistema solo perché Carcere. Le istituzioni tutte devono concorrere al soddisfacimento delle giuste richieste provenienti da questo luogo di penitenza. Lo richiede la Costituzione e cioè la madre di tutte le leggi. Il tutto alla luce anche dell’ampliamento del carcere che porterà inesorabilmente all’aumento di detenuti e, quindi, di ulteriori soggetti da attenzionare dal punto di vista sanitario. Se servirà unire le forze con gli amici del penitenziario per ottenere ciò che spetta di diritto siamo pronti a farlo”. Verona: cibo avariato ai detenuti, due aziende nei guai di Fabiana Marcolini L’Arena di Verona, 18 gennaio 2018 L’inchiesta è partita da una segnalazione della direttrice. Si tornerà in aula ad aprile. I legali rappresentanti e il gestore sono finiti a processo per frode. I carcerati erano costretti ad acquisti extra a prezzi maggiorati. Verdure con muffa o marcia, di qualità decisamente inferiore a quella indicata nel contratto di fornitura dei viveri per la mensa del carcere di Montorio. La stessa “scarsa qualità” venne poi riscontrata anche in altre derrate e nel 2012 fu la direttrice Maria Grazia Bregoli ad informare il Dipartimento di prevenzione- Servizio igiene alimenti dell’Ulss 20 di Verona. Lo fece chiedendo di effettuare controlli ufficiali che avrebbero poi supportato lamentele e contestazioni. Oltre a lei intervenne anche Margherita Forestan, il garante per i detenuti, e tutto poi confluì nel fascicolo aperto dalla Procura di Verona per l’ipotesi di frode nelle pubbliche forniture. Questa l’accusa che il pm Elisabetta Labate ipotizza a carico di Claudio Landucci, 74 anni di Lucca, legale rappresentante della sas che ha lo stesso nome, oltre che di Michela Tira-boschi e Savino Tiraboschi, rispettivamente di 26 e 55 anni, in qualità di legale rappresentante e gestore di fatto della Ortobergamo Srl. Il processo davanti al giudice Camilla Cognetti ieri è stato aggiornato all’udienza del 10 aprile per consentire la citazione in giudizio del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (che non venne informato della vicenda) che risulta essere la persona offesa. Sempre ieri otto detenuti (rappresentati dagli avvocati Bergamini, Pippa e Perseghin) hanno chiesto di essere ammessi in qualità di parti civili. Il cibo avariato e scadente oltre ad essere potenzialmente pregiudizievole per la salute obbligò i detenuti ad utilizzare il sopravvitto, ovvero acquistare cibi non presenti in carcere. La ditta fornitrice era sempre la medesima e il prezzo era esageratamente maggiorato: il giudice deciderà anche se ammetterli (le difese hanno obiettato che l’unica parte offesa è l’amministra-zione penitenziaria, che non era nemmeno stata citata). Contratti e scarti - Per un anno, dall’ottobre 2012 all’ottobre 2013, stando all’ipotesi accusatoria a Montorio vennero recapitate derrate alimentari “in cattivo stato di conservazione ed alterate spesso inadatti al consumo da qualificare come materiale da scarto e difformi per qualità/provenienza da quelli previsti nel contratto di fornitura”. Sui documenti veniva indicata una categoria superiore mentre invece era scadente. Non solo, marcia o addirittura di scarto. Così se già nell’aprile del 2012 erano state segnalate difformità nelle forniture dopo la segnalazione della direttrice le verifiche comportarono non solo il controllo degli alimenti ma anche l’acquisizione delle note e delle contestazioni fatte alle ditte. Ed emerse che anche in un periodo precedente erano state lamentate inadeguatezze non solo a livello qualitativo ma anche quantitativo. Nel 2012, in collaborazione con il personale ispettivo della Verona Mercato (per una consulenza tecnica su frutta e verdura) il personale dell’Ulss riscontrò che i prodotti erano in cattivo stato, più della metà dei limoni presentava macchie estese, rammollimento e muffe, le patate erano senza buccia e quasi tutte coperte da macchie e buchi provocati da parassiti. Nel maggio 2013 poi, durante l’ispezione del Nas, arrivò il camion della Ortobergamo e anche il quel caso la discrepanza tra il contratto d’appalto e la merce presentava numerose difformità: era tutta merce di qualità differente (più bassa) e anche di tipo differente. A processo. Roma: quel rito antico che dal Gianicolo permette di parlare con i detenuti di Flavia Amabile La Stampa, 18 gennaio 2018 Gridando dalla terrazza del Faro sul colle romano, i parenti riescono a comunicare con le persone rinchiuse nel carcere di Regina Coeli. “Amo’, me manchi!!! Nun ja faccio più senza de te!!”“ Jessica è seduta su un muretto. Gesticola, urla, si sporge anche se oltre si apre un ripido strapiombo. Altrove la scambierebbero per un’aspirante suicida ma siamo a Roma, sul Gianicolo: tutti sanno perché è lì, e la lasciano fare. Le lanciano uno sguardo rapido le coppie di fidanzati mentre le passano accanto tenendosi per mano e godendosi la dolcezza di un clima quasi primaverile. A stento si accorgono di lei le folle di bambini mentre corrono schiamazzando verso il teatrino di marionette. Nemmeno Jessica li degna di uno sguardo: ha occhi e voce soltanto per un punto fisso davanti a sé. Oltre gli olivi, i cespugli e il dirupo, confuso tra i tetti di Trastevere, c’è il suo uomo. Nessuno lo vede, lei sì. “Amo’, me senti? Come stai?” urla ancora mentre con il braccio saluta quel punto lontano. La risposta arriva dopo qualche secondo, portata dal vento, debole ma netta: “Amo’, vojo uscì!”. Visto dal Gianicolo, Regina Coeli non sembra un carcere È un palazzo fra tanti. Nessun filo spinato, nessuna recinzione, solo un edificio a portata di voce. Chi ha bisogno di comunicare con i detenuti sale sul colle, si sporge dalla terrazza del Faro e urla. Urla di amore, di disperazione, di tristezza. Piange, ride, parla della famiglia, della vita che passa. Senza vergogna, sotto gli sguardi di chiunque passi. Qualcuno l’ha ribattezzato Radiocarcere ma c’è qualcosa di sacro in questo luogo, è la terrazza delle voci liberate, è il Muro del Pianto delle donne di Roma. Un vecchio proverbio avverte: chi non finisce almeno una volta a Regina “nun è romano né trasteverino”. Ma, se è così, allora non sono romane né trasteverine nemmeno le donne che non sono mai andate sulla Terrazza del Gianicolo a urlare la loro sofferenza ai mariti o ai fidanzati dietro le sbarre. Accadeva a fine Ottocento, era una consuetudine consolidata durante il regime fascista che aveva capito di dover chiudere un occhio a patto che le comunicazioni fossero innocenti. E lo è ancora nel 2018 quando, in un mondo dominato da cellulari e comunicazioni intercontinentali sempre più veloci, una mesta folla sa di avere a disposizione soltanto la propria voce. Il punto migliore è proprio la terrazza del Faro costruito nel 1911 per i cinquant’anni dell’Unità d’Italia. Da qui la voce si propaga rapida lungo i percorsi invisibili delle correnti fino a valle, fino alle celle dei detenuti. I più fortunati riescono a rispondere, qualcuno anche a farsi vedere. C’è chi si denuda perché i percorsi mentali di chi perde ogni libertà possono diventare molto contorti. E c’è chi - come Jessica e il marito - ha trovato il modo di sentirsi e vedersi. Hanno un trucco. Quando Jessica arriva, chiama il marito e agita un manicotto rosa nel cielo. È il segno di riconoscimento convenuto, altrimenti l’uomo non potrebbe individuare al primo sguardo la piccola figura della donna sul colle. “A casa tutto bene. Mamma zoppica ancora ma sta migliorando”, urla Jessica sventolando il manicotto. “Me manchi tanto amo’!!!!”, aggiunge sbracciandosi ancora di più. La risposta aleggia nel vento dopo qualche secondo di attesa: “Anche tu....”. Jessica sorride, felice. Sorride anche Silvana Sergi direttrice del carcere di Regina Coeli. “Sento i richiami, li ho sempre considerati un rito antico e positivo. Nessuno dei parenti sale sul Gianicolo per dire qualcosa di proibito o pericoloso. Sono parole sempre molto carine, anche utili per rendere meno difficile la permanenza in carcere. Più che preoccuparmi, mi incuriosisce la tecnica che usano, la capacità che hanno di farsi capire. A volte sento queste donne che chiamano il loro uomo per nome. Spesso ce ne sono tanti in carcere con quel nome e mi chiedo: ma risponderà la persona giusta o un omonimo? E risponde sempre la persona giusta”. Quanti Angelo ci saranno a Regina Coeli? Di sicuro molti più di uno. Stavolta però è più facile capire a chi si rivolge la donna che in una ventosa sera di quest’inverno si è affacciata dalla terrazza del Faro. “Angelo, vita mia, auguri!!! È il secondo compleanno senza di te ma io t’aspetto tutta la vita!”