Le novità della riforma penitenziaria: accesso ai benefici e assistenza sanitaria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 gennaio 2018 Modificato anche l’articolo 4bis dell’ordinamento sui reati ostativi. eliminati gli automatismi e le preclusioni nel trattamento penitenziario volto alla riabilitazione del recluso. oggi si riunisce la commissione giustizia della camera per esaminare i primi decreti delegati. Oggi, a partire dalle 12, si riunisce la commissione Giustizia della Camera dei deputati per esaminare i testi dei decreti delegati della riforma dell’ordinamento penitenziario. L’esame da parte della commissione si concluderà il 2 marzo per poi dare un parere. Altro passo importante per l’attuazione definitiva di una parte consistente della riforma. Dopo l’approvazione preliminare del Consiglio dei ministri effettuata il 22 dicembre scorso, i decreti, prima di andare nella commissione Giustizia, dovevano passare alla ragioneria di Stato per la cosiddetta “bollinatura”. Si era così realizzato uno step tecnico cruciale per il passaggio alle commissioni visto che la riforma dell’ordinamento penitenziario deve essere a costo zero. Manca ancora il passaggio alla commissione Giustizia del Senato per porre delle osservazioni non vincolanti ai decreti approvati. Quindi la strada per la definitiva attuazione della riforma è in salita, ma rimane la preoccupazione che diventi monca, perché ancora non passano al vaglio del Consiglio dei ministri i decreti sull’ordinamento minorile, sul lavoro, sull’affettività, sulla giustizia riparativa e sulle misure di sicurezza. Preoccupazione espressa sia dai garanti locali e regionali dei diritti dei detenuti, sia dal Partito Radicale, che, ricordiamo ancora una volta, trova in prima linea l’esponente radicale Rita Bernardini con l’annuncio di uno sciopero della fame che riprenderà alla mezzanotte del 22 gennaio. “Io proseguirò lo sciopero della fame - spiega aIl Dubbio Rita Bernardini - fino a quando questa legislatura non ha approvato i decreti delegati”. Sì, perché, ricordiamo, il 4 marzo ci saranno le elezioni politiche e diventerà più complicata l’approvazione definitiva. Per ora, quindi, in commissione Giustizia della Camera c’è lo schema di decreto legislativo recante la riforma dell’ordinamento penitenziario in attuazione della delega. Il testo in esame, reso pubblico, si compone di 26 articoli, suddivisi in 6 capi dedicati rispettivamente alla riforma dell’assistenza sanitaria in ambito penitenziario, alla semplificazione dei procedimenti, alla eliminazione degli automatismi e preclusioni nel trattamento penitenziario, alle misure alternative, al volontariato e alla vita penitenziaria. Tutti aspetti di vitale importanza per l’esecuzione penale volta al recupero delle persone e, nello stesso tempo, alla responsabilizzazione del detenuto. Modifica articolo 4bis - Si tratta di una modifica importante, perché permette l’accesso al trattamento penitenziario a coloro che ne rimanevano esclusi a prescindere, i cosiddetti reati ostativi. Tale modifica rientra nell’eliminazione degli automatismi e di preclusioni nel trattamento penitenziario volto alla riabilitazione del recluso. L’art. 4 bis dell’attuale ordinamento stabilisce che alcune categorie di reati siano sottratte per legge alla rieducazione e al reinserimento nella società. Ma nessuna pena può essere costituzionalmente legittima se non è proiettata al raggiungimento della libertà. Ecco perché c’è stata una leggera modifica, escludendo categoricamente i terroristi e appartenenti alla criminalità organizzata. Il decreto delegato dice che la limitazione ai benefici (lavoro all’esterno, permesso premio, misure alternative) in caso di sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata deve essere provata con elementi che provino la esistenza di tali legami: si legge infatti che devono essere acquisiti elementi che indichino la sussistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata (non bastando più come prima un semplice rimando al pensiero dell’Autorità Giudiziaria), con ciò implicando un’attività di accertamento e istruttoria che raccolga dati concreti e che non si fermi alla sola valutazione del Giudice. In materia di reati di sessuali contro i minorenni (in particolare la prostituzione minorile e pornografia minorile, detenzione materiale pornografico minorile e iniziative di turismo per sfruttamento prostituzione minorile nonché violenza sessuale e di gruppo in danno di minori), nel valutare l’adesione al programma di riabilitazione, la modifica consente che il tribunale di sorveglianza valuti anche l’eventuale programma già iniziato dal condannato prima dell’inizio di esecuzione della pena - per esempio se abbia iniziato un percorso in fase cautelare in carcere o da libero in qualche comunità e l’abbia eseguito nell’attesa della sentenza definitiva - e che quindi, questo periodo (che potrebbe essere anche di anni in caso di processo ordinario e vari gradi di giudizio), venga considerato ai fini della valutazione senza dover imporre che il tempo di valutazione riparta da zero a decorrere dalla notifica dell’ordine di esecuzione, momento in cui tecnicamente si diventa definitivi. Sempre sulla concessione delle misure alternative, lavoro all’esterno e permesso premio, oltre alla decisione della sorveglianza è previsto anche il parere del procuratore della repubblica in relazione al distretto di pronuncia della condanna. Inoltre, se il procuratore in questione ritiene che ci possano essere ancora esigenze di sicurezza da tutelare o collegamenti con le organizzazioni criminali, ne dà notizia al magistrato di sorveglianza che ha 30 giorni di tempo per acquisire elementi per provare se effettivamente sussistano tale emergenze. Altra modifica importante è l’esclusione del divieto del lavoro esterno, permessi premio, misure alternative nel caso in cui la procura antimafia stabilisca che non ci sia più il collegamento con la criminalità organizzata. Riforma dell’assistenza sanitaria - L’articolo 1 modifica, anzitutto, gli articoli 147 e 148 del codice penale in tema di infermità psichica dei condannati. Tale proposta di riforma è finalizzata a razionalizzare la disciplina dei casi di infermità psichica sopravvenuta attraverso l’abrogazione della disciplina dell’articolo 148 c. p., che era specificatamente ad essa dedicata, e la corrispondente estensione del rinvio facoltativo della pena anche nei confronti di chi si trova in condizioni di grave infermità psichica. In tal modo, attraverso l’equiparazione tra grave infermità fisica e psichica, si determina un passo importante in quanto anche il disagio psichico si potrà giustificare l’applicazione di benefici per una detenzione in favore di una dignità del malato. Tra le varie modifiche, c’è un comma che prevede per detenuti e agli internati, i quali all’atto di ingresso in carcere abbiano in corso un programma terapeutico di transizione sessuale, la possibilità di proseguire tale percorso, anche attraverso il necessario supporto psicologico, in quanto l’interruzione de11a terapia ormonale avrebbe effetti pregiudizievoli sulla salute della persona. Un altro aspetto fondamentale è che il medico non farà parte della commissione di disciplina e avrà quindi la libertà di chiedere l’interruzione di un eventuale situazione di isolamento che non sia compatibile con lo stato psichico fisico della persona. Affidamento in prova, misure alternative - Per quanto riguarda le misure alternative vengono messe in atto una serie di cambiamenti. Ad esempio c’è l’affidamento in prova. Secondo l’ordinamento attuale questa misura alternativa viene applicata alle persone che non hanno superato i tre anni di pena. Con il nuovo ordinamento la soglia si allarga a quattro, relativamente a quella da eseguire. Sempre per l’affidamento in prova, ci sono diverse indicazioni sull’esecuzione. Ad esempio coloro che non hanno una dimora propria, possono accedere a un luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, oppure a un luogo di dimora sociale appositamente creata per l’esecuzione della pena. Poi, altro elemento importante, c’è anche il discorso relativo alla responsabilizzazione: all’atto dell’affidamento ci sarà un piano di trattamento individuale in cui ci sono i rapporti con l’Uepe (Uffici per l’esecuzione penale esterna) e con altri soggetti pubblici o privati con finalità di cure e sostegno. Viene considerata anche l’assunzione di specifici impegni per attenuare le conseguenze del reato e, cosa molto importante, l’adoperarsi anche a favore della vittima. Altro aspetto importane è che verrà istituita anche una specie di affidamento in prova per le persone con infermità psichica e sarà una sorta di presa in carico terapeutica. Il Papa: “una condanna senza futuro non è umana, è una tortura” di Annachiara Valle Famiglia Cristiana, 17 gennaio 2018 “Ogni pena deve avere un orizzonte, l’orizzonte del reinserimento, devo prepararmi per il reinserimento, questo dovete esigerlo da voi stesse e dalla società”, dice il Papa incontrando 400 detenute nel carcere femminile di Santiago affidato dal Governo, fino al 1996, alle suore della Congregazione del Buon Pastore. È suor Nelly Leon dare il benvenuto a papa Francesco nel carcere femminile “San Joaquin”, a Santiago. L’istituto di pena che per oltre cento anni, fino al 1996, il Governo aveva affidato alle suore della Congregazione del Buon Pastore. Poco più di 400 detenute che rappresentano, dice la suora, i 50mila detenuti di tutto il Paese, di cui quasi 4mila donne. “Povere donne perché in Cile viene incarcerata la povertà”. È la prima volta che Francesco, nei suoi viaggi internazionali, visita un carcere femminile. Le detenute sono emozionate. Gli vanno incontro con i loro figli. Il Papa, dopo i saluti, e prima di posare per una foto di gruppo con le guardie carcerarie, dona alla struttura un bassorilievo in ceramica raffigurante Maria in atteggiamento di preghiera. E alla Vergine Francesco affida tutte le donne, anzi “le sue figlie” perché “vi copra con il suo mantello”. Un discorso breve, ma toccante quello di Bergoglio. All’ingresso, accarezzando i piccoli aveva chiesto di ciascuno il nome, si era fermato a scherzare. Poi, dopo aver ascoltato la testimonianza di Janeth Zurita, una delle detenute, che, a nome di tutte, aveva espresso il dolore per “i nostri figli e figlie che sono quelli che soffrono di più per i nostri errori” e la gratitudine per i cappellani e le suore, gli agenti pastorali e i volontari che “senza nulla in cambio vengono settimana dopo settimana a dividere la fede e la grazia di Gesù che ci solleva dalla tristezza”, il Papa ha voluto rispondere alle sollecitazioni. “Papa amico dei poveri e della giustizia”, lo aveva chiamato suor Nelly, “Papa amico dei poveri e degli scartati”, ha aggiunto Janeth. Ricordando che “i nostri figli scontano anche loro la pena anche se sono innocenti” e chiedendo “perdono a Dio, ma anche alla società”. Dal soffitto della palestra pendono tanti striscioni con le frasi che papa Francesco ha detto visitando, in questi anni, altri istituti di pena. Un calore che lo commuove. Ringrazia papa Francesco, per “l’opportunità che mi offrite di potervi visitare: per me è importante condividere questo tempo con voi e poter essere più vicino a tanti nostri fratelli che oggi sono privi della libertà. Grazie Suor Nelly per le Sue parole e specialmente per la testimonianza che la vita trionfa sempre sulla morte. Sempre Grazie Janeth per aver avuto il coraggio di condividere con tutti noi i tuoi dolori e quella coraggiosa richiesta di perdono”. Parla del peccato che coinvolge tutti, ma soprattutto della pena che deve tendere al reinserimento. “Dovete esigerlo da voi stesse e dalla società”, dice Francesco. Si rivolge a loro che sono soprattutto madri e che come “madri sapete cosa significa dare la vita. Avete saputo “portare” nel vostro seno una vita e l’avete data alla luce. La maternità non è e non sarà mai un problema, è un dono, uno dei più meravigliosi regali che potete avere. Oggi siete di fronte a una sfida molto simile: si tratta ancora di generare vita. Oggi vi è chiesto di dare alla luce il futuro. Di farlo crescere, di aiutarlo a svilupparsi. Non solo per voi, ma per i vostri figli e per tutta la società”. Generare il futuro significa non farsi “cosificare”, non cedere alle logiche “che trasformano le persone in cose e che finiscono per uccidere la speranza. Ma noi siamo tutte persone e come persone abbiamo questa dimensione della speranza, non lasciamoci cosificare, non lasciamoci ridurre a numeri. Io non sono il numero tal dei tali, sono una persona e questo genera speranza”. Scontare la pena non significa essere privati di speranza, sogni e dignità. Insiste papa Francesco: “La dignità non si tocca a nessuno. Nessuno può essere privato della dignità. Voi siete private della libertà. Da qui consegue che bisogna lottare contro ogni tipo di cliché, di etichetta che dica che non si può cambiare, o che non ne vale la pena, o che il risultato è sempre lo stesso. Come dice quel personaggio facciamo qualunque cosa e poi tutto finisce nel forno. No, Care sorelle, no! Non è vero che il risultato è sempre lo stesso. Ogni sforzo fatto lottando per un domani migliore - anche se tante volte potrebbe sembrare che cada nel vuoto - darà sempre frutto e vi verrà ricompensato”. E poi parla dei figli, che “sono forza, sono speranza, sono stimolo. Sono il ricordo vivo che la vita si costruisce guardando avanti e non indietro. Oggi siete private della libertà, ma ciò non vuol dire che questa situazione sia definitiva. Niente affatto. Sempre guardare l’orizzonte, in avanti, verso il reinserimento nella vita ordinaria della società”. A braccio aggiunge: “Una condanna senza futuro non è una condanna umana, è una tortura, ogni pena deve avere un orizzonte, l’orizzonte del reinserimento, devo prepararmi per il reinserimento, questo dovete esigerlo da voi stesse e dalla società”. E proprio perché pensano al reinserimento, Francesco loda i progetti come “Espacio Mandela” e “Fundación Mujer levántate”. “Il nome di questa Fondazione mi fa ricordare quel passo evangelico in cui molti prendevano in giro Gesù perché diceva che la figlia del capo della sinagoga non era morta, ma addormentata. Di fronte allo scherno, l’atteggiamento di Gesù è paradigmatico: entrando dove stava lei, la prese per mano e le disse: “Fanciulla, io ti dico: alzati!”. Per tutti era morta, per Gesù no. Questo tipo di iniziative sono segno vivo di Gesù che entra nella vita di ognuno di noi, che va oltre ogni scherno, che non dà per persa nessuna battaglia, ci prende per mano e ci invita ad alzarci. Che bello che ci siano cristiani e persone di buona volontà, di qualunque religione e anche senza religione che seguono le orme di Gesù e sanno entrare ed essere segno di quella mano tesa cha fa rialzare. Io te lo chiedo: alzati, sempre rialzarsi”. E infine, prima di chiedere di pregare per lui e dare la benedizione, il Papa parla della “sicurezza pubblica” che “non va ridotta solo a misure di maggior controllo ma soprattutto va costruita con misure di prevenzione, col lavoro, l’educazione e più vita comunitaria”. La situazione dei detenuti nelle carceri indica il livello di civiltà di un popolo di Fra Fabio Scarsato Il Messaggero di Sant’Antonio, 17 gennaio 2018 Per questo, dinanzi ai numeri dei suicidi che ogni anno avvengono in prigione, dovremmo sentirci tutti umiliati. “Non c’è giorno che sul pianeta carcere più di qualcuno abbia da elargire la propria ricetta. In termini di soldoni, checché non se ne dica, oppure se ne dica in modo fuorviante, comporterà un nuovo fuori pista, un perenne approccio emergenziale. La patologia dell’ansia da prestazione avrà una ricaduta esagerata sulle persone detenute, ma anche e soprattutto sugli operatori che, per risolvere problemi che s’accatastano uno sull’altro senza tregua né soluzione, rischiano di rimanere impigliati in una apnea asfissiante. Ho l’impressione che una certa criticità sociale diligentemente alimentata dai pregiudizi non faccia altro che perpetrare uno scollamento e un distacco dal proporre progetti che tutelino le vittime del reato, ma che proprio da questa premessa possano essere generate nuove opportunità di riparazione e riconciliazione. Si tratta di una vera e propria rivolta copernicana, è veramente necessario attuare una giustizia giusta, una giustizia che non sta solo a una mera punizione, per cui sappiamo chi entra in prigione ma chi esce non è dato saperlo. Sappiamo chi è l’attore del reato ma, tranne richiedere inasprimenti delle pene e ipotetiche chiavi da buttare via, perdiamo contatto con la realtà di un territorio che include sfruttando le capacità di ognuno, perché la responsabilità sociale condivisa genera corresponsabilità, e ciascuno attraverso realtà e sensibilità differenti, attraverso ruoli e competenze definisce il senso comune. Chissà se sul carcere e su una pena rieducativa, forse occorrerà finalmente argomentare, abbandonando la sponda delle opinioni vestite di stereotipi”. Lettera firmata Certamente non è lo stesso vivere l’esperienza del carcere dall’interno, detenuti e personale penitenziario compresi, e dall’esterno. I bisogni, le attenzioni, ma anche le aspettative sono per alcuni versi molto differenti. Come dire? I primi non vedono l’ora di uscirne, e mentre sono costretti a starci dentro, desidererebbero comunque una vita dignitosa e confortevole. Gli altri vorrebbero piuttosto che i malviventi ci stessero dentro il più possibile, pagando la propria colpa anche con un bel po’ di meritati disagi quotidiani. Ma e gli uni e gli altri avrebbero diritto e dovrebbero aspirare a vivere in un Paese civile. E la situazione dei detenuti nelle carceri nonché il senso e, perciò, l’obiettivo che si vuole dare al carcere stesso, è un segno inequivocabile del livello di civiltà di un popolo. L’articolo 27 della Costituzione italiana recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Mentre il Vangelo ci insegna a distinguere tra ciò che una persona può aver commesso, anche di brutto e di cui sicuramente è responsabile e perciò deve assumersene le conseguenze, e la persona stessa. San Francesco e sant’Antonio hanno incontrato molti briganti: non hanno detto loro che sono stati bravi, anzi, al contrario. Ma li hanno aiutati a riscoprire la grazia del