. E quanti sono i Luciano? Vai a sapere, però soltanto a uno può essere diretto il messaggio di un uomo piuttosto corpulento che due settimane fa lo rassicurava: “Lucià, so’ corso qui dall’ospedale! È nato! È un maschio, Melissa sta bene, è tutto a posto!”. La verità è che molti hanno dei sistemi per concordare orari e giorni. A volte sono gli avvocati a definire gli appuntamenti. In tutti gli altri casi si spera nella fortuna. Si sa che nell’ora d’aria comunicare è quasi impossibile perché i rumori nel cortile nasconderebbero ogni voce. E si sa che nelle altre ore il silenzio è rotto soltanto dai gabbiani e dal frastuono lontano del traffico del Lungotevere. “In questo silenzio le voci dei parenti sono importanti - aggiunge Silvana Sergi. Permettono ai detenuti di non perdere la concezione del tempo. In altre carceri non è possibile. A Regina Coeli, invece, i detenuti restano calati nei ritmi della vita, mantengono un equilibrio”. E così anche stasera qualcuno salirà fino alla Terrazza del Faro, e dentro Regina Coeli qualcuno sorriderà. Terni: occhiali in omaggio per i detenuti, da IIS Casagrande-Cesi e Caritas umbriadomani.it, 18 gennaio 2018 Gli studenti dell’Istituto d’istruzione superiore Casagrande, indirizzo ottico, si sono messi a disposizione dei più poveri e bisognosi della città di Terni, compresi i detenuti della casa circondariale. In omaggio sono previsti per loro degli occhiali da vista che verranno realizzati direttamente dagli studenti. Si tratta di un progetto ideato da Matteo Ferrante, docente di laboratorio lenti oftalmiche, e voluto dalla dirigente scolastica del Casagrande-Cesi, Matilde Cuccuini in collaborazione con la Caritas. “L’obiettivo del progetto - spiega Ferrante - è quello di offrire assistenza e fornire gratuitamente occhiali da vista a chi ne ha bisogno: in questo caso specifico ad alcuni detenuti della casa circondariale di vocabolo Sabbione e ad alcune persone assistite dalla Caritas. Ai miei studenti, del primo e secondo anno, prima di proporgli il progetto ho spiegato loro che nella vita uno dei principi fondamentale è quello di essere utili alla società e di conseguenza assistere chi ha bisogno. Poi a quel punto ho illustrato il progetto che è stato accolto da tutti con grande entusiasmo. A quel punto ho sottoposto il progetto in consiglio ai miei colleghi che è stato approvato da tutti. Saranno una cinquantina gli occhiali che andremo a realizzare, anche se il mio obiettivo è quello di realizzarne un numero maggiore. Il progetto inizierà a febbraio e si concluderà a fine giugno. Montature e lenti ce le hanno regalate un laboratorio di Roma che aveva m magazzino materiale m più. A noi ci verrà recapitata la ricetta della visita oculistica e le indicazioni del tipo di occhiale da vista di cui ha bisogno la persona. A questo punto inizieremo a studiare come realizzare l’occhiale. Tempo due tre settimane e il prodotto sarà finito e pronto per la consegna. A quel punto andrò in carcere e proverò l’occhiale da vista a chi lo aveva richiesto. Vogliamo offrire la massima assistenza”. Insomma un gesto di solidarietà a favore di chi soffre e ha più bisogno anche di un sostegno come quello fornito dai giovani studenti ternani. Bologna: avvocata cacciata dall’aula perché porta il velo di Errico Novi Il Dubbio, 18 gennaio 2018 Asmae non è alla sua prima udienza. È praticante avvocata presso l’ufficio legale di un’importante università, quella di Modena e Reggio Emilia. Si presenta nell’aula del Tar dell’Emilia Romagna, davanti al presidente della seconda sezione Giancarlo Mozzarelli, con il velo, come sempre: è di origini marocchine e di fede musulmana. Il giudice neppure lo nomina, il velo: “Se non se lo toglie dovrà lasciare l’udienza”. La giovane resta di sasso. Esce, un attimo fuori scoppia in lacrime. “Non mi era mai successo”. L’episodio non passa inosservato. Neppure ai vertici del Consiglio di Stato: il presidente Alessandro Pajno, poche ore dopo, comunica in una nota di aver chiesto allo stesso Mozzarelli “una relazione circostanziata sull’accaduto ai fini di una compiuta valutazione dei fatti”. Pajno presiede anche il Consiglio della giustizia amministrativa. Ed è dunque anche titolare dell’azione disciplinare nei confronti di consiglieri di Stato e giudici dei Tar. Esemplare, dignitosa e determinata la reazione della giovane praticante. Asmae Belfakir ha 25 anni ed è una ragazza brillante: vive in Italia praticamente da neonata, dove suo padre si è trasferito dal sud del Marocco. Maturità col massimo dei voti, laureata con lode in Giurisprudenza, tesi in inglese, non è un caso che abbia avuto la possibilità di fare pratica in un ufficio legale importante. “Doveva essere un’udienza come le altre, il 5 dicembre ce n’era stata un’altra con lo stesso giudice e non mi aveva detto nulla”. Stavolta invece Mozzarelli le ha fatto trovare appiccicato alla Camera di Consiglio un cartellino stampato alla peggio con la citazione dell’articolo 129 del Codice di procedura civile, che come faranno notare poche ore dopo il Cnf e l’Ordine di Bologna non è neppure applicabile al processo amministrativo. “Mi sono rifiutata di togliere il velo. Nel mio caso, con il volto scoperto, l’identificazione era immediata e non c’erano rischi per la sicurezza”. A raccogliere l’amarezza della dottoressa Belfakir è l’agenzia Agi, che è anche la prima a dare la notizia del caso. “Quandi si è rivolto a me il magistrato”, spiega la giovane, “non ha parlato di norme: mentre lasciavo l’aula ha detto che si tratta del rispetto della nostra cultura e delle nostre tradizioni. Eppure l’aula di un tribunale dovrebbe essere laica, rispondere ai dettami della legge e a null’altro”. Il comportamento di Mozzarelli lascia aperti diversi interrogativi proprio perché la legge non lo autorizzava a espellere Asmae dall’udienza. Lo fa notare il presidente del Cnf Andrea Mascherin secondo cui “il magistrato ha sbagliato sia dal punto di vista giuridico, facendo riferimento a una norma comportamentale tesa a garantire il rispetto della funzione giurisdizionale che certamente non può essere inciso dal velo inteso come simbolo religioso o culturale, sia soprattutto per la mancata applicazione della norma forse principale per qualsiasi giudice, quella del buonsenso che mai deve mancare”. Mascherin auspica che “iniziative così maldestre non abbiano a ripetersi nel mondo della giurisdizione, primo strumento di democrazia in un Paese civile”. Nel proprio comunicato, l’Ordine forense di Bologna ricorda che sulla possibilità di assistere a un’udienza con il capo coperto convivono norme contrastanti, ma che quella richiamata nel foglietto affisso da Mozzarelli cita “è prevista unicamente per il processo civile, non anche per il processo amministrativo” e che oltretutto il Csm aveva approvato nel 2012 una delibera, in seguito a un caso analogo verificatosi a Torino, con cui raccomandava di garantire “il pieno rispetto di quelle condotte che - senza recare turbamento al regolare svolgimento dell’udienza - costituiscono legittimo esercizio del diritto di professare la propria religione, anche uniformandosi ai precetti che riguardano l’abbigliamento ed altri segni esteriori”. In ogni caso gli avvocati del capoluogo emiliano, dove ha sede il Tar, denunciano l’episodio “come illegittimo, gravemente discriminatorio, limitativo dell’esercizio professionale nonché lesivo della dignità del singolo professionista e dell’intera comunità forense”. Sdegno condiviso dalla sezione bolognese dell’Associazione italiana giovani avvocati, che per voce del presidente Paolo Rossi esprime “solidarietà e pieno sostegno” alla collega e definisce l’atteggiamento del giudice “inconcepibile e in contrasto con i principi costituzionali”. A sua volta il presidente nazionale dell’Aiga Alberto Vermiglio chiede che “sia garantita la libertà ai giovani di esercitare la professione forense, nel pieno rispetto delle normative esistenti per l’accesso alle aule di giustizia e dei principi costituzionalmente garantiti”. Che il fatto susciti indignazione e sconcerto tra gli avvocati lo testimonia la stessa Belfakir: dopo essere stata costretta a lasciare l’aula, racconta, “almeno quattro persone, di cui tre donne, si sono avvicinate per consolarmi: questo mi ha rincuorata molto perché ho capito che si è trattato di un episodio isolato. Molti mi hanno lasciato i loro biglietti da visita e si sono detti pronti a difendermi in tutte le sedi”. Aggiunge di voler portare avanti “una campagna culturale per fare in modo che le ragazze come me non debbano scontrarsi con questi muri ogni giorno. Oggi”, dice, “sono stata privata non solo di un diritto ma anche del mio dovere di praticante avvocato di seguire cosa succedeva in aula. Mi chiedo: se un giorno dovessi diventare avvocato o giudice, dovrò sempre difendere prima me stessa e poi i miei clienti?”