Signore e la forza rigenerante del perdono, di Dio e degli uomini. Pensate che Antonio ne ha spediti alcuni a farsi ben 12 volte il pellegrinaggio a Roma! Ma se secondo il dossier Morire di carcere dell’associazione Ristretti Orizzonti, al 24 aprile 2017, sono 949 i casi di suicidio in carcere tra il 2000 e il 2017, un numero che ha toccato le 1.312 unità se si considera il periodo compreso tra il 1990 e il 2014 (con un tasso di suicidio pari al 9,88 per cento, un dramma, considerato che il tasso di suicidi nella popolazione italiana fuori dal carcere tra il 1990 e il 2014 è stato dello 0,5 ogni 10 mila residenti, quindi con una frequenza di suicidio in carcere di circa venti volte superiore), beh, pur per quello che freddi numeri possono significare, c’è qualcosa in essi che umilia ognuno di noi. Campagna elettorale, un errore cavalcare le paure di Francesco Nicodemo Corriere del Mezzogiorno, 17 gennaio 2018 Mancano meno di due mesi al voto e la campagna elettorale ha già mostrato il lato peggiore. Insulti, accuse reciproche, promesse mirabolanti che nessuno potrà mantenere il giorno dopo le elezioni. Quest’ultimo dato ci spiega più di qualsiasi altra analisi il preoccupante ritorno a una dinamica proporzionalista, attraverso cui ogni partito, nei fatti, fa gara a sé e si occupa unicamente del proprio elettorato potenziale senza considerare l’effetto di determinate scelte di parte sulla collettività. Anche questa è la conseguenza della volontà popolare che un anno e un mese fa si è chiaramente espressa nel referendum costituzionale a favore della rappresentanza e contro la governabilità. Ma la volontà popolare è sovrana e quindi è giusto così. In ogni caso quali effetti avrà questa dinamica nella formazione del prossimo esecutivo e nella definizione delle politiche pubbliche non possiamo ancora saperlo. Piuttosto dobbiamo sperare che il sano realismo di proposte concrete basate sui dati e provate dai fatti ritorni centrale nel discorso pubblico, lasciando da parte parossismi da propaganda politica nel descrivere gli avversari come il male assoluto. Il nostro Paese è una democrazia robusta e, al di là del risultato che scaturirà dalle urne, il 5 marzo sorgerà il sole come ogni altro giorno e non sarà l’inizio della rivoluzione, né la fine del mondo. Proprio per questo da cittadini dovremmo chiedere ai partiti, oltre a programmi elettorali realistici, più rispetto per gli avversari e maggiore ascolto nei confronti di noi elettori. Anche qui Napoli. Non è tollerabile l’ennesima campagna elettorale sulla pelle della nostra città divisa tra due fazioni. Da una parte quelli che raccontano una Napoli oleografica, nostalgica, sempre uguale a se stessa, indolente, immobile nei vizi elevati a virtù; dall’altra quelli che non riescono a vedere i cambiamenti in atto da qualche anno e la considerano alla stregua di una ridotta scenografica per l’ennesima serie tv sul gangsterismo metropolitano. Diamo uno sguardo a come le parti politiche stanno cavalcando il tema baby gang per fini elettorali: se non c’è da sottovalutare le aggressioni e la giusta richiesta di maggiore sicurezza da parte dei cittadini, allo stesso tempo non è accettabile parlare di emergenza, perché i numeri, i dati, i fatti ci dicono che il fenomeno non è solo napoletano, ma neppure in aumento rispetto al passato. D’altronde dovremmo saperlo che a cavalcare le paure delle persone non si ottiene nulla di buono. Quindi, mentre esprimiamo solidarietà alle vittime e alle loro famiglie e ci uniamo alla loro richiesta di giustizia, trovo profondamente sbagliato che l’agenda politica e comunicativa napoletana sia incentrata solo su questa vicenda. Dove è la Napoli degli attrattori culturali, quelli tradizionali del centro storico e quelli rinnovati della Sanità? Dove è la Napoli solidale dei progetti di inclusione sociale nei Quartieri Spagnoli e nella periferia nord e in quella orientale? Dove è la Napoli che trova finalmente una missione di sviluppo, coniugando l’innovazione, l’accademia e l’impresa come nella Apple Academy di San Giovanni a Teduccio? Anche in questa campagna elettorale la città deve rompere questo racconto bicromatico, tra angeli e diavoli, tra eroi e criminali, tra buoni e malamente. Vanno raccontati il caleidoscopio di Napoli e la straordinaria normalità di migliaia di esperienze e storie che quotidianamente rendono migliore la città, pezzo per pezzo, strada per strada, quartiere per quartiere, spesso all’ombra dei riflettori mediatici. Abbiamo meno di due mesi per chiedere una campagna elettorale diversa da quella vista finora. E alla fine avremo il voto per premiare o punire i candidati. Baby gang, droga, lavoro: la scuola è “salvifica” ma i partiti la ignorano di Marco Imarisio Corriere della Sera, 17 gennaio 2018 Nella campagna elettorale non si vede e non si sente. Però tutti sanno che ha un ruolo fondamentale nella soluzione dei problemi che riguardano i giovani. La scuola deve pensare a tutto ma nessuno pensa alla scuola. Non troppo, almeno. In campagna elettorale c’è anche lei, ogni tanto fa qualche fugace apparizione, ma sempre in secondo piano. Non si vede, non si sente. Dal rumore di fondo che ci accompagnerà fino al 4 marzo emerge un dato chiaro. La scuola non è una priorità. Ma “scuola” è parola salvifica per qualunque candidato chiamato a dire la sua sull’attualità. I ragazzi perduti e le baby gang di Napoli? Il rimedio è la scuola. Legalizzare o no le droghe leggere? La scuola deve creare consapevolezza nei giovani. Il razzismo strisciante? L’educazione alla tolleranza comincia a scuola. Eppure il ruolo di comparsa le assegna giusto una nota a margine anche nel catalogo delle promesse, via la Fornero, via il Jobs Act, via questo e quello, e infine, ma solo dopo tutto il resto, via le tasse universitarie e la Buona scuola. Siamo pur sempre il Paese che investe di meno, un punto sotto la media europea, ma è nelle prime posizioni della classifica sulla dispersione scolastica, al 14 per cento. Gli argomenti di discussione ci sarebbero, anche quelli da usare contro l’avversario politico, ovvero nell’unica modalità percepita negli attuali confronti. Chi contesta la riforma Renzi-Giannini potrebbe sostenere che le assunzioni in massa dei docenti precari non sono conseguenza diretta di quella legge, la 107, ma di una sentenza della Corte di giustizia europea che ci obbligava a farlo in assenza perpetua di nuovi concorsi per l’immissione in ruolo. E poi i bonus da 500 euro, e il ruolo dei dirigenti didattici. Dall’altra parte si potrebbe invece replicare che la Buona scuola è pur sempre meglio dei tagli per 8,4 miliardi di euro nel triennio 2008-2011. Litigano o fingono di litigare su tutto, lo facessero anche su qualcosa che conta davvero. Invece niente. I figli non interessano per ragioni anagrafiche, i genitori sono categoria fluida e generica, gli insegnanti hanno sempre meno peso. Ne parliamo dopo, magari con l’ennesima ipotesi di riforma, consueto rito di passaggio per ogni governo al debutto. Come se fare nuove e più avanzate proposte non fosse vitale. Come se investire maggiore attenzione e risorse nella scuola non significasse investire sul nostro futuro. Condotte riparatorie anche in Cassazione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 1580/2018. Si chiude una porta, per i reati procedibili a querela (irrevocabile), ma si apre uno spiraglio per l’applicazione in Cassazione. Oggetto la nuova, dall’agosto scorso, causa di estinzione del reato per effetto di condotte riparatorie. In una delle primissime pronunce sul nuovo articolo 162 ter del Codice penale introdotto dalla legge n. 103 del 2017, la Corte di cassazione, sentenza n. 1580 della Terza sezione penale, ne nega l’accesso a un uomo condannato per il reato di atti sessuali con una minorenne. Tra i motivi di impugnazione, la difesa aveva provato a far valere anche la nuova causa di estinzione del reato di cui può beneficiare, da pochi mesi, chi ha posto in essere misure per riparare al reato compiuto. Veniva valorizzata in questa prospettiva la corresponsione di una somma di denaro a titolo di risarcimento, pagamento che aveva convinto i genitori della ragazza alla rinuncia alla costituzione di parte civile e alla dichiarazione di completa soddisfazione di ogni pretesa. Tuttavia, la Cassazione ha respinto, sul punto, il ricorso, osservando che il reato oggetto del capo d’imputazione è escluso dal perimetro di applicazione della nuova norma, che invece interessa i casi di procedibilità a querela soggetta a remissione. Aspetto quest’ultimo che è invece espressamente escluso dall’articolo 609 septies, comma 3, del Codice penale. Un ostacolo allora insormontabile. Quanto invece alla questione più generale della possibilità di chiedere (e ottenere) in Cassazione il riconoscimento della nuova causa di non punibilità, la sentenza è più possibilista. Afferma infatti da una parte che la norma prevede la necessità di ascolto delle parti e della persona offesa, il che richiederebbe alla Cassazione compiti estranei alla fisionomia del giudice di legittimità. E però, l’espressa esclusione del giudizio in Cassazione con riferimento alla possibilità per l’imputato, nella prima udienza successiva all’entrata in vigore della legge 103/17 di chiedere la fissazione di un termine non superiore a 60 giorni per provvedere ai rimedi delle conseguenze del reato, “sembrerebbe muovere proprio dal presupposto dell’applicabilità, per il resto, del procedimento anche dinanzi a questa Corte”. L’evasione fiscale non comporta solo il carcere, ma anche la confisca di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 16 gennaio 2018 n. 1584. L’evasione fiscale non comporta solo la condanna al carcere ma anche la confisca per equivalente dell’importo non versato. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 1584/18. La Corte ha puntualizzato che per procedere alla misura cautelare reale non è necessario un precedente provvedimento cautelare di sequestro e senza necessità dell’individuazione specifica dei beni da apprendere, potendo il destinatario ricorrere al giudice dell’esecuzione nel caso in cui ritenga illegittimo il criterio adottato dal pm nella selezione dei cespiti da confiscare. Le norme richiamate - La sentenza richiama due norme che hanno confermato la misura cautelare. In particolare la legge finanziaria del 2008 (legge 244/2007) ha esteso l’applicazione dell’articolo 322-ter del cp anche ai reati tributari e in particolare quelli previsti agli articoli 2, 3, 4, 5, 8, 10 bis, 10 ter, 10 quater e 11 del Dlgs 74/2000. Secondo tale norma nel caso di condanna o di sentenza di applicazione della pena a norma dell’articolo 444 cpp consegue la confisca obbligatoria dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo dell’attività illecita, salvo che appartengano a persona estranea al reato o quando la confisca non si renda possibile perché non sarebbe di valore corrispondente al prezzo. Altro richiamo normativo citato dalla sentenza è rappresentato dal Dlgs 158/2015 che ha introdotto nel Dlgs 74/2000 il nuovo articolo 12 bis che disciplina specificamente la confisca applicabile ai delitti tributari estendendone l’applicazione anche al delitto di occultamento o distruzione della contabilità ed escludendo la confisca solo laddove vi sia un concreto impegno del contribuente a versare, anche in parte, quanto dovuto all’Erario. Conclusioni - Viene precisato, inoltre, che laddove la confisca non sia possibile, si proceda con la forma per equivalente di beni di valore corrispondente. Accolto in definitiva l’appello della Procura che aveva eccepito come a seguito della condanna al carcere dell’imputato non fosse seguita alcuna misura cautelare reale. No alla confisca sulle chance di profitto di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 1754/2018. La nozione di profitto non può essere estesa sino a comprendere semplici aspettative di fatto. Lo mette in evidenza la Corte di cassazione con la sentenza n. 1754 della sesta sezione penale depositata ieri. La Corte ha annullato senza rinvio la sentenza del Gup di Milano con la quale era stata disposta la misura patrimoniale nei confronti di un’impresa accusata di corruzione internazionale per avere, secondo il quadro accusatorio, corrisposto tangenti ai rappresentanti del ministero dell’Energia dell’Algeria. Il Gup aveva ritenuto che il profitto del reato sarebbe costituito dalla possibilità per l’impresa di continuare a operare nel mercato algerino “vincendo gare di appalto” e quindi coinciderebbe con il totale delle dazioni illecite, frutto dell’accordo di corruzione, identificato in 2,1 milioni di euro. La Cassazione, dopo aver ricostruito, anche alla luce dei suoi più recenti precedenti, i diversi concetti di profitto del reato che si sono succeduti nel corso del tempo - sino all’ultima pronuncia delle Sezioni unite, nel 2014 (sentenza n. 38343) sul caso Thyssen Krupp che ha portato a considerare legittima la confisca su ogni utilità anche indiretta o mediata ottenuta dall’autore del reato - contesta la lettura del Gup milanese. Osserva infatti la Corte che “non costituisce profitto del reato un qualsivoglia vantaggio che, pur derivante dal reato, tuttavia sia futuro, sperato, eventuale, solo possibile, immateriale o non ancora materializzato in termini strettamente economico-patrimoniali”. E allora, prosegue la sentenza, il profitto non coincide con una semplice aspettativa di fatto, con una pura “chance”, a meno che questa non abbia aspetti particolari di concretezza tali da attribuirle una precisa rilevanza patrimoniale in rapporto alla sua proiezione nella sfera patrimoniale del soggetto interessato dalla misura. Nel caso esaminato, però, si è fatto coincidere il profitto del reato non con il vantaggio che sarebbe derivato dalle possibili gare di appalto aggiudicate all’impresa per effetto della corruzione, ma con la semplice possibilità di partecipare in futuro a gare di appalto. “Tale possibilità tuttavia, non costituisce un vantaggio concreto valutabile in relazione alla sfera patrimoniale del soggetto, né si è affermato che la mera possibilità di partecipare ad una gara ovvero di essere ammessi alla fase di contrattazione, realizzi nella vicenda in esame una “chance” autonomamente qualificabile in termini di entità patrimoniale autonoma e, quindi, di profitto”. Pertanto, visto che non poteva essere tecnicamente individuato un profitto del reato, con un cambiamento positivo della situazione patrimoniale, nemmeno poteva essere disposta la confisca per equivalente sui beni dell’impresa. Whatsapp e mail acquisiti senza garanzie particolari di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 1822/2018. I messaggi whatsapp, gli sms e le mail conservate nella memoria del telefono, sono dei documenti e possono essere acquisiti, nell’ambito di un’indagine, senza la particolare procedura prevista per le intercettazioni o il sequestro della corrispondenza. La Corte di cassazione (sentenza 1822) respinge il ricorso contro l’ordinanza con la quale il tribunale del riesame confermava la legittimità del sequestro probatorio di mail e di uno smartphone, nel corso di un’inchiesta per reati fallimentari. L’indagata contestava la modalità seguita per l’ acquisizione dei dati, attraverso la cosiddetta copia forense. Secondo la ricorrente gli inquirenti, per entrare in “possesso” dei messaggi whatsapp e delle mail, avrebbero dovuto adottare la procedura prevista dal codice di rito penale per le intercettazioni (articoli 266 e seguenti), avendo di fatto di intercettato dei flussi di comunicazioni telematiche. Inoltre, a parere della difesa, con la copia indiscriminata di tutti i dati archiviati nella memoria del telefono, era stato violato il principio di proporzionalità e adeguatezza. Ma nessuna delle due contestazioni viene accolta. Messaggi “wapp”, sms e mail scaricati e conservati nella memoria del cellulare, hanno natura di documenti - precisa la Corte - e, come tali, non rientrano nel concetto di corrispondenza che prevede un’attività di spedizione da parte di un mittente con consegna a terzi. In caso di copia dei dati dal cellulare sequestrato non è dunque applicabile la disciplina dettata dal codice di rito per il sequestro della corrispondenza (articolo 254). E non è neppure ipotizzabile un’attività di intercettazione, che prevede la captazione di un flusso di comunicazioni in corso e non, come nello specifico, l’acquisizione a posteriori di dati conservati in memoria. Non c’è stata nessuna trasgressione neppure dal punto di vista dell’adeguatezza e della proporzionalità della misura. La copia forense garantisce, infatti, nell’interesse delle parti, l’integrità e l’affidabilità del dato “estratto”. La selezione dei documenti contabili - spiega la Suprema corte - è particolarmente complessa perché investe tutta l’attività imprenditoriale dell’indagato. Per questo la scelta e la “riproduzione” dei documenti rilevanti non si poteva fare sul posto, in un limitato arco di tempo. Vasto (Ch): “troppo malato per il carcere” ma resta lì, non c’è posto nelle Rems di Lorenzo Giarelli Il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2018 Secondo il giudice di Sorveglianza di Pescara, la sua permanenza in carcere è “incompatibile con il suo stato psichiatrico”, eppure da mesi un ragazzo di ventiquattro anni è detenuto presso la Casa di Lavoro di Vasto, senza poter essere trasferito in una struttura idonea a trattare problemi di salute mentale. Come denunciano Patrizio Gonnella - presidente dall’associazione Antigone - e Giulio Vasaturo, legale del giovane, il provvedimento dell’Ufficio di Sorveglianza non è stato ancora eseguito perché nel Lazio non ci sarebbero posti liberi in nessun Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), ovvero le strutture della Regione di residenza del giovane in cui sarebbe dovuto essere trasferito. È lo stesso Gonnella a chiarire: “Il ventiquattrenne viene indebitamente trattenuto” nonostante il ragazzo, affetto da una forma di epilessia cronica e da una grave schizofrenia paranoide, “abbia subito un tracollo psichico dopo essere stato condotto presso la Casa di lavoro, sviluppando una gravissima depressione, con una totale dissociazione dalla realtà, un quadro delirante e tendenze suicide”. Anche Mauro Palma, garante nazionale dei diritti dei detenuti, ha parlato di “una forma illecita di privazione della libertà” e ha sollecitato “immediata esecuzione dell’ordinanza” dell’Ufficio di Sorveglianza. Eppure ancora nulla si è mosso, nonostante il legale del giovane abbia valutato anche la possibilità di trasferire il ragazzo in un Rems fuori dal Lazio. “Ci troviamo di fronte - dice l’avvocato Vasatauro - situazioni che possono trasformarsi in una tragedia”. Il riferimento è al suicidio di Valerio Guerrieri, giovane morto suicida nel carcere di Regina Coeli lo scorso anno: “Anche in quel caso ci fu una pessima gestione del trasferimento nei Rems e la vicenda finì nel modo peggiore. Il mio assistito ha bisogno di uscire dal carcere al più presto”. Avellino: morì in cella per un cancro, i figli chiedono il risarcimento Il Mattino, 17 gennaio 2018 Ritardi nella diagnosi di un tumore al pancreas, che non ha lasciato scampo. A denunciare la scarsa tempestività della diagnosi della malattia, degenerata, i figli di Giuseppe Ferraro, originario di Quindici, detenuto presso il carcere di Bellizzi Irpino e condannato a 4 anni di reclusione in esecuzione di sentenza passata in giudicato. Non appena il 65enne fu tratto in arresto, il suo legale di fiducia, Annibale Schettino chiese la sospensione dell’esecuzione della pena, presentando un’istanza al magistrato di Sorveglianza. L’avvocato chiese l’attenuazione della misura cautelare con l’applicazione degli arresti domiciliari in quanto Giuseppe Ferraro era affetto già da diverse patologie, tra cui il diabete, da una cardiopatia e deambulazione ridotta. Richiesta che fu rigettata previo parere del personale sanitario dell’istituto di pena, per due volte. Il caso fu esaminato anche dal tribunale di sorveglianza di Napoli. Le condizioni di salute del detenuto si aggravarono ulteriormente, tanto che Ferraro lamentava di continuo dolori addominali. Per circa un anno sarebbe stato curato con medicinali inappropriati e solo dopo altri dodici mesi sarebbero stati richiesti esami diagnostici. Il detenuto fu sottoposto ad un’ecografia addominale che evidenziò delle lesioni importanti. Una tac, venne effettuata soltanto un anno dopo. Accertamenti medici che riscontrarono un cancro al pancreas che, dopo poco, portò alla morte di Giuseppe Ferraro a distanza di due mesi dalla concessione degli arresti domiciliari. Dunque i figli del detenuto, oltre a denunciare i ritardi nella diagnosi della malattia sostengono che la morte sia sopraggiunta “a causa di negligenza, imperizia ed imprudenza in quanto non avrebbero consentito al padre cure specifiche, ma soprattutto la decisione presa dal magistrato prima e dal tribunale di sorveglianza poi, di non concedere gli arresti domiciliari, sarebbe stata condizionata dall’assoluta mancanza di un quadro clinico completo”. La famiglia, assistita dagli avvocati Annibale e Carolina Schettino e Antonio Mercogliano, ha chiesto il risarcimento. Vasto (Ch): inaugurato il laboratorio di sartoria per i detenuti abruzzolive.it, 17 gennaio 2018 Inaugurato, nella Casa Lavoro di Vasto, il laboratorio di sartoria grazie a un investimento dello Stato di 500 milioni. Prende il via un progetto avviato nel 2013, con il completamento della costruzione in locali antisismici che accoglierà i macchinari nella struttura carceraria di Torre Sinello con 30 postazioni, spogliatoi dotati di armadietti e docce. “Con questo laboratorio di sartoria - ha detto il sottosegretario alla Giustizia Federica Chiavaroli partecipando all’inaugurazione - finalmente le persone accolte nella Casa lavoro di Vasto hanno modo di adempiere alla finalità rieducativa che la nostra Costituzione affida alla pena detentiva. Qui si impara un lavoro, si acquisisce una professionalità che si può spendere all’esterno”. La direttrice del Carcere di Vasto, Giuseppina Ruggero, ha evidenziato come “la Casa Lavoro possa effettivamente svolgere la sua funzione con un laboratorio che non è una cattedrale nel deserto”. Il passaggio successivo “sarà avviare le attività di formazione degli internati della Casa Lavoro e l’attività lavorativa vera, oltre alla realizzazione di un birrificio con maltificio, per avere tutta la filiera della produzione della birra artigianale”. Alla cerimonia presenti il provveditore dell’amministrazione penitenziaria, Cinzia Calandrino, il sindaco di Vasto, Francesco Menna, e il Procuratore della Repubblica di Vasto, Giampiero Di Florio che ha dichiarato: “La fase esecutiva della pena deve tendere alla rieducazione del condannato e qui è stato dato un esempio di come si realizza in concreto”. Avellino: carcere senza spazi per lo sport e personale ridotto all’osso ottopagine.it, 17 gennaio 2018 La visita del Pd nella struttura penitenziaria arianese. Una delegazione guidata da deputato Luigi Famiglietti in compagnia del segretario del Circolo Pd di Ariano Irpino Raffaele Grasso, il consigliere comunale Alessandro Ciasullo e il vicesindaco di Aiello del Sabato Sebastiano Gaeta delegato all’assemblea nazionale Pd, hanno visitato la Casa Circondariale arianese per verificare e controllare lo stato strutturale e organizzativo, le condizioni di lavoro della Polizia Penitenziaria e le condizioni dei detenuti nell’istituto penitenziario di via Cardito. Ad accogliere il gruppo il direttore della Casa circondariale Gianfranco Marcello e il Commissario della Polizia Penitenziaria Mario Covino. Durante la visita alla struttura nei vecchi padiglioni e in quelli nuovi c’è stata l’occasione di interloquire con alcuni detenuti e di constatare adeguati standard qualitativi della Casa Circondariale, capace tra l’altro di promuovere adeguati processi educativi e formativi grazie al contributo dell’IIS Ruggero II che con la sezione del Liceo con indirizzo artistico ivi presente consente una sostanziale adesione al modello rieducativo e lavorativo. Il direttore ha poi illustrato le numerose attività e i progetti messi in campo all’interno della struttura per consentire ai reclusi di scontare la propria pena in ottica di un necessario reinserimento sociale futuro. L’onorevole Famiglietti ha poi ragionato con il direttore sull’esigenza della Casa Circondariale di realizzare alcuni spazi polivalenti per consentire ai detenuti di svolgere attività fisica mediante l’utilizzo di spazi organizzati attualmente non presenti, questo in seguito all’ampliamento della struttura per l’apertura della nuova sezione che ha reso necessario l’utilizzo di spazi prima occupati dalle strutture preposte allo sport. Un incontro importante che ha consentito alla delegazione di approfondire la situazione carceraria dal punto di vista di tutte le componenti il comparto ed anche da chi si trova a vivere la condizione reclusiva. Senza trascurare la situazione sempre più critica che riguarda il personale di polizia penitenziaria, ridotto all’osso. Napoli: quelle vite violente figlie del rancore e della globalizzazione di Nicola Quatrano* Il Dubbio, 17 gennaio 2018 Aveva solo 12 anni quando “Le Parisien” lo ha elevato agli onori della cronaca. Insieme alla sua banda, si era reso protagonista di tre aggressioni in otto giorni nel centro di Limoges, ai danni di coetanei e non solo. Il quotidiano deplorava che, causa l’età, era stato ogni volta rilasciato. Se ne è occupato un anno dopo “Le Figaro”, raccontandone l’infanzia in una famiglia di cinque figli (di tre padri diversi) e le varie (fallite) esperienze di affido e di adozione. All’attivo, già 60 procedimenti penali per aggressioni con coltello. Un anno ancora dopo, “France Bleu Limousine” tornava sulle nuove aggressioni, e le evasioni, del bimbo oramai noto come “il terrore di Limoges”. Il giornale si occupava anche del fratellino più piccolo, dicendo che era “ancora peggio”. Attualmente, quasi 18enne, si trova in una prigione minorile, sarà scarcerato il prossimo agosto. E potremmo anche parlare delle manifestazioni organizzate dagli abitanti del 19° arrondissement di Parigi contro le bande giovanili, o degli scontri ricorrenti tra la gendarmerie e gruppi di giovanissimi nelle banlieue parigine e di Bruxelles. O dei conflitti endemici che, negli Stati Uniti, vedono opposti giovani e giovanissimi ad una polizia che non va troppo per il sottile coi Neri. Tutto questo per dire che la violenza a Napoli non esiste, o per cecare motivi di conforto in un consolante “tutto il mondo è paese”? Non direi. È solo per cercare di capire meglio cosa è davvero questa violenza giovanile che sconvolge la nostra tranquillità e ci confronta con l’inferno di un mondo nel quale bisogna guardarsi perfino dai bambini. Capire è fondamentale, sennò dovremo accontentarci degli angosciati (e sostanzialmente inutili) appelli perché qualcuno faccia qualcosa e salvi una città che non è capace di badare a se stessa. O degli editoriali non troppo in vena, che hanno riscoperto la “tolleranza zero”. La “tolleranza zero” negli Stati Uniti si salda con la cifra di quasi 2,2 milioni di detenuti, tra carceri locali, statali, federali e private. Certo a New York si sono registrati, nel 2017, “solo” 285 omicidi, contro la media di oltre duemila della fine degli anni 1990. Ma si può dire che si è risolto il problema? Si è riusciti a rendere più tranquilla la passeggiata sulla 5th Avenue, che non è