. Milano: una campagna di crowdfunding per il teatro in carcere di Paolo Iabichino Vita, 18 gennaio 2018 L’associazione Opera Liquida lo ha lanciato sulla piattaforma Eppela per sostenere il nuovo spettacolo “Disequilibri Circensi” che parla di distanza e migrazioni. Non sono tempi facili per chi promuove la cultura e il teatro in questo Paese, ma l’impresa diventa titanica se si decide di farlo nell’ambito della rieducazione carceraria, sostenendo detenuti ed ex detenuti attraverso la recitazione. Opera Liquida è un’Associazione che lavora all’interno della Casa di Reclusione Milano Opera dal 2008, producendo spettacoli originali, a partire dai testi degli attori reclusi, grazie al laboratorio drammaturgico che si affianca a quello di formazione dell’attore, con sei ore alla settimana suddivise in due mattinate. Da ormai molti anni il teatro all’interno delle carceri viene utilizzato come attività trattamentale. Il corpo del detenuto è un corpo negato. Il laboratorio di formazione dell’attore, attraverso la sua parte di training che riguarda l’utilizzo della voce, del corpo, riattiva in questo senso la consapevolezza migliorando i livelli di autostima, ed aiutando la persona nella comunicazione interpersonale efficiente (utilizzo di sguardo, di corretta postura, mantenimento di un atteggiamento tranquillo e positivo che permetta l’espressione completa dei concetti che si vogliono esporre). Il carcere ha inoltre, tra i suoi vari “effetti collaterali”, la deresponsabilizzazione della persona, intesa come la perdita di capacità decisionale e della presa in carico di responsabilità finalizzata al raggiungimento di obiettivi o al riconoscimento delle mancanze. In questo senso il trattamento praticato assume un’importanza fondamentale. Dal 2014 Opera Liquida organizza Festival di teatro e teatro carcere, da luglio a novembre. Alla vigilia della settima edizione della Rassegna “Prova a sollevarti dal suolo”, l’Associazione ha voluto far partire un’operazione di crowdfunding sulla piattaforma Eppela per salvare un’iniziativa che rischia di non andare in scena per la mancanza dei fondi necessari. La produzione del nuovo spettacolo Disequilibri Circensi verte sul tema della distanza e della migrazione, detenuti ed ex detenuti sono al lavoro per rispettare un cartellone che li vedrebbe protagonisti della nostra evasione. Salerno: lezioni di giustizia, penalisti in cattedra al magistrale di Rosanna Gentile Il Mattino, 18 gennaio 2018 Leggi, regole dei processi e ruolo di accusa e difesa: incontri per tutto il mese. Hanno trovato due legali in cattedra, ieri mattina, i ventisei alunni della IV A dell’Istituto Magistrale “Regina Margherita”. I penalisti Saverio Accarino e Vincenzo Morriello, infatti, per un paio d’ore sono stati alla larga dalle aule del tribunale per trasmettere ai ragazzi i principi base della legislatura italiana. Una sorta di viaggio nel mondo delle “sentinelle della giustizia” - come si definiscono i due uomini di legge - dal titolo “Un percorso sulla legalità attraverso i principi costituzionali”: un progetto programmato dal Miur in collaborazione con l’Unione Camere Penali Italiane e rivolto alle scuole superiori. “Grazie al supporto della dirigente Virginia Loddo e del vice Marco Di Maro, per tutto il mese di gennaio gli avvocati del Foro salernitano parleranno agli studenti del nostro istituto per promuovere l’educazione alla legalità e il rispetto delle regole, con particolare riferimento ai principi costituzionali afferenti al percorso penale”, spiega Luigia Federico, docente funzione strumentale di cittadinanza-legalità che ha calendarizzato gli incontri. Ad inaugurare la particolare lezione, un video sui processi emblematici nazionali: in una sequenza di circa dieci minuti si sono succeduti i volti noti di Giuseppe Gullotta, Enzo Tortora, Fulvio Croce, Amanda Knox, Alberto Stasi, Sarah Scazzi, Michele Misseri, Sabrina Misseri e Raniero Busco. Ed ancora: scenari in bianco e nero che hanno raccontato i difficili “anni di piombo”, il tragico risvolto del G8 di Genova (2001) e la condizione divenuta insostenibile in cui attualmente versano le carceri italiane. “Abbiamo selezionato le immagini che, attraverso l’ormai pericolosa moda di rendere mediatici i processi penali, i nostri ragazzi conoscono bene. Dico pericolosa in quanto quando c’è pressione mediatica si incorre nel rischio di giungere a conclusioni affrettate se non addirittura errate”, chiarisce l’avvocato Accarino che ha scelto di non corredare il video di commento per non influenzare le riflessione istintive dei ragazzi. Insieme al collega Morriello, Accarino ha acceso un faro sul ruolo funzionale dell’avvocato difensore e sull’intera dinamica processuale, rispondendo alle curiosità dei ragazzi. “Come è possibile che un criminale sicuramente colpevole abbia un difensore?”. “Perché i processi, a seconda dei gradi, giungono a conclusioni diverse o addirittura contrastanti?”. “Perché senza prove effettive, la parola di un carabiniere ha più valore di quella di un libero cittadino?”. Ogni quesito esposto con partecipazione e curiosità dagli studenti ha aperto, mano a mano, finestre tematiche nuove - come il diritto costituzionale della difesa d’ufficio o come la presunzione di innocenza - le cui risposte hanno fornito una visione d’insieme più nitida dell’universo giustizia. “Sono davvero felice della risposta che oggi abbiamo ottenuto dai ragazzi. Sono certo che questi incontri servano moltissimo in ambito scolastico, perché la giustizia non riguarda solo gli avvocati ed i magistrati, bensì tutti i cittadini, anche quelli più giovani che saranno la classe dirigente del domani”, sottolinea l’avvocato Morriello, per il quale, considerata la grande confusione spesso creata dal web e dai media televisivi, sarebbe opportuno riportare tra i banchi di scuola la vecchia e cara educazione civica fatta di lettura analitica dei quotidiani locali e nazionali. Agli italiani il resto del mondo non interessa di Danilo Taino Corriere della Sera, 18 gennaio 2018 Uno studio condotto su 38 Paesi dal Pew Research Center ha rilevato che l’Italia è il Paese con il minor numero di persone che seguono la politica internazionale. Chi segue la politica italiana ha l’impressione che i partiti ritengano il Paese il centro del mondo e il resto del pianeta periferia non interessante. In parte è normale, soprattutto durante una campagna elettorale, quando la legittimità a governare si conquista al livello nazionale. Sappiamo però che la politica internazionale ha influenza sulle nostre vite. Il problema è che forse i partiti hanno qualche ragione per trascurarla: uno studio condotto su 38 Paesi dal Pew Research Center ha rilevato che l’Italia è il Paese con il minor numero di persone che seguono con regolarità la politica internazionale sui media. Sembra che a gran parte degli italiani il resto del mondo non interessi. Coloro che sostengono di seguire le notizie di politica internazionale sono il 5%: la quota sale al 53% se si aggiungono le persone che le seguono più o meno. Nessuno dei Paesi analizzati da Pew ha un disinteresse maggiore. I più vicini sono gli ungheresi: l’8% segue le