male ovviamente, si sono ripulite le strade (chissà per quanto), ma a prezzo della deportazione in carcere di oltre due milioni di persone. E sono quasi tutti neri, ispanici e bianchi poveri. È terribile la violenza subita da Arturo, il diciassettenne ridotto quasi in fin di vita da una banda di ragazzini, come anche quella delle altre giovani vittime di atti insensati e crudeli. Ed è pieno di senso l’appello rivolto dalla madre alle altre madri, perché “parlino coi loro figli”, che in definitiva è un invito a farsi carico di una funzione educativa troppo spesso negletta dalle famiglie. Ma anche gli autori di questi gesti orrendi, gratuiti e sproporzionati, sono e si sentono vittime di una forma di violenza, di un’emarginazione sociale che produce rancore e senso di rivalsa. Voglio giustificarli? Sto facendo del perdonismo? Non è mia intenzione. Vorrei invece dire che la questione è ancora più grave di quanto appaia a chi crede di poterla risolvere con più polizia, e magari con l’esercito. Io penso che ci sia oggi nel mondo una questione letteralmente esplosiva, ed è la questione giovanile. Quando un ragazzino di origine araba si spinge fino al centro di Parigi, sa che verrà controllato ripetutamente dalla polizia perché ha la pelle olivastra. Non è solo razzismo, lo prevedono i protocolli stilati in base alle statistiche dei comportamenti criminali. Lo stesso circolo vizioso funziona negli Stati Uniti con i giovani neri, anch’essi controllati più dei bianchi (e qualche volta uccisi). Poi ci sono i ragazzini delle periferie napoletane che, fin da piccoli, vengono svegliati in piena notte dai controlli della Polizia e fanno file interminabili davanti al portone di Poggioreale per visitare i familiari. Tutti questi bambini capiscono fin troppo bene di non appartenere al mondo bello e colorato che risplende in tv o nelle vie del centro. E questa estraneità trova continue conferme nelle esperienze frustranti di una scuola che spesso e volentieri li butta fuori e, adesso, pure nella minaccia di strapparli alla famiglia per allontanarli dalla cultura dell’illegalità. Tutto questo si traduce in rancore, il rancore in antagonismo. Ed è una novità assoluta (e preoccupante) rispetto ai caratteri della delinquenza classica, anche di quella mafiosa. Le mafie non sono mai state “antagoniste”, piuttosto fattori di controllo e di “governo” del territorio, magari in un rapporto di complicità coi Poteri costituiti. Oggi questi giovani rifiutano quel mondo che li esclude, lo sfidano con atti di teppismo. Che può diventare anche peggio, quando qualcuno decide di investirci sopra. Quando a investire sono le reti legate all’Arabia Saudita o ai Fratelli Mussulmani, nascono i foreign fighter. Quando sono i cartelli della droga, ecco le gang del narcotraffico. Non per banalizzare questioni fin troppo complesse, ma sono convinto che, al di là delle evidentissime differenze, i due fenomeni abbiano molte somiglianze. I protagonisti, intanto: tutti giovani delle periferie emarginate che, nel jihad o nelle droghe, vedono l’unica occasione loro offerta per sottrarsi ad un destino segnato. Di povertà ed emarginazione certo, ma anche di oscurità assoluta in un mondo in cui bisogna brillare come le vedette della televisione. Un’occasione per essere qualcuno e anche, perché no, per diventare martiri e vivere in eterno, come Emanuele Sibillo che, morendo ammazzato, è diventato un altro San Gennaro. Che fare? Non certo perdonare, non è una risposta. Come non lo è la “tolleranza zero”. C’è piuttosto un tessuto morale, civile e culturale da ricostruire, e non è poco. C’è bisogno di lavoro e sviluppo, e anche questo richiede tempo e fatica. Ma intanto potremmo cominciare a considerare il disagio dei giovani delle periferie come una malattia anche nostra. In ognuno di quelle coltellate inferte nella schiena del povero Arturo c’era un po’ della nostra inerzia, della nostra indifferenza, c’era l’assenza della politica e l’incapacità delle classi dirigenti. Sarebbe un buon inizio. E poi sforzarci di capire, senza accontentarci di spiegazioni facili. Perché la globalizzazione economica è diventata oggi anche la globalizzazione del rancore giovanile. *Presidente di Sezione Tribunale del riesame di Napoli Napoli: reato di branco, così i pm provano a colpire le baby gang di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 17 gennaio 2018 Provano a dare un nome al nuovo scenario criminale cittadino, a riportare la storia delle baby gang sotto una precisa figura giuridica. Ed è così che la Procura dei minori di Napoli ha usato un nuovo espediente per processare sedici under 18 accusati di un pestaggio avvenuto alcune settimane fa al Vomero. Non solo “rissa” e “lesioni gravi”, ma anche un aggravante che punta a fotografare la nuova fenomenologia criminale cittadina - quello delle gang e delle paranze di adolescenti - sotto una fattispecie non proprio abituale: “L’aggravante del motivo futile di predominio del branco giovanile”. Un modo per stare al passo con i tempi, per sforzarsi di contrastare in modo adeguato la nuova frontiera criminale che ormai da mesi imperversa in città e nella sua fascia metropolitana. Come a dire: picchiare o organizzare una spedizione punitiva diventa un reato più grave se si considera anche il motivo futile che spinge ad usare la violenza, vale a dire l’esigenza di stabilire il “primato del branco giovanile”. Una interpretazione che porta la firma del pm Ettore La Ragione, magistrato in forza alla Procura di Maria De Luzemberger, che ha chiuso l’inchiesta a carico di ben sedici minori, ritenuti responsabili del pestaggio avvenuto in piazza Vanvitelli lo sorso 17 dicembre. Ricordate quelle scene? Siamo all’esterno del gazebo di un bar, tra sabato e domenica notte, quando arrivano in sedici in sella ad otto scooter. Sono tutti di Bagnoli, fissano con lo sguardo un paio di ragazzi intenti a bere una birra, poi fanno inversione di marcia, scendono e aggrediscono i due malcapitati. Non c’è un motivo reale, riflettono gli inquirenti, ma solo la “futile” esigenza di affermare la propria leadership di branco. Ricordate quelle immagini? Sono state veicolate grazie alle indagini dei carabinieri del comando provinciale di Napoli e della compagnia Vomero (guidata dal maggiore Luca Mercadante) e immortalano l’impresa tutt’altro che eroica di un paio di centauri: sono quelli che scendono dallo scooter e impugnano un coltello, per poi ferire - fortunatamente in modo lieve - altri due ragazzini. Sentito dai carabinieri, uno dei due aggressori armati dirà che aveva accettato lo sguardo di sfida e aveva agito anche per la frustrazione di trovarsi in un quartiere di ricchi, provenendo dalla periferia occidentale di Napoli. Sono tutti di Bagnoli gli indagati. Difesi - tra gli altri - dai penalisti Bruno Carafa, Marco Epifania, Gianfranco Mallardo, ora potranno replicare alle accuse o ammettere la propria partecipazione all’assalto armato di coltello. Un episodio simile a quello avvenuto venerdì scorso a Chiaiano, dove è stato ferito a colpi di calci e pugni lo studente Gaetano, 15enne di Melito. Anche qui nessun motivo valido, ma solo l’esigenza di affermare con la violenza la propria leadership. Quella del branco, il cui tentativo di “predominare” ora più che mai suona come un aggravante con il quale fare i conti una volta finiti in un’aula di giustizia. Pisa: uccise rapinatore, il pm scagiona il gioielliere “fu legittima difesa” La Repubblica, 17 gennaio 2018 Chiesta l’archiviazione per Daniele Ferretti, il commerciante che sparò uccidendo Simone Bernardi, uno dei tre malviventi che assaltano la sua gioielleria. La procura di Pisa ha chiesto il giudizio immediato per i tre rapinatori che insieme a un complice, Simone Bernardi, rimasto ucciso, assaltarono una gioielleria nel centro cittadino il 13 giugno scorso. Contestualmente la procura ha riconosciuto la legittima difesa di Daniele Ferretti, il commerciante che sparò uccidendo Bernardi, e ha chiesto l’archiviazione. Lo ha reso noto il procuratore Alessandro Crini. “Ai malviventi abbiano contestato anche il reato di tentato omicidio in concorso - ha spiegato il magistrato incontrando i giornalisti - oltre che la tentata rapina e il porto abusivo di armi. La perizia balistica dei nostri consulenti ha infatti stabilito che il commerciante Daniele Ferretti sparò con la sua pistola legalmente detenuta successivamente ai colpi esplosi dai rapinatori”. Simone Bernardi entrò nel negozio insieme a Gabriele Kiflé, di Aprilia (Latina) come il complice deceduto, il quale secondo la ricostruzione degli inquirenti fece fuoco per primo. All’esterno rimase il pisano Marco Carciati, mentre Daniele Masi, di Pomezia (Roma), è ritenuto colui che effettuò i sopralluoghi prima del colpo. Tuttavia la procura ha contestato a tutti e tre, fermati poi dai carabinieri il 20 luglio, gli stessi reati in concorso tra loro. I tre sono tuttora in carcere. Il commerciante ha invece cessato la sua attività il 31 dicembre scorso, in seguito allo choc subito dopo la rapina. In passato era già stato aggredito e ferito nel suo negozio a scopo di rapina. Migranti. Macron a Calais sceglie il pugno duro, anche contro le ong