news estere con regolarità, un altro 41% ogni tanto. Le mediane dei 38 Paesi considerati - cioè i livelli che dividono in due la classifica - sono rispettivamente, per molto interessati e moderatamente interessati, 16 e 57%: sopra ci sono nazioni come la Francia (16 e 66%), il Regno Unito (19 e 73%), la Germania (29 e 77%), gli Stati Uniti i cui abitanti spesso sono considerati poco propensi a guardare fuori casa (17 e 68%); sotto la mediana troviamo nazioni meno propense a interessarsi della politica estera ma comunque con un nucleo duro esposto ai fatti internazionali un po’ più consistente di quello italiano, come la Corea del Sud (8 e 57%), il Vietnam (7 e 43%), la Turchia (17 e 51%), Israele (14 e 48%). Le ragioni per le quali gli italiani sono poco spinti a informarsi sui fatti non strettamente di casa sono numerose. Una certa responsabilità probabilmente l’hanno i media stessi. Lo studio del Pew Center indica che in Italia la fiducia nei mezzi d’informazione - indipendenza e qualità - è tra le più basse. Coloro che ritengono buona o abbastanza buona la copertura degli eventi importanti sono il 60%: al 30° posto sui 38 Paesi analizzati (i tedeschi, per dire, si fidano all’85%). Solo il 36% degli italiani ritiene che la copertura delle questioni politiche sia equilibrata (33° posto) e il 45% che le notizie siano date con accuratezza (32° posto). Un problema della politica, della società, dell’informazione. Egitto. Caso Regeni: Cambridge vuole la verità basta che non si cerchi in casa sua di Sabrina Provenzani Il Fatto Quotidiano, 18 gennaio 2018 L’ateneo: “Vergognosa campagna di denigrazione”. “Questo brutale omicidio invoca giustizia. Ma la giustizia non si otterrà minando proprio quello che motivava Giulio nella sua breve ma intensa carriera accademica: la ricerca della verità”. È solo un estratto del comunicato ufficiale con cui l’università di Cambridge, a firma del suo vice rettore Stephen J. Toope, ha preso posizione sugli ultimi sviluppi dell’inchiesta sull’omicidio di Giulio Regeni, il ricercatore italiano torturato ed ucciso al Cairo fra il gennaio e il febbraio 2016, mentre lavorava alla sua tesi di dottorato sui movimenti sindacali egiziani. Tesi coordinata dalla professoressa Maha Abdelrahman, egiziana, docente nell’ateneo britannico. “Una studiosa di valore, degna di rispetto” si sottolinea nella lettera. Lo scorso 10 gennaio il pm Sergio Colaciocco, in collaborazione con le autorità britanniche, aveva interrogato - dopo alcuni tentativi andati a vuoto in precedenza - la docente a Cambridge: poi gli inquirenti della Procura di Roma avevano acquisito il pc, una pen-drive, hard disk e il cellulare. I magistrati hanno sostenuto che la professoressa si era sottratta ripetutamente ad un interrogatorio completo e che la visita nel Regno Unito sia stata resa indispensabile dalla sua scarsa collaborazione. Tesi sposata anche dalla famiglia della vittima: la madre di Giulio, Paola, ha chiesto ripetutamente a Cambridge di “rompere il silenzio”, mentre lo scorso luglio la sorella Irene aveva inscenato una protesta proprio di fronte al corpo centrale dell’ateneo, mostrando lo striscione di Amnesty “Verità per Giulio Regeni” e twittando “Da Cambridge, dove le voci tentennano a farsi sentire, alzo più forte la mia”. Ricostruzione contestata da Toope, che scrive “dalla morte di Giulio, la Professoressa Abdelrahman e l’Università di Cambridge hanno ripetutamente espresso la volontà di cooperare con le indagini. La scorsa settimana, la Professoressa ha accolto di buon grado l’opportunità di parlare ancora con gli investigatori italiani - è la terza volta che risponde alle loro domande - e ha consegnato spontaneamente il materiale richiesto”. E ancora: “Considerata la sua disponibilità a collaborare, la campagna pubblica di denigrazione, alimentata da convenienze politiche, è vergognosa”. Per Cambridge, la docente sarebbe “vittima di sforzi deliberati per implicarla direttamente nella morte di Giulio” e le illazioni sul suo coinvolgimento deriverebbero da una profonda ignoranza della natura della ricerca accademica. In sintesi, Giulio avrebbe deciso in autonomia: versione contraddetta da una conversazione con la madre in cui il dottorando avrebbe fatto capire chiaramente che era la tutor ad avergli chiesto di approfondire sul campo aspetti potenzialmente pericolosi. Il 26 ottobre 2015 Giulio parla su Skype con la madre Paola. Regeni in dialetto friulano dice: “Me stago addentrando nel tema… E go de capir de più… Xe importante perché nesun ga fatto questo prima… perché Maha insisteva che lo fasesi mi…”. Intanto, dal Cairo giungono segnali di tensione negli apparati di intelligence. Secondo il quotidiano libanese Al Akhbar, il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi avrebbe silurato il generale Khaled Fawzy, responsabile del Direttorato generale di intelligence (Mukhabarat), uno dei tre servizi di sicurezza. A fine ottobre era saltato invece il capo dell’Amn El Watani, l’Agenzia di sicurezza nazionale (Nsa), specializzata in controspionaggio. Niger. La missione nell’urna di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 18 gennaio 2018 A legislatura finita, mentre chiude i battenti, come di sfuggita, il governo Gentiloni che, in chiave di preoccupazione elettorale, ha deciso di non mettere all’approvazione lo Ius soli perché “manca la maggioranza” per via del voto contrario in Parlamento della destra (e l’astensione del M5s), sceglie ora una nuova avventura militare con un voto bipartisan, con l’appoggio in Parlamento della destra, da Forza Italia a Fratelli d’Italia e l’astensione della Lega pur d’accordo con la missione: in fondo è così che li “aiutiamo a casa loro”. Siamo in campagna elettorale e siccome è stato valutato il “valore positivo” nell’urna perfino delle dichiarazioni razziste del leghista “costituzionalista” Fontana, va da sé che anche il valore elettorale di questa missione militare in Niger è altissimo. Come preminente è l’emergere del ruolo centrale di Minniti che, da ministro di polizia, ha coordinato e coordina la crisi nigerina, dopo la crisi in Libia, con la carta bianca e i finanziamenti elargiti alle “autorità” di Tripoli - sempre più nel pieno di una guerra per bande - per fermare ad ogni costo - con la detenzione, le minacce, le violenze - i migranti. Colpevoli tra l’altro di alimentare un immaginario che metterebbe in discussione “le basi della democrazia” - parola del ministro degli interni. Che ha preferito la guerra ai soccorsi a mare delle Ong contribuendo a chiudere ai profughi la rotta del Mediterraneo. E che ora con tutto il governo Gentiloni si è attivato per una estensione del modello libico, perché la frontiera dell’Italia e dell’Europa “è il Niger”, la sponda sud dei paesi del Sahel, oltre il deserto del Sahara. Lì vanno fermati i disperati e coraggiosi in fuga dalle nostre troppe guerre e da quelle intestine di un’Africa martoriata che in questo momento sopporta 35 conflitti armati ed è sempre sottoposta alla rapina delle sue risorse necessarie al nostro modello di sviluppo e sfruttamento. Un modello che per dominare ha bisogno di corrompere le leadership locali (dalla Nigeria, alla Costa d’Avorio, al Niger, al Mali, al Ciad, al Burkina Faso, al Camerun, al Congo, ecc.). Sconcertanti le motivazioni che arrivano dal governo Gentiloni. In Senato la ministra della difesa Pinotti ha ribadito l’incredibile versione che “quella che sta per partire non è una missione combat ma di addestramento per il controllo dei confini che si coordinerà con i francesi con gli americani”, spiegando che “appena il parlamento approverà la deliberazione sono pronti a partire 120 militari che, secondo le esigenze, potranno arrivare a 470”, più 130 mezzi terrestri e due aerei da guerra. Sembra un’operazione contabile: verranno stornati militari dall’Afghanistan - dove siamo nella fallimentare guerra Usa-Nato da 16 anni - e dall’Iraq perché lo jihadismo “è sconfitto”, ma si tace che il Paese è spaccato in tre realtà e dilaniato dal conflitto tra sunniti e sciiti. Ora come si fa a raccontare che non è una missione combat quando molti “addestratori” francesi e americani vengono uccisi in combattimento proprio in Niger? Si