di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 17 gennaio 2018 “Mai più giungla”, il presidente francese criticato dalle associazioni umanitarie, ma anche nel suo partito. La lettera contro su “Le Monde” di personalità pubbliche (tra cui Berger, Cfdt). I dati: 262mila permessi di soggiorno nel 2017 (+13,7%), 85.400 bloccati alle frontiere (soprattutto italiana). L’impossibile equilibrio tra “umanità e fermezza” dei discorsi ufficiali ha avuto una nuova dimostrazione ieri a Calais, con la prima visita di Emmanuel Macron nel luogo emblematico della crisi europea dell’accoglienza dei migranti. L’”umanità” si riduce a un impegno a “fare di più per l’integrazione” dei rifugiati, a ridurre i tempi per le procedure delle domande d’asilo (dai 18 mesi attuali in media a 6 mesi), alla “distribuzione dei pasti” per i naufraghi di Calais, che sarà “assicurata dallo stato” (oggi se ne occupano le associazioni, il cui ruolo viene così ridimensionato) e alla promozione delle “vetrine” dei Caes (Centri di accoglienza e di esame della situazione), dove i migranti hanno paura di entrare perché temono la “cernita” tra chi ha diritto all’asilo e chi fugge la miseria. Ieri Macron ha visitato quello di Croisilles, a 130 km da Calais, uno dei tre aperti nella regione a cui faranno seguito altri in tutta la Francia. Poi c’è la “fermezza”: “In nessun caso lasceremo svilupparsi qui delle filiere illegali, ricostituirsi una giungla o occupazioni illegali di territorio”, Calais “non deve essere una porta furtiva per la Gran Bretagna”, le associazioni umanitarie sono chiamate alla “responsabilità”, perché secondo Macron “quando incoraggiano uomini e donne a restare qui e a passare clandestinamente al di là della frontiera” devono aver ben chiaro in testa che “lo stato non sarà mai al loro fianco”. Sulle denunce che riguardano il comportamento della polizia, “se ci sono abusi, denunciateli”, afferma Macron, ma “non tollererò mai che la verità venga travisata”, che ci siano “manipolazioni” e “menzogne” sugli agenti. Le denunce vengono dalle associazioni, da un rapporto del 2017 di Human Rights Watch che parla di “abusi”, ma anche di ispezioni della polizia stessa. Macron intende arrivare a una “convergenza” delle leggi europee sull’accoglienza, superando le impasse degli accordi di Dublino. Il 21 febbraio verrà presentata la nuova legge sull’asilo e l’immigrazione, ma ieri il presidente non è entrato nei dettagli. La legge è fortemente contestata ancora prima di esistere. Le associazioni umanitarie sono molto critiche e ieri due che operano da anni a Calais (l’Auberge des migrants e Utopia 56) hanno rifiutato di partecipare all’incontro con Macron. “Ci aveva fatto intravvedere una politica di accoglienza - riassume Yann Mazi di Utopia 56 - ma oggi vediamo il contrario”. Le critiche serpeggiano anche tra i deputati della République en Marche. Le Monde ha pubblicato ieri una lettera aperta molto severa, che fa eco alla denuncia del premio Nobel Le Clézio, firmata da personalità vicine a Macron (come l’economista Jean Pisani-Ferry, e c’è anche il segretario della Cfdt, Laurent Berger): “Signor Macron, le sua politica contraddice l’umanesimo da lei difeso”: la professione di fede “universalista” era stata accolta con favore come le promesse di accoglienza, il diritto alla protezione e l’elogio dell’apertura di Merkel, “ma purtroppo ci siano svegliati in un paese dove vengono strappate le coperte ai migranti di Calais. Dove si lacerano le tende a quelli di Parigi”. Chiedono che il governo metta fine a “un doppio discorso”, quello umanitario delle grandi dichiarazioni di giorno e l’azione di notte contro i migranti. Ieri sono state pubblicate le cifre sull’immigrazione del 2017. I permessi di soggiorno sono stati 262mila, in crescita del 13,7% sul 2016. Il grosso sono ricongiungimenti famigliari (91.070) e studenti (88.095). I visti umanitari (asilo) sono stati 40.305 (su più di 100mila domande), i permessi per lavoro 27.856. I rimpatri forzati sono stati 6.596 verso paesi extra-europei e 4.589 “dublinati” (cioè persone sbarcate in un altro paese Ue). In netto aumento, i rimpatri “spontanei”, dopo aver ricevuto un finanziamento. Ma la cifra più impressionante sono le 85.408 persone che sono state bloccate alle frontiere di entrata in Francia, in grande maggioranza dall’Italia, in aumento del 34% sul 2016. Il modo più comune per entrare in Francia sono i visti turistici: nel 2017 ne sono stati dati quasi 3,5 milioni. Le droghe nel 2018, un manifesto da Napoli di Susanna Ronconi Il Manifesto, 17 gennaio 2018 La XVII legislatura si è chiusa senza l’approvazione della legge sulla legalizzazione della cannabis, neppure nella versione limitata alla sola cannabis terapeutica. E il governo in uscita non si farà rimpiangere da nessuno: è l’ennesimo esecutivo che non ha messo in agenda la riforma del Testo Unico 309/90, nonostante la cancellazione della legge Fini Giovanardi nel 2014 da parte della Corte Costituzionale avesse aperto la via, e vi fosse in Parlamento un ampio schieramento riformista; non ha convocato la Conferenza nazionale, che delle riforme di norme e servizi dovrebbe essere il luogo deputato (e trasparente); non ha elaborato un Piano d’azione nazionale, che è fermo all’impianto superato e iperproibizionista del 2010; non ha innovato servizi e interventi - nonostante la positiva introduzione della Riduzione del danno (Rdd) nei Lea, Livelli essenziali di assistenza - che se non fosse per (molte, non tutte) le regioni e per la spinta di operatori e associazioni sarebbero al nulla; non ha promosso ricerca innovativa, tanto meno quella di valutazione dell’impatto delle politiche; non ha favorito la partecipazione della società civile ai processi decisionali, non rispettando le indicazioni comunitarie. Non ha nemmeno designato un qualche sottosegretario al tema, e lasciato il Dpa, Dipartimento antidroga, senza un referente politico. Il 2018 riparte da qui. C’è chi, di fatto, una agenda politica per il nuovo anno l’ha già scritta, preparando un terreno di iniziativa verso il governo che verrà: è il mondo della Rdd - operatori del pubblico e del privato, associazioni del settore e dei diritti, ricercatori e consumatori - che a Napoli, nel novembre 2017, si sono dati appuntamento per la conferenza “La Riduzione del Danno funziona. Facciamola funzionare”!, organizzata da Itardd, rete italiana della RdD e Progetto europeo Civil Society Involvement in Drug Policy (Csi-Dp). Una assemblea affollata, due giorni di lavori e una Dichiarazione di Napoli che rilancia i temi a cui una politica nazionale sulle droghe deve dare risposta. L’agenda rilancia gli obiettivi che sono stati al centro della mobilitazione del movimento di riforma delle politiche sulle droghe dal 2014 ad oggi, dalle conferenze di Genova e di Milano e dal Cartello di Genova, e lo fa con la forza di una rinnovata alleanza tra competenze, approcci e interessi diversi, come forse solo l’ambito della Rdd sa fare, da sempre terreno di intreccio fecondo tra gli sguardi delle politiche, delle pratiche, della ricerca e dei diritti. Al primo posto dell’agenda la riforma della legge in direzione di depenalizzazione delle condotte di consumo e di regolazione legale della canapa e, contestualmente, la redazione di un Piano nazionale coerente, basato su uno studio di impatto ed esito delle politiche fin qui adottate. Tutto questo in modo trasparente e partecipato, in sede di Conferenza nazionale e di confronto con operatori e società civile, senza dimenticare che di questa le persone che usano sostanze sono parte integrante. L’inclusione a pieno titolo della Rdd nelle politiche nazionali, l’adozione di Lea adeguati e finanziati, la promozione di una ricerca mirata, oggi così carente. Senza tralasciare la richiesta di un chiaro posizionamento italiano a Vienna, nel 2019, quando in sede Onu si definiranno i nuovi orientamenti globali. Il governo, si chiede, si esprima in sintonia con la posizione aperta e riformista della Eu, in discontinuità con la posizione italiana iperproibizionista espressa nel 2009 e in continuità con l’apertura mostrata a New York in occasione della Sessione speciale sulle droghe dell’Onu (Ungass) nel 2016. Camerun. “Scateniamoci!”, un progetto del Coe per umanizzare le carceri agensir.it, 17 gennaio 2018 “Al di là dei risultati concreti raggiunti in questi tre anni il successo più importante è quello di aver aiutato i detenuti a crescere nella consapevolezza dei propri diritti”. A parlare al Sir è Georges Alex Mbarga, giurista e coordinatore del progetto “Scateniamoci!” promosso in Camerun dall’Ong Coe (Centro orientamento educativo) in collaborazione con Coe Camerun e Ingegneria senza frontiere (Isf) Milano. Il progetto di durata triennale - finanziato con un contributo del ministero degli Affari Esteri e della Conferenza episcopale italiana - ha portato ad interventi di miglioramenti nelle condizioni di vita in tre carceri nelle città di Garoua, Mbalmayo e Douala. Sovraffollamento, cattive condizioni igieniche, promiscuità tra adulti e minori, mancanza di assistenza legale sono tra i principali problemi del sistema carcerario nel Paese a cui il progetto ha provato