dirà poi che in fondo sono poche centinaia di soldati: ma non è forse stato così l’inizio delle scellerate presenze militari in Somalia e in Iraq? Più insidiosa ma non meno drammatica è l’affermazione sempre governativa che “andiamo in Niger per impedire un’altra Libia”. Ma se la Libia è ridotta così è proprio grazie all’intervento militare della Nato del marzo 2011 a guida francese, il cui disastro ha influenzato perfino le elezioni americane. Qualcuno poi dovrà spiegare come sarà possibile fermare i migranti, per allontanarli - loro e le stragi a cui sono condannati - dagli occhi dell’opinione pubblica e dalla coscienza d’Europa, per nascondere sotto la sabbia le tragedie del milione di persone rimaste intrappolate in Libia; come si può controllare una frontiera di più di 5mila chilometri se non attivando una sorta di caccia vera e propria ai profughi. Una guerra ai migranti. Come non vedere che la partecipazione a questa missione, della quale si contrabbanda che “ci è stata richiesta il 1 novembre scorso dalle autorità nigerine di Njamey”, ed è vantata come un aiuto “contro i jihadisti”, rappresenta in realtà un vulnus alla democrazia dei Paesi africani che tornano ad essere considerati - e politicamente esposti al giudizio interno nel poverissimo Niger - solo come tutela coloniale. Come hanno rimproverato i giovani dell’università di Ouagadougou a Macron che li sfidava: “Non siete più sotto il dominio coloniale”. La realtà dice che le economie, le risorse minerarie preziosissime (uranio, coltan, petrolio), la stessa terra, così come le riserve monetarie in franchi Cfa, sostanzialemnte ancora coloniali, sono nelle mani dell’Occidente (ma anche dell’Arabia saudita e della Cina) e della nuova primazia militare che avanza in chiave di difesa europea alla prova in Africa: quella di Parigi. Alla quale ormai ci siamo accodati. Capovolgiamo allora l’obiettivo governativo per la missione militare in Niger che anche stavolta viene rappresentata come “umanitaria”. A sinistra avranno un grande valore elettorale la scelta o il rifiuto di questa nuova avventura coloniale. Che la guerra, finalmente, torni ad essere la discriminante. Niger. “Qui è pieno di soldati, ma per noi l’importante è assistere i rifugiati” di Carlo Lania Il Manifesto, 18 gennaio 2018 Intervista. Alessandra Morelli coordina l’intervento dell’Unhcr in Niger. “Un Paese poverissimo che accoglie più di 300 mila profughi”. “L’arrivo dei soldati italiani? Per il nostro lavoro cambierà poco. Il Niger è un Paese dove certo le presenze militari non mancano, ci sono gli americani, i francesi e anche altri. Come Nazioni unite per noi l’importante è mantenere la nostra neutralità e indipendenza”. Alessandra Morelli risponde da Niamey, dove si trova per coordinare l’intervento dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) nel Paese del Sahel. Alle spalle una lunga esperienza internazionale che in 26 anni l’ha portata a seguire operazioni umanitarie e a fornire assistenza ai rifugiati in mezzo mondo, dall’ex Jugoslavia al Ruanda, dal Guatemala all’Afghanistan, alla Birmania, solo per citare alcune delle crisi internazionali in cui si è trovata a operare. Tra le ultime esperienze, nel 2015 ha coordinato l’emergenza profughi in Grecia, quando più di un milione di persone attraversarono il Paese fuggendo da guerre e violenze. “Il Niger è un Paese poverissimo, eppure ha saputo aprirsi mentre il mondo si chiude”, dice oggi. Morelli quante persone assiste l’Unhcr in Niger? Lavoriamo su più situazioni distinte. La prima riguarda l’accoglienza di chi fugge dalle violenze di Boko Haram in Nigeria: sono 108.470 rifugiati che ospitiamo a Diffa, un’area nella zona Sud del Niger, ai confini con la Nigeria del nord. Nella stessa zona assistiamo anche più di 130 mila sfollati interni, nigerini vittime anche loro delle incursioni di Boko Haram. Movimenti forzati che il Niger accoglie con grande generosità. Poi abbiamo 57.405 rifugiati maliani, conseguenza dell’instabilità esistente nel nord del Mali colpito dal terrorismo jihadista legato anche ad al-Qaeda nel Maghreb e che ha costretto gran parte della popolazione di quella zona a fuggire in Niger. All’interno di queste tre situazioni abbiamo nella zona di Agadez, quindi addentrandosi verso la Libia, un flusso di migrazione mista dove lavoriamo per individuare chi ha bisogno di protezione internazionale. Infine ci sono le evacuazioni effettuate su base di emergenza umanitaria da Tripoli su Niamey delle persone che vengono liberate dai centri di detenzione in Libia. Siamo arrivati ormai al terzo volo per un totale di quasi 225 persone, delle quali 25 già reinsediate in Francia, Paese che ora sta assumendo una leadership importante di offerte quota. La maggior parte di questi rifugiati sotto mandato Unhcr sono eritrei, ma abbiamo con noi anche 106 minori non accompagnati. Bisogna ringraziare il governo nigerino per quello che sta facendo per queste persone. Stiamo parlando di un Paese poverissimo che però fa accoglienza e si mostra solidale. Per molti migranti evacuati dalla Libia il Niger rappresenta un ponte verso una nuova vita di libertà e di riconquista della propria identità dopo la detenzione subìta in Libia. Fino a un anno fa Agadez era uno snodo importante le carovane di migranti che cercavo di raggiungere la Libia. La nuova legge sull’immigrazione nigerina e l’aumento dei controlli ha costretto i migranti a cercare nuove strade. Com’è oggi la situazione? Agadez resta ancora una zona di forte concentrazione dei flussi migratori di persone, la maggior parte delle quali cerca un futuro migliore. Noi abbiamo il compito di identificare chi ha bisogno di protezione internazionale. Da quando il governo nigerino ha varato la nuova legge contro l’immigrazione irregolare possiamo dire che ad Agadez la vita si è fatta molto più sotterranea, si sono creati dei ghetti dove la gente vive in condizioni molto difficili. Con le comunità e i sindaci monitoriamo le rotte alternative cercando di far arrivare il messaggio che chi ha bisogno di protezione internazionale può rivolgersi a noi. In questo modo c’è una forte presenza d sudanesi originari del Darfur, anch’essi tornati indietro dalla Libia. In questa situazione cosa potrebbe comportare la presenza dei soldati italiani? Posso solo dire che come Nazioni unite non possiamo non notare che il Niger è uno dei Paesi più militarizzati d’Africa, se non il più militarizzato. Ben prima di quella italiana ci sono altre presenze militari sul territorio, a partire da quella statunitense. Ad Agadez si sta costruendo la base americana più grande d’Africa, la presenza francese è conosciuta da molti anni e così quella di altre nazioni. Come Onu la riflessione che in questi giorni stiamo facendo è come posizionarci con il nostro lavoro e, all’interno di questo spiegamento di forze internazionali, continuare ad assicurare la nostra neutralità e indipendenza. I piedi nella sabbia, a sud della Libia di Mauro Armanino comune-info.net, 18 gennaio 2018 Li chiamano migranti, o potenziali irregolari, illegali, criminali che osano sfidare il destino e dare l’assalto al cielo. Li derubano dopo averli prima perquisiti e poi detenuti in attesa di espulsione. Tutto si è deciso altrove coi soldi e le politiche che hanno fabbricato la clandestinità. Qui, a Sud della Libia, stiamo coi piedi per terra, anzi, nella sabbia. Vi facciamo credere di aver vinto la battaglia senza colpo ferire. Soldi, ricatti, commerci e minacce. Immaginatelo pure e venite a controllare i vostri piani di sviluppo coloniale. Avrete l’impressione che tanto, alla fine, vi ringrazieremo per le vostre elemosine umanitarie. Manderete fotografi, giornalisti e ministri per tagliare il nastro di una conquista senza vincitori. Quando meno ve lo aspettate, torneranno tutti, gli assetati del deserto, i perduti nella polvere e i sepolti nel mare. C’è lei, la sabbia, di cui siamo creature. C’è lei, la polvere, che si rifugia nelle borse, nelle scarpe e soprattutto negli occhi di coloro che poco sanno del Grande Sud. C’è lei, l’acqua salata, delle lacrime e del mare che le inghiotte come fa la notte col tramonto della civiltà che si spegne accanto al pozzo. L’ultimo, battezzato Espoir è controllato dai militari che spiano i punti di ristoro dei viaggiatori di sabbia. I pozzi armati sono l’ultimo ritrovato nel variegato panorama del deserto. L’acqua è detenuta perché illegale. Ci siamo noi, sconosciuti fino a qualche mese fa, al sud della Libia, e d’improvviso ricercati per interposta persona. Terra di mezzo per la partenza di quanti, incoscienti e pazzi e profeti, si azzardano a indossare la sabbia, la polvere e infine il mare come padrini dell’umana arroganza. Corteggiano i muri, disabitati, delle rive che si ‘sguardano’ senza vedersi. Ci sono loro, nomi, volti, storie e follie da esportare agli stolti che pensano di salvarsi senza lacrime di perdono. Hanno sepolto i loro documenti per non tornare indietro. Ci sono le bandiere degli eserciti e delle multinazionali dell’estrazione della fecondità della terra. Strade che le carovane hanno dimenticato e quelle che i mercanti e i contrabbandieri inventano ogni notte. Si fanno prove quotidiane di occupazione coi droni armati e le piste di atterraggio per le operazioni militari. Ci sono i bambini che giocano con la vita senza contare i giorni del calendario buttato via. Ci sono le elezioni truccate e confermate dagli osservatori internazionali. Ci sono i rifugiati riportati indietro dalla prigioni della Libia. Ci sono loro, i vulnerabili scoperti dal servizio della Cnn sugli schiavi africani che tanto ha scandalizzato. Come se nessuno sapesse o fosse per pura fatalità che migliaia di persone erano imprigionate e vendute e comprate dal mondo umanitario che solo quello attende. Arrivano i nostri coi viaggi di salvezza in aereo e meno male che c’è il Niger, appena sotto il Sud della Libia. Dare lavoro alle Ong e pagare gli onerosi affitti per le case adibite a spazio di transito o meglio di attesa. Tra non molto si troveranno in un altro paese. C’è la stabilità garantita e fragile dell’assedio che il vento organizza ogni mattina. Le frontiere sono l’invenzione più spudorata della civiltà occidentale. I valli romani al confronto sono giardini recintati per passare le ferie in tranquillità. Oggi sono un grande business perché si creano, si vendono e soprattutto si difendono dai viaggiatori senza biglietto di ritorno. A sud della Libia c’è la frontiera dell’Italia e dell’Europa che conta i secoli del passato e i giorni del futuro. La civilizzazione e la demografia vanno assieme. Ci sono coloro che viaggiano senza sapere. Messi da parte durante i controlli della polizia e della dogana. Migranti, li chiamano, o potenziali irregolari, illegali, criminali che osano sfidare il destino e dare l’assalto al cielo. Li derubano dopo averli prima perquisiti e poi detenuti in attesa di espulsione. Cose d’altro mondo e inconcepibili solo fino a qualche anno fa. Tutto si è deciso altrove coi soldi e le politiche che hanno fabbricato la clandestinità. Cittadini si diventa ma uomini e donne si nasce per diritto di abitabilità terrena. Qui, a Sud della Libia, stiamo coi piedi per terra, anzi, nella sabbia. Vi facciamo credere di aver vinto la battaglia senza colpo ferire. Soldi, ricatti, commerci e minacce. Immaginatelo pure e venite a controllare i vostri piani di sviluppo coloniale. Avrete l’impressione che tanto, alla fine, vi ringrazieremo per le vostre elemosine umanitarie. Manderete fotografi, giornalisti e ministri per tagliare il nastro di una conquista senza vincitori. Quando meno lo aspettate torneranno tutti, gli assetati del deserto, i perduti nella polvere e i sepolti nel mare. Verranno portando in silenzio la dignità che ci avete rubata. Libia. La battaglia di Tripoli campanello d’allarme per l’Italia di Gianandrea Gaiani Il Mattino, 18 gennaio 2018 L’ennesima battaglia combattuta lunedì all’aeroporto Mitiga di Tripoli tra milizie contrapposte conferma la fragilità del governo di accordo nazionale di Fayez al-Sarraj, sostenuto da Roma e riconosciuto dalla comunità internazionale. Un esecutivo che controlla solo parte della Tripolitania, osteggiato dal generale Khalifa Haftar, che alterna proclami improntati al dialogo alla minaccia di conquistare la capitale libica con le armi, ma anche dalle milizie islamiste legate all’ex premier della Tripolitania e leader del fronte “Alba della Libia”, Khalfa Ghwell. Gli scontri hanno visto protagoniste le milizie della Forza di Deterrenza Rada, di fatto una unità di polizia che dipende dal ministero degli Interni del governo di al-Sarraj, e la milizia islamista basata a Tajura nota come Brigata 33, guidata dal misuratino Bashir al-Bugra, vicina ai Fratelli Musulmani e a Ghwell. La battaglia, che ha provocato almeno 20 morti e una cinquantina di feriti, si è combattuta intorno all’aeroporto di Mitiga sulle cui piste sono rimasti danneggiati 4 velivoli di linea e si presta a diverse interpretazioni. Potrebbe trattarsi del tentativo delle forze fedeli a Ghwell di testare la reattività delle milizie governative per cercare di espugnare l’aeroporto e del resto scontri analoghi si erano registrati anche il 13 dicembre scorso e prima ancora in ottobre. Un mese or sono le scaramucce erano cessate in seguito a un negoziato a conferma che, al di là degli schieramenti politici, gli scontri tra le milizie libiche sono spesso legati a interessi tribali o al controllo di aree o infrastrutture che consentono di incassare denaro, lecitamente o meno. Secondo il portavoce della Rada l’attacco della Brigata 33 mirava invece a raggiungere il carcere situato vicino all’aeroporto in cui sono detenuti anche molti esponenti della stessa milizia oltre a jihadisti dello Stato Islamico, qaedisti e criminali comuni. L’attacco è stato respinto, la Forza di Deterrenza Rada ha affermato di avere il totale controllo dello scalo aereo ma Il Consiglio di presidenza del governo di accordo nazionale lo ha chiuso dirottando tutti i voli su Misurata e ha proclamato in quell’area lo stato d’emergenza confermando così il pesante impatto mediatico che la battaglia ha avuto sulla credibilità dell’esecutivo guidato da al-Sarraj. Un tema che impone a Roma riflessioni e valutazioni specie in questi giorni di dibattito parlamentare indetto con la riapertura delle Camere, già sciolte, per discutere delle nuove missioni militari in Africa varate dal governo dimissionario e votare il rifinanziamento delle missioni militari all’estero per i primi nove mesi del 2018. Il governo Gentiloni ha infatti messo a punto tre missioni in Niger, Libia e Tunisia (per un costo complessivo di circa 100 milioni di euro nel 2018), illustrate ieri dal ministro della Difesa Roberta Pinotti, che confermano come il focus degli interessi strategici italiani sia concentrato sempre di più su Mediterraneo, Nord Africa e Sahel. In Libia i nostri militari saliranno da 270 a quasi 400 con 130 veicoli raggruppando la missione di assistenza sanitaria che vede l’ospedale da campo installato a Misurata con le operazioni di addestramento e consulenza alle milizie fedeli al governo di al-Sarraj. Missioni in parte già attivate dopo la caduta del regime di Muammar Gheddafi, che videro persino l’arrivo in Italia di reclute libiche da addestrare, ma poi sospese a causa del caos regnante nella nostra ex colonia. Attualmente un gruppo di tecnici della Marina a bordo della nave officina Capri assicura nel porto di Abu Sittah (sede istituzionale di al-Sarraj) la manutenzione delle motovedette che la Guardia costiera libica impiega per contrastare i traffici di immigrati illegali diretti in Italia. Specialisti dell’Aeronautica hanno fornito nelle scorse settimane ricambi e consulenza ai colleghi libici per rimettere in condizioni di volo i cargo militari C-130H basati proprio a Mitiga. I militari sono rientrati in Italia il 9 gennaio e non sono quindi stati coinvolti negli scontri di ieri che hanno però indotto a mettere al sicuro all’ambasciata e ad Abu Sittah il personale militare di collegamento che opera presso il ministero della Difesa di Tripoli. Prossimamente è previsto l’arrivo di decine di istruttori e consiglieri dell’Esercito che addestreranno le forze terrestri governative, probabilmente a Misurata o nella stessa base di Abu Sittah se a Tripoli non saranno garantite adeguate condizioni di sicurezza. Cile. Quando si manda in