a far fronte con interventi di igienizzazione, assistenza psicologica e legale e di reinserimento sociale dei detenuti in uscita. “Ci sono detenuti in carcere per reati che prevedono una pena di sei mesi, ma vi restano per molto più tempo, anche anni, perché se una persona non ha i soldi per un’adeguata assistenza legale rischia di vedere il suo procedimento perdersi nelle pieghe del sistema giudiziario”. Questa situazione ha fatto sì che nelle 123 carceri del Paese - con una capienza di 12mila posti - si concentrasse una popolazione di 28.120 detenuti; la maggior parte di loro sono imputati in attesa di giudizio. “Uno dei risultati tangibili - conclude Mbarga - è stata la creazione di tre cooperative di lavoro realizzate in collaborazione con Ingegneri senza frontiere - Milano: un’attività avicola e un orto a Mbalmayo, uno spaccio di alimentari a Garoua e una sartoria a Douala. Un’opportunità non solo per insegnare un lavoro, ma per garantire, attraverso gli utili ottenuti, il proseguimento dei programmi di umanizzazione anche al termine del progetto “Scateniamoci!” previsto per il 20 gennaio”. Cile. Il Papa alle detenute di Santiago: generate un domani migliore di Gabriella Ceraso vaticannews.va, 17 gennaio 2018 Perdono, giustizia, speranza, futuro. Queste le parole che risuonano nel carcere femminile di Santiago durante la visita del Papa che alle detenute chiede di generare un domani migliore, come donne e madri. Benvenuto Padre, “amico dei poveri e della giustizia”, “uomo di bene e di pace”. È gioiosa e colma di speranza l’accoglienza del Papa al penitenziario di Santiago intitolato a “San Joaquìn”, dove Francesco arriva in macchina dopo il pranzo e qualche ora di riposo, preceduto dalla presidente Michelle Bachelet. Un’accoglienza colorata e gioiosa - Colori e suoni scandiscono il suo ingresso: ci sono i fiori ad accogliere Francesco, le mamme detenute con i loro bambini e poi i canti che riempiono lo spazio della palestra dove si svolge l’incontro. Centinaia di strisce di carta colorata, opera delle detenute, riempiono il soffitto con incise le parole del Papa sulle donne e sul carcere, mentre sulle pareti appaiono volti e immagini che provengono dalle varie prigioni del Paese. La vita trionfa sulla morte, il bene sul male - Da qui “testimoniamo la certezza che la vita trionfa sulla morte, il bene sul male, la rettitudine del cuore sull’aridità dell’egoismo”, dice nel suo saluto la responsabile della Pastorale carceraria, suor Nelly Leòn. Davanti al Papa sono più di 600 in rappresentanza dei quasi 50 mila detenuti nelle affollate carceri del Cile. “Siamo privati della libertà, ma non di sogni e speranze”, testimonia commossa Janeth Zurita che al Papa chiede di intercedere per un sistema giudiziario più attento alle mamme detenute e separate dai loro figli. Quindi a Dio eleva l’invocazione di misericordia per i figli innocenti e alla società la richiesta di perdono per le ferite causate dai delitti commessi. Come madri, date alla luce il futuro e fatelo crescere - Francesco accoglie il grido di queste donne, rilancia in un ampio discorso, la necessità espressa di chiedere perdono che, dice, “ci umanizza” e quindi le incoraggia. “Molte di voi sono madri”, rimarca Francesco, sapete “cosa significa dare la vita”. “Oggi siete di fronte ad una sfida molto simile: si tratta ancora di generare vita”. Oggi vi è chiesto di dare alla luce il futuro. Di farlo crescere, di aiutarlo a svilupparsi. Non solo per voi, ma per i vostri figli e per tutta la società. Voi, donne, avete una capacità incredibile di adattarvi alle situazioni e di andare avanti. Vorrei oggi fare appello alla vostra capacità di generare futuro, capacità che vive in ognuna di voi. Lottate contro chi vuole trasformarvi in cose - Grazie a questa capacità, lottate, ribadisce Francesco, “contro i determinismi cosificatori che trasformano le persone in cose e che finiscono per uccidere la speranza”. Nessuno di noi è una cosa: siamo tutti persone, e come persone abbiamo questa dimensione della speranza. Non lasciamoci “cosificare”: non siamo un numero. Io non sono il detenuto numero tale: sono Tizio o Caio, e questo genera speranza, perché questo genera, fa nascere la speranza La dignità non si tocca, si deve custodire - Essere private della libertà non significa smettere di sognare, né dover perdere la dignità: “ la dignità non si tocca”, afferma Francesco, bisogna invece “custodirla, curarla e accarezzarla”. E non credete ai “cliché” e alle “etichette” per le quali nulla può cambiare. Care sorelle, no! Non è vero che il risultato è sempre lo stesso. Ogni sforzo fatto lottando per un domani migliore - anche se tante volte potrebbe sembrare che cada nel vuoto - darà sempre frutto e vi verrà ricompensato. Guardate al reinserimento: dovete esigerlo dalla società - I “figli”, che sono “forza”, “speranza”, “stimolo”, prosegue Francesco, vi facciano “guardare avanti” perché è cosi che si costruisce la vita. “Oggi siete private della libertà, ma ciò non vuol dire che questa situazione sia definitiva”, afferma il Papa, e l’obiettivo a cui puntare è il reinserimento nella vita ordinaria della società. Una pena senza futuro, una condanna senza futuro non è una condanna umana: è una tortura. Ogni pena che una persona si trova a scontare per pagare un debito con la società, deve avere un orizzonte, l’orizzonte del reinserimento, e quindi devo prepararmi per il reinserimento. Questo dovete esigerlo, da voi stesse e dalla società. La sottolineatura del Papa va quindi alla pena del carcere ridotta molte volte al solo “castigo”. La sicurezza pubblica, sottolinea, “non va ridotta solo a misure di maggior controllo ma soprattutto va costruita con misure di prevenzione, col lavoro, l’educazione e più vita comunitaria”. Dignità a chi lavora e vive in carcere - L’ultimo pensiero del Papa prima di lasciare il carcere va infine a chi vi lavora per garantire proprio quella dignità così preziosa di cui ha parlato. A volontari, operatori pastorali e gendarmi, dice Voi avete un compito delicato e complesso, e per questo auspico che le autorità possano assicurarvi anche le condizioni necessarie per svolgere il vostro lavoro con dignità. Dignità che genera dignità. La dignità si contagia, si contagia più dell’influenza; la dignità si contagia. La dignità genera dignità. India. Parte il progetto “mucche in carcere” per riabilitare i detenuti quotidiano.net, 17 gennaio 2018 La Gau Sewa Aayog (Commissione di protezione delle mucche) sostiene che l’allestimento di stalle bovine in sei penitenziari a partire dal mese prossimo avrà un’influenza positiva. Nuova Delhi, 16 gennaio 2018 - Utilizzare il “potere magico” delle mucche per rimettere i detenuti sulla retta via: uno Stato del Nord dell’India conta di allestire nelle sue carceri delle stalle per quest’animale sacro dell’induismo. Una commissione governativa dell’Haryana, regione di confine di Nuova Delhi e guidata dai nazionalisti indù, ha annunciato che conta di acquistare 600 vacche per questo programma, per una cifra stimata di 1,5 milioni di dollari. Una “terapia della vacca”, secondo i suoi termini. La Gau Sewa Aayog (Commissione di protezione delle mucche) sostiene che l’allestimento di stalle bovine in sei penitenziari a partire dal mese prossimo avrà una influenza positiva sui detenuti. “Le vacche fanno parte della religione indù e hanno poteri magici sulle persone che si curano di loro”, ha dichiarato all’Afp Bhani Ram Mangla, presidente della commissione, elogiando gli “innumerevoli benefici”. Il latte delle mucche potrebbe, secondo lui “purificare” i detenuti, mentre escrementi e urina - dalle supposte virtù rinvigorenti - prodotti nelle carceri potrebbero essere venduti sui mercati locali. Dall’arrivo al potere dei nazionalisti indù alla guida del Paese nel 2014, l’India deve far fronte ad una pesante polemica politico-religiosa sulle mucche. Numerosi Stati del Nord del Paese hanno rafforzato il loro arsenale legislativo in nome della loro protezione, con pene che potrebbero andare fino all’ergastolo. Il gigante demografico dell’Asia è stato teatro negli ultimi tempi di una serie di linciaggi di musulmani e di dalit (“intoccabili”) perpetrati da milizie autoproclamate per la protezione delle mucche. Se il Primo ministro Narendra Modi ha condannato questi omicidi, le ong per i diritti umani ritengono che queste milizie abbiano agito nella totale impunità. Hong Kong. Nuova condanna per il leader della protesta degli ombrelli La Repubblica, 17 gennaio 2018 Joshua Wong, 21 anni, era libero su cauzione per un’altra condanna sempre legata alle proteste del 2014. È stato condannato a 3 mesi di reclusione e incarcerato il leader della cosiddetta “protesta degli ombrelli” contro le ingerenze cinesi ad Hong Kong (riconsegnata dal Regno Unito nel 1997 ma formalmente ancora Regione Autonoma Speciale) nel 2014. Joshua Wong, che si era dichiarato colpevole, è stato riconosciuto colpevole di aver intralciato l’evacuazione di una grande accampamento durante le proteste di massa. Wong, 21 anni, era libero su cauzione per una condanna a sei mesi per un altra condanna legata sempre alle proteste del 2014, in attesa dell’appello.