carcere la povertà di Silvina Pérez L’Osservatore Romano, 18 gennaio 2018 Uno dei momenti più commoventi della prima giornata di Papa Francesco in Cile è stato la visita al carcere femminile dove ha incontrato oltre seicento detenute: in gran parte giovani che stringevano tra le braccia i figli. Tutti bambini con meno di due anni, perché dopo quell’età non è più permesso alle madri di tenerli con loro. E questa separazione è il momento più duro della loro condanna. L’esterno e l’interno dell’istituto di pena erano decorati con nastri e fiori di carta fatti dalle stesse detenute e sui quali erano riportate frasi riprese dai discorsi del Pontefice pronunciati durante le sue frequenti visite nelle carceri. Appena il Papa è arrivato nella palestra del carcere femminile la gioia è diventata incontenibile. Francesco ha baciato decine di bambini e benedetto le pance delle madri incinte, mentre sui volti di molte donne si confondevano sorrisi e lacrime. La presidente Michelle Bachelet, applaudita al suo ingresso dalle detenute, ha assistito commossa in prima fila. A parlare a nome di tutte è stata Janeth Zurita, una donna molto giovane che ha quasi finito di scontare la sua condanna per traffico di droga. Ha spiegato al Papa che le pene coinvolgono anche i figli “che restano senza madre”. E ha anche raccontato il dolore delle compagne i cui figli subiscono abusi o vengono uccisi. Janet ha anche chiesto “perdono a tutti quelli che abbiamo ferito con il nostro reato. Sappiamo che Dio ci perdona, ma chiediamo che ci perdoni anche la società”. Il Papa si è commosso, ha parlato loro di dignità, invitandole a compiere uno sforzo per reinserirsi nella società. Ad aiutare tutte queste “ragazze”, con passione e grinta, c’è suor Nelly León. Una donna impegnata a nome della Chiesa locale nella pastorale carceraria. Parlando di fronte al Papa, suor Nelly ha denunciato che “in Cile si manda in carcere la povertà”. E all’Osservatore Romano ha spiegato che “il 51 per cento delle detenute è stato condannato per micro-traffico di droga e altri reati a esso connessi, tutti collegati con la povertà”. Per questa visita del Papa “le ragazze” - è così che le chiama - “hanno lavorato indipendentemente dalla propria religione, perché il Papa è trasversale, trascende la religione cattolica”. Che cosa la gente non vede nel carcere? Che dietro a ogni reato c’è una storia, una donna. Per la società le detenute sono persone cattive, che hanno abbandonato i propri figli, che hanno trafficato droga o rubato. Sono soltanto donne che hanno fatto del male. Ma oggi tu hai potuto conoscere la loro storia personale, il perché sono finite qui. E vedi che nulla è scontato. Mentre mi presentavi le detenute mi hai detto: “Una donna non smette mai di essere madre, anche se è in carcere”. Parlacene. Qui la preoccupazione costante è sempre la stessa: dove sono i miei figli? Per esempio, se fai un dono a una donna, qualche lenzuolo o un set di asciugamani per Natale, o un regalino per il suo compleanno, lei non lo usa, lo conserva, e quando vengono i figli lo dà a loro. Che cosa diresti alle persone che hanno subito un reato? Che anche in carcere c’è gente buona. Che nessuno nasce cattivo e che sono le azioni a renderci diversi. Che vengano a conoscere le carceri, a conversare con un uomo o con una donna privati della libertà, a scoprire la loro storia, a conoscere che cosa c’è dietro ogni reato. Stati Uniti. Carcere e rieducazione nel paese dei diritti contraddittori di Gianni Pezzano dailycases.it, 18 gennaio 2018 Negli Usa la situazione carceraria somiglia sempre più ad una forma di schiavitù. Le carceri, gestite da privati, piuttosto che rieducare il detenuto ne sfruttano il lavoro. Una evidente negazione dei diritti umani che proprio in questo paese hanno visto il loro esordio. Sin dalla sua Guerra di Liberazione dal Regno Unito, gli Stati d’Uniti d’America sono un paese teatro di contraddizioni e di paradossi. I fondatori del paese hanno istituito una Dichiarazione dei Diritti Umani che ha ispirato la rivolta che diventerà qualche anno dopo la Rivoluzione Francese ed è persino il modello dei moderni diritti umani, un vero orgoglio eterno. Ma quegli stessi fondatori hanno permesso la continuazione di quel che era la negazione di quegli stessi diritti, lo schiavismo, che ha portato il paese a una guerra civile che anche se ‘liberavà ufficialmente gli schiavi, non ha dato agli ex schiavi la possibilità di diventare davvero pari ai loro concittadini bianchi e quindi gli effetti di quelle contraddizioni si sentono ancora oggi e in nessun luogo si vedono questi paradossi più delle prigioni americane. Benché fondati da quel che oggi chiameremmo “profughi” da persecuzioni religiose in Europa, gli Stati Uniti dimostrano poca tolleranza per chi esce fuori dai confini di quel che viene visto come la “normalità” in base a precetti che non sono tanto cristiani, ma regole e concetti religiosi ben più vecchi. Senza diritti umani non esiste Giustizia, perciò quel che vediamo negli Stati Uniti non è Giustizia, ma solo vendetta cieca. Protestantesimo particolare - Noi in Italia conosciamo benissimo il potere della religione nella nostra vita quotidiana. Non passa giorno senza riferimento al Papa e notizie dal Vaticano, ma gli Stati Uniti non hanno il cattolicesimo e di conseguenza il Nuovo Testamento come modello di comportamento, ma la durezze del Vecchio Testamento che obbliga il fedele a “un occhio per occhio”, invece di “porgere l’altra guancia”. Per questo motivo i predicatori protestanti e i loro seguaci non esitano a definire l’immagine di Dio secondo il coloro della pelle e non semplicemente come essere nato umano. Questo limite non si trova solo negli Stati Uniti, un altro paese ha notoriamente utilizzato il Vecchio Testamento della Bibbia per giustificare le discriminazioni della sua popolazione in base al colore della pelle. Il Sud Africa dell’Apartheid era il frutto degli stessi precetti protestanti che certi predicatori americani utilizzano ancora oggigiorno. Statistiche orrende - Ma le prove dell’esistenza dei problemi dei diritti umani nelle prigioni americane non si trovano nella semplice lettura del Vecchio Testamento, ma nelle statistiche di chi si trova in carcere e le condizioni in cui vivono tra le mura protette da guardie armate. Gli Stati Uniti hanno il 5% della popolazione del mondo, ma nei suoi confini coabitano il 25% dei carcerati mondiali. Da 25 anni il numero di reati commessi nel paese è in continua e grande diminuzione, ma in questo periodo il numero di carcerati è aumentato del 700%. Peggio ancora, la possibilità di una persona di colore di essere incarcerato è sei volte quella di una persona bianca. Infatti, è diventato quasi un detto che il miglior modo d’evitare di essere processato negli Stati Uniti è di nascere bianco e ricco. Basta leggere il celebre “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee per avere un’idea di queste condizioni affrontate regolarmente da non anglosassoni negli Stati Uniti, soprattutto in quelle zone del paese chiamate collettivamente “the Bible Belt” (la Cintura della Bibbia”), cioè gli stati di Mississippi, Utah, Alabama, Louisiana, Arkansas, South Carolina, Tennessee, North Carolina, Georgia e Oklahoma. Ci sono zone di altri stati compresi in questa zona, ma questi sono gli stati principali. Già queste differenze di trattamento ci dimostrano che la legge americana non è cieca, anzi vede benissimo il colore della pelle quando deve decidere su un delitto serio. Lotta centenaria - Questa lotta è una sfida fondamentale negli Stati Uniti che spesso definisce come noi all’estero vediamo il paese e, ancora più spesso è utilizzata per definire il ruolo di Presidenti americani. Tristemente è un dibattito che sta prendendo una direzione strana con l’attuale Presidente Donald Trump, anche se alcuni danno la colpa per questa tendenza al suo predecessore Barack Obama, il primo presidente di colore. Basta ricordare il cosiddetto “Birther Movement” (il movimento della “nascita”) che non considerava Obama cittadino americano e che fosse addirittura musulmano invece che cristiano. Il sostenitore più riconosciuto di questo movimento era proprio Donald Trump. Però, gli orrori del sistema carcerario americano non si limitano solo alle differenze di trattamento in base al colore della pelle o di classe sociale. Molti detenuti sono costretti a lavori che niente hanno a che fare con il cercare di rieducare i colpevoli di reati. Negli ultimi decenni sempre più carceri sono sotto gestione di società private e lo scopo di queste società ovviamente non è di aiutare i detenuti a trovare una vita nuova dopo il castigo, ma di assicurare utili sempre più grandi per i loro soci. Tristemente questa tendenza delle carceri private è diventata il modello per altri paesi. In queste prigioni private i lavori minori sono svolti da carcerati e con compensi finanziari irrisori per assicurare il massimo dei profitti per i gestori. I cuochi, gli addetti alle pulizie, persino i barbieri sono detenuti che a tutti gli effetti sono schiavi moderni in un sistema carcerario moderno e antiquato allo stesso tempo. Prevenzione e diritti - Da secoli sappiamo che il sistema carcerario modello non deve essere solo ed esclusivamente un castigo, ma deve anche e soprattutto essere il modo di aiutare il detenuto a ricostruire una vita vera e produttiva una volta uscito da prigione. Ma negargli i diritti e trattarlo come una specie di sub umano non fa altro che assicurare che prima o poi tornerà in galera e le statistiche spesso dimostrano che proprio questo succede nel sistema carcerario americano e non solo. Nemmeno il rischio della pena capitale serve come monito a potenziali criminali. Prima di tutto, perché le discriminazioni in base al colore della pelle sono ancora più marcate tra i condannati a morte. Ma anche perché spesso il tempo che passa tra la condanna e l’esecuzione è così lungo e la burocrazia, sia procedurale che dell’esecuzione stessa, sono così complicate e barbariche che alla fine non esiste un vero legame tra il delitto e il castigo. Esempio negativo - Sono tutti aspetti che vanno contro il concetto dei diritti umani moderni. Il carcere non deve servire solo per castigare, attraverso l’evidente pena della perdita della libertà, deve servire per dare al detenuto i mezzi per poter lasciare la strada dell’illegalità e trovare un posto come cittadino produttivo del paese in generale. Questo è il modello che una società veramente moderna deve seguire. Nessuno sa cosa succederà nei prossimi tre anni di Presidenza di Donald Trump, ma temiamo che non vedremo alcun cambiamento in meglio per i detenuti del paese. Anzi, considerando che molti utilizzano gli Stati Uniti come modello base, sia nel bene che nel male, c’è il rischio vero e immediato che altri paesi seguiranno un modello che non è un esempio di diritti umani, ma la sua negazione. Israele. Resta in carcere Ahed Tamimi, simbolo della resistenza palestinese di Michele Giorgio Il Manifesto, 18 gennaio 2018 Il processo comincerà il 31 gennaio. Lo hanno deciso i giudici militari israeliani che ieri non hanno concesso la libertà su cauzione alla 16enne palestinese arrestata per aver schiaffeggiato due soldati il mese scorso a Nabi Saleh. Quando il 2 luglio 2010 a Hebron la colona israeliana Yitaf Alkobi prese a schiaffi un soldato nessuno si agitò in Israele. La donna fu fermata, interrogata e poi lasciata libera di tornare a casa. Eppure Alkobi era ben nota alle forze militari e di polizia. Più volte era stata segnalata per la sua aggressività e per i lanci di pietre. Ma nessun ministro israeliano si espose per chiedere per lei una punizione esemplare come è avvenuto nel caso di Ahed Tamimi, la 16enne palestinese di Nabi Saleh arrestata un mese fa dopo aver schiaffeggiato due soldati israeliani davanti alla sua abitazione. Nessun editorialista israeliano, come il famoso Ben Caspit, scese in campo per difendere l’onore delle Forze Armate infangato dalle mani di Yitaf Alkobi che colpivano con forza il volto di un soldato. Tanta fu allora la comprensione per gli schiaffi della colona, tanta è oggi l’esortazione a punire senza attenuanti l’adolescente palestinese che pure poco prima del suo gesto aveva visto il cugino Mohammed di 11 anni cadere sull’asfalto ferito gravemente alla testa da un proiettile sparato dall’esercito. Ieri i giudici militari israeliani hanno deciso che Ahed Tamimi, sulla quale ora gravano ben 12 capi d’accusa, resterà in carcere per tutta la durata del processo che comincerà il 31 gennaio, del giorno del compleanno della ragazza. Sua madre Nariman, arrestata per aver ripreso con il telefono la scena degli schiaffi - il video resta uno dei più virali sui social a livello mondiale - sarà a sua volta processata a partire dal 12 febbraio. Anche l’avvocato Gabi Lasky, che assiste Ahed e Nariman Tamimi, fa capire che le cose si sono complicate e parecchio. È evidente che la punizione esemplare invocata dalla destra, con il consenso di gran parte dell’opinione pubblica israeliana, si concretizzerà presto o tardi. “La gravità dei fatti di cui è accusata non offre altra alternativa che la detenzione”, ha commentato ieri uno dei giudici dipingendo la ragazzina palestinese come una criminale incallita, una delinquente abituale. A casa Tamimi, a Nabi Saleh, si vivono ore sempre più difficili. Il padre, Basem, noto attivista, ha lanciato un nuovo appello alla liberazione della figlia, divenuta un simbolo della resistenza palestinese all’occupazione e ormai famosa in tutto il mondo. Ahed Tamini forse non subirà una condanna a 10 anni, come rischia sulla carta, ma di sicuro rimarrà un bel pezzo nella prigione di Hasharon dove è rinchiusa già da un mese. E la stessa sorte subirà la madre. Nel frattempo nulla o quasi trapela sul procedimento nei confronti del colono 21enne Amiram Ben Uliel, rinviato a giudizio per aver dato fuoco nel luglio del 2015 alla casa della famiglia Dawabsha nel villaggio palestinese di Duma in cui morirono il piccolo Ali Dawabsha (18 mesi, arso vivo) e nelle settimane successive il padre Saad e la madre Riham. Da quelle fiamme uscì vivo ma con ustioni gravissime solo Ahmed Dawabsha, 6 anni, rimasto orfano. Ed è difficile non ricordare anche la sentenza ad appena 18 mesi di carcere militare inflitta al soldato Elor Azaria che il 24 marzo 2016 uccise a Hebron a sangue freddo un palestinese responsabile di un attacco all’arma bianca che giaceva a terra ferito e non più in grado di nuocere. B’tselem, una organizzazione non governativa israeliana che si occupa di violazione dei diritti umani, riferisce che oltre 300 minori palestinesi sono attualmente detenuti in Israele. E lo stesso esercito israeliano conferma che 1400 minori palestinesi sono stati processati nelle sue corti negli ultimi tre anni. Altri bambini e ragazzi intanto rischiano di pagare la “colpa” di essere palestinesi. Sono quelli che vivono nei campi profughi in Libano, Siria, Giordania, Cisgiordania e Gaza, vittime della Nakba nel 1948. La decisione del presidente americano Donald Trump di ridurre drasticamente i fondi Usa all’Unrwa, l’Agenzia dell’Onu che assiste i rifugiati palestinesi, minaccia di avere conseguenze gravissime e immediate per i 500mila studenti che frequentano le scuole delle Nazioni Unite. “Viene messo in pericolo uno degli sforzi di sviluppo umano più riusciti e innovativi in Medio Oriente e l’accesso a scuole e servizi sanitari”, avverte Pierre Kraehenbuehl, commissario generale dell’Unrwa, che parla di una “sfida tremenda” affrontata dall’agenzia per sostenere il suo mandato e preservare servizi chiave in tutti questi decenni per i rifugiati palestinesi. L’Unrwa sta affrontando la crisi finanziaria più grave della sua lunga storia. Gli Usa hanno deciso di versare nelle sue casse solo la metà della prima tranche da 125 milioni di dollari annunciata in passato, in risposta alla condanna fatta dai palestinesi del riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele fatta da Donald Trump il mese scorso, condanna avvalorata da una risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu che ha fatto innervosire la Casa Bianca. Per compensare almeno in parte la riduzione degli aiuti Usa, il Belgio ieri si è impegnato a versare 19 milioni di euro in tre anni all’Unrwa. Per la Lega Araba il passo fatto da Trump “punta a liquidare la questione dei rifugiati”.